Quantcast
Channel: I Viaggiatori Ignoranti
Viewing all 679 articles
Browse latest View live

L'oro di Childerico: origini e peripezie di un tesoro barbarico

$
0
0
Tesoro di Childerico (Parigi, Cabinet des Médailles - 2nda metà del V sec. d.C)
482 d.C.
I guerrieri ammutoliscono di fronte alla salma del loro sovrano, bardata per il suo ultimo viaggio. Childerico, primo re merovingio: capostipite di una potente dinastia barbarica.
Barba rossa, elmo calcato sulla fronte; tra muscoli e armi, la stazza é notevole. Nell'atto della sepoltura Clodoveo lo osserva: suo padre fu il solo guerriero che, combattendo e regnando per 25 anni ininterrotti, seppe coalizzare un insieme di tribù bellicose di ceppo germanico sotto il suo comando. La sua capitale fu stabilita a Tournacum, l'antica città belga di Tournai.
Il principe ereditario osserva la tomba: è colma di tesori inestimabili, senza precedenti in quanto a ricchezza e qualità. Fibbie da cintura, da stivale e un borsello da cavaliere contenente centinaia di monete d'oro e d'argento: il conio più recente porta impresso il ritratto dell'imperatore bizantino Zenone; vi é anche uno strano motivo a testa taurina, sempre d'oro, con un disco solare sulla fronte, una sfera di cristallo e un anello-sigillo.
2) Mappa del regno dei Franchi e parte assegnata dall'impero a re Childerico 
Vicino al corpo del re giacciono un'ascia da lancio, una lancia e un bracciale in oro massiccio a forma di torque, emblema di virilità; una spada lunga a due lame e una scramasax, ossia un coltellaccio a lama singola. La presenza d'armi, nella tomba, é emblema di rango; il fasto degli ori e dei granati rossi in castone, bicromia riservata ai più grandi capitribù ispirati dagli usi e costumi delle steppe.
Perfino le armi sono rivestite d'oro e gemme.
Questo gusto decorativo ha lontane origini orientali; l'oro, invece, è stato ricevuto in dono dai romani e ri-fuso da ignote fornaci.
Al soldo dell'imperatore d'Oriente re Childerico ha sbaragliato i Visigoti, i Sassoni e gli Alamanni lungo la Loira, mettendo fine al rischio di un'invasione; insieme agli ori, il sovrano ha ricevuto in dono quelle stesse terre in cui ha seminato i corpi dei suoi consanguinei, col titolo insigne di "foederatus": alleato militare dell'impero romano, in cambio d'oro, cavalli e terreni.
3) Tesoro di Childerico (Parigi, Cabinet des Médailles - 2nda metà del V sec. d.C)
Il figlio Clodoveo presiede al sacrificio dei suoi cavalli, altrettanto riccamente bardati. Sangue equino bagna il terreno del sacrificio. I finimenti equestri e le briglie dei destrieri sono decorati secondo il medesimo gusto del tesoro regio
4) Elementi decorativi visigoti di sella con terminazioni a forma di teste equine
Clodoveo si inginocchia ai piedi del tumulo.
“Padre, i tuoi guerrieri più fedeli ti aspettano. Posso già vederti galoppare ne Valhalla, tra i grandi eroi del passato"."
Clodoveo Non lo vedrà mai più; ha deciso di trasferire la capitale del regno a Parigi. Presto si cristianizzerà, eppure dichiarerà guerra feroce all’impero che suo padre difese. La collocazione della tomba paterna va dimenticata; gli spalatori sono sgozzati, affinché nessuno profani il tesoro regale.
5) Tesoro di Childerico (Parigi, Cabinet des Médailles - 2nda metà del V sec. d.C)
1655
Mille e cento anni dopo, nel corso di un lavoro di sterramento presso la chiesa di saint Brice a Tournai, la zappa di un operaio sordomuto solleva d'improvviso insieme alla terra una manciata di monete d'oro; la convocazione del capocantiere mette in moto una serie di accertamenti su un ritrovamento che ha dell'eccezionale. In particolare, il proverbiale indizio che permette di identificare nella tomba il sepolcro regio di Childerico é proprio l'anello: un ritratto firmato, d'età barbarica. Sulla cima del castone é stampigliato il busto stilizzato di un uomo dai lunghi capelli, con indosso un "paludamentum": un mantello drappeggiato, fissato a una spalla, tipico dei condottieri e degli imperatori romani e una lancia stretta nella mano destra. Attorno alla testa, l'iscrizione "CHILDERICI REGIS"(di re Childerico).
6) Fibule a cipolla e anelli-sigillo, doni dell'impero romano ai suoi "foederati) (Bucarest, Parigi. Regio Emilia, Torino)
Scavi più approfonditi portano al dissotterramento di  300 e più spille d'oro a forma d'ape con ali in granato rosso, forse foggiate a ornamento del manto cerimoniale di Childerico.
Al momento della scoperta, il Belgio é ancora parte delle Fiandre spagnole, governate dall'arciduca Leopoldo Guglielmo d'Austria; questi ha la brillante e previdente idea di commissionare al suo medico di corte la riproduzione a incisione di tutti i pezzi del tesoro: i disegni di Chifflet rappresentano la prima pubblicazione archeologico-scientifica della storia.
7) I disegni seicenteschi del medico Chifflet
 Da quel momento, il più importante tesoro barbarico della storia d'Europa inizia a passare di mano in mano: l'arciduca decide di portarlo  con sé a Vienna per lasciarlo in eredità a suo nipote,  l'imperatore asburgico Leopoldo I. Nel 1665 Leopoldo, a sua volta, lo dona in segno di gratitudine a Luigi XIV di Francia per il suo aiuto militare in Ungheria contro l'impero ottomano. Il Re Sole, per nulla interessato ai gioielli di Childerico, li fa depositare al Cabinet des Médailles del Louvre e si scorda della loro esistenza.
8) modello delle fibbie a cicala della tomba di re Childerico, nuovo simbolo regale sul mantello di Napoleone imperatore
18 maggio 1804
Ormai console a vita, Napoleone è proclamato sovrano assoluto di Francia nella cattedrale di Notre-Dame di Parigi. La cerimonia d’incoronazione è annunciata dalla benedizione delle insegne imperiali da parte di papa Pio VII. Il manto da parata del sovrano assoluto è intessuto di trecento e più insetti alati a immagine e somiglianza del corredo di Childerico.
Le api dorate, antica consuetudine  del corredo unno assimilato dai clan germanici, a distanza di  1322 anni è divenuto l'emblema di una nuova dinastia francese: ovviando all'odiato ricordo dei e dei fiori di giglio dei Borboni, da poco ghigliottinati, Napoleone ha furbescamente riesumato l'iconografia attribuibile al più antico monarca nazionale: per quanto a fini politici e dinastici, il  primo a interessarsi al tesoro è proprio il geniale stratega corso.
9) Scorcio parigino sulla Senna
5 novembre 1831.
E’ una gelida e nebbiosa notte parigina quando i ladri irrompono nel Cabinet des Médailles, trasferito nel frattempo della Biblioteca Nazionale di Francia, per sottrarvi più di 2000 oggetti d'oro, incluso il tesoro di Childerico, per un totale di 80 kg. Il fatto desta grandissimo scalpore, tanto che la polizia indaga per 8 mesi prima di identificare i colpevoli e quel che è rimasto del tesoro, grazie all'aiuto del leggendario Eugène-François Vidocq, capo della Sûreté: il primo detective in borghese della storia, che ha già risolto numerosi altri casi, riscuoterà anche un certo successo letterario come ispiratore di Victor Hugo per l’invenzione dell'ispettore Javert di “Les Miserables”  ed Edgar Allen Poe per il personaggio di Auguste Dupin in “The Murders in the Rue Morgue”, prima storia di detective.
10) Visione notturna di città ottocentesca (York, Castle museum - Kirkgate)
Finalmente, otto mesi dopo il furto la polizia acciuffa la banda e ritrova 20 lingotti d'oro nel loro nascondiglio. Sotto interrogatorio, i ladri ammettono di aver fuso in quei lingotti gli oggetti d'oro puro, mentre quelli intarsiati di gemme, più difficoltosi da fondere, sono stati gettati in sacchi di pelle nelle acque della Senna, in attesa di decisioni.
Tra i boulevard e le brumose banlieu parigine inizia una caccia all'antico tesoro. 
Dopo aver setacciato la Senna, infine la polizia ritrova 8 sacche contenenti circa 1500 pezzi dei 2000 rubati. Nel 1833 i tre ladri sono processati:  il primo è condannato a 40 anni di prigione, il secondo a 20, il terzo a 10. Una pena esemplare, di quelle che nel caso della tutela dei Beni Culturali sarebbe forse auspicabile riesumare.
Ciononostante, il tesoro di Childerico risulta quasi interamente devastato...perlomeno, tra tanti donativi perduti, i pezzi più tipicamente "barbarici" sono sopravvissuti. la domanda sorge spontanea: in questo caso, come in tanti altri, chi furono i veri barbari?
2015
Gli studi dell’archeologo Dieter Quast portano a nuovi sviluppi circa il mistero della tomba di re Childerico, o di ciò che ne è rimasto. Ricordiamo che il sovrano indossava una "fibula", ossia una fibbia da spalla a forma di cipolla, che insieme all’anello-sigillo provvisto di ritratto con “paludamentum” e all’iscrizione “Childerici regis”  dimostra che il re dei Franchi e fondatore della dinastia merovingia aveva ottenuto le tipiche insegne dell’autorità che l’impero d’Oriente era solito produrre e donare ai suoi federati barbarici, in cambio del sostegno militare. La fibbia da cintura "reniforme" (a forma di rene) di Tournai, magistralmente realizzata con ripartizione in cellette triangolari dalle pareti ondulate e bordi perlinati a "cabochon" (pietre sporgenti dal loro castone), appartiene a un piccolo gruppo che trova il suo miglior confronto nei tesori funerari provenienti dalle tre tombe rumene di Apahida. Circa la guardia della spada, il puntale del fodero e il fodero di sax, in tutti i pezzi ricorre il motivo decorativo a granati tagliati a “S” e a scacchiera, accomodati su foglia d’oro su resti di gesso. La realizzazione dei pezzi mostra una tecnica il montaggio talmente complessa da avere precedenti noti soltanto ad Apahida: la guaina d’oro e la rivettatura di raccordo, due piastre d’oro identiche e traforate a quadretti, appositamente perforate da fori circolari colmati con depositi di gesso sono state sovrapposte e saldate tra loro ad assicurare elementi in granato, vetro, cristallo di rocca e ambra.
11) Il complicato processo di montaggio del fodero della "sax" di Childrico
Con un immagine mostriamo la struttura in scala del fodero, complessivamente composto da circa 440 gemme emisferiche sui bordi e 720 piastrine di granati. La guaina perduta, originariamente in legno o pelle, era rivestita da 51 guarnizioni in oro e granati. 

Il prodotto finale, contraddistinto da un’abilità artigianale unica, fu realizzato da un laboratorio comportante la compresenza di intagliatori e orafi che dovettero lavorare a stretto contatto tra loro: proprio come ad Apahida, anche qui sopravvivono elementi ereditati dai popoli delle steppe, come le guarnizioni e le briglie e un paio di ornamenti a testa di cavallo. La fitta trama a ragnatela di granati rossi e vetri geometrici dai motivi ondulati, ad S e a quadrifogli incasellati entro cellette d’oro, riveste tutti gli oggetti; la frequenza delle teste d’aquila sul puntale di spada e sull’impugnatura, di api e fibbie a racchetta,  a scarpa e reniformi risolve un motivo che si è sviluppato per oltre un secolo, fra Tardoantico e alto Medioevo nella terra degli Unni.
Al fine di creare tali manufatti compositi, costituiti da più lamine d'oro e gioielli incastonati, fu utilizzato un collante di gesso a base di "sepiolite" (fillosilicato idrato di magnesio) proveniente dal mar Nero): forse che il tesoro del re non fosse stato prodotto da barbari, ma da un'officina di provenienza “pontico-danubiana” e comunque d'ambito culturale bizantino, forse su ordinazione e in base ai gusti tradizionali dell’alta aristocrazia germanico-orientale? Io penso che sia così.  Nuove indagini diagnostiche condotte al momento dagli archeologi Marco Aimone, Patrick Perin e Thomas Caligaro sul tesoro di Chlderico a Tournai daranno esiti decisivi al fine di gettar luce sulla reale provenienza delle officine che produssero, con tali esiti eccelsi, un tesoro barbarico che si avvicina molto all'immaginario prototipo, sognato nelle leggende e nelle saghe medievali d'ambito germanico: il tesoro dei Nibelunghi.

Marco Corrias (alias Marc Pevèn)
Foto: 1,3,4,5,8, 11: Materiale di studio, laboratori RGZM / 2: wikipedia / 6-9-11: Marco Corrias

Bibliografia
Heather - Fall of the Roman Empire
M.Kazanski, F. Vallet, Patrick Périn, L’Or des princes barbares. Du Caucase à la Gaule, Ve siècle après J.-C., 2001.
M. Kazanski, L’epoque hunnique au nord de la mer Noire, in le Nord de la mer Noir eau Bas-Empire et à l’époque des grandes Migrations, 2006.
D. Quast (a cura di), Weibliche Eliten in der Frűgeschicht, Female elites in protostoric Europe, in Internationale Tagung vom 13. Bis zum 14. Juni 200 im RGZM im Rahmen des Forschungsschwerpunktes Eliten, 2011.
D. Quast, Das Grab des Frankenkönigs Childerich, 2015



Ipotesi sul Papa eletto per una notte: il caso Giuseppe Siri

$
0
0
Giuseppe Siri nacque a Genova il 20 maggio del 1906. La madre era originaria di un paese nei pressi di Forli, il padre era ligure e svolgeva la mansione di tuttofare negli appartamenti signorili della Liguria d’inizi Novecento. 
A quattro anni i genitori decisero di iscriverlo alle scuole elementari, segnale di un precoce sviluppo intellettivo. Giuseppe crebbe velocemente e gli ottimi risultati scolastici destarono l’attenzione di un amico del padre, agente di cambio, che promise di insegnarli il lavoro nonostante la giovane età.
Giuseppe Siri dopo pochi giorni manifestò un forte disinteresse per quest’attività e raccontò tale sentimento alla madre. Frequentò assiduamente l’oratorio della chiesa nella quale era stata battezzato, Santa Maria Immacolata in Genova. A soli nove anni manifestò l’intenzione di entrare in seminario per diventare prete. Nel 1916, a 10 anni, i genitori permisero il suo ingresso nel seminario minore di Genova. La vita non era delle più semplici: l’ambiente quasi militaresco concedeva pochi strappi alle regole. Giuseppe Siri si distinse per la velocità di pensiero e per gli ottimi risultati conseguiti. In relazione allo stato di servizio del ragazzo, il cardinale Minoretti, arcivescovo di Genova, comunica a Giuseppe Siri l’intenzione di inviarlo a Roma per studiare presso la Pontificia Università Gregoriana.
All’età di 22 anni ricevette l’ordinazione sacerdotale dalle mani del cardinale Minoretti. Il 23 settembre del 1928, giorno seguente al ricevimento del sacerdozio, celebrò la sua prima messa. L’anno seguente si laureò in Teologia presso l’Università Gregoriana. Dal 1929 sino al 1946 insegnò a Genova. Nel marzo del 1944, dietro precisa segnalazione del cardinale Boetto, Pio XII lo elevò a vescovo titolare di Liviade e ausiliare di Genova. A soli 47 anni fu nominato cardinale da Pio XII il 12 gennaio del 1953.
Durante il pontificato di Pio XII Giuseppe Siri rimase sempre molto vicino al pontefice, per idee e per comportamento, tanto che Pacelli lo considerava un fidato consigliere. I due erano in stretto collegamento, tanto che Pio XII decise di designarlo come successore alla sua morte.
Nel 1958 Pio XII muore e si aprono le porte per la salita al trono di Pietro. Il dibattito non fu semplice poiché molti cardinali criticarono la gestione accentratrice di Pio XII, pensando che Siri avrebbe accentuato questo comportamento. Lo stesso cardinale di Genova dichiarò che nei giorni del conclave aveva percepito una sensazione di fastidio da parte d’alcuni cardinali. I giorni passarono tra febbrili trattative alla ricerca del successore di Pacelli: secondo diversi cardinali, Giuseppe Siri era la persona più indicata, malgrado molti altri mantenevano una posizione di distacco.
Giunge la sera del 25 ottobre 1958.
I 51 cardinali si chiusero in conclave.
Il primo scrutinio si tenne la mattina del giorno seguente, 26 ottobre 1958.
Quel giorno le fumate del camino furono caratterizzate da colori difficilmente identificabili.
Alle ore 11,53 si levò nel cielo, dal comignolo della Cappella Sistina, una notevole emissione di fumo denso e bianco, che spiccava nel cielo azzurro, e che si arrestò subito.
La folla credette che il nuovo Papa fosse stato eletto ma, dopo pochi istanti la fumata divenne nera.
Alle 17,55 del 26 ottobre si levò una fumata bianca.
Alle guardie svizzere fu ordinato di uscire dalla caserma e di presidiare la Piazza gremita di folla.
Radio Vaticana rilasciò il seguente annuncio: “Il nuovo Papa è stato eletto. Fra poco il cardinale primo diacono, Canali, apparirà a darne l’annuncio. Un fumo bianco, denso e voluminoso ricopre il tetto della Sistina, ormai non c’è dubbio che il papa sia fatto”.
La finestra della loggia delle benedizioni non si aprì.
Accadde qualcosa di cui non siamo a conoscenza?
Secondo una teoria, basata sui rapporti del Federal Bureau of Investigation degli Stati Uniti, il 26 ottobre del 1958 Giuseppe Siri fu eletto papa ed assunse il nome di Gregorio XVII. Seguendo l’ipotesi basata sui rapporti,secretati sino al 28 febbraio del 1994, compilati dal Federal Bureau of Investigation, riportanti la data del 10 aprile 1961, Siri fu costretto a non salire al soglio pontifico perché la sua elezione avrebbe determinato gravi squilibri nei rapporti con i governanti dei paesi oltre la Cortina di Ferro. Approfondendo la ricerca si scopre che furono i cardinali francesi a mostrare al conclave dei rapporti confidenziali dei servizi di sicurezza del Vaticano. Secondo quest’ipotesi, nella documentazione, prodotta dai cardinali, era riportata l’informazione che una nomina di Giuseppe Siri al trono di Pietro avrebbe scatenato una massiccia ripercussione sui prelati di stanza nei paesi oltre la Cortina di Ferro. Immaginiamo l’eventuale sconforto degli alti prelati. Le ore si susseguirono tra discorsi ed ipotesi. Alla fine, sempre secondo quest’ipotesi, i cardinali decisero per un papa di transizione. La prima idea fu l’elezione di Federico Tedeschini, ma il cardinale rinunciò per motivi di salute. La seconda idea fu il cardinale Roncalli, che effettivamente fu eletto con il nome di Giovanni XXIII.
Tali rapporti furono visionati dal giornalista americano Paul Williams che nel 2003 pubblicò il libro “The Vatican Exposed: money, murder and the Mafia”. Secondo questo testo i problemi giungono da lontano, sin dal 1954 quando l’editore dell’Osservatore Romano informò Pio XII delle simpatie per i comunisti del Cardinale Roncalli. Papa Pacelli, preoccupato per il destino del Vaticano, si affrettò a nominare Siri quale suo eventuale successore. I motivi di questa, ipotetica, nomina? Giuseppe Siri era anticomunista ed un intransigente tradizionalista in materia di dottrina della chiesa cattolica.
Per comprendere la fondatezza del terrore creato dai documenti presentati dai cardinali francesi dovremmo risalire la linea del tempo sino al 1944: sul finire del mese di settembre si riuniscono, protetti da ingenti misure di sicurezza, i gerarchi nazisti, i grandi imprenditori della Germania del tempo ed una rappresentanza delle banche tedesche. Il motivo dell’incontro? Salvaguardare se stessi ed i propri interessi dopo la caduta di Hitler. Quel giorno decisero di tracciare vie di fuga per sfuggire alla giustizia alleata. Inizialmente furono valutati tre itinerari con partenza sempre da Monaco di Baviera e primo passaggio a Salisburgo in Austria. Dopo la città austriaca, le strade da seguire dipendevano dalle condizioni geopolitiche dei paesi di destinazione e/o di transito: il primo itinerario prevedeva l’arrivo a Madrid, il secondo in Medio Oriente ed il terzo in Argentina. Il secondo ed il terzo itinerario prevedevano l’imbarco presso il porto di Genova.
Per quale motivo Genova e non Marsiglia?
Per quale motivo Genova e non Venezia?
Per comprendere dovremmo rifarci all’inchiesta degli storici e giornalisti americani Aarons e Loftus. I due affermano nel libro “The Vatican, the nazist and the Swiss Banks” che il motivo per il quale i gerarchi nazisti transitavano da Genova per l’imbarco aveva un nome ed un cognome: Giuseppe Siri. L’arcivescovo sembra che fosse disposto, in cambio di cosa proveremo ad analizzarlo, a nascondere i criminali di guerra nell’attesa della nave che li avrebbe portati nei paesi che si erano offerti ad accoglierli.
Nel precedente articolo che narrava le gesta del vescovo – nazista Hudal, avevo spiegato il legame che s’instaurò tra uomini di chiesa e criminali nazisti. Il fine di questa pazzesca alleanza? Salvaguardare i confini ad est dalla possibile invasione comunista, il vero terrore del Vaticano.
Il cardinale, Papa per una notte, Giuseppe Siri fiancheggiatore di Hudal o mente dell’operazione?
L’arcivescovo di Genova era in contatto con Walter Rauff, uno dei maggiori responsabili dell’operazione ODESSA, e con il sacerdote croato Karlo Petranovic, dirigente della milizia ustascia croata. Il sacerdote - nazista Petranovic affermò ad Aarons e Loftus di aver aiutato migliaia di persone a lasciare l’Italia partendo via nave da Genova. Affermò che i fuggiaschi si trovavano in ottima salute e che erano ottimamente assistiti da alti dignitari cattolici.
Il vescovo del male, Hudal, dava assistenza ai fuggiaschi in Austria trovando passaporti, firmati in bianco, per l’accesso sul suolo italiano. I gerarchi nazisti in fuga transitavano da Milano, prima di giungere a Genova dove trovavano assistenza in Giuseppe Siri e Karol Petranovic. L'ultimo passo prima di imbarcarsi per i paesi di destinazione consisteva nel presentarsi a Walter Rauff, gerarca nazista che si occupava dell'operazione.
L’arcivescovo di Genova, e potenziale Papa per una notte, come rientra in questo pazzesco intrigo internazionale?
Era il fondatore del Comitato Nazionale per l’Immigrazione in Argentina e del comitato Auxilium, organizzazione che prestava soccorso ai profughi.
Il fatto che un cardinale fosse coinvolto in tutto questo è allucinante. 
Ora possiamo iniziare a comprendere l’eventuale sua mancata elezione?
Il gerarca nazista, Walter Rauff, con cui Siri stringeva rapporti fu il principale ideatore della Gaswagen, camera a gas su ruote che, nei piccoli paesi della Polonia, causò lo sterminio di un numero che oscilla tra le 100.000 e le 150.000 persone.
Nel prossimo articolo cercherò di spiegare i legami tra Hudal, Siri, Rauff, la Via dei Conventi e l’equivalente Argentino dell’arcivescovo di Genova, Antonio Caggiano.

Fabio Casalini

Un grande ringraziamento a Rosella per l'aiuto, il supporto e le ricerche effettuate in questo difficile campo, dove tutto non è come appare. 




Bibliografia

M. Aarons e J. Loftus. Ratlines. Newton & Compton, Roma, 1993

Agnoli Francesco, Bertocchi Lorenzo, Sentinelle nel post-concilio. Dieci testimoni controcorrente, Siena, Edizioni Cantagalli, 2011

Casazza Andrea. Nazisti in fuga, il silenzio della Curia. Articolo apparso sul Secolo XIX del 15 settembre 2013

J. Camarasa. Organizzazione ODESSA, Mursia, Milano, 1998

Cassinis Alessandro. Nazisti, la chiesa di Francesco faccia luce. Articolo apparso sul Secolo XIX del 15 settembre 2013

Coggio Sondra. Nessun processo ai nazisti per salvare i criminali italiani. Articolo apparso sul Secolo XIX del 11 aprile 2016

D. J. Goldhagen. Una questione morale. La chiesa cattolica e l'olocausto, Mondadori, Milano, 2003

U. Goñi Uki. Operazione Odessa. La fuga dei gerarchi nazisti verso l'Argentina di Perón, Garzanti, Milano, 2003

Lai Benny, Il Papa non eletto: Giuseppe Siri, cardinale di Santa Romana Chiesa, Roma e Bari, Laterza, 1993 

Lai Benny, Scavo Annamaria, Giuseppe Siri, le sue immagini, le sue parole, Genova, De Ferrari Editore, 2008 

Petacco Arrigo. Nazisti in fuga. Mondadori. 2014 

Williams L. Paul. The Vatican Exposed: Money, Murder, and the Mafia, Prometheus Books. 2003

I martiri di Otranto

$
0
0

Il mare notturno taceva limpido e dorato, vigliacco e traditore nel silenzio infausto di un porto violentato da oltre 150 vele ottomane giunte sotto i bastioni di Otranto, voraci come corvi in attesa di carne cristiana putrefatta.

Scivolava l'anno del Signore 1480.
L'estate donava alla volta celeste il meglio che la luna potesse irradiare, un finto sole, imitatore del giocondo dì, così che il buio non divenne più un nemico del nostro nemico.
I cavalieri ed i soldati del sovrano del regno di Napoli e delle terre d'Otranto, distavano troppo dalle mura per giungere in difesa della città e del popolo.
Diciottomila turchi attendevano la guerra o la nostra resa e sottomissione ai loro voleri; le nostre terre, le nostre donne come schiave, i nostri figli come soldati. La nostra fede rinnegata.
Eravamo un piccolo contingente militare di circa mille uomini pronti a essere massacrati, quando uomini del popolo che mai in vita strinsero una spada si unirono nel castello portando donne e bambini abbandonando il borgo all'invasore abbracciando l'idea di combattere fino alla morte.
In lontananza l'atrocità delle fiamme che ardevano selvagge, si nutrivano di ogni traccia del nostro passato, con il vento salato giungevano sulle torri e nella corte una densa pioggia grigiastra di frammenti di pergamene e antichi libri, gli ultimi attimi di ciò che restava dell'antico monastero di San Nicola di Casole, culla delle nostre origini.
Il terrore mischiato alle lacrime dei più deboli e a quella tempesta di carta, provocò nella notte del 29 luglio una fuga dal castello di gran parte della difesa delle mura, molti uomini fuggirono via verso la campagna donando le spalle al loro mare.
L'assedio dannato cominciò nella sua folle danza macabra.
Dopo giorni di ardua battaglia, e tenacia della nostra gente, il nove agosto un attacco violento provocò una ferita immane alle nostre difese, le pietre bianche delle mura crollavano, come gabbiani su un promontorio, ritornando alla loro terra da cui furono estratte ed i soldati avanzarono senza tregua nel cuore del castello, ma furono bloccati dai capitani Francesco Zurlo e Giovanni Delli Falconi, sino al dieci agosto, quando i turchi circondarono ormai i pochi uomini restanti.
Il pascià ammiraglio della spedizione non accettò che il suo esercito fosse stato bloccato per tutto questo tempo da dei miseri pescatori, contadini e qualche soldato, quindi impose l'ultima sentenza: Nessun schiavo, o la vita o la conversione all'Islam.
Gli ottocento uomini si chinarono nessuno tra loro scelse la conversione.
Furono portati nella cattedrale e lì decapitati uno ad uno sotto l'altare.
I resti dei corpi furono abbandonati senza sepoltura alla terra, alla fame dei corvi e dei cani randagi.
La cattedrale divenne una moschea, furono distrutti gli affreschi, le croci e tutto ciò che era infedele.
Ma nulla fu fatto contro il Mosaico di Pantaleone, l'antico mosaico lungo 53 metri, composto nel 1163 da un monaco di nome Pantaleone custode non di sola storia cristiana, ma di antiche leggende pagane e simboli esoterici sconosciuti tutt'oggi.
Il centro del mosaico raffigura l'albero della vita, sono poi rappresentati Carlo Magno. Re Artù, e una strana scacchiera, simbolo dei templari, vicino a Salomone e la Regina di Saba.
Una visone che può provocare inquietudine e paura, forse è questo il motivo per cui non fu andato distrutto, o qualche cosa terrorizzava una possibile profanazione?
(Le ossa degli 800 martiri ora sono custoditi in delle teche all'interno della cattedrale, alcuni teschi presentano offese anche dopo la morte come frecce tra lobi oculari.)


Simone De Bernardin

Fotografie tratte da Wikipedia

Della vita e delle opere di un eretico

$
0
0
Autoritratto di Giacomo da Cardone - Crocifissione a Montecrestese
Giacomo nacque agli inizi del terzo decennio del XVI secolo: possiamo dedurlo dal fatto che il padre, Guidolo, volle commemorare il completamente della propria abitazione, nel 1522, con un’iscrizione graffita sulla facciata. 
Giacomo da Cardone ebbe educazione più accurata e diversa da quella dei suoi conterranei.
Gli inizi si possono supporre a Montecrestese oppure a Domodossola nello studio dei Minori Conventuali. Proseguì l’apprendimento in qualche importante centro della Lombardia, probabilmente Milano o Pavia, dove imparò l’arte della pittura ed acquisì la pratica del notariato.
L’ambiente che frequentava in Lombardia era, quasi sicuramente, vigilato dagli agenti governativi spagnoli e/o dalla santa inquisizione, perché non era difficile che tra gli artisti emergessero pericolose tendenze in contrasto con la politica e la religione dominanti in quel preciso momento storico.
I cantieri aperti a Crevola, nella chiesa dedicata ai Santi Pietro e Paolo, e Baceno, nella chiesa dedicata a San Gaudenzio, scatenarono la vocazione del giovane studente.
Gli esordi risalgono al 1542 quando affrescò un’immagine devozionale in un edificio di Montecrestese.
Il tempo corre veloce.
Crocifissione - Montecrestese
Si giunge la 1547. La parrocchiale di Montecrestese dedicata a Santa Maria Assunta, ritenuta dalla popolazione buia e troppo bassa, chiama a se il pittore che, negli anni seguenti, imprimerà sui muri il suo pensare, il suo essere diverso. Un uomo fuori dal tempo e dallo spazio. La sua opera inizia con la realizzazione di due personaggi, San Giovanni Battista e San Sebastiano. I due santi sono affrescati sulle colonne che sostengono l’arco d’accesso ad una cappella della navata di destra. Alla sinistra dell’ingresso troviamo San Giovanni Battista. Vestito con l’abito tessuto di peli di cammello.Alla destra del capo di Giovanni Battista la scritta che lo contraddistingue: ecce agnus dei. Ecco l’agnello di Dio. Alla destra dell’ingresso appare san Sebastiano, facilmente riconoscibile dal corpo trafitto di frecce. Durante la lavorazione di questi due affreschi, Giacomo da Cardone, entra in contatto con la confraternita di Santa Marta.Conoscenza che si svilupperà, positivamente per entrambi, con il trascorrere del tempo, sino a giungere al 1550, anno in cui si affida al pittore la realizzazione dell’apparato pittorico di una cappella, costruita a spese della confraternita, in fondo alla navata settentrionale.
Particolare della crocifissione - Montecrestese
Arriviamo al 1550 quando la cappella della navata settentrionale, che oggi conserva il battistero, è ultimata. La richiesta dei committenti al pittore consisteva nella realizzazione di opere che dovevano riguardare la crocifissione, il purgatorio ed il giudizio universale. Nella grande crocifissione, presente sullo sfondo della cappella, è riscontrabile l’influsso dei grandi pittori contemporanei, o leggermente precedenti, al da Cardone, come il Bugnate o Gaudenzio Ferrari.
Negli anni successivi iniziò ad operare nel cantiere della chiesa dedicata a San Gaudenzio a Baceno dove, nel 1554, affrescò l’ultima cena. Sulla destra del grande affresco ritroviamo un Sant’Antonio Abate sempre del 1554. Negli anni successivi affrescò due sante nella volta. Santa Caterina d’Alessandria d’Egitto e Santa Apollonia.
Giacomo, fantasioso e versatile, si lasciò catturare dalle idee luterane.
Fu catturato nel 1561 ed accusato di seguire idee luterane.
Fu esaminato e giudicato dall’inquisitore generale di Milano Fra Angelo Enguada.
La tortura in cosa consisteva?
Nel tratto di corda o squassamento.
Questa tipologia è nota per essere stata la prima utilizzata dalla santa Inquisizione.
La vittima era lasciata con indosso solo i “mutandoni”, incatenata alle caviglie e con i polsi legati, saldamente, dietro la schiena con una corda “spessa”, che era fatta passare su una carrucola fissata al soffitto della camera della tortura. Gli inquisitori, che ricordiamo essere frati, issavano il torturato fino all’altezza di circa sei piedi dal pavimento.
Alle caviglie erano legati pesi di ferro, per fare in modo che la gravità della persona venisse a pesare sulle giunture delle spalle.
In quella posizione a Giacomo fu chiesta la verità!
“ Sei tu un aderente della religione luterana?” 
Nel caso in cui il pittore si fosse rifiutato di parlare, la sua schiena avrebbe conosciuto la flagellazione. Le sue spalle avrebbero iniziato a subire slogature e dislocamenti!
Questa tortura era eseguita con diversi gradi di durezza, secondo la natura del reato di cui era accusato il prigioniero.
Il giudice diceva:
“..il prigioniero deve essere interrogato applicando la tortura” 
Il malcapitato era sollevato da terra con la fune.
L’inquisitore si poteva spingere oltre:
“..che si torturi il prigioniero” 
L’eretico era sottoposto allo squassamento per una volta.
Se il carnefice, perché così dovrebbero essere chiamati gli inquisitori,  dichiarava.
“..che lo si torturi bene”
L’uomo veniva sottoposto a squassamento per due volte.
Infine vi era la sentenza devastante:
“..che venga torturato duramente” 
Al prigioniero erano applicati i pesi alle caviglie..
Giacomo da Cardone abiurò!
Non sappiamo a quale livello di tortura fu sottoposto, sappiamo che qualche tempo dopo l’arresto ritornò nella natia Montecrestese.
Qui finisce la tortura fisica.
Inizia quella psicologica.
Dopo una severa inquisizione fece atto d’abiura dei suoi errori.
Fu soggetto ad una dura penitenza e rimandato in Ossola.
Particolare delle decorazioni dell'abitazione di Giacomo da Cardone - Montecrestese
La punizione fu severa, ad indicare l’importanza dell’eresia nella quale era caduto.
Doveva portare cucita addosso, su tutti i vestiti, una croce rossa.
Tutte le feste doveva recarsi in chiesa per ascoltare la messa inginocchiato con una candela in mano: doveva recarsi in tutti gli altari presenti in chiesa, cinque, e per ognuno recitare 5 ave maria e 5 padre nostro.
Doveva confessarsi quattro volte l’anno mandando all'inquisitore la relazione del parroco circa l’espletamento dell’obbligo.
Doveva dipingere l’immagine di san Rocco nella sua casa. Santo invocato contro la peste e le malattie gravi. San Rocco fu imprigionato come spia a Voghera. Rimase dimenticato in un carcere per almeno tre anni. In quel luogo desolato trovò la morte. La Santa Inquisizione scelse san Rocco come monito per il prigioniero? Nel 1591 in quella stessa casa si svolse un processo contro una presunta strega.
Per tre anni doveva digiunare a pane ed acqua in tutte le vigilie delle feste comandate.
Doveva, su richiesta dell’inquisitore, ripetere pubblicamente il suo atto d’abiura a Montecrestese.
Vi sembra dura come sentenza?
Particolare delle decorazioni dell'abitazione di Giacomo da Cardone - Montecrestese
Dovremmo insieme pensare che a Giacomo sia andata bene, poiché non ha conosciuto il fuoco riconciliatore.
Non facendo vita pubblica decise di farsi costruire una nuova casa che si impegnò a decorare sbrigliando completamente la sua fantasia.
Nella sala della sua abitazione vi è una bellissima decorazione della cappa del camino: la predicazione di san Giovanni Battista sulle rive del Giordano. Il battista al centro, vestito di pelli di cammello, presenta la scritta Ecco l’agnello di dio che toglie i peccati dal mondo ed indica cristo sulla sponda opposta ad un gruppo di persone che giunge alle proprie spalle.
Ai piedi del battista s’intravede la scritta IO.b 1564 (Iohannes Baptista 1564).
Giacomo si è firmato con il nome del battista?
Nella propria casa non aveva necessità di firmare le opere.
Dovremmo pensare ad una sorte d’identificazione tra Giacomo ed il battista?
Particolare della veste di Giovanni Battista nell'abitazione di Giacomo - Montecrestese
Nella sua non usuale istruzione, consideriamo che siamo nel XVI secolo, Giacomo per abbellire la propria casa attinge dalla cultura lombarda del quattrocento.
Le scene ci riportano ad una ribellione interiore del pittore per il processo subito: Giacomo lo riteneva ingiusto nel procedere e nelle punizioni.
In questo periodo ritornò a lavorare al cantiere della chiesa dedicata a San Gaudenzio a Baceno, dove affrescò la deposizione dalla croce e la sepoltura del Cristo.
Trascorso il tempo della condanna per eresia, quattro anni, i compaesani si riuniscono in un forte atto di solidarietà: chiedono il reintegro di Giacomo all’ufficio di Notaio. Tanto fecero che il pittore fu reintegrato con decreto del 19 agosto 1566. L’atto fu firmato dal vicario del vescovo di Novara monsignore Serbelloni.
Un interessante documento riporta:
“Giacomo da Cardone dopo essere caduto nell’eresia, dopo la sua penitenza, è sempre vissuto da cattolico e cristiano secondo i precetti della Santa Cattolica Ortodossa e Romana chiesa e come si conviene a quell’uomo probo che sempre fu, eccetto la caduta di sopra, ed è al presente, ed ha sempre condotto vita onesta modesta e morigerata.”
Dell’attività notarile di Giacomo non esistono attestazioni.
Deposizione del corpo di Gesù - Baceno chiesa dedicata a San Gaudenzio
Lo ritroviamo nel 1591 quando nella sua casa prese dimora frate Francesco Silvestrio, dei minori conventuali, vicario dell’inquisitore di Novara Andrea Gotescho. 
Il motivo della presenza del frate inquisitore si deve ad un processo a carico di alcune donne di Montecrestese accusate di stregoneria.
Qui si conclude questo ricordo di un pittore, notaio ed eretico.
Spaccato della vita del Cinquecento del nostro assurdo bel paese.

Fabio Casalini


Bibliografia

Arioli Luigi. Una camera nuziale del 1500, presente in Illustrazione Oscellana 1959.

Bertamini Tullio. Processo alla stria che ha toccato la vacca sulla schiena, presente in Illustrazione Ossolana 1962.

Bertamini Tullio. Le disavventure del pittore Giacomo di Cardone, presente in Oscellana 1991


Bianchetti Gianfranco. Il pittore Giacomo di Cardone, presente in Oscellana 1988

Edward John. Storia dell'Inquisizione. Oscar Mondadori. 2006

Lea Henry. Inquisizione. Storia e Organizzazione. Res Gestae editore. 2012

La morte conduce la danza

$
0
0
“Veramente io non credo in Dio, ma la faccenda non è così semplice, tutti portiamo un Dio dentro noi stessi, tutto forma una trama che ci pare a volte di riconoscere, soprattutto al momento della morte."
(Ingmar Bergman, Lanterna magica)
"Je fis de Macabré la dans” scriveva nel 1376 Jean de Lèvre dopo essere miracolosamente scampato alla peste.
La Danza Macabra, risalente al tardo medioevo, nasce come tema iconografico collegato al pensiero apocalittico e al disprezzo verso la vita mondana, diffondendosi principalmente nel nord-Europa, la cui più antica rappresentazione si ritiene ubicata nel cimitero dei Santi Innocenti presso Parigi.
Come ormai sappiamo le decorazioni presenti nei luoghi di culto non sono mai casuali, ma ideate e strutturate principalmente per rendere comprensibili concetti anche a chi non era in grado di decifrare le sacre scritture, ed in questo specifico caso l'intento era intimorire appellandosi a credenze e memorie ancestrali.
Un ciclo di affreschi di eccezionale valore risalente ai primi del 1500 è presente nella chiesetta di Santa Maria in Binda nel comune di Nosate (Mi). Cittadina posta ad una manciata di chilometri dal confine piemontese di cui il Ticino fa da spartiacque tra le provincie di Novara e Milano.
La chiesetta di origine longobarda (VIII secolo ) isolata in un ambiente bucolico attorniato da prati e campi di grano ospita al suo interno qualcosa di davvero unico per queste zone.
Realizzata per mano del misterioso Giovanni Maria de Lione una danza macabra si dipana sulla parete inferiore sinistra ricordandoci mestamente che come la falce allinea il fusto nel campo grano così gli uomini al cospetto della nera signora sono tutti uguali; siano essi papi, medici o contadini.
Impaurire per indurre a riflettere e pensare. Si leggono punizioni rivolte ad ogni ceto sociale persino verso la corruzione del clero. Rimproveri ai danni di governanti troppo avari, a principi e re senza tralasciare il ferimento di poveri e mendicanti.
Il surreale corteo del ciclo pittorico permeato di angoscioso sarcasmo mi conduce ad una riflessione sulla fugacità della nostra esistenza permettendomi di osservare nella prima parte uno scheletro reggente un cassa da morto accanto alla figura di un Papa mentre poco più avanti un secondo scheletro iroso invita al ballo un cardinale purpureamente abbigliato.
Di seguito notiamo un vescovo ed un arcivescovo sempre “allegramente” affiancati dalle medesime carcasse d'ossa seguiti da un abate, un giovincello elegantemente vestito ed infine un prete benedicente in un ciclico ed eterno punto di contatto tra vita e morte.
Sette anime vive affiancate da sette scarne “ombre in dissoluzione” poste come uno specchio in cui ineluttabilmente saremo costretti a riconoscerci.
Sette, numero assai ricorrente nella simbologia cristiana e nella tradizione esoterica raffigurante il legame tra la sfera terrena e quella divina. In correlazione a ciò è interessante osservare la parete superiore ospitante la teoria delle sette madonne, dove per ogni madonna azzardo una corrispondenza con un personaggio ed uno scheletro della parete inferiore.
Non escludendo assolutamente che in passato il ciclo fosse molto più esteso, con probabilmente altre figure disposte lungo la parete, e focalizzandomi unicamente su ciò che i miei occhi sono oggi giorno in grado di apprezzare mi piace scrutare un po più in la, scavando tra i versi dell'Apocalisse di San Giovanni “E nella mano destra di Colui che sedeva sul trono vidi un rotolo scritto dentro e fuori, chiuso da sette sigilli”.
Senza dimenticare le“sette chiese”e “l'agnello con sette occhi e sette corna”.
Anche il cinema bergmaniano trova la sua collocazione tracciando una curiosa e singolare simmetria. E' infatti ne “il settimo sigillo” che si assiste alla famosa partita a scacchi con la morte e alla ancor più rilevante scena dell'incontro tra il cavaliere e il pittore intento ad affrescare una danza della morte che “prima o poi danza con tutti”.
Sette sigilli. Sette angeli, sette trombe, sette candelabri, sette i partecipanti alla danza macabra.
Sorprendenti citazioni e numerose correlazioni mi fanno sobbalzare il cuore al cospetto di ciò che è silenziosamente custodito in questo quieto angolo di pianura.
Inevitabilmente sono indotto ad ulteriori considerazioni, ponendo a confronto questi anni frenetici farciti di corse al successo e finto benessere fermentato di gommosa bellezza come a voler occultare l'imbarazzo della dipartita.
In un contrasto netto il messaggio che gli antichi hanno suggellato nella fresca ombra di questo edificio traspare ancor più forte e doveroso.
Siamo ben consci che non si esce vivi dalla vita, e questa processione di morti pronta a scuotere la nostra coscienza è qui a rammentarcelo da più di 500 anni.
Mentre con timore ci affanniamo a porre rimedio ai peccati perpetrati, la mietitrice si aggiusta il trucco per recapitarci l'invito fissato al momento estremo dell'esistenza.
...
Un sibilo bianco irrompe in sogni già sognati come uno spiffero di tramontana in un alba spogliata di buio. L'anima indifferente venuta dai campi riarsi si cela dietro un volto ebbro e senza forma, camuffato da sorrisi irriverenti.
L'ombra sosta dietro il letto, poi in uno scatto fugge sugli alti cipressi più nera dell'odio. Lungo il perimetro accidentato dei giorni si diluiscono frammenti di ore e lontani lamenti. Cade una lacrima altissima e tra i rovi non resta che sterile polvere pronta a decantare tutta la nostra petulante nullità

Filippo Spadoni

Bibliografia

Pietro Vigo, Astorre Pellegrini. Le Danze macabre in Italia” , 1901

Salvatore M. Ruggiero. La Morte e Dio nel cinema di Ingmar Bergman, 2013

Ferriere e il canto della betoniera

$
0
0
Arrivai a Ferriere un caldo pomeriggio d’agosto, senza sapere nulla. Ferriere era giusto una base, ci saremmo fermati al rifugio Becchi Rossi per salire l’Enchestraia e la punta tre Vescovi, poi ci aspettava la partenza verso Milano. 
Quella mattina avevamo salito il Becco Alto d’Ischiator, in una giornata tersa e senza ombra di nube. A malincuore avevamo poi lasciato il rifugio Migliorero e le sue fattezze di castello scozzese, poco frequentato in quei giorni nonostante il Ferragosto incipiente, e avevamo continuato il viaggio lungo la Valle Stura, fino a Bersezio, per poi inerpicarci lungo gli stretti tornanti che portano all’abitato di Ferriere. Il rifugio Becchi Rossi è ricavato nella ex Canonica, proprio di fianco alla Chiesa. C’è un campo da bocce a Ferriere, vagamente in salita, e un museo dedicato ai mestieri contadini e al contrabbando, due realtà intrecciate a filo doppio nel passato di queste valli, la Francia a pochi passi di distanza.

Il pomeriggio era caldo e limpido; mentre bevevamo pigramente una birra sulle panche fuori dal rifugio, ci teneva compagnia, e forse anche un po’ ci infastidiva, il rumore di una betoniera e le voci degli operai che lavoravano a una vicina abitazione. La sera, le sagome delle montagne si stagliavano nere e nette su un cielo che faticava a imbrunire.
Partimmo molto presto per l’Enciastraia il giorno dopo, il freddo dell’alba mi faceva camminare veloce, ma in fretta la giornata divenne calda e azzurra. Ci dirigemmo verso la bassa di Colombart, in compagnia delle marmotte che non sembravano particolarmente intimorite dal nostro procedere, per proseguire poi su strada militare verso il colle del Puriac, e salire alla vetta. Mamme stambecco seguite dai piccoli popolavano le balze delle pareti e dedicai del tempo in cima a a guardare incantata il lago del Lauzanier. Sulla Rocca Tre Vescovi la sorpresa di un’ombra ci aveva obbligato ad alzare la testa e scorgere le grandi ali di un gipeto. La discesa fu lenta, su terreno detritico e scivoloso, mentre una volta tornati al colle del Puriac ci fermammo a guardare il castello maestoso dell’Oronaye. Fu bello vedere da lontano i piccoli tetti di Ferriere e avere del tempo per riposare ancora sulle panche del rifugio, mentre gli operai e la betoniera continuavano a lavorare alla casa di fronte.
Da lontano, Ferriere mi pare intatto, come un villaggio partigiano nell’imminenza di un rastrellamento, come se tutta la popolazione fosse su, bel bosco, nell’attesa, al riparo. Ma più mi avvicino. più mi rendo conto che Ferriere è un villaggio morto. Tetti sfasciati, muri pericolanti, balconi di legno che ciondolano, finestre vuote, spente. Anche il tetto della chiesa ha ceduto e quando le chiese crollano è proprio la fine.” Così Nuto Revelli ne “Il Mondo dei vinti”, un libro che mi riporta al borgo molto tempo dopo esserci stata. Allora non sapevo che questo Ferriere fosse in qualche modo un luogo simbolo dell’abbandono della montagna e dell’agricoltura che, a partire dagli anni Cinquanta. ha traghettato il nostro Paese verso il miraggio dell’industrializzazione. Non sapevo che gli stretti tornanti della strada carrozzabile per il Rifugio Becchi Rossi, costruita negli anni 60, erano serviti giusto a far scendere a valle l’ultimo degli abitanti del paese trasformandolo per molto tempo in una città fantasma.
Ma è proprio grazie al prezioso lavoro di Nuto Revelli che è possibile dare almeno un volto e una voce alle vie e alle case di Ferriere. Il volto e la voce sono quelli di Giovanna Giavelli, classe 1886, la “maestra delle marmotte”. Giovanna, che “aveva sempre avuto la miseria addosso”*, che a cinque anni era rimasta orfana di madre e che da allora si guardagnava il pane facendo “ballare le marmotte” e chiedendo la carità in Francia. Da Ferriere si scappava: “Non si poteva vivere a Ferriere, con poco pane e poco orzo, chi ne aveva. Ci toccava andare via”. 
E Giovanna, prima di scendere in Francia dal colle del Puriac, lo stesso in cui mi ero fermata a rimirare le guglie dell’Oronaye, catturava qualche marmotta. Non doveva essere difficile, le marmotte sono dappertutto, si lasciano anche quasi avvicinare, ma l’ultima cosa a cui avrei potuto pensare in quel lontano giorno d’agosto era che potessero essere in qualche modo fonte di sussistenza: “le addestravo, le facevo ballare e fischiare. Le battezzavo anche, ogni marmotta aveva il suo nome. [… ] Facevo presto a ammaestrare le marmotte, con l’arrivo dell’autunno erano già ‘ndutrinà”.
Quante storie come questa nascondono i sentieri che calpestiamo ogni giorno? Che cosa davvero coglie il nostro andare per monti e quanta parte di quel che vediamo ci nasconde segreti ormai inaccessibili? “C’erano altri di Ferriere che facevano ballare le marmotte, Maria del Bagnulin era una di quelle. Ce n’erano della Valle Maira, di Acceglio […] mah abbiamo fatto una vita che siamo ancora ricchi adesso”. 
Quando Revelli raccolse la sua testimonianza, Giovanna era all’ospizio di Demonte, Ferriere un sogno nostalgico, “Mi piaceva vivere lassù. L’aria era pura, l’acqua era buona. L’acqua era il nostro vino. Avevamo tutto ciòe che insieme si chiama libertà. Era come avere le ali. Qui al ricovero degli anziani mi sento un po’ come in prigione. La notte, quando sogno, sogno lassù. La mia casa, la mia prima casa, è una casa tutta nera, ma mi piaceva. Lassù l’aquila vola.”
Oggi Ferriere non è più come la vide Revelli. Molte abitazioni sono state ristrutturate anche se vengono utilizzate solo come seconde case. Non è più la Ferriere “tutta seminata a orzo, segala, grano e patate”. Ma i tempi dell’abbandono, i tempi delle rovine sembrano finiti. C’è un certo tipo di cura per questo luogo, quella che i nostri tempi confusi permettono.
Oggi, quando ripenso a Ferriere, mi viene in mente la betoniera.
Il suo era un canto, ma allora non lo capivo.

Simonetta Radice

Tutte le fotografie sono di Simonetta Radice tranne l'ultima che è stata presa dal sito del rifugio Becchi Rossi.

*Tutte le citazioni sono tratte da: Nuto Revelli, “Il Mondo dei Vinti”, Giulio Einanudi Editore, Torino, 1977

Il giorno in cui l'Italia si fece salvare da Gino Bartali

$
0
0
Roma, 14 luglio 1948: “Stamane, verso le ore 11.30, mentre l’onorevole Togliatti usciva dalla porta del Palazzo di Montecitorio, in compagnia dell’onorevole Leonilde Iotti, veniva affrontato da un giovane che poi si è appreso essere tale Antonio Pallante, studente universitario venticinquenne, il quale gli sparava contro alcuni colpi di rivoltella, sembra 4, tre dei quali lo raggiungevano in varie parti della regione toracica.” 
La notizia si sparge a macchia d’olio per il paese.
Antnio Pallante, studente di estrema destra ha da poco esploso 4 colpi di rivoltella all’indirizzo di Palmiro Togliatti. Il paese è scosso dal dolore, dall’angoscia e dalla volontà di rivoluzione.
Roma, 14 luglio 1948: “Incidenti a Roma. Morti a Napoli, Livorno e Genova. Gli incidenti si sono verificati a Roma nel corso della manifestazione di protesta per l’attentato a Togliatti. A Napoli una grande massa di dimostranti giungeva in Piazza Dante dove però veniva affrontata dalla celere che cercava di disperderla. I dimostranti reagivano. Si deplorano 2 morti e un ferito grave.
Il paese è ora bloccato, senza comunicazioni.
Sta vivendo un nuovo dramma
Per comprendere gli eventi delle ore successive, dobbiamo tornare indietro. Nel 1945 si era conclusa la seconda guerra mondiale dove avevano combattuto oltre agli eserciti regolari anche le brigate partigiane. Tra queste la Garibaldi che politicamente si riferiva al PCI. Nel 1946 alle prime elezioni libere per la formazione dell’Assemblea Costituente, il PC prese meno del 20%. Il 18 aprile del 1948 si tennero le prime elezioni libere della Repubblica. Il timore che comunisti e socialisti avrebbero portato l’Italia nell’orbita dell’Unione Sovietica portò gli elettori ad allontanarsi dai partiti di sinistra a favore della Democrazia Cristiana. Occorre ricordare che finita la guerra molti membri delle brigate partigiane eseguirono l’ordine di deporre le armi, ma una minoranza di loro le tenne con sé. L’attentato a Togliatti avvenne in un paese diviso e dalle forti contrapposizioni politiche.
Il 15 luglio 1948 compaiono le armi.
Si spara.
Si contano i morti.
Il governo decide di mettere in campo l’esercito.
Togliatti parla dal letto d’ospedale.
Siamo all’anticamera della guerra civile.
Scelba sfodera gli attributi: il governo è in grado di controllare la situazione, polizia ed esercito non cedono la piazza.
Gli appelli dei politici, le parole di Togliatti e i movimenti dell’esercito non sembrano placare il popolo.
Piazza del Duomo a Milano è una polveriera che può esplodere da un momento all’altro.
Nessuno sembra possa salvare la situazione.
La guerra civile è prossima.
Bartali è in fuga”
Le radio iniziano a diramare le prime informazioni sull’incredibile avventura umana e sportiva che Gino Bartali stava compiendo sulle montagne della Francia.
Sul secondo colle della giornata Gino Bartali passa per primo.”
Le radio infiammano la bollente estate del 1948. Un paese bloccato, armi in pugno e pronto alla rivoluzione si ricorda di quel vecchio toscano che mangiava le montagne.
Sul colle d’Izoard Bartali transita per primo e si invola verso la leggenda.”
Gino Bartali quella mattina partiva con un ritardo di oltre 20 minuti dalla maglia gialla, Bobet.
Il mito chiama la leggenda.
Alcide De Gasperi e Giulio Andreotti la mattina del 15 luglio telefonano alla squadra azzurra pronta alla partenza della nuova tappa del Tour de France. I corridori, preoccupati, vogliono abbandonare la competizione e fare ritorno a casa. I due politici si giocarono la carta Bartali, il cattolico che verrà benedetto da Pio XII. Con molta probabilità raccontarono la situazione agli atleti e spiegarono che solo un fatto sensazionale poteva salvare il paese dalla guerra civile. Anche il Vaticano scoprì di amare il ciclismo, in una perfetta simbiosi tra successo sportivo e morale cattolica. Negli anni a venire Pio XII e il Vaticano creeranno una forte contrapposizione tra il peccatore e rovina famiglie Fausto Coppi e il perfetto atleta cristiano Gino Bartali. Occorre ricordare che anni dopo la dama bianca, amante di Fausto Coppi, fu arrestata e incarcerata per adulterio in fragranza.
Gli atleti italiani, Gino Bartali in testa, decisero di partire e compiere l’impresa. La tappa partiva da Cannes per giungere a Briancon, e prevedeva 5 salite. Sulla terza, il Col d’Izoard Gino Bartali decide di abbandonare l’umanità e di entrare in quella stretta cerchia di eroi. Il ciclista toscano non era solo. Un paese intero gravava sulle sue spalle. Partito con 22 minuti di ritardo giunse al traguardo con oltre 19 minuti di vantaggio su Bobet. In una sola tappa aveva recuperato quasi tutto lo svantaggio che lo separava dalla maglia gialla. Nei giorni successivi, come l’implacabile vento che spira da nord, distruggerà gli avversari e concluderà la rimonta. Il 25 luglio del 1948 Bartali giunge a Parigi da trionfatore.
“Ha vinto, Gino Bartali ha vinto la tappa.”
Le radio, aumentate di numero, raccontano le epiche gesta del ciclista toscano.
L’immobile paese abbassa le armi.
Togliatti, salvato dall'operazione al torce, esulta dal letto d’ospedale. 
De Gasperi e Andreotti possono sorridere.
Pio XII benedice l’avventura sportiva. 
Bartali ha compiuto un’impresa straordinaria, per sé stesso e per il paese tutto.
Dalla possibile rivoluzione all'esultanza sportiva.
In Piazza del Duomo a Milano, e nelle altre piazze d’Italia, comunisti e poliziotti, democristiani e carabinieri, popolazione civile e celerini si abbracciano.
I nostri nonni e i nostri genitori decisero scientemente di farsi salvare da quell'uomo che pedalava come mai nessuno prima di lui, e solo uno pelato con le orecchie a sventola dopo di lui.
Gli italiani rimandarono la rivoluzione alle generazioni successive.
La guerra civile non ci fu, rimane un tragico bilancio: 30 morti e 800 feriti.
Antonio Pallante fu condannato a 13 anni e 8 mesi di carcere, di cui ne scontò solo 5 grazie all’amnistia. Ripensando a quei giorni non possiamo dare torto a Winston Churchill quando sentenziava “Gli italiani perdono le guerre come fossero partite di calcio e partite di calcio come fossero guerre.
Per comprendere questa affermazione vorrei citare un articolo apparso, nei giorni seguenti la vittoria di Gino Bartali al Tour de France, sul Giornale dell'Emilia:"Quella sera alla Camera dei Deputati, disorientata, agitata, indignata per il delittuoso attentato di piazza Montecitorio, il clamore discorde fu placato dalla altissima voce di un deputato che gridava: “Attenzione! Una grande notizia. Bartali ha vinto la tappa e forse la maglia gialla. Viva l’Italia".

 Fabio Casalini

Fotografie
1- Gino Bartali al Tour de France del 1948
2- Palmiro Togliatti dopo l'intervento in seguito all'attentato
3- Gino Bartali al Tour de France del 1948
4- La prima pagina dell'Unità del 15 luglio 1948 

I protagonisti di questa vicenda
Mario Scelba - nel 1948 era Ministro dell’Interno
Alcide De Gasperi - nel 1948 era Presidente del Consiglio dei Ministri
Giulio Andreotti - nel 1948 era Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio
Gino Bartali - nel 1948 vince il suo secondo Tour de France.

"Cerchi delle Fate": megalitismo tra Alpi e Verbano

$
0
0

Sito megalitico di Croppola (Montecretese, Vco, V sec a.C?)
L’intera area collinare e montuosa che avvolge il bacino del lago Maggiore ha da sempre rivelato la presenza costante, sebbene in un certo senso sfuggente,  di tracce preistoriche  e protostoriche, anche notevoli, attribuibili a popolazioni legate da una comune radice etnica e culturale.
Scavi archeologici più o meno importanti, cerchi di pietre, massi incisi e coppellati (ossia scavati con fori circolari, forse riempiti con offerte liquide a base di latte, sangue, idromele o acqua) consacrati agli antichi dei pagani della natura costituiscono testimonianze remote, probabilmente lasciateci da civiltà genericamente ed enigmaticamente definite "celto-liguri".
Mappa delle tribù protoceltiche e celtiche in Italia centro-settentrionale
Piemonte, Lombardia e Canton Ticino: in queste terre d'ambito perilacustre spiccano il fenomeno  archeologico caratteristico del megalitismo e la“saxorum veneratio”, o magico culto delle pietre (dal greco mèga-grande e litos-pietra)
Sàss da Preja Buia (Sesto Calende, Va)
Chi desiderasse approfondire la storia dei Celti e di chi li precedette, prima o poi incorrerebbe sempre nel mito: mito da non interpretarsi come fiaba fine a se stessa, ma da rileggersi attentamente, al fine di scoprire tracce di verità nascoste tra le righe dell’immaginazione.
La mitologia irlandese cita spesso i Tuatha de Danann,tribù semi divina venuta dal nord del mondo conosciuto. Essi furono i primi ignoti colonizzatori; popoli dei megaliti e dei cerchi di pietre che al tramonto del loro tempo avrebbero trovato rifugio nei “sidh”: tumuli segnati da cerchi di pietre su antichi colli, che la tradizione agreste ha tramandato col nome gaelico di “cromlech”, o più semplicemente di “poggi delle fate”.
Tumulo megalitico di Bryn Celli Ddu (Galles, 3000 - 1800 a.C)
Col passare dei millenni il significato dei tumuli e dei cerchi di pietra fu obliato da tutti. Secondo le leggende medievali questi siti (fairy circles), insieme a quelli delineati in autunno dai funghi costituivano i luoghi per eccellenza dove le fate (in ambito gaelico e anglosassone) e le streghe (mediterraneo e alpino) danzavano nella notte durante i loro riti magici: luoghi da cui tenersi lontani, a rischio di incorrere in una maledizione, o perfino di essere catturati e rimanere prigionieri degli spiriti per l'eternità.
Anche i guerrieri di questi popoli dimenticati, sepolti sotto le colline, assunsero tratti soprannaturali, tali da essere qualificati come abitatori dell’oltre-mondo. Guardiani di tesori inestimabili e depositari di una dimensione onirica, gli spiriti degli antenati erano gli abitatori di un regno incontaminato dai mali dell’umanità e abitato da fanciulle che offrivano coppe colme di bevande magiche e altre primizie, per convincere i più meritevoli tra vivi a restarvi e accogliere il dono dell’immortalità. Essi sono i protagonisti di quello che il folklore irlandese chiama “piccolo popolo” e che fu reso sinistro e demoniaco dai predicatori cristiani.
Monumento equestre a Vercingetorige (Clermont-Ferrand)
Anche secondo Plinio il Vecchio, autore romano ma di sangue celtico (nacque a Como nel 23 d.C), tutto ciò accadde prima che gli uomini usassero violenza sul popolo della fate, rendendole per sempre invisibili. Da allora gli abitatori del bosco vivrebbero ancora relegati nel regno dell’ombra, un paradiso sotterraneo dove solo allo sguardo dell’iniziato è concesso scorgere qualcosa oltre la realtà percettibile.
Alimentato dalla rarità dei siti scampati alle distruzioni e al tempo, il mito che avvolge le origini del megalitismo indubbiamente si presta a generare misteri. Questi antenati vissuti tra età della Pietra e del Bronzo influenzarono l’immaginario dei primi popoli storici d’Europa, iniziandoli ai culti solari dell'oracolo Delfi e Stonehenge, e a livello locale, a quelli di Golasecca eMontecrestese.

Tomba di guerriero da Sesto Calende (Varese, Museo Archeologico, VI sec a.C)
Tra il IX e il VII secolo a.C in area prealpina si sviluppa una civiltà proto-celtica di transizione denominata “cultura di Golasecca”, in virtù del nome della prima importante località in cui furono scoperte ricche necropoli proto-celtiche, collocate in prossimità d Sesto Calende (Varese). In questa terra un tempo ricoperta di torbiere e aree paludose, il ritrovamenti di antichi corredi dell’aristocrazia guerriera come armi, armature e carri da battaglia ha portato alla scoperta degli usi e costumi di un popolo di lingua celtica dai tratti Halstattiani (dal nome dell’importante sito austriaco) stanziato in una terra a metà strada tra il mondo nordico e mediterraneo, le cui abitudini erano influenzate dalle tribù transalpine, dagli etruschi, dai liguri e dai paleoveneti. Le sepolture di questi popoli “celto-liguri” erano delimitate da cerchi o allineamenti di pietra definiti “cromlech”; la loro scrittura, che si avvaleva di caratteri etrusco-settentrionali, fu denominata con il neologismo di “leponzio” o “alfabeto di Lugano."
Stele di Prestino (Como, museo archeologico, V sec a.C)
L’addensarsi dei ritrovamenti relativi sia agli abitati, sia alle necropoli ha consentito di accertare, a partire dall’VIII secolo, la presenza di comprensori proto-urbani: grandi agglomerati di villaggi densamente abitati, a capo di un territorio, sorti in concomitanza con lo sviluppo di scambi commerciali a lungo raggio. Como, Golasecca e Castelletto Ticino, sedi fortificate di poteri aristocratici e attività artigianali specializzate, costituirono forti punti di riferimento per l’organizzazione di un ampio territorio da esse dipendente, in virtù del monopolio degli itinerari commerciali, in particolar modo fluviali e lacustri.
Carro della Ca' Morta (Como, museo archeologico, V sec a.C)
Spostiamoci a nord-ovest, al di là del lago Maggiore: in Ossola, terra di ritrovamenti megalitici. Fino a poco tempo fa gli studiosi, identificando nel muro di Arvenoloin valle Antigorio, impressionante per l’imponenza dei massi disposti uno sull’altro, il primo ritrovamento megalitico in val d’Ossola, mossero i primi passi verso nuove e sensazionali scoperte. Ricerche più recenti hanno dimostrato che l’intera vallata (Groppole di Mergozzo, Varchignoli, Croppola e Castelluccio di Montecrestese, alpe Veglia) fu coinvolta nel processo di colonizzazione agricola riconducibile all’attività megalitica.I terrazzamenti su cu si svilupparono le prime colture dell’area risalgono addirittura al III-II millennio a.C. Con l’estensione sistematica delle ricerche oggi è possibile indicare molti luoghi in cui le strutture costituiscono un’autentica tipologia da non sottovalutare.
Il mascherone di Dresio (Vogogna, Vco)
Queste popolazioni, stanziatesi in un’area abbastanza decentrata rispetto ai traffici commerciali del tempo, pur presentando una certa povertà dal punto di vista della cultura materiale, si erano specializzate nell’uso della pietra, da sempre abbondante in valle. Adattando la natura alle loro esigenze, senza bisogno di violarne la sacralità i “leponti”, come furono chiamati per distinguerli dai loro vicini, effettuarono notevoli riporti artificiali di terreno, terrazzarono interi crinali collinari favorevolmente illuminati dalla luce solare e li delimitarono per mezzo di muraglioni di pietre a secco.
Centri abitati? Non pare. Il mistero si infittisce nel constatare che Croppole e Castelluccio, i due siti oggetto del nostro studio, potessero non essere villaggi. forse anche per via della frana provocata dall'alluvione del 2000, gli scavi archeologici non hanno  rivelato ritrovamenti particolari.
Forse che,in una società dominata dalla bipolarità tra mondo degli uomini e quello degli dei, dall'aldiquà e dall' aldilà, (ossia il "sidhe" o mondo degli spiriti sotto la collina di tradizione gaelica) e da numerosi tabù connessi, la collina e i suoi boschi potessero delineare una geografia simbolica, una dimensione “altra” rispetto a quella costituita dal villaggio?
Ricostruzione di villaggio, Archeopark di Boario Terme (Bs)
Possibile. I siti di Croppole e Castelluccio I dovettero essere i luoghi in cui solo i “gutuàter”, i sacerdoti addetti alla custodia del santuario, avevano libero accesso. Qui la presenza del divino è  assicurata da strutture megalitiche e cerchi di pietre o pietre fitte. A Croppole un grande masso centrale indica l’altare del dio, di fronte al quale si dovettero celebrare riti propiziatori stagionali. Senza dubbio, il cerchio e il muraglione custodivano uno spazio sacralmente delimitato e accessibile soltanto allo “sciamano”. La piattaforma centrale è il cuore del santuario; non solo l’altare sacrificale, dove si compivano i sacrifici agli dei, bensì anche il centro della terra: il cosiddetto“axis mundi”  dove consumare i sacrifici e le offerte agli dei, in cerca del loro consenso.
Masso delle Croci, val Veddasca (Va)
L'unica datazione che i siti archeologici di Montecrestese ci consentono è legata alla funzione dei suoi megaliti e dai suoi menhir, non più legati al mondo dei cacciatori e raccoglitori di frutti spontanei, ma a quello più evoluto dell'agricoltura.
Il megalitismo, infatti si è diffuso con l'introduzione dell'agricoltura, legata a una "cerimonia dell'aratura rituale" che portava alla consacrazione di un’area: una richiesta agli dei che suggellava il permesso di disporre del loro terreno per vivervi e coltivarvi. Un atto preistorico con cui si stabilivano i confini della proprietà privata, ma anche di una futura città, chiamato “atto di fondazione”.
Questa pratica, riscontrabile in vicine aree megalitiche del Vallese e in Val d'Aosta, abbinata alla semina di denti umani, ricorda la cerimonia eseguita da Romolo antecedente la fondazione di Roma: un rito suggellato, con l'uccisione di Remo, da un sacrificio mirato a circoscrivere i confini sacri e inviolabili di un nuovo insediamento.

Marco Corrias


Bibliografia
AAVV - Alle origini di Varese e del suo territorio – L’erma di Bretschneider
AAVV - Archeologia in Lombardia
AA.VV - La civiltà di Golasecca: i più antichi Celti d’Italia – Dipartimento di Scienze dell’Antichità, Università degli Studi di Milano 2007
T. Bettamini, Storia di Montecrestese, Oscellana
M. A. Binaghi, I cromlech del Monsorino
R. Corbella, Celti: itinerari storici e turistici tra Lombardia, Piemonte, Svizzera, Macchione, Varese
R. Corbella, Magia e mistero nella terra dei Celti: Como, Varesotto, Ossola, Macchione, Varese
R. De Marinis, Liguri e Celto - Liguri in Italia. Omniun terrarum alumna, Garzanti - Scheiwiller
R. C. De Marinis, La civiltà di Golasecca: i più antichi Celti d'Italia
R. De Marinis, S. Biaggio Simona - I Leponti tra mito e realtà, 2000
A. Gaspani, Il grande cerchio di pietra degli antichi Comenses – Associazione culturale Terra Insubre
A. Gaspani, L’enigma delle strutture megalitiche della val d’Ossola – .N.A.F
B. Ragazzoni – L’uomo preistorico nella provincia di Como

La Fisica

$
0
0
I cunchè o palai della Vallestrona
Mio nonno raccontava.
Raccontava degli uomini di Valstrona che migravano per lavoro: erano palai, i cunchè, artigiani del legno. 
Uomini che fino agli inizi del Novecento lasciavano le loro case e le famiglie per lavorare nel torinese, in Francia e in Germania: la Magna.
Tra le loro vicissitudini anche storie che parlano di misteri e accadimenti inspiegabili o quantomeno strani,come l’episodio vissuto da uno di questi, emigrato nell’alessandrino.

Nel paesino che lo ospitava aveva rimediato una piccola stanza in una cascina ,per ripararsi durante i lunghi inverni di duro lavoro. Una porta malmessa dava direttamente sulla piazzetta del paese e da una finestrella, che faceva filtrare solo spifferi di freddo invece della luce del sole, poteva vedere la chiesa incorniciata dalle case d’intorno. Lì aveva sistemato un pagliericcio,un tavolo con i suoi miseri suppellettili ,una pentolaccia e poche stoviglie giusto per cucinarsi un po’ di minestra o la polenta. Sopra il letto l’unico fedele amico il suo fucile, muto ma pronto per le giornate che l’uomo passava nel bosco dove recuperava la legna per il suo lavoro e poteva cacciare qualche lepre o tordo.

Dopo la giornata lavorativa e la solita cena frugale era solito passare del tempo nell’osteria del paese,giocando a carte, scolandosi il solito bicchiere di vino tra una chiacchiera e l’altra.

Anche il parroco era solito passare un po’ di tempo nel locale annerito dal fumo del camino e del tabacco.
Il palaio non era una persona taciturna e manifestava apertamente le sue idee politiche in netto contrasto con quelle del prevosto, inoltre non frequentava la messa la domenica. Figurarsi se il prete, mosso dalla vocazione di salvare un’anima in più, non perse l’occasione per porre rimedio. Certo è che il metodo usato allora da alcuni preti non passava per il dialogo e la persuasione.

Una notte infatti il bravo artigiano si svegliò di soprassalto per un gran fracasso che avveniva proprio nella sua stanza. Ad un palmo dal suo viso si agitavano nell’aria pentole, coperchi, posate, scalpelli, battendosi contro l’uno all’altro in un “bataclàn”che durò per una decina d’interminabili minuti. Stropicciatosi gli occhi, incredulo, balzò seduto sul letto: non stava sognando, e non era nemmeno ubriaco. Nulla era servito a far cessare quella fastidiosa danza, solo ad un tratto tutto ritornò in silenzio con gli oggetti caduti a terra finalmente inanimati.

L’uomo pensieroso tornò a letto, non chiuse occhio quella notte, ne aveva passate tante ma una cosa del genere non l’aveva mai vista.

Nella sua memoria affioravano ricordi di storie già sentite … 

Per più notti fu vittima degli stessi avvenimenti e per nulla intimorito, immaginando di che cosa si poteva trattare, si decise a vegliare per capire meglio.
Abitanti di Massiola in Valle Strona

Rincasò dopo la serata all’osteria, aprì l’uscio ma fece finta di entrare e protetto dal buio riuscì a nascondersi dietro una catasta di legna dove aveva già sistemato il suo fucile.
Dopo qualche minuto infatti all’interno ricominciò il frastuono. I suoi occhi attenti e abituati al buio non scorgevano anima viva ne sulla piazzetta ne lungo le vie.
La sua attenzione fu catturata però da una strana figura che si agitava in cima al campanile.Senza pensarci due volte imbracciò il fucile e sparò. L’ombra sul campanile sparì e in quel preciso istante anche il silenzio cadde all’interno della stanza.
Andò a letto, sprofondando finalmente in un sonno senza interruzioni.
La mattina seguente fu svegliato dallo schiamazzo delle donne che urlavano e si agitavano: il prete era stato trovato morto,ucciso da un colpo di fucile!
All’uomo non rimase che fare fagotto e scappare.
Per ascoltare queste storie non serve andar troppo indietro nel tempo.
A Prata, piccola frazione di Vogogna, in Val d’Ossola nei primi del Novecento, viveva un giovane dalle dichiarate idee anticlericali, un senza Dio per la gente del posto che non cedeva ai continui rimproveri della famiglia, gente pia e devota.
Lui, la pecora nera della famiglia, era una vergogna di fronte all’intero paese, soprattutto per le sorelle che un bel giorno si decisero a chiedere aiuto al parroco per far prendere la retta via al fratello.
Anche in questo caso il prete non cercò un dialogo ma operò in altro modo.
La notte stessa, il giovane rincasando dopo una serata con gli amici trovò chi lo aspettava proprio davanti la porta della sua camera da letto. In quegli anni le camere ai piani superiori si raggiungevano tramite una scala esterna e proprio sul balcone si ritrovò davanti una figura dalle sembianze umane ma effimera, vaporosa e biancastra. Nonostante lo stupore fu deciso ad aprire la porta della camera ed una volta entrato la strana presenza svanì.
Qualche notte dopo lo stesso strano fatto si ripropose e il giovane si comportò allo stesso modo, fece finta di nulla e si coricò, riflettendo su ciò che continuava ad accadere. La mattina seguente a colazione aspettò le sorelle avendo intuito la loro parte nella vicenda e le ammonì duramente ordinando loro di avvisare il parroco che se avesse visto ancora qualcosa di strano nelle notti seguenti sarebbe andato direttamente da lui armato di pistola.
Guarda caso da quella stessa notte non ci furono più episodi apparentemente inspiegabili.
Di storie come queste vi è ancora l’eco, dalle valli alpine fino alla pianura piemontese dove la capacità di usare arti magiche non era prerogativa solo delle strie, o masche, e di stregoni bianchi ma anche d’alcuni preti.
I fenomeni che erano prodotti tramite queste capacità erano indicati nel folklore piemontese con il nome di “fisica”.
Va ricordato che non furono rari i processi contro esponenti del clero accusati di pratiche esoteriche, processati e alcuni portati fino al rogo durante il periodo dell’Inquisizione.
Cerchiamo ora di capire meglio cosa s’intende con il termine “Fisica”.
Nel linguaggio popolare piemontese si identifica l’energia usata per scatenare prodigi, provocare lampi violenti, bagliori, provocare incendi che non ardevano, far piovere sassi, combinare scherzi e spaventare il prossimo evocando spiriti, facendo apparire fantasmi, casse da morto sugli alberi, far apparire animali come capre o maiali, far vedere scene irreali o cose mostruose, e come descritto sopra anche dar vita ad oggetti inanimati.
La Fisica era qualcosa di sinistro,di incomprensibile ma magicamente potente e insondabile, l’arte sconosciuta tramandata con i metodi che vedremo più avanti, a volte indicata come “l’Opera”. Come suggerisce il termine stesso si ha l’idea di fenomeni che vengono creati tramite il mondo naturale e spirituale, neutrali dalla condizione del bene e del male per cui è l’operatore stesso che deve farsi carico della responsabilità del suo atto. Quindi il curato che possedeva questo potere viveva in un confine tra stregoneria bianca, ovvero il potere di curare i mali anche fisici e togliere malefici con stessi ingredienti e unguenti della medicina popolare, e magia nera compiendo prodigi soprannaturali, diventando un mediatore dell’occulto.
Il prete diventa quindi una persona da temere e riverire,che dispensa consigli,metteva ordine nella comunità,conosceva pregi e difetti dei fedeli, in funzione anche dell’ignoranza della comunità contadina rispetto le conoscenze da lui possedute, viste appunto come materia occulta.
Ad alimentare la tradizione che poneva il prete in relazione con l’esoterismo erano anche le accuse dirette ad alcuni religiosi che avrebbero diffuso idee eretiche, soprattutto nelle valli alpine, più lontani e protetti dal controllo di vescovi e delegati.
Proprio in questi luoghi di difficile accesso alcuni parroci venivano descritti come figure ambigue, che portavano sempre con se carte da gioco sporche e consumate mentre il breviario restava pulito e sempre nuovo.
Si può portare come esempio di tale personaggio il primo curato di Massiola in Valstrona: Giovanni Caserio. Originario del torinese, mandato nel paesino di montagna dal vescovo Bascapè nel 1596.
Nei documenti trovati in parrocchia si trova scritto di come il vescovo più volte mandò “grida”, ovvero missive, per ammonire le pratiche del curato arrivato addirittura ad aprire un’osteria e a gestirla personalmente, giocando le carte, ad azzardo e prediligendo l’uso dei tarocchi per divinare il futuro soprattutto alle donne invece di preoccuparsi di predicare e indottrinare i suoi parrocchiani.
Si diceva che l’arte della Fisica fosse raccolta nel “Libro del Comando”con il quale si indicava un volume che raccoglieva formule magiche e segrete, il più delle volte scritte a mano e in latino di modo che solo chi istruito potessero leggerne il pericoloso contenuto, formule che se pronunciate correttamente potevano anche evocare demoni ottenendo il loro aiuto per compiere misfatti.
Il Libro del Comando sarebbe stato fornito proprio da un demone ad un suo seguace per poter piegare le forze della Natura al suo volere.
Nelle campagne alessandrine per indicare il fenomeno di queste pratiche si usava dire “battere la fisica”,dando al termine battere il senso di oltrepassare,superare il limite tra la fisicità delle cose terrene e visibili e il regno dell’invisibile.
“Battere” anche come potere sulle cose naturali poiché con la pratica delle arti magiche s’intende la volontà di “piegare la Natura” per provocarne diversi fenomeni, oppure deformandola o trasformandola in qualcos’altro.
Altro significato che si può dare a questo termine è quello del semplice battere, picchiare colpi sulla terra con il “bastone del comando”, oggetto di potere e di forte simbologia nel mondo della Fisica piemontese. Oggetto che si potrebbe rifare alla cultura druidica o alla bacchetta magica.
In alcune zone si raccontava di come le streghe in punto di morte erano obbligate ,per poter lasciare questo mondo,a buttare tra le vie il loro bastone di modo che qualcuno lo raccogliesse.
Infatti le masche dovevano lasciare l’oggetto che aveva raccolto tutto il loro potere in eredità;questo oggetto poteva consistere in un gomitolo, in un mestolo, nella scopa, nel proprio libro del comando e appunto nel bastone. Ogni oggetto aveva la proprietà di passare direttamente il potere della strega morente alla persona che ne entrava in possesso. A volte la strega sceglieva essa stessa la persona che riteneva più adatta a ricevere il suo potere ma accadeva anche che per motivi ordinari, come nel caso dell’estrema unzione, che l’eredità esoterica veniva raccolta da un prete.
Con “la Fisica” quindi ci si può addentrare in un mondo pieno di significati e di simbologie, non solo un termine per indicare l’oggetto di racconti più o meno misteriosi, rendendomi conto di quanto i nostri avi sapessero esprimere nella semplicità delle loro espressioni parlate.

Barbara Piana


Bibliografia:
Gian Battista Beccaria - “Massiola tra Cinque e Seicento” – Note e documenti per una storia dei primi cinquant’anni della parrocchia di S.Maria di massiola.- Associazione storica massiolese
Danilo Arona–“Battere la Fisica” 
Massimo Centini –“Creature fantastiche” fate ,folletti,mostri e diavoli.Viaggio nella mitologia popolare in Piemonte Liguria e Valle d’Aosta – Priuli & Verlucca 

Un biglietto per il Cile

$
0
0
Il 15 maggio del 1984 Walter Rauff muore, stroncato da un tumore ai polmoni, in Cile, paese che gli concesse riparo dopo la fine della seconda guerra mondiale. 
Walter Rauff fu l’inventore dei camion a gas. La sua idea costò la vita a non meno di 100.000 ebrei durante la dominazione nazista della seconda guerra mondiale. 
La prima domanda che sorge spontanea riguarda il luogo della sua morte: perché in Cile?
La seconda domanda: come mai non fu processato a Norimberga?
Troveremo insieme le risposte in quest’articolo, non sempre saranno facili da sopportare.
Rauff fu funzionario del Ministero della Marina Tedesca sino al 1937. L’anno seguente fu arruolato nelle file delle SD, i servizi segreti delle SS comandate da Heydrich, per poi passare a comandare un dipartimento della polizia criminale nazista.
I gaswagen, camion a gas, furono utilizzati già negli anni trenta per eliminare fisicamente i condannati delle grandi Purghe: con questo termine s’intende una vasta repressione avvenuta nell’Unione Sovietica di Stalin durante la seconda metà degli anni trenta.
Nella Germania nazista i camion a gas erano prodotti da imprese quali la Diamond o la Opel Blitz. Il funzionamento era semplice: il camion era sigillato internamente e il cassone, in cui era fatto confluire il gas di scarico del motore, funzionava come una camera a gas, uccidendo le persone stipate al suo interno grazie all’azione del monossido di carbonio.
La crudeltà nazista non aveva limiti: i prigionieri comprendevano con largo anticipo la sorte che li attendeva oltre la porta poiché questo tipo di camion necessitava di notevole e continua manutenzione, e la stessa era affidata a quelle povere persone abbandonate da tutti.
Uno dei primi utilizzatori di questo strumento atto alla soluzione finale fu Robert Mohr, comandante delle SS. Alla sua unità che operava nei pressi di Donec’k, all’epoca Stalino, furono assegnati diversi Gaswagen.
Il vero protagonista di questo strumento del male fu Walter Rauff. Nel campo di sterminio di Chelmno, in tedesco Kulmhof, in Polonia erano attivi diversi Gaswagen. In un archivio delle SS fu ritrovato un documento che recita: « Nel giro di sei mesi, tre di questi camion hanno trattato 97.000 pezzi senza inconvenienti di sorta.»
Ricordo che a pieno carico i camion della morte contenevano 150 adulti e 200 bimbi.
Dopo l’esperienza in Polonia, dove fu stretto collaboratore di Himmler, Rauff fu inviato in Tunisia. Nel 1943 fu chiamato da Himmler per ricoprire un incarico in Italia Settentrionale, esattamente a Milano come ispettore per la Lombardia, il Piemonte e la Liguria. Sempre nel 1943, il 13 settembre, ordinò di iniziare a rastrellare gli ebrei a Baveno, Arona e successivamente a Meina, dove accadde l’episodio più noto: sedici ospiti dell’albergo Meina furono identificati e trattenuti per alcuni giorni in una stanza e poi, in due notti successive, il 22 ed il 23 settembre, uccisi e gettati con zavorre nel Lago Maggiore. Altri rastrellamenti avvennero nei giorni seguenti a Mergozzo, Stresa e Novara. L’ordine partì con una telefonata da Milano, dalla viva voce di Walter Rauff. Nello stesso anno Karl Frederich Otto Wolff fu nominato Governatore Militare e Comandante supremo delle SS e della polizia dell’Italia settentrionale. Da qui in poi il destino di questi due uomini s’intreccia con quello di personaggi di rilievo della scena politica internazionale.Il 10 maggio del 1944 Wollf fu ricevuto da Pio XII, su intercessione della principessa Virgina Bourbon del Monte, coniugata Agnelli, madre di Gianni. Il rapido capovolgersi della situazione, a sfavore della Germania, consigliò ai comandanti nazisti di cercare contatti con i prossimi vincitori per assicurarsi una via d’uscita.
Siamo a conoscenza del colloquio grazie alla testimonianza di Wolff nel processo di beatificazione di Pio XII. Wolff dichiarò a Pio XII l’intenzione di Hitler di rapire il Papa per vendicarsi degli italiani e, conoscendo la mania del demonio per le reliquie cristiane, per prelevare gli archivi pontifici e i tesori d’arte. L’occasione fu propizia per organizzare la resa d’alcuni comandanti nazisti all’insaputa dell’altissima gerarchia tedesca. Gli accordi tra Wolff e Pio XII non sono mai stati resi pubblici.
Per maggiore informazione riporto uno stralcio della testimonianza resa da Wolff durante il processo di beatificazione di Pio XII: «[...] il Papa mi disse che naturalmente non era facile sondare in modo concreto il terreno circa la possibilità di trattative di pace. La principale difficoltà consisteva nel fatto che, da parte degli alleati, esisteva un atteggiamento non solo antinazionalsocialista, ma in parte anche antitedesco, anche nel senso di un pregiudizio, che doveva anzitutto essere superato, cosa che richiedeva tempo. Egli mi disse che calcolava su di un termine di circa quattro settimane..[...] »
Nell’ottobre del 1944 Wolff iniziò i contatti con i comandi partigiani per il possibile ritiro delle truppe tedesche in Italia. Nella primavera del 1945 incontrò anche Alle Dulles, capo del servizio segreto statunitense, ed il generale Airev, inglese. Nell’aprile di quell’anno Wolff negoziò la resa con gli alleati di tutte le forze tedesche operanti in Italia.
In guerra tutto è possibile.
Wolff era un convinto e fervente nazista, fedelissimo di Hitler. La sua iniziativa era condotta per evitare una condanna personale per crimini di guerra. Gli incontri con Pio XII e Dulles salvarono la vita a Wolff, poiché non fu incriminato nel processo di Norimberga grazie all’intervento del capo dei servizi segreti statunitensi.
Abbandoniamo Wolff e seguiamo gli spostamenti di Rauff a Milano.
Nel 1943 i nazisti requisiscono l’albergo Regina & Metropoli per stabilire il quartiere generale delle SS e della Gestapo. La struttura fu trasformata in un «centro di sequestri, interrogatori e tortura per antifascisti e cittadini non appartenenti ad organizzazioni resistenziali».[1]Da questo luogo furono organizzati tutti i trasferimenti per i viaggi di deportazione dal binario 21, della Stazione Centrale di Milano, sotto il comando di Theodor Saevecke, il boia di Piazzale Loreto. Utilizzo le parole del saggista Cavallarin «dal mattatoio dell’albergo Regina i catturati – ebrei, partigiani, antifascisti o sospettati – venivano avviati al carcere di San Vittore, in alcuni casi direttamente ai trasporti dal Binario 21 della Stazione Centrale di Milano per essere deportati. Una struttura quindi molto simile a quella romana di via Tasso, a quella torinese dell’Albergo Nazionale, a quella parigina dell’Hotel Lutetia».[2]
Walter Rauff in quel periodo reggeva il Comando Interregionale Piemonte, Lombardia e Liguria.
Fin dai primi giorni in cui è in Italia, Rauff compie numerosi viaggi a Roma, dove incontra monsignor Alois Hudal, il vescovo del male, guida della comunità dei cattolici tedeschi. Grazie alla sua astuzia ed alla paura dell’avanzare del comunismo, Rauff riesce a mettere in piedi una rete di basi, complici e rifugi, che da Genova arriva a Roma e Bari.
Il 3 aprile del 1945 Monsignor Giuseppe Bicchierai consegna a Rauff un memorandum dove si offre la mediazione della Chiesa, da trasmettere a Wolff e Dolmann. Il 29 aprile di quell’anno entrarono in città le prime avanguardie della V armata degli Stati Uniti. Le SS erano trincerate all’albergo Regina, disponibili alla resa esclusivamente nelle mani delle truppe alleate. Il comando Generale del corpo volontari della Libertà, che aveva il controllo di Milano, nell’intenzione di evitare altri spargimenti di sangue partigiano e distruzione d’edifici, ordinò di non attaccare l’albergo ma solo di circondarlo. Il giorno seguente le SS abbandonarono la struttura, protetti da mezzi corazzati americani, sotto la minaccia delle armi puntate dei partigiani.
Rauff e Wolff trascorsero una notte sola da reclusi. Il giorno seguente, grazie all’intervento di Monsignor Giuseppe Bicchierai, collaboratore del cardinale Schuster, Wolff fu ricoverato in un ospedale in Svizzera.
Rauff consegnò alle forze alleate un tesoro d’informazioni sulle attività nazi-fasciste.
A Milano la confusione è al colmo, il gerarca nazista grazie ai suoi intrighi riesce ad ottenere una nuova identità: si chiamerà Carlo Conte, cittadino svizzero. Rauff dopo le 24 ore trascorse a San Vittore è consegnato in custodia ad un prete che lo accompagna all’ospedale militare di Milano, quindi giunge a Ghedi, in provincia di Brescia, dove è installato un campo di prigionia. Ad attenderlo vi è uno dei capi del movimento partigiano di liberazione, noto come Luvomi, che accetta il baratto proposto dal gerarca nazista: incolumità per tre mesi in cambio di molte informazioni sulle attività fasciste. A Ghedi riesce a far liberare una dozzina di ex agenti del SD che faranno parte dell’organizzazione delle vie di fuga. Grazie all’intercessione del vescovo Hudal, a Genova incontra monsignor Giuseppe Siri, Papa per una notte con il nome di Gregorio XVII, il tutto con la protezione dei partigiani.[3]
Alla fine del 1945 la via romana è messa a punto: dalla frontiera Italo-Svizzera e dai passi del Brennero e di Resia, i fuggiaschi sarebbero passati a Milano, quindi via Genova fino a Roma, dove si sarebbero nascosti nei conventi ed alloggi segreti, in attesa della partenza per l’America Latina. Uno dei collaboratori più zelanti è padre Krunoslav Draganovic, bosniaco e fervente fautore dell’unificazione fra bosniaci e croati, amico del famigerato Ante Pavelic.
Draganovic e Pavelic saranno protagonisti dei prossimi articoli.
Walter Rauff, stabilitosi a Genova nel frattempo, lascia la città ligure nel 1949 con moglie e figli alla volta del Cile, dove fu nominato ad honorem dirigente della polizia segreta cilena durante la dittatura di Pinochet. Nel 1955 fu individuato in Cile grazie alla sua richiesta di pensione di guerra inoltrata a Dusseldorf. Il funzionario che la ricevette fu insospettito dalla provenienza della richiesta. Andò così a cercare un fascicolo, che trovò. Passarono otto anni prima che la procura di Hannover si decidesse a fare qualcosa verso il commando che gestiva il campo di concentramento di Kulmhof in Polonia. Dalle prime indagini emerse il nome di Rauff, che all’epoca era braccio destro di Himmler. Era il 1963, i termini per la richiesta d’estradizione dal Cile di 10 anni erano ormai decorsi.
Bisognerà attendere il 15 maggio del 1984 per vedere la fine della vicenda, che avrebbe dovuto concludersi il 16 ottobre del 1946, data delle impiccagioni dei gerarchi nazisti processati a Norimberga per crimini di guerra.
Un riferimento alla Bibbia è doveroso:« se tu ascolti la sua voce e fai quanto ti dirò, io sarò il nemico dei tuoi nemici e l’avversario dei tuoi avversari.»[4]
Hanno voluto ragionare secondo la logica il nemico del mio nemico è mio amico: anche i gerarchi nazisti, che avevano ucciso milioni di persone innocenti, divennero amici pur di fronteggiare l’avanzata comunista.

Fabio Casalini


Bibliografia 


Brissaud, Andrè. Le grandi purghe di Mosca. Ginevra, Edizioni Ferni, 1973.

Campolieti Giuseppe. Le sante bugie: fatti e misfatti della chiesa dei papi. Edizioni Dedalo.

Cavallarin G. Marco. Nuovi Albergo "Regina & Metropoli" Via Santa Margherita Ang. Via Silvio Pellico, Milano, 13 settembre 1943-30 aprile 1945 - La Storia raccontata da una lapide. Nuovi Autori Editrice


Colton Timothy. Moscow: Governing the Socialist Metropolis. Belknap Press, 1998.


Dollmann Eugen, Roma nazista, Longanesi, 1951

Gaja Filippo. Il Secolo Corto. La Filosofia del Bombardamento. La Storia da Riscrivere. Maquis editore, 1994 

Merridale Catherine. Night of Stone: Death and Memory in Twentieth-Century Russia. Penguin Books, 2002

Nozza Marco. Hotel Meina - la prima strage di ebrei in Italia. Il saggiatore, 2008

Pace Giovanni Maria. La via dei demoni. Sperling & kupfer, 2000.

Petacco Arrigo. Nazisti in fuga. Mondadori, 2014

Phayer Michael. Il papa e il diavolo. Newton Compton Editori, 2000

Roggero Roberto. Oneri ed onori: le verità militari e politiche della guerra di liberazione in Italia. Greco & Greco editori. 2006

Fotografie
1- Hotel Regina & Metropoli i giorni della resa nazista
2- Karl Frederich Otto Wolff
3- Papa Pio XII
4- Walter Rauff il giorno della resa



[1]Cavallarin G. Marco. Nuovi Albergo "Regina & Metropoli" Via Santa Margherita Ang. Via Silvio Pellico, Milano, 13 settembre 1943-30 aprile 1945 - La Storia raccontata da una lapide. Nuovi Autori Editrice
[2]Cavallarin G. Marco. Nuovi Albergo "Regina & Metropoli" Via Santa Margherita Ang. Via Silvio Pellico, Milano, 13 settembre 1943-30 aprile 1945 - La Storia raccontata da una lapide. Nuovi Autori Editrice
[3] Roggero Roberto. Oneri ed onori: le verità militari e politiche della guerra di liberazione in Italia. Greco & Greco editori. 2006
[4] Libro dell’Esodo, capitolo 23 versetto 22

Montecrestese, enigmatica Micene ossolana

$
0
0


Camera voltata a falsa botte dal sito archeologico di Castelluccio I (Montecrestese)
Sospeso a metà strada tra leggenda e realtà, lo storico greco Erodoto narrò di una terra ai confini del mondo allora noto, chiamata "Iperborea”, dove il dio Apollo usava trasferirsi come ospite per 6 mesi l’anno, al fine di ammirarvi un sole che non tramontava mai. I suoi abitanti, ignari della discordia, delle malattie e perfino della morte stessa, vivevano nel fitto di boschi sacri dedicando riti in onore del dio-Sole, loro ospite. Fu così che il termine greco “iperboreo”, attribuito agli indigeni del nord Europa, assunse il significato di “felice”.
Come abbiamo visto, anche l’archeologo che si imbatta nel mito non deve sottovalutarlo come fosse una fiaba, ma interpretarlo come un’antica pergamena e leggervi tra le righe.
Non a caso, nel corso dell'anno il solstizio ricorre due volte: quando il sole raggiunge il suo valore massimo di declinazione positiva (giugno, solstizio d'estate) e negativa, in dicembre (solstizio invernale, Yule). Nel periodo del solstizio d’estate il potere di Apollo si affievoliva, in quanto il dio solare si recava a settentrione del mondo lasciando i popoli mediterranei nella tenebra.
Gruppo scultoreo con Apollo e le sue ancelle
Letteralmente il termine “iperborei”, coniato dagli stoici greci, significa "coloro che vivono oltre (hyper) il vento di settentrione (Borea): il riferimento va a un popolo stanziato in una terra lontanissima situata a nord della Grecia (Danubio, Urali…e anche presso le sorgenti dell’Eridano, ossia del fiume Po!).
Questa rilettura, operata da Erodoto sui miti pur sempre indoeuropei ma ritenuti "barbarici", costituisce una pallida ma preziosa testimonianza di popoli di probabile provenienza settentrionale:  la stessa figura di Apollo celava i tratti di Belenos, lo splendente dio solare dei Celti.
Masso preistorico con sciamano inciso: scoperta inedita dello scrivente
Nei tempi in cui il cielo era creduto vicinissimo agli uomini, il grande masso che penetrava nelle viscere della terra era il luogo adibito a punto d’unione tra la sacralità celeste e quella tellurica: quasi uno sposalizio fra Terra e Cielo che, col tramite del sacerdote, consentiva la comunicazione con gli dei, (se non addirittura, il passaggio da una regione cosmica all'altra da parte di un iniziato.) Secondo alcuni popoli asiatici le stelle erano le finestre del mondo: aperture create per comunicare con gli dei.
Lago Maggiore poco dopo il tramonto. Sponda piemontese vista da quella lombarda
Cerchi di pietre e pietre-fitte: aree d'accesso privilegiato ed esclusivo del gutuàter”, il sacerdote addetto alla custodia del santuario.
All’interno di un rinnovato sistema sociale organizzato su base tribale e fondato su un’autorità religiosa importante, le nuove tecniche agricole richiedevano la necessità di un sistema calendariale: in tutta Europa, grazie una “meridiana astronomica” di pietra e ai relativi “esperti”, era possibile calcolare previsioni per una conoscenza più approfondita dei mutamenti metereologici, stagionali e uno sfruttamento più efficace delle colture. Tali attività si legano ai riti di fertilità.
Tipici vitigni terrazzati di montagna
A proposito dei rari e preziosi siti megaliti situati presso Montecrestese, ai piedi dei monti ossolani (Vco), fino ad ora gli archeologi hanno identificato nell'area ben 15 strutture, non ancora tutte adeguatamente studiate. Attraverso lo studio delle caratteristiche ricorrenti dei due siti più noti, ossia Croppola e Castelluccio I da cui, forse anche per via della frana provocata dall'alluvione del 2000, non è emerso alcun elemento che permetta la datazione e la destinazione: in assenza di materiali che indichino la presenza umana (cocci, utensili, ossa umane e animali) ossia di fossili-guida che rendano possibile la datazione, ogni ipotesi è possibile ma non dimostrabile.

Limitiamoci ad interpretare ciò di cui disponiamo: leggiamo le pietre e la loro posizione.
Colline terrazzate di origine preistorica dell'Ossola (Copiatti - De Giuli 2003)
La collina stessa, fotografata in inverno, svelerà un sistema di complessi terrazzamentiquadrangolari simili a quelli dei vitigni, disposti lungo tutto il crinale in serie, digradanti e in posizione ortogonale rispetto ai monti affacciati ad ovest: si tratta di un'opera imponente, realizzata per certo durante un lungo arco di tempo.
I terrazzamenti stessi furono delimitati e rafforzati da grandi muraglioni di pietre, nelle cui pareti di pietre a secco sono state ricavate delle cavità: camere coperte a falsa volta, a creare ambienti dotati di aperture verso l'esterno, dalla soglia trapezoidale. La presenza, di fronte a tali muraglie, di gruppi di grossi blocchi di pietra infissi verticalmente nel terreno (menhir) indica che tali luoghi furono osservatori astronomici destinati al culto.  
Sito archeologico di Croppola (Montecrestese)
Il prospetto del sito di Croppola mostra un cerchio di pietre (attualmente un semicerchio) forse anticamente crollato. In questo caso, i menhir in questione sono monoliti di forma allungata (80-140 cm) privi di coppelle e decorazioni che, infissi verticalmente nel terreno e disposti ad arco, descrivono un'ellissi irregolare rispetto di un ipotetico centro: il masso-altare.
Menhir dal sito archeologico di Castelluccio I (Montecrestese)
Anche i menhir posti sul terrapieno superiore del sito di Castelluccio I, collocati sul bordo della struttura muraria a secco, non si trovano lì senza scopo: considerando il luogo dove le strutture sono state edificate, cioè una stretta valle, la scelta del  sito non dovette essere casuale, ma voluta e cercata per il suo particolare orientamento solstiziale.
I menhir di Croppola e Castellucciocostituivano osservatori astronomici, eretti al fine di delineare appositi punti di stazione: essi definivano un certo numero di linee astronomicamente significative, connesse con i punti di tramonto del sole nei giorni dei solstizi e degli equinozi, lungo un'periodo di tempo esteso dall’età del Bronzo in poi.
Castelluccio I, sezione del sito (Due Passi nel Mistero, 2011)
Ricordandoci, a tal proposito, che il sole sorge ad est e tramonta ad ovest, e che anche le strutture murarie del sito di Castelluccio I sono allineate in modo da essere ortogonali, ossia perpendicolari (ad angolo retto) alla direzione del tramonto del sole al solstizio d'inverno lungo la linea dell'orizzonte rappresentato dalle montagne sullo sfondo: aCastelluccio, le 12 pietre fitte disegnavano altrettante linee astronomiche significative.
Una di queste linee va a coincidere con l'asse dell'ingresso alla camera a falsa volta praticata nel muro megalitico alle spalle dei menhir, proprio allo scoccare del solstizio d’inverno. Ciò vuol dire che in quel giorno i raggi del sole che tramontava illuminavano l'interno della camera alle spalle del menhir.
La fonte della Mojenca (Co) presenta affinità con le camere voltate a botte di Montecrestese
Considerando che un fenomeno analogo si verifica anche presso la nicchia pietrosa della sorgente captata della Mojenca presso il parco archeologico comasco della Spina Verde,anche in questo caso sarebbe affascinante interpretare le stanze a volta, rischiarate da un raggio al tramonto per il breve periodo del solstizio invernale (13 gennaio nel 3000 a.C. / 26 dicembre nel 500 a.C.), come caverne cosmiche: nicchie votive, rappresentazioni simboliche del ventre della Madre Terra.
Il solstizio, dal latino “sol-sistere” (fermarsi), in astronomia è il momento in cui il sole raggiunge, lungo l'eclittica (ossia nel suo moto apparente), della durata di un anno, il suo periodo di maggior declinazione massima o minima.
La declinazione astronomicaè una coordinata equatoriale che serve a misurare la declinazione: positiva per i punti a Nord dell'equatore, negativa per quelli a sud.
Inverno il val d'Ossola
Sono molte le interpretazioni di “Yule” o solstizio d’inverno: un rito che implica morte, trasformazione e rinascita.
Quando l'anno volgeva al termine, le notti si allungano e le ore di luce erano sempre più brevi, era il momento dell'anno che i popoli primitivi percepivano come più drammatico e paradossale.
Se il Sole era un dio, il diminuire della sua forza era considerato come declino e decesso: una fase di tenebra e morte della natura solo apparente.
Nel momento stesso del suo trionfo, infatti, l'oscurità cedeva già il passo alla luce che lentamente iniziava a prevalere sulle brume invernali.
I raggi del solstizio invernale al tramonto ritualizzavano il momento in cui si consumano le nozze tra il dio del Sole Belenos e la dea della fertilità Belisama: l’amplesso cosmico tra il giorno più breve e la notte più lunga dell’anno inaugurava il ritorno alla vita: il dio del Sole era già sulla via del ritorno a casa.
Moto est-ovest del sole su Montecrestese durante il solstizio invernale (Lavoro dell'autore su Google Earth)
O forse che il vecchio sole, reinterpretato come un re oscuro, morisse, sostituito da un sole bambino che nasceva all'alba dal ventre della Madre Terra? Il Cristianesimo avrebbe reinterpretato queste credenze, per farle proprie.
In ogni caso, il dio del Sole era legato inevitabilmente al mondo vegetale, che con lo sviluppo dell'agricoltura si trasferì dalla vegetazione selvatica alla coltivazione di cereali. Al ritorno del Sole era infatti legato anche il miracolo della rinascita del grano, che probabilmente cresceva sulla pianura antistante la collina di Montecrestese.
Campi di grano (Warwickshire, Inghilterra)
Pianta sacra del solstizio d'inverno è il vischio, le cui bacche lucide e bianche ricordano il fluido maschile; una pianta considerata discesa dal cielo, figlia del fulmine, emanazione divina. L'unione magica tra la pianta del vischio e la quercia, albero sacro dell'eternità, rigenerazione e di immortalità.
Bacche di vischio 
La presenza in una terra di mezzo di fenomeni di sincretismo culturale, dovuto al contatto con le popolazioni liguri di ed etrusche, ha anche visto probabili ipotesi.
Il vischio, pianta rampicante, porta con sé significati simbolici analoghi a quello della vite, pianta sacra a Dioniso, a sua volta diede la vegetazione prima ancora che del vino.
Da tutto ciò si potrebbe ipotizzare che, sebbene l'orientamento non sia particolarmente favorevole alla coltura della vite, in quanto altrimenti esposta al sole solo durante la seconda metà della giornata, questi terrazzamenti potrebbero essere stati ugualmente adibiti a vigneti sacri.
Non per nulla anche Dioniso, dio della vite e dell’edera sempreverde, fu dio dell’immortalità.
Vitigni montani

Testo: Marco Corrias (alias Marc Pevèn)

Foto: (1-6-7-9-11-12 dell'autore /  2-4-13-14 Wikipedia / 5 Copiatti Poletti Ecclesia / 8, Due Passi nel Mistero)


Bibliografia
AAVV - Alle origini di Varese e del suo territorio – L’erma di Bretschneider
AAVV - Archeologia in Lombardia
AA.VV - La civiltà di Golasecca: i più antichi Celti d’Italia – Dipartimento di Scienze dell’Antichità, Università degli Studi di Milano 2007
T. Bettamini, Storia di Montecrestese, Oscellana
M. A. Binaghi, I cromlech del Monsorino
R. Corbella, Celti: itinerari storici e turistici tra Lombardia, Piemonte, Svizzera, Macchione, Varese
R. Corbella, Magia e mistero nella terra dei Celti: Como, Varesotto, Ossola, Macchione, Varese
R. De Marinis, Liguri e Celto - Liguri in Italia. Omniun terrarum alumna, Garzanti - Scheiwiller
R. C. De Marinis, La civiltà di Golasecca: i più antichi Celti d'Italia
R. De Marinis, S. Biaggio Simona - I Leponti tra mito e realtà, 2000
A. Gaspani, Il grande cerchio di pietra degli antichi Comenses – Associazione culturale Terra Insubre
A. Gaspani, L’enigma delle strutture megalitiche della val d’Ossola – .N.A.F
B. Ragazzoni – L’uomo preistorico nella provincia di Como

Tra fuoco e terra ecco il miracolo

$
0
0
La morte di un neonato è un fenomeno biologico che comporta forti, ed importanti, implicazioni sociali e culturali per tutte le popolazioni. La diffusione del Cristianesimo, in Europa Occidentale, ha contribuito a rendere omogenee le pratiche funebri. L’avvento della nuova religione comporta una radicale modifica delle credenze sino allora esistenti in Europa.
Il diffondersi del sacramento del battesimo crea un problema in relazione ai bimbi nati morti. Nascendo morto non riceve il battesimo, motivo per il quale non può accedere al mondo dei giusti. Dobbiamo effettuare un passo indietro nel tempo, per comprendere l’importanza di questo sacramento nella religione cristiana.
Il Santo Battesimo è il fondamento di tutta la vita cristiana, è la porta che apre l’accesso agli altri sacramenti. Mediante il Battesimo, il cristiano, è liberato dal peccato e rigenerato come figlio di Dio, diventa membra di Cristo; è incorporato nella chiesa e reso partecipe della sua missione. [1] 
Il Battesimo può definirsi il sacramento della rigenerazione cristiana mediante l’acqua e la parola.[2]
I genitori potevano, a fatica, accettare la morte prematura del figlio, ma non la sua esclusione dalla comunità cristiana.
Da cosa deriva questa paura?
Possiamo ritenere che alla base di questa, complessa, paura della morte vi sia l’idea che solo nella Chiesa vi è salvezza e solo con il battesimo si entra nella chiesa. Questo terrore era accentuato dal fatto che il bimbo, non battezzato, non poteva essere sepolto in terra consacrata.
Il pensiero che si diffonde, nelle menti dei genitori, attiene al fatto che i bambini nati morti, o mai nati, erano condannati all’inferno poiché non battezzati. La tristezza nel cuore dei genitori era infinita. Non vi era sollievo a questo dolore. Soffrivano per la perdita dell’amore della propria vita e, consapevolmente, ritenevano di non poter trovare il proprio piccolo nell’aldilà. I genitori sapevano che, neppure dopo la morte, si potevano ricongiungere con il proprio bimbo. Queste paure trovano fondamento nella teologia, in particolare nelle parole di sant’Agostino, il quale affermava che le anime dei bambini morti senza battesimo erano condannate all’inferno. Per correttezza d’informazione riporto la completa affermazione di Sant’Agostino:
E’ dunque giusto dire che i bambini che muoiono senza il battesimo si troveranno nella condanna, benché mitissima a confronto di tutti gli altri. Molto inganna e s’inganna chi insegna che non saranno nella condanna.”
Le parole del santo, nato in Numidia, nell’Africa Settentrionale, sono durissime. Nel suo combattere il male il santo racconta, durante la lettura di un sermone, un fatto che diverrà fonte per la giustificazione dello svolgimento del rito del ritorno alla vita dei bimbi nati morti.  Il vescovo d’Ippona narra che una donna, disperata per la morte del figlio prima del battesimo, prega con altissima devozione le spoglie del protomartire Stefano affinché possa farlo tornare in vita. Il miracolo della resurrezione avviene, ma solo per il tempo necessario alla somministrazione del battesimo.
Il primo caso di svolgimento del rito, per come lo intendiamo oggi, risalirebbe alla fine del secolo XIV.
Superiamo le Alpi.
Scendiamo in Provenza per raggiungere la città d’Avignone.
Percorriamo il tempo sino ad un giorno, imprecisato, del 1387.
Tomba di Pierre de Luxembourg.
Un gruppo di persone prega il beato per far tornare in vita un bimbo nato morto.
Pierre potrebbe assolvere le funzioni di primo intercessore, per conto dei genitori, nei confronti della Madonna.
Pietro da Lussemburgo nacque nel 1369, poco tempo prima che suo padre, Guido, morisse a Baesweiler nel 1371, nella lotta tra Brabante e Gheldria.
I conti potrebbero non tornare!
Meno di 20 anni dopo la nascita era morto, in procinto di divenire beato e venerato a tal punto da fungere da intercessore nei confronti della Madonna?
All’età di 10 anni era canonico a Parigi. La storia ci riporta al convento dei Celestini dove Pietro conobbe Filippo di Mézieres.[3]
Tre anni più tardi svolgeva lo stesso ruolo a Cambrai.
A 15 anni fu nominato vescovo, dall’antipapa Clemente VII, della città di Metz.
Clemente VII non si accontentava della nomina a vescovo di Pietro.
Era smanioso di averlo accanto a se nella città d’Avignone.
Nel 1386, a soli 17 anni, Pietro fu nominato cardinale nella città della Provenza.
L’anno seguente muore, si racconta, colpito da una malattia.
Approfondiamo.
A 17 anni giunge ad Avignone alla presenza della corte di Clemente VII.
Quell’ambiente non ha influssi negativi sul ragazzo, ora cardinale.
Vita austera. Digiuno. Penitenze.
Distribuisce ricchezze ai poveri, tanto da destare l’ammirazione del popolo provenzale.
All’improvviso il 2 luglio del 1387 muore.
La morte potrebbe dipendere dalla severa vita ascetica che aveva deciso di seguire?
Pietro sin dalla piccola età altro non conobbe che la serietà della fede.
Fu tumulato secondo i suoi voleri. Nessuna cerimonia sfarzosa. Sepoltura presso il cimitero dei poveri.
I suoi funerali attirarono una folla enorme.
Tra folla e follia la differenza è minima.
Il corteo rischiò di trasformarsi in una sommossa.
La tomba di Pietro non conosceva silenzio.
Giorno e notte i bisognosi si recavano per chiedere un miracolo.
Il 7 luglio avvengono i primi miracoli, documentati per volontà di Clemente VII.
Il cinque d’ottobre giunge la tredicesima resurrezione.
Nel luogo della sepoltura di Pietro da Lussemburgo il Re di Francia, all’epoca Carlo VI, fece erigere un convento di Celestini, copia di quello nel quale era divenuto uomo il ragazzo figlio di nobile famiglia. A quel tempo il convento di Parigi era il santuario prediletto dalla corte francese.
I miracoli di un uomo normale dalla vita straordinaria.
Dalla Provenza il rito, del ritorno momentaneo alla vita per il tempo di un battesimo, si propaga al Delfinato. Da queste regioni francesi la conoscenza e la pratica si sviluppano seguendo precise direttrici: la prima risale a Nord della Francia sino al Belgio; la seconda, passando dalla Svizzera, si sviluppa in Austria e nel Nord dell’Italia.
Nasce l’esigenza del Battesimo ad ogni costo.

Fabio Casalini

L'articolo è basato sul libro MIA VIVI, MAI MORTI pubblicato da Fabio Casalini e Francesco Teruggi per Giuliano Ladolfi editore nel dicembre del 2015.

Tutte le fotografie sono scattate nel Duomo di Ivrea e rappresentano un affresco dove è possibile vedere Pietro da Lussemburgo ed un bimbo, che risorge alla vita, che indica il beato intento nella benedizione del piccolo.



[1] Concilio di Firenze, decretum pro Armenis.
[2] Catechismo Romano. Edizioni P. Rodriguez (Città del Vaticano). 1989.
[3] Huizinga Johan, Autunno del Medioevo. Sansoni editore. 1987.

L'inquisizione medievale: dall'abbandono cataro al condottiero Dolcino

$
0
0
L' inquisizione medievale fa riferimento a qual periodo compreso fra la fine del XII secolo e la metà circa del XV. Il termine inquisizione deriva dal latino inquirere, che ha il significato di indagare. Il compito del tribunale dell’inquisizione è quello di svolgere indagini per accertare l’eresia: una volta scoperta, il giudice aveva il fine di convincere l’indagato ad abiurare.
Quando non era in grado di ottenere l’abiura, rimetteva l’indagato ad un tribunale civile. Gli inquisitori potevano sottoporre a processo solo i cristiani, ne erano esclusi i non battezzati. Questa struttura iniziale dell’inquisizione si occupò principalmente dell’eresia catara e valdese.
In Béziers e Monte Rubello possiamo trovare i luoghi in cui si consuma l’inizio e la fine dell’Inquisizione Medievale, allo stesso modo in cui si consuma l’eresia Medievale perché Inquisizione ed Eresia vivono grazie alla presenza dell’altra.
Se non fosse esistita l’Eresia Medievale non sarebbe nata l’Inquisizione. L’occasione per la nascita di questo strumento giuridico è data dal proliferare dell’eresia Catara, e in misura minore di quella Valdese.
Cataro deriva dal greco Khataros, che significa puro. La definizione di cataro o puro appartiene agli adepti poiché gli avversari li chiamavano in funzione del luogo ove la loro presenza era predominante: albigesi per la zona di Albi in Francia, albanesi e concorreziani per la città di Alba e Concorezzo.
I catari manifestavano il desiderio di tornare alla purezza originaria del messaggio evangelico, distaccandosi dalla struttura e gerarchia ecclesiastica divenuta un pericolo per la conservazione di quel messaggio. L’universo cataro è molto meno romantico ed illuminato di quanto una certa tradizione mostra. I catari invitavano all'aborto ed all'endura. Analizziamo il perché ricorrevano all'aborto. Se tutto quello che appartiene alla carne è male, il male peggiore è propagare quella carne. Propongono un rifiuto totale alla propagazione della vita. Per quanto concerne l’enduradobbiamo ricordare che se il corpo è ostacolo al progresso spirituale, non esiste modo migliore di lasciarsi morire di fame per raggiungere la perfezione.

Nel 1167 un Concilio cataro venne organizzato a Saint-Félix, presieduto dal pop Niceta, vescovo dai bogomili di Costantinopoli. Durante quest'assemblea furono create quattro diocesi catare: Albi, Agen, Carcassonne e Tolosa.

Un secondo movimento eretico che portò alla nascita dell’inquisizione medievale fa riferimento a Pietro Valdo. Nel 1170 Pietro ebbe un’esperienza radicale di conversione: dopo aver venduto i propri beni a beneficio dei poveri si dedicò ad una vita di predicazione itinerante, svolta nella lingua del popolo. Nel 1179 due valdesi, tra cui Pietro, si recarono a Roma per sottoporre a Papa Alessandro III una traduzione in francese di diversi libri delle scritture. Chiesero autorizzazione al Papa per la predicazione. Alessandro III autorizzò purché fossero controllati da un ‘ecclesiastico loro superiore. Nel 1184 Papa Lucio III con decreto Ad Abolendamstabilì il principio che si potesse formulare accusa di eresia e iniziare il processo a carico di qualcuno anche in assenza di testimoni attendibili. Con lo stesso decreto si dichiaravano eretici i valdesi, che da quel momento si riunirono in piccole comunità costrette a vivere in clandestinità.
Nel 1199 Innocenzo III, strenuo avversario delle eresie che si stavano diffondendo in Europa, avviò una Crociata contro i catari: al comando della stessa Simone IV di Monfort. Tra i massacri dobbiamo ricordare quello di Beziers del 22 luglio 1209, giorno nel quale i crociati massacrarono almeno 20.000 abitanti tra uomini, donne e bambini. Le truppe al comando di Simone IV circondarono la città chiedendo che i catari venissero banditi oltre le mura cittadine: ottennero un secco rifiuto. I resoconti storici ci tramandano una cifra non superiore ai 500 catari presenti all’interno della città: sebbene la cifra di eretici fosse molto inferiore al numero degli abitanti, i crociati decisero per il massacro. Appartiene alla leggenda la risposta che Amaury avrebbe rivolto ad un soldato che gli chiedeva come poter distinguere nella battaglia gli eretici dagli altri: “uccideteli tutti, Dio riconoscerà i suoi.”

L'autenticità di tale frase, però, è messa in dubbio in quanto non risulta in nessuna delle pur numerose cronache degli eventi; si trova invece in forma leggermente diversa «Cedite eos. Novit enim Deus qui ejus sunt» e cioè "Uccideteli. Dio infatti conosce coloro che sono suoi"e introdotta da un prudenziale ”«fertur dixisse», si dice, nel Dialogus Miraculorum, il Libro dei Miracoli, scritto circa sessanta anni dopo gli avvenimenti dal monaco tedesco Cesario di Hesisterbach
Negli anni successivi i monaci cistercensi, primi predicatori in terre occupate dall'eresia catara, furono sostituiti dai frati domenicani e francescani nel ruolo di inquisitori. Questo perché avvenne? Il Papa intuì che la strada della povertà vissuta poteva salvare la Chiesa. I cistercensi per vari motivi non riuscirono a far breccia nel cuore delle persone, i seguaci di Domenico e Francesco erano più vicini al popolo come stile di vita e linguaggio.
Nel 1231 Gregorio IX affidò il compito dell’inquisizione a giudici nominati e inviati da lui stesso che potevano deporre il Vescovo se riscontravano inefficienze nel suo operato. La chiesa fu notevolmente aiutata dall’Imperatore Federico II che nello stesso anno istituiva la pena di morte e il rogo per gli eretici, con la seguente formula: “siano bruciati alla presenza del popolo.”
Nel 1252 Papa Innocenzo IV introdusse la possibilità di tortura negli interrogatori con la Bolla Ad Extirpanda.
Il tempo corre.
Gli eretici scappano.
Nascono e muoiano le idee.
Si giunge agli inizi del 1300. Un uomo, all’improvviso appare sulla scena: il suo nome è Dolcino.
Personaggio travolgente e stravolgente: modifica l’eresia trasformando i seguaci da adepti a guerriglieri.
Mazze contro spade.
Uomini semplici, e male armati, contro importanti eserciti.
Dolcino lottò con tutte le sue forze per salvare il proprio popolo.
Dopo diversi anni di fughe e resistenza fu catturato e arso sul rogo il 1 gennaio 1307 a Vercelli.
Altri movimenti succederanno al frate venuto dalle valli alpine, ma la sua morte identifica la fine dell’inquisizione medievale: se non esiste un nemico forte anche l’istituzione religiosa perde di significato.

Fabio Casalini

Bibliografia
Pietro Tamburini, Storia generale dell'Inquisizione.
Ximenes Cisnero, Guida dell'inquisitore.
Grado Giovanni Merlo, Eretici ed eresie medievali.
John Edwards, Storia dell'inquisizione.
George Ridley Scott, Storia della tortura.

Fotografie
- L'inquisizione medievale
- Pietro Valdo
- San Domenico che assiste ad un autodafè
- Gregorio IX

La Certosa di Parma: con Stendhal ascoltando il rumore del vento

$
0
0

L'abbazia Cistercense di Valserena conosciuta come “la certosa di Parma” in riferimento all’ omonimo romanzo di Stendhal che sorge sulla via che già in epoca romana collegava Parma al Po, è oggi sede universitaria del Centro Studi e Archivio della Comunicazione.
La sua costruzione iniziò nel maggio del 1298 per volere di papa Bonifacio VIII e fu al tempo affidata ai monaci provenienti dall’ abbazia di Chiaravalle della Colomba (PC). Luogo romantico e misterioso, comprende una chiesa a croce latina in stile gotico lombardo e un presbiterio arricchito da affreschi e decorazioni cinquecentesche attribuiti a Cesare Baglione, pittore cremonese al servizio dei Farnese. Conosciuta anche sotto i nomi di Certosa di Paradigna e di Abbazia di San Martino dei Bocci, non deve essere confusa con la certosa di San Girolamo, detta anch’essa Certosa di Parma ma che all'epoca in cui Stendhal scrisse il romanzo, l’edificio aveva da tempo cessato di essere un monastero certosino. 
La chiesa venne sconsacrata in epoca Napoleonica e da allora l’edificio fu adibito a vari usi: fu sede di guarnigione militare, fabbrica di conserve e addirittura ricovero di attrezzi agricoli fino ai più recenti lavori di restauro negli anni 80 che ha permesso il completo recupero degli spazi così come oggi li possiamo ammirare.
L’ abbazia è visibile da lontano quasi sospesa sul candido manto della nebbia invernale che cancella i campi intorno oppure al centro di un concerto di grilli e cicale nelle intense giornate estive quando il sole, che tramonta proprio in corrispondenza dell’ingresso principale, ne esalta i colori.
Varcato l’imponente arco ci si trova subito in una ampia e meravigliosa corte, che ospita alcune sculture, delimitata su tre lati da altrettanti edifici. Proprio di fronte all’ingresso principale si trova la foresteria: le cellette che ospitavano i monaci sono state riadattate a camere più moderne mantenendo comunque un arredo semplice, in alcune di esse è stato possibile mantenere gli affreschi originali cinquecenteschi su pareti e soffitti a testimonianza di una storia ormai passata.
Il resto del complesso è adibito a museo/archivio e raccoglie oltre 12 milioni di opere e documenti originali della comunicazione visiva dai primi decenni del ‘900 ai giorni nostri diviso in 5 sezioni: Arte, Fotografia, Media, Progetto e Spettacolo.
L’inestimabile patrimonio racchiuso in queste mura, che rappresenta un centro di conoscenza e ricerca internazionale, non è a sola disposizione di studiosi e critici per attività di ricerca e didattica ma anche e soprattutto a persone comuni che desiderano investire del tempo all’insegna della cultura e dell’arte in un luogo veramente speciale.
E quando giunge sera, qualsiasi sia la stagione, un alone magico circonda l’abbazia il silenzio e la pace dominano e aiutano, anche solo per una notte, a fuggire dalla frenetica vita contemporanea rifugiandosi nelle pagine di un libro, prestando attenzione ai rumori della campagna, ascoltando il sussurro del vento e guardando dalla finestra ancora aperta le stelle: tutte cose forse del passato ma che riempiono ancora il cuore di molti.
Ringrazio Marco, che lavora nell’abbazia, che con disponibilità e cortesia mi ha accompagnato a visitare le varie camere e parte dell’edificio permettendomi di realizzare questo articolo.

Marco Boldini

Corona Ferrea: agli albori della verità

$
0
0
Corona Ferrea (Tesoro del duomo di Monza, V - IX sec.)
“Io vengo a parlare con voi, che siete i dominatori del mondo. Costruiremo insieme un assetto pacifico”.
Sarebbero state queste le prime parole pronunciate da Teodorico re dei Goti allorché nel 493 d.C, sconfitto il rivale Odoacre, re degli Sciri e degli Eruli nella leggendaria “Rabenschlacht” o battaglia dei Corvi, fece il suo ingresso trionfale a Ravenna, capitale dell'impero romano d'Occidente.
Ancor precedentemente ai Longobardi, il primo popolo in marcia che fece irruzione in Italia fu proprio quello degli Ostrogoti: i Goti dell'est che, prima di migrare in Italia su autorizzazione dell'imperatore Zenone, nel loro lungo peregrinare  tra le sponde del Mar Nero e del Danubio ereditarono dai popoli nomadi delle steppe usi e costumi forieri di nuovi sviluppi.

Solido romano: busto di Costantino con diadema di perle e corazza (IV sec,) 

Per realizzare il suo sogno, ossia una terra per il suo popolo,  il nuovo sovrano barbarico si servì abilmente della condizione di alleato dell'impero: ma perché proprio i Goti? Quali, i  legami tra questo popolo, che dominò in Italia per appena ottant'anni e la storia millenaria della Corona Ferrea? La tradizione vuole che proprio da re Teodorico in poi i sovrani germanici ricevessero la corona del regno d'Italia, detta “ferrea” per via della fiera durezza di Goti.  Il contesto storico-archeologico conferma la possibilità  che il prezioso gioiello fosse parte integrante  di  un casco composto da piastre metalliche, sormontato da un pennacchio di piume di pavone: insegna di potere, derivata dalla fusione tra il diadema gemmato di origine persiana, introdotto per la prima volta dall'imperatore Costantino, e gli elmi militari di tipo "spangenhelm"  indossati dell'élite militare barbarica tra il IV e il VII secolo.

Elmi barbarici del tipo "spangenhelm"(originale, museo arch. Norimberga; copia, mostra Costantino, Giussano) 


Numerosi sono i riferimenti allo scintillio di questi elmi metallici e al suono che essi producevano quando venivano colpiti in battaglia: i corpi armati germanici al soldo di Bisanzio avrebbero usato il metallo ottenuto dalla fusione delle armi e dalle armature sottratte ai nemici sconfitti, per farne decorare le superfici con gemme in castone.  Descrizioni vivide di questo copricapo sono note anche attraverso le raffigurazioni di monete ostrogote, dal più tardo frontale dell'elmo di Agilulfo (VII sec.) e soprattutto, dalla narrazione di re Totila a cavallo dataci dallo storico Procopio nel "De Bello Gothico". Immagine indelebile, quella del sovrano barbarico intento a passare in rassegna il suo esercito con la tradizionale cavalcata della lancia: indossava una corazza d'oro e un copricapo, dalle cui piastre “pendevano fiocchi di porpora e fregi d'ogni altro genere, degni di un re”.


Elmo di Berkasovo (Budapest, Museo Nazionale, IV sec.)

Al momento, questa nuova interpretazione concorre con quella, altrettanto valida, che contempla il prezioso gioiello come corona pensile sospesa per mezzo di catenelle sulla testa del sovrano in trono: altra tradizione bizantina, presa in prestito con successo dai Visigoti di Spagna.
L'analisi stilistica e chimica delle tecniche utilizzate nella produzione delle tre piastrine più antiche, in smalti cloisonné incastonati entro superfici decorate a granati, ha portato a datarle proprio all'età di Teodorico. Lo storico Ennodio descrisse uno smeraldo collocato proprio nel diadema: la pietra filosofale o elisir d'eterna giovinezza, simbolo di conoscenza occulta e iniziazione. Questa pietra era simbolo di un potere immenso: una gemma ricavata dalla testa di un serpente e utilizzata dalle popolazioni barbariche delle steppe per proteggersi dai morsi velenosi dei rettili.

Diademi unni con granati in castone (Inizi V sec. Colonia, Magonza, Szeged, Budapest) 

Simili smalti si ritrovano anche in un paio di fibule d'argento dorato provenienti dal Tesoro ungherese di Szilágysomlió, datato alla prima metà del V secolo, e attribuita ad artigiani gepidi sotto il dominio  unno. L'attribuzione della paternità della corona ad officine allora operanti tra il Mar Nero e il Bacino Carpatico negherebbe quella tradizionale, riferita ai Longobardi: questi ultimi si sarebbero  limitati a mantenere vivi i simboli della più antica tradizione gotico-bizantina.

Ricostruzione dell'elmo di Costantino

Alla fine dell'VIII secolo, con il restauro radicale della corona andò realizzandosi il recupero intenzionale della memoria storica del gioiello. Giunta in età carolingia danneggiata e privata di molti smalti, la corona fu affidata a un abile orafo che la sottopose a radicale restauro  e alla conseguente cerchiatura interna: ed ecco apparire altre ventun piastrine smaltate, color verde trasparente con  fiori bianchi e azzurri, attribuibili a un laboratorio carolingio dell'Italia settentrionale e tutt'oggi osservabili.
Fibule femminili da spalla, dal tesoro di Szilágysomlió (Budapest, Museo Nazionale, 1a metà V sec.)

Lungi dall'essere un chiodo della croce di Cristo,  il discusso cerchio, peraltro argenteo e non di ferro, rappresenta soltanto l'ultimo intervento in ordine di tempo, eseguito al fine di consolidare le piastre. Annotata con il nome di “corona cum uno circulo ferri”, a conferma di una consapevolezza maturata nel tempo,  la reliquia del chiodo sarebbe stata deliberatamente promossa solo dal 1355: dai Visconti, signori di Milano, all'interno di un più ampio disegno di auto-legittimazione ducale.

Marco Corrìas (alias Marc Pevèn) 

Corona pensile visigota di Guarrazar (Parigi, Musée de Cluny, VI sec.)

Foto n. 1-2 wikipedia, ; n. 3- 4-5-7-8 Marco Corrìas (alias Marc Pevèn);
n.6 dal catalogo della mostra "Costantino 313".

Bibliografia

Aimone 2011 
M. Aimone Nuovi dati sull’oreficeria a cloisonnè in Italia fra V e VI secoloRicerche stilistiche, indagini tecniche, questioni cronologiche, in Archeologia Medievale, XXXVIII, 2011, pp. 369-418. 

Arslan, d'Assia, Bierbauer, Fiorio 1994
E. A. Arslan, O. d'Assia, V. Bierbauer, M. Fiorio (a cura di), I Goti, Catalogo della mostra di Milano, Palazzo reale 28 gennaio-8 maggio 1994, Milano 1994.

Baldini Lippolis – Guaitoli 2009 
I. Baldini Lippolis – M. T. Guaitoli, Oreficeria antica e medievale. Tecniche, produzione, società, 2009. 

Baldini Lippolis - Morelli 2011
I. Baldini Lippolis - A.L. Morelli, 2011.Oggetti-simbolo. Produzione uso e significato nel mondo antico, Bologna, 2011.

Barnish, Marazzi 2007 
S.J. Barnish, F. Marazzi (a cura di), The Ostrogoths. From the Migration Period to the Sixth Century. An Etnographic Perspective, Atti del convegno (San Marino, 8-12 settembre 2000), Studies in Historical Archaeology, 7,  2007. 

Heather 2005 
P. Heater, I Goti. Dal Baltico al Mediterraneo. La storia dei barbari che sconfissero Roma, Genova 2005 (ed. originale in inglese Oxford 1996).

Heather 2010
P. Heater, L’Impero e i barbari. Le grandi migrazioni e la nascita dell’Europa, 2010.

Lusuardi Siena et alii 2002  
S. Lusuardi Siena, C. Perassi, G. Fachinetti, B. Bianchi, Gli elmi tardoantichi (IV-VI sec.) alla luce delle fonti letterarie, numismatiche e archeologiche: alcune considerazioni, in Miles Romanus dal Po al Danubio nel Tardoantico, Atti del Convegno Internazionale (Podernone-Concordia Sagittaria, 17-19 marzo 2000), 2002, pp. 21-62.

Lusuardi Siena 2005 
S. Lusuardi Siena, L’identità materiale e storica della corona: un enigma in via di risoluzione? In La corona ferrea nell’Europa degli Imperi II, alla scoperta del prezioso oggetto, Tomo Secondo: Scienza e Tecnica, Società di Studi Monzesi 2005, pp. 173-252.

Kazanski 1991
M. Kazanski, Les Goths (ler-VII aprés J.-C),  1991 pp. 76.

Shchukin, Kazanski, Sharov 2006

M. Shchukin, M. Kazanski, O. Sharov, Des Goths Aux Huns: le Nord de la mer Noir eau Bas-Empire et à l’époque des grandes Migrations, 2006 



Il santo che navigò sul proprio mantello per sconfiggere gli eretici

$
0
0
I documenti che parlano dei due santi, San Giulio e San Giuliano, non sono molto antichi e la loro storia non è molto chiara. 
Esiste una Vita dei due santi che il Savio stimava antica e degna di riguardo, mentre il Lanzoni la giudicava piena di parecchie esagerazioni e leggende.
In realtà essa non è più antica del secolo VIII e contiene notizie piuttosto strane ed inverosimili. Secondo questo scritto, Giulio e Giuliano erano fratelli oriundi della Grecia; educati cristianamente dai genitori, abbracciarono lo stato clericale e Giulio fu ordinato presbitero mentre Giuliano diacono. Stravolti dagli errori diffusi dagli eretici e per sfuggire alle loro persecuzioni, decisero di allontanarsi dalla patria. 


Si recarono allora dall'imperatore Teodosio dal quale ottennero l'autorizzazione a distruggere altari e boschi pagani ed edificare chiese cristiane. Passati poi in Italia dimorarono per un po' di tempo nei pressi di Roma, quindi attraversarono il Lazio per salire nell'Italia settentrionale predicando, convertendo molti alla vera fede e soprattutto edificando un cospicuo numero di chiese, che raggiunsero il numero di cento. 
Le due ultime le costruirono nei pressi del lago di Orta e precisamente la novantanovesima a Gozzano, dedicata a san Lorenzo, dove rimase Giuliano che ivi anche morì e vi fu sepolto. L'altra, la centesima, Giulio la costruì sulla piccola isola esistente nel lago, dedicandola agli apostoli Pietro e Paolo e nella quale egli stesso fu poi sepolto.
Avrà, l'autore della Vita scambiato il luogo di sepoltura dei due santi, o essi erano una sola persona chiamata indifferentemente con l'uno e l'altro nome? Il Savio afferma poi che nella diocesi di Milano molte chiese erano dedicate a Giulio ed il suo nome era anche recitato nel canone ambrosiano dei secoli V-VI. 
Lanzoni però contesta quest'ultima affermazione e pensa che si trattasse invece, del papa Giulio, poiché quel nome è unito a quelli di altri che si distinsero nella lotta contro gli ariani. 
Presumo  sia doveroso spendere qualche istante nella lettura dell'arianesimo: importante movimento eretico, che si sviluppò in Oriente nel corso del secolo IV e dalla metà dello stesso secolo coinvolse l'Occidente, protraendosi qui, a causa delle invasioni dei barbari, fino a tutto il secolo VI e oltre, con alterne vicende. Trae nome da Ario, prete di Alessandria d'Egitto, che intorno al 320 diffuse una dottrina trinitaria, secondo la quale Cristo non sarebbe Figlio di Dio in senso proprio - come voleva la tradizione - ma soltanto la più eccellente delle sue creature, definita Figlio solo in senso accomodato, diversa dal Padre per natura e radicalmente a lui inferiore per autorità e dignità. Subito combattuta, questa dottrina fu condannata nel concilio di Nicea del 325 e Ario fu inviato in esilio. Ma il radicalismo di certe affermazioni antiariane del concilio, coniugandosi con motivazioni di carattere politico o anche soltanto personale, favorì una reazione antinicena, di cui si giovarono, morto Ario nel 336, i suoi seguaci, attestati ormai dottrinalmente su una linea molto più cauta rispetto all'insegnamento del maestro.

Gli ariani furono una presenza molto importante nella storia della Chiesa dal secoli IV al VI e come tali, nonostante la damnatio memoriae che fece seguito alla loro emarginazione dalla comunità, hanno lasciato documenti e tracce cospicue in sede letteraria, in ambito sia dottrinale sia esegetico; ma a tutto ciò nulla di certo fa riscontro in sede artistica. Seppure dobbiamo affermare che il culto di san Giulio è abbastanza antico nell'isola del lago di Orta ed è tuttora vivo nella regione circostante, bisogna purtroppo aggiungere che non sappiamo niente di sicuro sulla sua personalità, come su quella del presunto fratello Giuliano. Delle due antiche chiese attribuite ai santi fratelli, oggi non esiste più alcun vestigio e le attuali non sono più antiche del secolo IX.  Seguendo la leggenda, intorno al 390 il santo raggiunse l'isola navigando sul proprio mantello e la liberò dai draghi - immagine simbolica della sconfitta del paganesimo -edificando una piccola chiesa, dedicata ai dodici apostoli. Nell'Alto Medioevo la posizione strategica rese l'isola un importante centro difensivo, sede dapprima di un duca longobardo, in seguito munita di un castello appartenente al re d'Italia Berengario II. Il castello pervenne infine di proprietà del vescovo di Novara. Le vicende belliche e le esigenze militari condizionarono lo sviluppo dell'edificio sacro sia con i probabili danneggiamenti subiti nel corso degli assedi, sia per la trasformazione di alcune sue pertinenze.  La facciata della chiesa è visibile navigando sul lago o dal piazzale chiuso sul quale essa guarda, e che oggi fa parte del monastero di monache benedettine; essa conserva un aspetto romanico nonostante le modifiche seicentesche che portarono all'edificazione di un pronao sormontato da una grande finestra a serliana.

Il campanile romanico sorge in posizione distaccata dalla chiesa, a ridosso delle absidi; è diviso internamente in sei piani alleggeriti nei due piani più alti dalla presenza, rispettivamente, di una doppia bifora e di una trifora.
Testimonianze artistiche più antiche ancora presenti nell'attuale apparato decorativo sono date dallo stupendo ambone romanico addossato al quarto pilastro sinistro e dagli affreschi posti sulle pareti delle navate laterali e sui pilastri della chiesa, espressioni di devozione popolare che coprono un arco temporale che va dalla seconda metà del XIV ai primi decenni del XVI secolo.
Costruito in serpentino grigio-verde (lucidato assume un aspetto bronzeo) proveniente dalle vicine cave di Oira, si fa risalire agli inizi del XII secolo. Presenta una pianta quadrata con quattro colonne che sorreggono il parapetto che, a sua volta, poggia su di una base ornata di fogli d'acanto. Le quattro colonne sono diverse tra loro, due hanno fusto liscio, le altre presentano ornati in rilievo con motivi ad intreccio; notevoli sono i capitelli a fogliami (o con fogliami e teste di animali). Il parapetto, a forma mistilinea, presenta su ciascuno dei tre lati due parti rettilinee ed una curva, che rendono suggestiva la lettura iconografica delle lastre scolpite di cui si compone.
Leggendo le figure in senso antiorario troviamo: un centauro in atto di scoccare una freccia contro un cervo, aggredito da due fiere, poi le raffigurazioni simboliche dei quattro evangelisti - il bue di Luca, l'uomo alato di Matteo, il leone di Marco, l'aquila di Giovanni - ed infine la rappresentazione di un grifone che azzanna la coda di un coccodrillo. Le due scene di lotta - corrispondenti al gusto dei bestiari medievali - stanno a significare la lotta tra il bene ed il male. Tra il leone di Marco e l'aquila di Giovanni trova curiosamente posto una figura maschile, in posizione ieratica, con il mantello e le mani appoggiate su bastone con l'impugnatura a tau: sulla identità (o significato simbolico) della figura ci si è a lungo interrogati. Un'interpretazione che pare sufficientemente fondata vuole trattarsi della figura di Guglielmo da Volpiano, nato sull'isola e venerato dalla Chiesa come santo.
« La figura umana colpita sull’ambone che, minacciosa e nello stesso tempo distaccata ed assente, assiste immobile al trascorrere dei secoli, è avvolta in un mistero che gli studiosi stanno ancora cercando di svelare [...]. Dopo un attento e approfondito studio della scultura e soprattutto del bastone, mi sono convinta che questa figura rappresenti un abate appoggiato al suo bacolo abbaziale e non so immaginare quale questo abate possa essere se non il grande Guglielmo da Volpiano» [Beatrice Canestro Chiovenda]
Una successione di affreschi, nati verosimilmente con intenzioni di supplica o di ringraziamento da parte dei committenti, copre buona parte delle pareti delle navate laterali (ove sono visibili anche capitelli relativi al rifacimento del XII secolo) e sui pilastri che sostengono le campate della volta; essi si collocano in un arco temporale che va dalla seconda metà del Trecento alle prime decadi del Cinquecento e, nel loro insieme, offrono una interessante panoramica sui santi maggiormente venerati nella zona.

Fabio Casalini

Bibliografia
AA.VV. L'arte romanica in Piemonte, val d'Aosta e Liguria. Edizioni Angolo Manzoni. 2000
Canestro Chiovenda Beatrice, L'isola di San Giulio sul lago d'Orta. Fondazione Monti. 1994
Cattabiani Alfredo, Santi d'Italia. BUR, Biblioteca Universitaria Rizzoli. 1993
Enciclopedia Treccani. L'arianesimo
Filoramo Giovanni e Menozzi Daniele, L'antichità, in storia del Cristianesimo. Laterza, 2010
Guerriero Elio, Il libro dei santi. Come hanno vissuto, cosa hanno detto e come li ricordiamo.
Webografia
Santi e Beati.it

Nel calderone della strega: tra veleni e allucinazioni

$
0
0

Unguento unguento
mandame ala noce di Benevento
supra acqua et supra ad vento
et supra ad omne altro maltempo.

Questa formula altamente evocativa è riportata in numerosi processi di stregoneria e trova ampio spazio nei racconti popolari. È sorprendente come nel suo significato richiami molto da vicino la formula nell’arcaica lingua basca “Sasi guztien gaiñetik eta laiño guztien azpitik” (al di sopra di tutti i rovi e al di sotto di tutte le nubi) che ripetevano le streghe delle leggende pirenaiche dopo essersi unte il corpo con dell’unguento. L’unguento nero che faceva volare, che portava al sabba: l’unguento delle streghe.
Nella trattatistica cinquecentesca sono molti gli autori che parlano dell’unguento delle streghe. Che cosa conteneva? In questo caso ci vengono in aiuto alcuni farmacologi e botanici dell’epoca, come Pietro Andrea Mattioli, Giambattista Della Porta e Andrés Laguna. Tuttavia, solo in epoca più recente, all’inizio del XX secolo, è stato stabilito con certezza il legame tra le sensazioni provocate dal contatto con l’unguento, che per questo motivo era detto “diabolico”, e i componenti attivi di alcune piante. In questo caso, abbiamo a che vedere con sostanze psicotrope, che agiscono sul sistema nervoso e provocano alterazioni sensoriali e allucinazioni. Il potere allucinogeno di queste erbe è davvero molto forte. Per questo motivo l’assunzione avveniva per via transdermica, esterna, e non per ingestione, che avrebbe avuto esiti quasi sicuramente letali.
Vediamo ora quali piante trovavano largo impiego in questo unguento.
Atropa belladonna, la ciliegia della pazzia

Her hair was long, her foot was light,
And her eyes were wild.
[...]
And there she lulled me asleep,
And there I dreamed-Ah! woe betide!-
The latest dream I ever dreamed
On the cold hill side.
[...]
They cried-’La belle dame sans merci
Hath thee in thrall!’

John Keats, La Belle dame sans merci, 1820

[Lunghi i capelli, leggero il passo / e folli gli occhi. // Lì mi cullò fino al sonno / e lì, me misero, / sognai l’ultimo sogno mai sognato / sul fianco freddo della collina. // Mi gridavano “La bella dama senza pietà / ti ha preso nella sua rete!”]

Questa solanacea dai fiori a campanula di un inquietante colore purpureo porta un nome velato di mistero ed eloquente allo stesso tempo. Pare che belladonna si riferisca all’impiego che ne facevano le dame rinascimentali veneziane. Dalla macerazione delle bacche si ricavava un estratto utilizzato poi a mo’ di collirio. Le pupille si dilatavano, lo sguardo si faceva più intenso e profondo, quindi la donna era più attraente. In una sola parola, bella. Altre ipotesi vedono il nome belladonna direttamente collegato al francese belle-femme, che indicava le erbarie e le levatrici.
Nel corso dei suoi studi, Linneo classificò la pianta con il genere Atropa. Atropo è la terza parca, il cui nome significa “implacabile”, colei che taglia il filo della vita degli uomini. Questo indica chiaramente la pericolosità della pianta, in grado di spezzare la vita umana.
La parte più velenosa è la bacca, di colore rosso cupo, tendente al viola. Ricorda vagamente una ciliegia. Infatti in Germania prende il nome di Tollkirsche, ciliegia della pazzia, per i suoi evidenti effetti allucinogeni. Gli inglesi si soffermano sul suo colore cupo e sugli effetti letali e la chiamano deadly nightshade, ombra mortale della notte.
Il principio attivo è un alcaloide chiamato atropina e trova impiego anche nella moderna medicina, in particolare nei colliri formulati per dilatare la pupilla e facilitare gli esami oculistici. Si sfrutta quindi l’aspetto tanto apprezzato nel passato, ma per finalità ben diverse. L’azione avviene principalmente a livello cerebrale con effetti quali aumento del battito cardiaco e della pressione, riduzione delle secrezioni e difficoltà nell’accomodazione della pupilla. A causa della sua elevata tossicità, la belladonna può rivelarsi pericolosa, in alcuni casi addirittura letale, se assunta in dosi superiori a quelle omeopatiche.
Una dama bella e pericolosa
È stato ipotizzato un collegamento tra la belladonna e il misterioso personaggio femminile della ballata La Belle Dame sans merci di Keats, che porta il cavaliere al sonno e ai sogni confusi. La Belle Dame, in cui si ravvisa il termine belladonna, diventa l’emblema dell’attrazione mortale del poeta verso la droga. Il poeta ne fa inoltre un chiaro riferimento in un’altra sua celebre opera, Ode on melancholy:

No, no, go not to Lethe, neither twist
Wolf’s-bane, tight-rooted, for its poisonous wine;
Nor suffer thy pale forehead to be kiss’d
By nightshade, ruby grape of Proserpine;

[No, no, non andare al Lete, non spremere / dalle radici salde dall’aconito il succo fatale; / Né sopporta che la tua fronte pallida sia baciata / Dalla belladonna, l’uva rubinea di Proserpina]

La belladonna associata a Proserpina, divinità degli inferi, unita a un sottile gioco di rimandi che ne sottolineano la pericolosità. Probabilmente Keats ne aveva ben presenti gli effetti.

Hyoscyamus niger, l’occhio del diavolo
No warmth, no breath, shall testify thou livest;
The roses in thy lips and cheeks shall fade
To wanny ashes

William Shakespeare, Romeo and Juliet, 1594

[Alcun calore, o alito testimonierà che vivi; / le rose sulle tue labbra e sulle tue gote appassiranno / e diventeranno livide come ceneri]

Altra pianta particolarmente letale è il giusquiamo. Non molto appariscente, si distingue per il forte odore sgradevole. Il fiore è di un intenso porpora al centro, intorno al quale si sviluppano cinque petali di colore giallo pallido, fittamente solcati da venature rosse, come le venuzze intorno agli occhi. Per questo motivo e per la sua pericolosità, talvolta si indica il giusquiamo come occhio del diavolo.

L’avventura in un nome
La pericolosità del giusquiamo gli è valsa la fama di “erba degli avvelenatori”. L’alto contenuto di alcaloidi è nocivo per tutte le creature viventi: nell’antichità si pensava che solo i maiali ne fossero immuni. In effetti, il nome giusquiamo deriva dal termine di origine greca hyoskyamos che significa “fava della scrofa”. Tuttavia, altre lingue ci raccontano molto sulla sua natura: il termine inglese che lo identifica è henbane, parola di origine germanica che significherebbe “uccisore di galline”. Si passa quindi da animali immuni ad animali particolarmente sensibili ai suoi effetti. Presso i celti era l’erba sacra a Belenos, dio solare. Da qui deriva il nome che la pianta tuttora conserva nella penisola iberica: beleño negro. Inoltre, pare che le sacerdotesse di Apollo Pizio si procurassero stati alterati di coscienza bruciando semi di giusquiamo e aspirandone i vapori. Forse è proprio per questo motivo che uno dei numerosi nomi della pianta è erba apollinea. Successivamente, la tradizione cristiana le ha posto il nome di erba di Santa Apollonia, in virtù anche delle sue efficaci proprietà analgesiche, ottime per la cura dei denti e il trattamento della carie.
Secondo alcune antiche pratiche, bastava portare sempre con sé a contatto con la pelle tre foglie di giusquiamo per procurare la simpatia negli interlocutori. In realtà, le sostanze attive che entravano in contatto con l’organismo per via transdermica avevano il potere di abbassare le inibizioni. Questo effetto fu studiato a partire dalla Seconda guerra mondiale perché si intendeva ricavare dal giusquiamo il siero della verità per estorcere confessioni durante gli interrogatori. Tuttavia, gli effetti allucinogeni erano molto forti, quindi gli svantaggi superavano i vantaggi e si decise di abbandonare questa strada.
Come la belladonna, anche il giusquiamo compare tra le pagine degli scrittori più noti. Chi ne ha parlato di più è forse William Shakespeare. Troviamo un riferimento diretto nell’Amleto, quando il fantasma svela al protagonista la causa della morte e parla di una fiala contenente estratto di giusquiamo. Gli effetti letali si producono con il solo contatto.
Alcuni critici ipotizzano che il giusquiamo sia alla base del filtro che frate Lorenzo consegna a Giulietta affinché cada in un sonno profondo simile alla morte.

Upon my secure hour thy uncle stole,
With juice of cursed hebenon in a vial,
And in the porches of my ears did pour
The leperous distilment; whose effect
Holds such an enmity with blood of man
That swift as quicksilver it courses through
The natural gates and alleys of the body,
And with a sudden vigour doth posset
And curd, like eager droppings into milk,
The thin and wholesome blood: so did it mine;

William Shakespeare, The tragedy of Hamlet, Act I Scene 5

[tuo zio si avvicinò furtivo a me che dormivo senza sospetto, / e da una fiala mi versò dentro l'orecchio / l'essenza mortifera del giusquiamo: / tanto funesta alle vene dell'uomo che, / scorrendo rapida come argento vivo per i meandri del corpo, / con effetto fulmineo fa rapprendere / e cagliare, a modo di un acido nel latte, / il sangue fluido e sano]

Datura stramonium, l’erba del diavolo


Oh, Flower of Dreams! —

Of lover’s dreams, where bliss and anguish meet;

Dreams of dead joys, and joys that ne’er have been;
Keenest of all, the joys that ne’er shall be!


Julia Schayer, The Moon-Flower, 1895

[Fiore dei sogni / Sogno degli amanti, incontro di angoscia e beatitudine / Sogni di gioie deperite e di gioie mai esistite; / Delle più dolci di tutte, le gioie che mai saranno]
Lo stramonio è una pianta che fiorisce in tarda estate e produce fiori bianchi, del calice a campanula, avvizziti di giorno aperti durante la notte. Emanano un odore talmente fetido e disgustoso che gli animali lo rifuggono. Per questo motivo viene denominato anche  noce puzza, erba puzzola, noce spinosa, pomo spinoso, erba del diavolo ed erba strega, perché fu utilizzato dalle streghe per provocare incubi e visioni.
Etimologicamente, la denominazione risale dall'indiano dhatura, che significa “mela spinosa”, a sua volta proveniente dalla radice "tat", pungere. L’origine di stramonio è incerta, anche se si avanza l’ipotesi di una combinazione tra le parole stryknos e manikon, che fanno riferimento alla follia.
Il principale contenuto farmacologico è rappresentato dagli alcaloidi scopolamina, iosciamina e atropina, come anche per la belladonna o il giusquiamo. C'è però una caratteristica interessante: la concentrazione di alcaloidi aumenta quanto più la pianta è esposta al sole.
Si sostiene che lo stramonio sia stato usato per scopi medici e ritualistici nell’antichità, sebbene non sia chiaro se gli antichi greci facessero veramente uso di questa pianta, ma si ipotizza che facesse parte dei fumi dell'oracolo di Delfi. Gli indovini di Roma usavano predire il futuro osservando la distribuzione dei semi di stramonio su un tamburo dopo averlo suonato.
In Europa non era utilizzato solo da streghe e negromanti, ma anche da cortigiane e briganti, i quali si servivano dei suoi semi, dal gusto piuttosto piacevole, che versavano nelle bevande dei malcapitati. Chi lo assumeva si sentiva trascinato in un irrefrenabile delirio, perdendo completamente la lucidità e volontà, confessando incautamente tutti i propri segreti, per esempio dove avesse riposto i suoi tesori o il suo denaro.
Si diceva che gli esseri infernali banchettassero con lo stramonio il cui effetto disgustoso li incantava e inebriava.
Sulle tavole del sabba era il cibo principale e si racconta inoltre che, se streghe o incantatori passavano sotto un davanzale dove questa pianticella era coltivata, alzavano gli occhi al cielo per capire da dove provenisse l’odore, certi che in quella casa abitasse un loro simile.
I suoi forti effetti allucinogeni erano noti anche fuori dall’Europa, in particolare tra gli indios delle Ande centrali, che fumavano alcune parti della pianta per provocare i viaggi sciamanici.
Fin qui una breve panoramica, anche se cii vorrebbero pagine e pagine per scoprire l’universo misterioso delle erbe e delle piante. Le loro proprietà sono legate indissolubilmente alle vicende umane e ci possono aiutare a capire tanti aspetti del mondo odierno che magari ora ci sfuggono.


Migliari Claudia


Illustrazioni dell’autrice
Traduzioni dell’autrice

BIBLIOGRAFIA

Brosse, Jacques, La magia delle piante, Edizioni Studio Tesi, Pordenone, 1992
Camilla, Gilberto Le erbe del diavolo, Aspetti antropologici. Altrove, 1995
Cattabiani, Alfredo, Florario, Mondadori, 1996
Galloni, Paolo Parole, cose, guarigioni, Lampi di stampa, 2005.
Keats, John, The Complete Poems, Edited by John Barnard, Penguin Books, London, 2003
Sasso, Giampaolo, Il segreto di Keats: il fantasma della Belle dame sans merci, Edizioni Pendragon
  

Guido Gozzano

$
0
0


muor giovane colui ch'al cielo è caro

MENANDRO.

Guido Gustavo Gozzano, figlio di Fausto e Diodata Mautino, nacque a Torino nel 1883. Di famiglia borghese benestante, la madre è la figlia del senatore Massimo Mautino amico di Massimo d’ Azeglio e di Cavour, trascorre gran parte della sua infanzia a Agliè, ridente paese del Canavese famoso per la sua grandiosa reggia attorniata da uno splendido parco, in una villa denominata il Meleto proprietà del nonno materno, luogo a cui rimarrà legato tutta la vita. Frequenta il ginnasio prima a Torino ma si dimostra un mediocre studente e dopo esser stato bocciato si trasferisce in un collegio di Chivasso.
Il castello di Agliè
Dopo la morte del padre torna a studiare a Torino e poi dopo un ennesimo trasferimento riesce finalmente a conseguire la licenza liceale al Collegio Nazionale di Savigliano. Si inscrive alla Facoltà di legge ma non otterrà mai la laurea, poichè preferisce frequentare i corsi di letteratura, tenuti allora da Arturo Graf il quale, oltre che alle regolari lezioni riservate agli studenti, era impegnato in pubbliche conferenze sia nelle aule universitarie, le cosiddette «sabatine», sia nelle sedi della rivista «La donna». Frequenta la “Società di Cultura” un circolo sito dapprima nella Galleria Nazionale di via Roma e poi, dal 1905, nell'attuale via Cesare Battisti, a fianco di Palazzo Carignano. 
Si interessa di D’ Annunzio, legge Hérédia, Verlaine, Francis Jammes, Laforgue, Samain, Rodenbach, Maeterlink, e i classici italiani che gli vanno a genio sono Dante, Petrarca, Leopardi. Si lega ad artisti più o meno noti, s’ appassiona al teatro, ama moltissimo l’ arte di Emma Gramatica e di Lydia Borelli e nel 1907 pubblica la sua prima raccolta di poesie “la via del rifugio”, stampata da Renzo Streglio. Inizia il romanzo d’ amore con Amalia Guglielminetti, che ha dato da poco alla stampa le Vergini Folli dove sonetta in un suo modo sostenuto e spregiudicato. Guido incontra Amalia alla Società di Cultura e la liason mai molto incandescente almeno per parte di lui si trasforma in amicizia. Purtroppo nel 1907 si scopre ammalato di tisi e si divide tra le villeggiature fra il mare ligure e la montagna piemontese sognando viaggi salutari e scrivendo lettere agli amici più intimi come Carlo Vallini. 
1911 - Esposizione Universale
Nel 1911 proprio l’ anno della grande Esposizione Universale pubblica il suo più importante libro “ I Colloqui” una consacrazione presso il grande editore milanese Treves, un bel salto d’ immagine. Gozzano scopre la nostalgica pietà e il ricordo del suo passato, che tempera in versi bellissimi, pieni di voci e di suoni, Graziella, Speranza, Felicita, Jeannette, Gianduia ridarello, l’ amore delle cameriste, la nostalgia per l’ odore dell’ aglio e per il profumo di cedrina, i segnali insomma di un profeta che nell’ imminenza delle trasformazioni tecnologiche di fine secolo ha avvertito la fine, per sempre della civiltà agreste. 
1911 - Esposizione Universale
Infatti Torino sta in bilico tra il vecchio dialetto e un parlar italiano più raffinato, tra le ultime carrozze e i primi taxi e vive l’ esplosivo sviluppo industriale dovuto soprattutto al boom delle imprese automobilistiche. Dopo la visita nei padiglioni della grande Esposizione del 1911, fugge in cerca di un impossibile rimedio ritirandosi nei ricordi di un passato che sta lentamente scomparendo. Alla base dei suoi versi vi è un romantico desiderio di felicità e di amore che si scontra presto con la quotidiana presenza della malattia, della delusione amorosa, della malinconia che lo porta a desiderare vite appartate e ombrose e tranquilli interni casalinghi. Tra i temi essenziali al mondo poetico di Gozzano vi è l'immagine della città natale, di quella sua amata Torino alla quale egli costantemente ritornava. Torino raccoglieva tutti i suoi ricordi più mesti ed era l'ambiente fisico ed umano al quale egli sentiva di partecipare in modo intimo con sentimento ed ironia. Alla Torino contemporanea proiettata verso le nuove tecnologie era certamente assai più cara al poeta la Torino dei tempi andati, quella Torino antica e un po' polverosa che suscitava nel poeta quegli accenti lirici carichi di nostalgia.
1911 - Esposizione Universale
Nel 1912, aggravatosi il suo stato di salute, il poeta decise di compiere un lungo viaggio in India per cercare climi più adatti. La crociera, durata dal 6 febbraio 1912 fino al maggio seguente, compiuta in compagnia del suo amico Garrone, non gli diede il beneficio sperato ma lo aiutò, comunque, a scrivere, con l'aiuto della fantasia e di molte letture, gli scritti di prosa dedicati al viaggio. Tuttavia, i versi scritti durante il viaggio furono distrutti per ordine di Guido, perché da lui ritenuti osceni (si salvarono soltanto Ketty e Natale sul picco d'Adamo). Le lettere dall'India uscirono su La Stampa di Torino, e furono in seguito raccolte in volume e pubblicate postume nel 1917, presso l'editore Treves, con il titolo "Verso la cima del mondo, Lettere dall'India (1912-1913)", con prefazione di Giuseppe Antonio Borgese. Ma prossimo alla fine si ritira nel 1914 in una fuga a ritroso nel tempo ed a accoglierlo ancora una volta è l'amata villa del Meleto di Agliè, dove lavora su un poemetto sulle farfalle compiendo da poeta il suo ingresso crepuscolare nel mondo dei morti. Nella città che scoperto da poco la febbre del cinema fa ancora in tempo a ritornare e pensare alla stesura di un film ( allora si diceva ad una film) su San Francesco d’ Assisi. Ma non c’è più tempo per girare, perché Guido muore il 9 agosto 1916 nell’ appartamento di via Cibrario: una di quelle diritte vie di Torino, da cui si può osservare sullo sfondo il bianco delle Alpi, con le creste che paiono nitide e vicine. Mentre i sogni di una nuova tecnologia portatrice di pace progresso e felicità si vanificano nell’ immane tragedia della guerra..

Ora è sepolto nella chiesa di San Gaudenzio nella sua amata e tranquilla Agliè.

Luciano Querio


Bibliografia

Mario Soldati Ritratti storici La Stampa di Torino

Maria Rosa Masoero Gozzano Libri e Lettere Firenze Olschki

Il Malleus Maleficarum e la caccia alle streghe

$
0
0
Durante il primo periodo della storia moderna, dal 1450 al 1750, migliaia di persone furono processate per il reato di stregoneria: oltre la metà di loro fu condannata a morte, solitamente il rogo. 
La grande caccia alle streghe in Europa fu essenzialmente un’operazione giudiziaria. L’intero processo di scoperta ed eliminazione delle streghe, dalla denuncia alla condanna, si svolgeva nell’ambito e sotto il controllo del sistema giudiziario.
Tale sistema era talmente penetrante negli animi dei giudicati che molte donne, accusate di stregoneria si tolsero la vita, pur di sottrarsi al meccanismo infernale.
Occorre ricordare che alcuni studiosi hanno formulato l’ipotesi, fantasiosa ed inverosimile, che le streghe si togliessero la vita per sfuggire al controllo del demonio: per sottoscrivere quest’affermazione occorrerebbe insinuare il dubbio che il demonio possa esistere.
Nel periodo della grande caccia alle donne, accusate di stregoneria, non sempre i tribunali riuscirono a tenere sotto controllo gli abitanti dei villaggi, i quali molte volte decisero che la soluzione migliore, e più veloce, era quella di ricorrere alla giustizia sommaria: formavano dei comitati di salute pubblica ed in preda all’eccitazione giustiziavano le povere donne sommariamente.
Voglio inserire in questa situazione un’affermazione di Brian P. Levack: “Si può ipotizzare con una certa chiarezza che la netta maggioranza delle persone giustiziate per stregoneria, durante la grande caccia, fu processata e condannata in maniera formalmente legale”.
Dobbiamo fare uno sforzo e fermare il dolore che sale dalle viscere.
Molti accusano lo scrivente di non contestualizzare i fatti, gli accadimenti.
Una religione non dovrebbe perseguire l’obiettivo, chiaro e netto, di processare, torturare ed infine giustiziare, per il giusto tramite del braccio secolare, delle povere persone la cui unica colpa è di appartenere, spesso ma non sempre, alle categorie emarginate della società.
Non mi soffermo sulle leggi relative all’eliminazione di lebbrosi ed ebrei del periodo compreso tra il Trecento ed il Quattrocento, non è questo l’ambito idoneo.
Nel mio lungo peregrinare per i secoli passati sono giunto ad una semplice conclusione: se non si fosse creata l’evoluzione culturale e giuridica, la caccia alle streghe non sarebbe esistita, perlomeno nella forma e nelle dimensioni che finì per assumere.
Una seconda conclusione cui è giunto colui che vi scrive è la seguente: l’evoluzione culturale e giuridica furono cause necessarie ma non sufficienti al perdurare di un fenomeno che costò la vita a migliaia di persone.
Occorre un approccio diverso da quello predominante che liquida tuot-court il problema come puramente fantastico, o frutto di credenze popolari. Dovremmo sforzarci di capire perché a un certo punto della storia vi sia un’improvvisa e quasi morbosa attenzione per un fenomeno largamente conosciuto nei secoli precedenti, dal periodo pre-cristiano a quello longobardo. Teocrito parlava delle streghe della Tracia e della Tessaglia, Orazio parla di lamiae che mangiano i bambini e poi restituiscono i corpi intatti, infine Ovidio parla di striges come di uccelli rapaci che insidiano i bambini nelle culle. Avanzando nel tempo, la stria o striga è già documentata nell’Editto del re longobardo Rotari del 643.
Evoluzione culturale e giuridica non furono sufficienti.
Rivendendo la storia di quel periodo angusto ho trovato un altro fattore che potrebbe essere alla base dell’eliminazione delle donne: la nuova prospettiva religiosa.
Il cambiamento più importante fu la Riforma, movimento che frantumò la pretesa d’unità del cristianesimo medievale. Obiettivo della Riforma fu di riportare la Chiesa alla purezza delle sue origini cristiane.
Una domanda sorge in tutti noi: quale fu l’importanza di questa nuova prospettiva religiosa?
La prima risposta nasce spontanea: smosse i paesi cattolici a riformare a loro volta la Chiesa, portando alla nascita della Controriforma. Furono introdotte una serie di riforme amministrative e liturgiche che modificarono profondamente la Chiesa e che mutarono gli equilibri che si stavano creando. Un aspetto da ricordare è quello relativo ai missionari della Compagnia di Gesù, fondata in quel periodo storico, e d’altri ordini religiosi che s’impegnarono nell’opera di riconversione al cattolicesimo dei protestanti.
Rileggendo la storia appare azzardato attribuire alla riforma, o più in generale al mutato ordine religioso, la responsabilità della caccia alle streghe: i processi per il reato di stregoneria iniziarono cento anni prima rispetto al momento in cui Martin Lutero affisse le sue 95 tesi nella chiesa del castello di Wittenberg.
La convinzione, di quest’affermazione, si trova nel numero relativamente modesto di processi per stregoneria del primo periodo posteriore alla Riforma – dal 1520 al 1560.
Ci furono altre cause alla base della caccia alle streghe?
Durante il periodo della Riforma, la consapevolezza della presenza del diavolo si fece più forte rispetto al periodo storico precedente. Martin Lutero affermò: “Il diavolo vive, anzi regna nell’universo mondo”.
Per comprendere la paura del demonio dobbiamo compiere un passo indietro nel tempo: nel 1484 Papa Innocenzo VIII promulgò la bolla Sumis Desiderantes Affectibus, il cui significato – desiderando con supremo ardore – ci permette di comprendere l’atmosfera che regnava a cavallo tra XV e XVI secolo. In questa bolla il Papa affermava la necessità di sopprimere la stregoneria nelle valli del Reno, nominando i frati domenicani Kramer e Sprenger inquisitori incaricati di estirpare il male in quell’angolo di mondo. I due frati, autori del Malleus Maleficarum, utilizzarono la bolla del Papa come introduzione al libro, che fu stampato tra il 1486 ed il 1487. I due frati rimproveravano tutti coloro, soprattutto religiosi e studiosi, che minimizzavano le credenze popolari ritenendole superstizioni: occorre ricordare che molti eminenti rappresentanti del cristianesimo dubitavano della reale presenza di streghe e stregoni. Il Malleus Maleficarum rimase sino al XVII secolo il manuale più consultato dagli inquisitori che si occupavano di caccia alle streghe, sia cattolici che riformati, perché spiegava proposizione per proposizione come comportarsi in ogni occasione.
Il Martello delle Streghe – questa una delle traduzioni più conosciute – non fu mai adottato ufficialmente dalla Chiesa cattolica, ma non fu mai inserito nell’indice dei libri proibiti.
Il Malleus Maleficarum non rappresentò una novità: gran parte del contenuto era estrapolato dal Directorium Inquisitorum di Nicolas Eymerich e dal Fornicarius di Joahnnes Nideri.
Il libro è diviso in tre parti: della natura della stregoneria, dell’utilizzo della stregoneria e della cattura, del processo, della detenzione e dell’eliminazione fisica della strega.
Il Malleus Maleficarum stabiliva l’indissolubile legame tra stregoneria e sesso femminile, autorizzando la soluzione finale. Utilizzando le parole di Ester Cohen risulta che: “Nelle sue pagine la strega fu fissata e racchiusa in una cella dalla quale non riuscirà ad uscire prima degli inizi del XVIII secolo”.
La paura del diavolo fu la principale causa del fenomeno relativo alla caccia alle streghe?
Probabilmente si, necessario e sufficiente.
Vorrei aggiungere particolari poco noti o dimenticati nelle nebbie del tempo.
Un passaggio importante è legato alla medicina ufficialmente riconosciuta. Negli anni che seguirono la pubblicazione del Malleus Maleficarum l’inquisizione fu coadiuvata da coloro svolgevano la professione medica.
Quali i motivi alla base del loro intervento?
Per spiegare tali motivazioni dobbiamo introdurre la presenza delle donne sagge – sages femmes – identificate con la figura delle levatrici. Queste donne erano in grado di alleviare i dolori del parto quando, al massimo, alle partorienti era consigliato di pregare. Nella Bibbia ritroviamo scritto: “[...] alla donna disse moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli. Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà.”
Dove ritroviamo le levatrici in questo vorticoso rincorrersi del tempo?
Nel Malleus Maleficarum le sages femmes erano un pericolo da affrontare, poiché causavano i danni maggiori arrivando ad uccidere i bambini per offrirli al demonio. Le levatrici debbono essere cancellate dalla storia. La religione cura con la parola, le sages femmes con sostanze reali che potevano lenire i dolori: tra il parroco e la levatrice, la partoriente chi ascoltava?
Per la stessa natura della professione svolta, queste donne erano vulnerabili poiché si poteva facilmente imputare loro la morte del bimbo, in un tempo dove 1/5 dei bambini moriva alla nascita o nei primi mesi di vita. L’accusa alla levatrice era funzionale e plausibile, offrendo ai genitori uno strumento di vendetta.
Le levatrici erano chiamate ad aiutare ma anche accusate.
Erano necessarie ma temute.
Furono un dono.
Lo compresero tardi.
Dobbiamo cercare nella cenere dei roghi la comprensione di questa figura femminile.
Le conoscenze di queste donne furono gradualmente assorbite dalla medicina ufficiale, lasciando scomparire una figura che riuscì a sopravvivere nella cultura contadina ancora legata alla natura.
La visione di queste donne risulta, agli occhi dell’uomo moderno, confusa e corrotta: come spiegare l’interpretazione dei contemporanei?
Potrebbe venirci in aiuto un medico veronese, Alessandro Benedetti, vissuto a cavallo tra il XV ed il XVI secolo: l’ostetrica deve essere robusta, giovane, prudente, provvista di una disposizione naturale a quest’esercizio e alquanto audace. Cerchi tener sollevato l’animo della primipara, non dimostri eccessiva avidità di denaro, sia faceta ed ilare e sempre pronta a rimuovere in modo adeguato e rapido ogni difficoltà ed ostacolo al normale procedere del parto. Sia intelligente ed anziché perdersi in chiacchiere, non si dimostri lenta nell’operare come nel legare il cordone al neonato. E’ necessario che sia religiosa perché spesso il feto nasce come morto ed in tal caso se prima di legare il cordone è respinto il sangue dentro, il bambino che altrimenti sarebbe morto può sopravvivere, come se avesse avuto un nutrimento.
Ritengo che tutte le cause furono necessarie ma non sufficienti, ad eccezione di una: la paura del diavolo.
L’immaginaria figura del demonio, scaturita dalla mente di misogini e sadici, costò la vita a decine di migliaia di donne, la cui unica colpa fu di proporre aiuto al prossimo.
Il Malleus Maleficarum permise ad intere generazioni di uomini di staccare la spina del proprio cervello, ragionando in funzione di quello che trovavano all'interno del libro.
A partire dal 1487, e sino alla fine del 1600, il manuale per gli inquisitori fu stampato e venduto in oltre 30000 copie: solo la Bibbia nello stesso periodo trovò maggiore successo.
Come concludere?
Un pensiero che lega la storia dell'Inquisizione a quella dell'altro ieri: l’infamante accusa di mangiare i bambini è stata un’arma utilizzata spesso dalla Chiesa Cattolica per sminuire il prossimo e renderlo un mostro agli occhi della comunità.

Fabio Casalini



Bibliografia

Michael Baigent e Leigh Richard. L'inquisizione. Persecuzioni, ideologia e potere. Il saggiatore, 2004

Gianbattista Beccaria. Le streghe di Baceno in Domina et Madona. Antiquarium Mergozzo, 1997

Natale Benazzi, Matteo D'AmicoIl libro nero dell'inquisizione. La ricostruzione dei grandi processi. Piemme, 1998

Cammilleri Rino. La vera storia dell'inquisizione. Piemme. 2006

John Edwards. Storia dell'inquisizione. Tra realtà e mito. Oscar Mondadori, 2006

Franco Cardini, Marina Montesano. La lunga storia dell'inquisizione. Luci e ombre della «leggenda nera». Città Nuova Editrice, 2005

Brian P. Levack. La caccia alle streghe in Europa. Laterza, 2012

Alessandra Micheli. I roghi delle streghe, storia di un olocausto. Caravaggio Editore, 2008

Giovanni Romeo. L'Inquisizione nell'Italia moderna. Laterza, 2002

Pietro Tamburini. Storia generale dell'Inquisizione, 1862.

Sebastiano Vassalli, La Chimera. Giulio Einaudi Editore, 1990

Immagini

1-2 Hans Baldung - rappresentazione delle streghe - 1508
3-4-5 Francesco Maria Guazzo - Compendium Maleficarum - 1608

Acanto ed altre antiche essenze

$
0
0
Incamminandosi nella storia dell’arte s'incontrano molte ispirazioni floreali. D'altronde, l’espressione artistica è nata quando la natura era tutto: cielo, terra, animali (uomini compresi) e vegetali. Era lei che creava, sfamava, stupiva, curava, feriva, uccideva... ogni potere era suo! 
Ci ha ispirato decorazioni ornamentali e soprattutto comunicative, suggerendo simboli tramite cui rappresentare la vita e la morte e tutte le esperienze e speranze ad esse legate: un linguaggio collettivo! Temo però che col tempo si siano sovrapposte tante collettività e sempre più personalizzazioni e che le tante "essenze" di ognuna non si siano unite in un'armoniosa fragranza ma confuse in un indefinibile odore. Qualcuno sa ancora usare quei linguaggi ma ne risulta un prezioso condividere collettivo o uno sfoggio di cultura tra pochi?
Nonostante il pessimismo di questi sovrappensieri credo di percepire in molti la voglia di riscoprire il passato e personalmente mi piace cercarne qualche pezzetto tramite i soggetti che mi ispirano a creare, facendo qualche passo indietro, verso le loro origini e la loro "essenza".
Quello che ha dato il via a pensieri e progetti è la foglia d'acanto, elemento tipico del capitello corinzio. Esiste una leggenda che ne racconta l'ispirazione, narrando di Callimaco che avrebbe visto un cespo di acanto fare da piedistallo ad una tegola quadrata. La tegola doveva fare da coperchio ad una cesta contenente oggetti personali di una giovane defunta ma il contenitore era stato adagiato sulla tomba della ragazza dalla sua nutrice e col tempo v'era cresciuta attorno la pianta, ispirando sia l'elemento architettonico che la sua associazione al concetto di immortalità.
Cercando l'acanto è facile trovare le palmette: capita che i due vegetali vengano rappresentati insieme, alternatamente o in punti diversi di un'unica struttura e a volte si può restare nel dubbio se sia l'una o l'altra; sicuramente succede perchè sono stilizzazioni di fogliami dal portamento simile ma forse accade anche perchè una forma può aver ispirato l'altra, magari la più lineare palmetta potrebbe essere stata l'idea di partenza ed i frastagliati contorni dell'acanthus spinosus o dell'acanthus mollis uno spunto per arricchirla. Non posso certo dire d'aver inventato un nuovo iter, ispirandomi all'arte del passato per le nuove creazioni!
Forme simili e tante varianti, perchè stilizzate da tante mani differenti, perchè suggerite da sempre più spunti e personalizzazioni e perchè realizzate in tante... pose! Di fronte o di lato, dall'alto o dal basso ma soprattutto, leggendo a proposito di queste decorazioni, nelle analisi viene sovente specificato se si tratta di forma "chiusa" o di forma "aperta". Ma i vegetali a tema non sono finiti e tra poco troveremo un vero e proprio sbocciare.
Complichiamo ancora un po' le idee (o forse è meglio dire la vista)? Le palmette hanno anche altri compagni di viaggio nell'arte: si trovano spesso insieme a fiori di loto papiri ed anche questa volta, ammirando le varie forme stilizzate, riconoscere quale pianta il decoratore abbia voluto rappresentare può richiedere un po' d'attenzione.
Il loto è senz'altro una pianta eccezionale, infatti sono molte le culture in cui assume un valore simbolico, spesso legato al fatto che si sviluppa in habitat fangosi per poi crescere salendo nell'acqua fino ad uscirne, sbocciando in un fiore immacolato e profumato e che produce semi che possono rimanere vitali per centinaia di anni; tutto questo non può che ispirare purezza, elevazione spirituale, nascita, rinascita... addirittura l'inizio di tutto: la creazione del mondo.
A proposito della creazione del mondo mi hanno particolarmente affascinata delle immagini di antiche colonne egiziane costruite proprio come fossero fiori di loto o papiri (simili nella struttura e quindi nella simbologia), con in cima allo stelo un capitello dalle sembianze di calice floreale, sorreggendo il tempio con una bellissima struttura ma rendendolo anche luogo d'eccezionale sacralità, ricreando uno stagno primordiale.

Le radici simboliche di queste piante possono arrivare oltre (nel tempo e nella geografia) a quanto io ho accennato e quindi non ho saputo farvi annusare perfettamente le "essenze" di queste piante ma forse ve ne ho fatto almeno percepire un sentore, spero gradevole e stimolante.

Arrivederci tra i prossimi post!

Anna Bernasconi
Blog personale "Tra Realtà e Fantasia" al link annabernasconi.blogspot.com

Note bibliografiche:
lo spunto dell'atmosfera primordiale nei templi arriva da "Arte egiziana" un piccolo libro di Rose-Marie Hagen e Rainer Hagen, edito da TASCHEN, casa editrice specializzata in libri d'arte e che propone ottimi materiali illustrativi anche a prezzi particolarmente accessibili.
Viewing all 679 articles
Browse latest View live


<script src="https://jsc.adskeeper.com/r/s/rssing.com.1596347.js" async> </script>