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Channel: I Viaggiatori Ignoranti
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La strage dei bimbi di Gorla

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Gorla è un quartiere di Milano, posto nella periferia nord - orientale della città. Per molti secoli Gorla costituì un quartiere autonomo stretto tra Greco, Crescenzago e Turro. Nel 1864 assunse il nome di Gorla Primo per distinguerlo dalle omonime località in provincia di Varese. Nel 1920 annesse il limitrofo comune di Precotto modificando il nome in Gorla-Precotto. I diversi tentativi per evitare l’annessione al comune di Milano furono inutili.  
Il 23 dicembre del 1923 il comune fu annesso alla città meneghina. 
La data della strage è nella memoria di molte persone, purtroppo non tutte: 20 ottobre 1944.
Quella mattina dall’aeroporto di Castelluccio dei Sauri, nei pressi della città di Foggia in Puglia, decollarono 36 bombardieri B-24 della 451 Bomb Group, al comando del colonnello James B. Knapp. 
Il compito assegnato alla compagnia 451 Bomb Group? 
Distruggere gli stabilimenti della Breda a Sesto San Giovanni.
In contemporanea i bombardieri della 461 Bomb Group e della 484 erano diretti su Milano, con l’obiettivo di radere al suolo gli stabilimenti dell’Isotta Fraschini e dell’Alfa Romeo.
Una pioggia di bombe attendeva il cielo di Milano, e la sua gente.
L’operazione iniziò poco prima delle 8,00 in Puglia. 
Gli aerei si alzarono in volo per raggiungere gli obiettivi. 
La 461 e la 484 raggiunsero gli obiettivi prefissati causando piccoli danni collaterali. Le officine dell’Isotta Fraschini e dell’Alfa Romeo furono centrate dai bombardieri americani. Le cronache raccontano di poche vittime tra i civili. Le morti di persone non collegate all’obiettivo militare appaiono come danni collaterali. Mai definizione può considerarsi più cruda e sbagliata: una sola vita umana distrutta per errore rappresenta un orrore e non un danno collaterale. 
La guerra ha le sue regole. 
La fine arriva dal cielo.
Splendido cielo azzurro.
Le officine della Breda devono essere distrutte.
L’attacco è ripartito in due ondate, per non essere facili bersagli per la contraerea.
La prima ondata non centrò l’obiettivo prefissato a causa d’errori nella procedura di lancio del materiale bellico: le bombe sganciate in anticipo colpiscono l’aperta campagna.
La seconda ondata – a causa di probabili errori di trascrizione delle coordinate – si trova fuori posizione rispetto all'obiettivo. 
Non è possibile tornare alla base con le bombe innescate.
Devono essere lanciate.
Il comandante decise di liberarsi immediatamente del carico.
I resoconti ci narrano la possibilità di cui disponeva chi guidava l’attacco: sganciare la morte che arriva dal cielo in aperta campagna, sulla rotta per Cremona. 
Questo non avvenne nonostante le favorevoli condizioni atmosferiche permettessero una chiara distinzione tra obiettivi militari ed abitazioni civili.
Alle 11,27 i bombardieri americani vomitano morte dal cielo.
Alle 11,29 gli abitati di Gorla e Precotto sono investiti da un quantitativo enorme d’esplosivo.
L’inferno sulla terra di Milano.
Case, negozi, officine e scuole diventano bersagli.
Urla.
Lacerazioni.
Morte.
Dolore.
Milano non sarà più la stessa.
Le bombe investono la scuola elementare Francesco Crispi uccidendo 184 scolari, 20 insegnanti ed altri 18 piccoli bimbi, portati in braccio dalle madri accorse sul luogo di morte al primo allarme con l’obiettivo di portare in salvo i figli che frequentavano la scuola.
Un’intera generazione scomparsa.
Quel giorno Milano contò oltre 600 vittime dei bombardamenti.
Dalle macerie furono estratte diverse centinaia, se non migliaia, di feriti.
Il responsabile di tutto questo ha un nome ed un cognome: James B. Knapp comandante della United States Army Air Force.
La prefettura di Milano, subito informata, dispose i primi soccorsi. La tragedia apparve immediatamente nella sua reale dimensione. 
Dalle macerie piccoli cadaveri.
Un prete si distinse: don Ferdinando Frattino che contribuì al salvataggio di diversi bambini.
L’unico commento – nei giorni degli eventi – all’errore dei bombardamenti fu del colonnello Stefonowicz, da cui dipendeva il 451° Group, che criticò pesantemente l’operato delle forze aeree americane, non per le vittime civili, ma per il danno d’immagine causato dallo scadente lavoro di quel giorno d’ottobre.
Nessuno fu chiamato sul banco degli imputati, malgrado si conoscano i responsabili.
Ora, lettori e lettrici, riguardate la foto d’apertura a quest’articolo e chiedetevi: quei corpi mutilati di bimbi senza futuro meritano giustizia?
Questa volta lascio a voi la conclusione.
A noi cosa rimane di tutto questo orrore?
Un vuoto incolmabile dentro il cuore.
Il nostro popolo dimentica.
Una frase di W. Churchill ha sempre colpito la mia immaginazione: "Gli italiani perdono le partite di calcio come se fossero guerre e perdono le guerre come se fossero partite di calcio."
Siamo sinceramente convinti che vogliamo scoprire la verità?
Ci appoggiamo alle nostre piccole certezze come fosse un cuscino sul quale addormentarsi.
La storia dovrebbe insegnare.
Francesco De Gregori cantava:
"la Storia non ha nascondigli
la Storia non passa la mano
la Storia siamo noi."
Dovremmo essere pronti a riscrivere la storia.
Ci hanno liberato ma  questo non significa perdonare l'orrore.


Fabio Casalini


Bibliografia
Achille Rastelli, Bombe sulla città, Mursia, 2000

Webografia
http://www.piccolimartiri.it

Il materiale fotografico è stato reperito dal sito www.piccolimartiri.it. Come specificato all'interno del sito stesso le immagini sono libere ma era gentilmente richiesto un preavviso per l'utilizzo. Mi sono premunito di scrivere una mail all'indirizzo proposto 10 giorni addietro. A tutt'oggi non ho ricevuto risposta. Certo di aver gentilmente ottemperato alla loro richiesta, pubblico il materiale - che ripeto non è di loro proprietà - recuperato per il loro tramite.
[Fabio Casalini]

L'ultimo capolavoro di Michelangelo

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Arrivando a Roma in treno a poche centinaia di metri dal piazzale troviamo Piazza repubblica, meglio nota ai romani come Piazza Esedra, al centro della quale - purtroppo ora solo come una sorta di spartitraffico - fa bella mostra di se la fontana delle Naiadi, le ninfe che proteggevano le acquee dolci della terra.
Sulla fontana vi sono quattro statue bronzee raffiguranti altrettante figure femminili nude, in sensuali pose chi adagiata sopra un mostro marino, chi sopra un drago, una terza su un focoso cavallo e l’ultima sopra un cigno. Tutte le statue, quando la fontana è in funzione, sono bagnate da un grosso zampillo proveniente dal centro della fontana sul quale la luce del sole capitolino si infrange donando loro ancora maggior splendore.
Su una parte del perimetro della piazza si affacciano le terme di Diocleziano, che sarebbero rimaste solo un’antica eredità, se il genio di Michelangelo non avesse trasformato il “Frigidarium” e “Tepidarium” nella meravigliosa Basilica di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri integrandola nel complesso delle terme esistente senza alterarne la struttura. 
La basilica venne edificata nel 1561 per volontà di Antonio Lo Duca, sacerdote devoto al culto degli angeli che vi ha dedicato tutta la sua vita fino alla morte avvenuta pochi giorni dopo la scomparsa del Maestro.
Al fine di isolare la chiesa dagli ambienti umidi delle terme Michelangelo fece realizzare un innalzamento del pavimento di oltre 2 metri, sfruttando una serie di ambienti vicini realizzò un impianto a croce greca includendo le otto maestose colonne in granito rosso da 14 metri che è ancora possibile ammirare nell’edificio che sorreggono la volta romana originale delle terme.
E’ possibile entrare da 2 porte, quella di destra ha raffigurazioni che riportano all’annunciazione mentre quella sinistra è dedicata alla resurrezione: entrambe conducono a un vestibolo circolare che fa da atrio al corpo centrale.
Nella chiesa sono presenti diverse preziose opere artistiche tra le quali 8 pale d'altare provenienti dalla basilica di San Pietro che furono collocate nel 1725 per preservarle dall’umidità.
Entrati nel corpo centrale della chiesa non è difficile identificare sul pavimento una meridiana voluta dal Papa Clemente Undicesimo Albani in occasione del Giubileo del 1700, anche perché è attualmente transennata per evitare il logorio dovuto al calpestio dei molti turisti. In un connubio tra fede e scienza, l’opera fu affidata all’astronomo Francesco Bianchini che si avvale anche dell’aiuto del matematico Gianfranco Maraldi parente dello scienziato autore della meridiana di San Petronio a Bologna.
La Meridiana di Santa Maria degli Angeli, strumento scientifico per la misurazione del tempo tra le più preziose al mondo, è una linea bronzea inserita in una fascia di marmo di circa 45 metri alle cui estremità sono rappresentati il segno zodiacale del Cancro e del Capricorno che rappresentano rispettivamente il solstizio d’estate e quello d’inverno.
In alto, su una delle volte della chiesa, lo stemma di Clemente XI al centro del quale vi è un foro che permette il passaggio della luce solare che percorre, durante tutto l’anno, l’intero sistema illuminando sul lato destro le costellazioni estive e autunnali mentre su quello sinistro la rappresentazione di quelle primaverili e invernali.
La meridiana oltre che per uno scopo ornamentale fu utilizzata anche per calcolare esattamente la data della Pasqua che cade la 1° domenica dopo il plenilunio che segue l'equinozio di primavera. La meridiana fu lo strumento con il quale si regolarono gli orologi di Roma fino al 1846 quando, per volere di papa Pio IX affinchè le campane delle chiese suonassero all’unisono, un cannone ai piedi della statua di Garibaldi in cima al colle del Gianicolo iniziò a sparare a salve per annunciare il mezzogiorno: nelle giornata più silenziose è possibile udirlo sino all’Esquilino.


Marco Boldini


Le pietre sacre e quel tempo andato che non ritornerà

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Pietra che sorregge il Santuario dalla Gurva a Calasca Castiglione. Segni di cristianizzazione del masso
Utilizzando le parole di Mircea Eliade, la pietra è.
Mircea Eliade nacque a Bucarest nel 1907 e si spense a Chicago nel 1986. E' stato uno storico delle religioni, antropologo, scrittore e saggista. Uomo di grande cultura, assiduo viaggiatore. Parlava correttamente otto lingue - tra cui il sanscrito ed il persiano. 
Chiunque voglia iniziare un percorso di conoscenza delle antiche religioni incontra i suoi saggi, non sempre facili ma di grande impatto emotivo e storico.
La pietra è.
In queste scarne parole vi è tutta la sostanza della materia.
La pietra rimane sempre se stessa e perdura nel tempo.
Vi era prima di noi, ci accompagna lungo il cammino e sarà dopo di noi.
Anche nella coscienza religiosa dell'antico abitante questo concetto era contemplato.
La pietra non solo rimane se stessa ma colpisce. L'uomo primitivo prima di utilizzarla la colpiva: lo sguardo anticipava il corpo.
La pietra non è umana: l'uomo nell'incontro con la roccia si avvicina ad una realtà diversa. 
Un mondo diverso.
Per gli antichi le pietre appartengono al divino, sono rappresentazioni del divino.
Le antiche popolazioni adoravano la pietra in quanto tale?
Difficile da supporre.
Scivolo della fertilità presso il Monte Zuoli ad Omegna - Verbania
L'uomo adorava la pietra in quanto manifestazione di un mondo diverso a lui sconosciuto. 
Una particolare forma di pietra sacra è rappresentata dalla pietra fecondatrice. L'idea di base è inerente al fatto che determinate pietre possano fecondare le donne. Alcune pratiche sussistono ancora nel XIX e XX secolo.
Dalle pietre fecondatrici si giunge per inerzia alla scivolata: per avere figli le donne scivolavano lungo una pietra consacrata. Se poi scivolassero o ci girassero intorno o si sfregassero ancora non è un dato certo. Tra gli studiosi la scivolata rimane l'ipotesi più accreditata, anche se personalmente la trovo di difficile esecuzione poiché tale movimento avrebbe potuto creare danni al fisico delle donne.
Alla scivolata si accoppia la frizione che viene praticata per diversi svariati motivi inerenti la salute, ma specialmente dalle donne sterili.  Nella zona di Saint-Renan, in Francia, la donna che desiderava un figlio si coricava per tre notti consecutive sopra una grande roccia. Nella stessa zona i novelli sposi venivano a strofinare il ventre contro la pietra, chiamata cavalla di pietra. La pratica non è esclusiva della zona chiamata Finistère, ma era abituale in tutto l'arco alpino, con varianti di valle in valle. 
Pietra con segni di cristianizzazione presso Calasca Castiglione - Verbania
Sempre in Francia, a Carnac, le donne andavano a sedersi sopra un dolmen sollevando la gonna. Battevano le natiche ed utilizzavano la roccia come elemento fallico che nasceva dalla terra. 
L'uomo moderno ha dimenticato le antiche pratiche.
Ha voluto lasciarsi alle spalle il passato.
Il corpo ricorda quello che la mente dimentica.
L'avvento della nuova religione - il Cristianesimo - cercò di impedire queste pratiche piantando una croce sulla roccia, il più delle volte cristianizzando il masso con simboli legati alla propria fede. 
Un'altra pratica era quella di porre candele accanto alla pietra sacra per raccoglierne l'olio che era stato preventivamente sparso sopra di esse. Si presume che anche questa - antica - pratica avesse effetto curativo in riferimento alla fertilità.
Non dobbiamo limitarci alla sola richiesta di procreare.
Numerosi megaliti favoriscono i primi passi dei bimbi o assicurano loro buona salute. In Francia i genitori portavano il neonato alla pietra forata e lo facevano passare attraverso il foro. Era il battesimo della pietra destinato a preservare il bambino  da malefici. Possiamo comprendere come il battesimo cristiano abbia sostituito questo procedimento, con l'aggiunta di liberarsi dal peccato originale, problema mentale che gli antichi abitanti non dovevano affrontare. 
A Cipro, esattamente a Pafo, il foro era simbolo universale per le donne sterili, poiché passano attraverso una roccia per chiedere la fertilità.
Il Cristianesimo ha combattuto ogni tipo di antico rituale: la loro sopravvivenza nonostante il clero è una prova del vigore di queste pratiche. 
La maggior parte delle altre cerimonie relative alle pietre sacre o consacrate sono del tutto scomparse. Rimane quello che avevamo di essenziale: la fede nella loro virtù fecondatrice. 
La nuova religione ha implementato - dove non riusciva a cancellare - queste credenze, rafforzandole con la presenza di un santo. Il cristianesimo ha trasformato la teoria della credenza in qualcosa di pratico, giustificandolo con la leggenda del santo che utilizza la pietra o con interazioni dei sacerdoti.
Santuario della Madonna della Gurva, Calasca Castiglione - Verbania
Un'analisi a parte, in questo nostro breve cammino di scoperta, merita la pietra su cui è addossato il santuario della Madonna della Gurva a Calasca Castiglione, in provincia di Verbania. Il luogo suscita mistero ed incredulità. Il mistero è legato alla presenza del masso cui è appoggiato il Santuario. L'originaria cappella è stata eretta direttamente sulla pietra, come se i simboli di cristianizzazione del masso non fossero utili a levare la sua primitiva forza - definita - pagana.  Sembra di sentire quelle voci: "Se le croci non bastano costruiamo una cappella dedicandola alla Madonna". La forza della nuova Madre per sconfiggere la forza della vecchia Madre. L'icona - in un tempo lontano - è stata protagonista di fatti prodigiosi, definiti miracolosi. Eventi legati alla trasudazione di sangue. Non siamo nuovi, in Ossola, ad assistere a manifestazioni di tale portata: ricordo la Madonna di Re ed il sanguinamento, non spontaneo, dell'icona affrescata sulla chiesa dedicata a San Maurizio.
Ritornando al masso, le domande si sprecano: da dove arriva? da quanto tempo si trova in quella posizione? 
Le domande non troveranno mai una risposta.
Cosa possiamo comprendere?
Il masso era legato ad antichi riti, non si spiegherebbero in altro modo i simboli di cristianizzazione, di cui si è persa memoria.
L'uomo ha scordato tutto questo, rimosso dalla forza della nuova religione.
Mai come in questo caso possiamo affermare che il tempo andato non ritorna più.

Fabio Casalini



Bibliografia

- Eliade Mircea, Religioni del Mediterraneo e del Vicino Oriente antico (11º volume dell'Enciclopedia delle religioni -17 volumi- diretta da Mircea Eliade), Milano: Jaca Book, 2002
- Eliade Mircea, Religioni dell'Eurasia (12º volume dell'Enciclopedia delle religioni -17 volumi- diretta da Mircea Eliade), Milano: Jaca Book, 2009
- Eliade Mircea, Trattato di storia delle religioni, Torino: Bollati Boringhieri, 1999

Zoo umani. Uomini trattati come bestie

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Rinascimento epoca di luce, di magnifica produzione artistica e degrado morale, occorre ricordarlo. Nel corso del XVI secolo il cardinale Ippolito de Medici possedeva una collezione d’essere umani di diverse razze. Il cardinale si vantava di disporre d’uomini e donne di oltre venti diverse lingue: tartari, turchi, mori, indiani e varie etnie africane.[1] 
Il cardinale Ippolito de Medici precursore di quest’ignobile usanza – anche se occorre specificare che, con molta probabilità, altri prima di lui vollero dimostrare la superiorità di una certa etnia rispetto ad un’altra.
Ritengo il caso di introdurre alcune definizioni per meglio comprendere il seguito dell’articolo.
Iniziamo con la definizione di razza: raggruppamento d’individui che presentano un insieme di caratteri fisici ereditari comuni. Nel caso dell’uomo tali elementi si riferiscono a caratteristiche somatiche indipendenti dalla nazionalità, lingua o costumi.[2]
Questa definizione può considerarsi superata dall’evoluzionismo e dall’antropologia fisica.
Una seconda definizione è quella d’etnia: raggruppamento umano distinto da altri in conformità a criteri razziali, linguistici o culturali. [3]
La definizione può considerarsi superata grazie all’antropologia. Il concetto d’etnia potrebbe essere stato creato per motivazioni politiche tendenti a differenziare un gruppo piuttosto che un altro.
Il cardinale Ippolito non fu l’unico italiano precursore di quest’orrore umano: il tanto amato Cristoforo Colombo portò con se dei nativi americani, dai suoi viaggi, alla corte del Re di Spagna. Correva il 1493.[4]
Lo zoo umano nacque, in forma stabile, dal secolo XIX.
Il tempo corre e con lui la stupidità dell’uomo.
Una nuova epoca si affaccia.
Una nuova visione del mondo: l’imperialismo. In quest’ambiente si sviluppa il nuovo colonialismo, che consiste nell’azione dei governi di imporre la propria egemonia su altri paesi allo scopo di sfruttarli economicamente. I colonialisti assumono il controllo dei paesi conquistati e delle loro fonti energetiche. Non si fermano alla terra ma sfruttano anche gli abitanti.
Gli zoo umani si affermarono definitivamente dal 1870.
L’uomo – quasi moderno – inventò una definizione fuorviante, come a volersi ripulire la coscienza: esposizione etnologica. In queste mostre, sia permanenti sia itineranti, gli esseri umani potevano essere presentati in uno stato naturale. In questa situazione si voleva enfatizzare la differenza fisica e culturale tra i popoli dell’Europa occidentale ed altri europei o non europei.
Gli abitanti dei paesi non occidentali erano considerati primitivi, e si potevano trattare come animali. Il concetto fondamentale trae spunto dal razzismo scientifico nonché dal darwinismo sociale.
Il razzismo scientificoè una branca dell’antropologia formatasi in ambito universitario nel corso del XIX secolo negli Stati Uniti ed in Europa. Lo scopo principale era quello di trovare un fondamento all’ideologia razzista.
Il darwinismo socialeè una corrente di pensiero filosofica che ritiene come motore del mondo il concetto di struggle for life and death: combatti per la vita e la morte. Alla base di quest’idea vi era la ricerca di un fondamento, possiamo chiamarlo scientifico, per il pretesto con cui le parti dominanti della società cercavano di far apparire la differenza di classe come una disuguaglianza antropologica.
Questo strano miscuglio di idee, filosofia, sociologia ed antropologia – che voleva trovare un fondamento al razzismo – fu la base per la nascita e la proliferazione delle esposizioni etnologiche o meglio degli zoo umani.
Non fermiamoci alla teoria, avanziamo nell’orrore della pratica.
Dal 1870 gli zoo umani divennero popolari in diversi paesi del mondo occidentale. Leggendo i resoconti dell’epoca si smarriscono le parole, anche per il numero dei visitatori di queste esposizioni etnologiche: dai 200,000 ai 300,000 con picchi di diversi milioni.
Le città più prolifiche furono Parigi, Londra, Anversa, Milano, Barcellona, New York e Berlino. L’inventore di questo incredibile momento della storia dell’uomo potrebbe avere un nome ed un cognome – non fosse altro perché fu il primo: Carl Hagenbeck.
Nel 1874 decise di mostrare i samoani come delle popolazioni primitive. Visto il successo decise di catturare – purtroppo questo termine si deve utilizzare con riferimento alle incredibili nefandezze del periodo storico – dei nubiani, per effettuare nuove e visitate mostre.
Dopo l’enorme successo di pubblico decise di trasformare le mostre da stabili ad itineranti, per la gioia delle popolazioni di Parigi, Londra e Berlino.
Nel 1877 de Saint-Hilaire, direttore dello Jardin d’acclimatation, decise di introdurre spettacoli etnologici in cui si esibivano dei nubiani. I visitatori raddoppiarono nel corso di un anno, toccando l’incredibile cifra di un milione. Siamo nell’anno 1877. Sino al 1912 furono allestite oltre 30 mostre.
Il nostro paese non si discostò da questa pratica, giacché è stato tra i precursori. Il primo caso d’umanità in mostra nell’Italia contemporanea – o quasi – fu la realizzazione, nel parco del Valentino, a Torino di un villaggio coloniale. Anno 1884. Sei abitanti eritrei, tre uomini con una donna e due bimbi, furono “invitati” a Torino con la motivazione di richiamare gente per vedere dei veri selvaggi.[5]
Italiani brava gente.
Il caso di Torino potrebbe sfociare nel comico se non fosse tragico: appena giunti i sei eritrei si rifiutarono di alloggiare presso il villaggio coloniale costruito per loro. Furono spediti in un albergo della città sino a quando le abitazioni non furono restaurate secondo il loro volere. Gli eritrei divennero famosi, tanto da essere ricevuti anche dal Re d’Italia.
Si diceva Italiani brava gente.
All’Expo del 1889 di Parigi fu realizzato un villaggio negro visitato da oltre 28 milioni di persone.
I francesi vollero andare oltre: nacquero le esposizioni coloniali, che continuarono sino al 1931.
Le sedi furono le città di Marsiglia e Parigi. In queste mostre erano esibiti esseri umani nudi o seminudi rinchiusi in gabbia. L’ultima esposizione, quella del 1931, attirò oltre 30 milioni di visitatori in soli sei mesi.
Nel 1904 gli Stati Uniti d'America spesero oltre un milione  di dollari per farsi spedire dalle Filippine più 1300 nativi, appartenenti ad oltre una dozzina di tribù. La motivazione di fondo era chiaramente politica: il governo americano sperava di aumentare l'appoggio all'imperialismo tra la popolazione esibendo il selvaggio, l'uomo considerato bestia o il barbaro non occidentale.
All'esposizione del 1907 di Parigi, voluta per promuovere il colonialismo, furono ricostruiti sei villaggi in rappresentanza degli angoli di mondo dell’impero francese. Furono ricostruite le abitazioni per ricreare lo stile di vita, naturalmente non potevano mancare gli abitanti, mostrati come prede del colonialismo francese. 
Quest’esposizione fu visitata da oltre un milione di persone.
L’ultima assurda esposizione fu allestita nel 1958in Belgio, a Bruxelles, durante una fiera mondiale. Nella capitale belga fu ricostruito un villaggio del Congo. Vi sono immagini incredibili che conducono sul sentiero del vomito: si distinguono chiaramente attempate e sorridenti signore di mezza età lanciare banane ad una bimba, proveniente dal Congo, che cammina sorridente verso di loro.
L’uomo come scimmia.
Nessun rispetto per l’essere umano.
Vorrei concludere con una frase di Alber Einstein: io appartengo all’unica razza che conosco, quella umana.

Fabio Casalini



Bibliografia
Abbattista Guido, Umanità in mostra. Esposizioni etniche ed invenzioni esotiche in Italia (1880-1940). 2013
Mullan, Bob e Marvin Garry, Zoo culture. The book about watching people watch animals, 1998
Jonassohn Kurt, On A Neglected Aspect Of Western Racism, December 2000, Montreal Institute for Genocide and Human Rights Studies

Fotografie
1- I cacciatori di teste di Coney Island
2- I cacciatori di teste di Coney Island
3- Uno dei primi zoo umani
4- Locandina del 1886 di Carl Hagenbeck
5- Bimba congolose trattata come una scimmia a Bruxelles nel 1958




[1] Mullan, Bob e Marvin Garry: Zoo culture. The book about watching people watch animals, 1998
[2] Definizione di razza estrapolata dall’Enciclopedia Treccani.
[3] Definizione di etnia estrapolata dall’Enciclopedia Treccani.
[4] Kurt Jonassohn: Studi sui diritti umani ed i genocidi per il Montreal Institute, 2000
[5] Guido Abbattista, Umanità in mostra. Esposizioni etniche ed invenzioni esotiche in Italia dal 1880 al 1940. 2013

Il mistero delle donne scomparse

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Domenico Bigordi detto il Ghirlandaio, Assegnazione della dote, XV sec., Firenze, chiesa di S.Martino del Vescovo.

Il più grande mistero del medioevo italiano è un affare da storici, archeologi, e ha una bibliografia scarna. Eppure attende una spiegazione plausibile, o forse in pochi sono interessati a trovarla perché si potrebbe scoprire politicamente scorretta. 
Di cosa parliamo?
Il termine tecnico è sex ratio. 
Non si tratta di una discussione tra sessualità e razionalità, ratio sta per rapporto e sex per sessi: tradotto il rapporto tra i sessi. E cioè ogni cento femmine quanti maschi ci sono. Nel mondo oggi il rapporto è stimato 1.01 e cioè ogni cento femmine ci sono 101 maschi. Ma nella maggior parte dei paesi occidentali non è così, e il rapporto è sotto l'uno, seppure per cifre centesimali. Merito della maggior longevità femminile o demerito dei vizi maschili: spararsi, ubriacarsi, ecc.
Alla nascita però tutti gli studi rilevano come vi sia una maggioranza di neonati maschi a tutte le latitudini tra i 103 e i 108 ogni 100 neonate, se non si adottano metodi di selezione come in Cina (e cioè aborti dopo diagnosi prenatale o persino infanticidi).
Cosa c'entra con il medioevo italiano. Ebbene, la stragrande maggioranza delle necropoli italiane analizzate e risalenti tra il VI e il XIV secolo presentano un numero di resti maschili molto superiori a quelli femminili. Tradotto: nel nostro Medioevo le donne erano una minoranza della popolazione. 
Trovate i dati nell'interessante Il mistero delle donne scomparse. Sex-ratio e società nel medioevo italiano della ricercatrice Irene Barbiera (2008). In uno studio condotto su 28 necropoli risalenti tra il VI e il XIV secolo dal nord al sud Italia vi è una sex ratio media di 170 maschi su 100 femmine. “Tra l’alto e il basso medioevo si registra un leggero miglioramento, infatti, tra il VI e il IX secolo, la sex ratio media è di 185 maschi su 100 femmine, mentre tra il X e il XIV secolo essa risulta essere di 150:100. Ad ogni modo, i dati delle singole necropoli variano da un minimo di 116 maschi su 100 femmine, visibile in due necropoli, a un massimo di 263 su 100. In dieci necropoli il numero degli uomini è circa il doppio rispetto a quello delle donne”.
Lo studio evidenzia peraltro come in alcune necropoli italiane precedenti e successive (epoca romana ed evo moderno, cioè dal Cinquecento in poi) la sex ratio è più equilibrata e prossima a 1:1, e lo è anche nel periodo medioevale in necropoli non italiane (“la proporzione tra i sessi risulta in linea di massima equilibrata in diversi siti scavati in Ungheria, Slovenia, Austria, Germania e Repubblica Ceca”, Barbiera cit.).
E allora la domanda è: cosa è successo alle donne in Italia nel Medioevo? Dove sono finiti i loro corpi? O forse quei corpi non ci sono mai stati perché sono stati eliminati alla nascita? Siamo di fronte a un genocidio di genere durato 8 secoli? Ma è possibile che una tale selezione di così vasta diffusione possa essere avvenuta per secoli senza lasciare traccia nei documenti, nella tradizione? Oppure per secoli frotte di maschi senza famiglia hanno colonizzato la penisola? O ancora dobbiamo pensare a ratti, rapimenti, deportazioni? O basta a spiegarlo il fatto che le donne era sfruttate nell'accudimento, nel lavoro nei campi e morivano di parto? Ma fossero morte anche giovani dove sono i loro corpi?
Proviamo a valutare le possibili ipotesi. Barbiera nel suo studio scarta quella dell'invasione di guerrieri longobardi, difficile che potessero per così lungo tempo squilibrare il rapporto tra i sessi per quanti maschi “single”, diremmo oggi, fossero. 
La vera questione è il fatto che sino alla maggiore età non si può essere certi del sesso dall'analisi delle ossa. E quindi non si può stabilire se il sex ratio è squilibrato sino dall'età infantile o meno. I corpi femminili mancano, cioè le neonate venivano fatte scomparire o morivano bambine, ragazze, perché si preferiva sfamare prima i maschi?
Tra le ipotesi vi sono infatti l'infanticidio femminile e il diverso trattamento delle bambine rispetto ai bambini. 
“Esistono diversi documenti antichi e medievali, che testimoniano la diffusione di pratiche di abbandono dei bambini – scrive Barbiera -. Secondo uno studio di Boswell l’abbandono, praticato soprattutto presso i ceti poveri, sarebbe stato molto più frequente in età altomediavale, rispetto alle epoche precedenti. Questa pratica assumeva più spesso la forma di vendita dei bambini. Cassiodoro, ad esempio, testimonia, che nel VI secolo in Lucania, nel corso di una grande fiera i genitori vendevano i propri figli. «Ci sono ragazzi e ragazze messi in mostra, divisi per sesso e per etá, che vengono messi in vendita non in seguito alla schiavitù ma in seguito alla libertà: a buon diritto i genitori li vendono perché traggono profitto dalla loro servitù. E, in effetti, essi stanno meglio come schiavi, se per questo motivo possono essere trasferiti dal lavoro nei campi al lavoro domestico nelle città». Ma un conto è l'abbandono, un conto l'infanticidio che veniva severamente punito.
Per quanto riguarda l'ipotesi che le bambine fossero discriminate dal punto di vista nutrizionale le analisi paleonutrizionali della necropoli altomedievale di Collegno riportate nello studio di Barbiera hanno permesso di rilevare che la dieta riservata alle donne era più completa rispetto a quella degli uomini. “In questo caso, in cui, come si è visto, il numero di donne risulta essere il 27%, contro il 65% degli uomini, si potrebbe ipotizzare che ad una discriminazione delle bambine nei primi anni di vita, seguì poi un miglior trattamento delle poche donne sopravissute, negli anni dell’adolescenza ed in età adulta, soprattutto nel periodo della gravidanza e del parto. A questo proposito è emerso come, contrariamente a quanto comunemente si ritiene, il regime alimentare nell’altomedioevo era relativamente ricco ed equilibrato, soprattutto rispetto all’età romana (Barbiera 2008)”, lo dimostra l'aumento della statura sia tra gli uomini sia tra le donne.
Quindi nessuna ipotesi per Barbiera può essere valutata come esaustiva. “I dati disponibili, relativi ad una possibile discriminazione delle bambine, per quanto interessanti, sono piuttosto frammentari e di difficile interpretazione. Né le fonti scritte, né i dati antropologici permettono di concludere con certezza che nell’altomedioevo e nel medioevo le bambine fossero discriminate o uccise”. 
E poi perché solo in Italia in quei secoli, dalle Alpi allo Ionio, questo fenomeno avrebbe inciso in questo modo preponderante? Perché solo in Italia un simile genocidio, quando la religione dominante invitava comunque a salvare con la ruota degli esposti anche i figli o le figlie del peccato o indesiderati? 
Francesco Botticini, Santa Monica in trono con le suore agostiniane, Basilica di Santo Spirito. Firenze
Altri hanno avanzato l'ipotesi che il duro lavoro nei campi e il parto siano tra le cause di mortalità femminile, ma d'altro canto per gli uomini c'erano le guerre come causa di mortalità maggiore rispetto alle donne. E poi perché solo o soprattutto in Italia e non in Germania?
Conclude Barbiera: “Credo che un quadro più chiaro potrà emergere quando si sarà in grado di determinare il sesso di tutti gli individui, compresi i bambini e i giovani, tramite le analisi del DNA. […] Si potrebbe, in tal modo,verificare se la sproporzione tra i sessi è dovuta ad un errore nelle analisi antropologiche o meno. Una volta esclusa questa possibilità, si potrebbe verificare se la sproporzione tra i sessi sia visibile già dall’età infantile oppure in quale fascia di età si verifichi, permettendo di chiarire le dinamiche che portarono ad una mancanza così evidente di donne”.
A oggi non esiste dunque una teoria che appare più convincente delle altre. E cercare di risolvere la questione non appare peraltro in cima ai pensieri della maggior parte degli storici. Peccato, perché una società con poche donne riflette inevitabilmente comportamenti (il fenomeno del celibato come nel caso del monachesimo o degli ordini cavallereschi), norme, leggi, economie. E potrebbe essere un elemento nuovo per spiegare gli angoli ancora bui del nostro medioevo. Per ora appare comunque quasi certo che nel Medioevo italiano c'erano poche donne in circolazione. Resta da rispondere: perché?

Andrea Dallapina

Enrichetta Naum, storia di una donna in una Torino che non esiste più

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Ritratto stilizzato di Enrichetta Naum

Raccontiamo una storia che si è svolta nella seconda parte dell’ottocento, prima delle grandi trasformazioni industriali che ha avuto la città di Torino.
La nostra protagonista si chiama Enrichetta Naum ed è stata l’ unica donna in Torino che per sua la presunta capacità di cacciare i demoni è ricordata come esorcista.

Le sue origini non sono conosciute, si sa che nacque nel 1843 e che trascorse gran parte della sua vita al secondo piano di via Cappel Verde 6. Questa via, ancor oggi una delle poche rimaste della vecchia Torino medievale prende il nome dall'insegna di un antico albergo, che inalberava un curioso copricapo verde. Questo locale ormai scomparso da tempo si racconta che fosse infestato da un fantasma femminile che provocava forti rumori vibrazioni e spostamento di suppellettili. Tentativi di cacciare lo spettro, anche con l’ intervento di un religioso esperto dell’ arte dell’ esorcismo, fatto venire da Susa non sortirono effetto. Il fantasma sarebbe stato prodotto dalla manifestazione di una certa Eleonora donna malvagia che aveva reso la vita talmente difficile ai congiunti da spingerli a strangolarla. Si ricorda che il Cappel Verde nel 1631 aveva come titolare un tal Lionardo Giordano che aveva altolocate conoscenze a corte poiché Vittorio Amedeo I lo inviò a Chieri nel convento di San Domenico a prelevarvi oggetti di sua proprietà che vi aveva portato l’anno prima quando molti ponevano in salvo se stessi e i solo beni davanti all'infuriare della peste.
Via Cappel Verde da via Porta Palatina

Nella stessa via era situato un altro albergo detto delle Tre Picche che occupava la casa in cui vi era il collegio dei cantori del Duomo. Sempre in via Cappel Verde vi era un diavolo inciso nella pietra e poi dipinto con le corna rosse che era posto in una specie di nicchia nel cortile di una casa. Andò in pezzi alla fine del 1942 sbriciolato da una bomba e disparve in una nube di zolfo uscita dagli spezzoni incendiari che stavano mettendo a fuoco la città.

Ma torniamo alla nostro personaggio. La fama di Enrichetta Naum cominciò a svilupparsi intorno all’ ultimo ventennio dell’ ottocento e dalle notizie di allora sembra avesse una notevole clientela che la riteneva oltre che esorcista, una guaritrice capace di liberare dai mali che i medici stentavano ad individuare e a curare. Si adoperava in strani riti facendo bollire diversi intrugli in pentolini da cui uscivano vapori e vampate, pronunciando formule latine senza comprenderne il significato. Poi accompagnava i pazienti per una preghiera di ringraziamento nella vicina chiesa del Corpus Domini costruita sul luogo in cui il 6 giugno 1453 avvenne il cosiddetto miracolo eucaristico. E’ forse una coincidenza che questa donna descritta come piccola, bruttina, che si esprimeva preferibilmente in dialetto piemontese, abitasse accanto al vecchio seminario la cui biblioteca ospitava molti testi proprio sul tema dell’ esorcismo e dei demoni. 
Chiesa del Corpus Domini

A brevissima distanza dalla sua abitazione si trovava la chiesa dello Spirito Santo in via Porta Palatina già unita all’Ospizio dei Catecumeni dove il 12 aprile 1720 arrivò Jean Jacques Rosseau durante il suo soggiorno a Torino e dove pare sia avvenuta la sua conversione al cattolicesimo. Può sembrare strano che una donna compisse atti riservati di solito al magistero sacerdotale. Sulle sue presunte capacità di guaritrice ed esorcista si possono fare varie ipotesi. Riguardo al potere di guaritrice forse aveva acquisito da qualche famigliare una sapienza antica che si ritrova in molte donne abitanti le vallate del Piemonte e cosiddette masche che sono una figura di rilievo nel folclore e nella credenza popolare piemontese: generalmente sono donne apparentemente normali, ma dotate di facoltà sovrannaturali tramandate da madre in figlia o da nonna in nipote, però generalmente le masche piemontesi non hanno commercio col demonio. Oppure lei aveva potuto consultare i molti testi della biblioteca del seminario o pare fosse venuta a conoscenza dei testi scritti da un suo contemporaneo l’ Abate Julio (Abate Houssay , o Julien Ernest Houssay) autore di varie opere di carattere esoterico. Dunque pur essendo non molto colta Enrichetta Naum conosceva a memoria formule di esorcismi latini che pronunciava con tono ispirato e gli occhi socchiusi senza conoscerne il significato, ma solo lo spirito della formula nel suo insieme, il che in fondo, era l’ essenziale. Si racconta dalle cronache dell’ epoca di un ragazzo di quattordici anni Giuseppe Brossa che abitava vicino al mercato di Porta Palazzo sull’ angolo con Corso Regina Margherita catturato dal demonio che gli faceva compire sugli animali e sulle cose ogni genere di scelleratezze e lo costringeva a pronunciare parole che mai sarebbero potute uscire dalla bocca di un ragazzo della sua età. La madre consigliata dalle vicine di casa lo portò dalla Naum. Sembra che la prima intenzione fosse stata di condurlo dal parroco, ma prevalse l’ opinione di ricorrere alla Naum, la cui fama doveva essere notevole. Il ragazzino giunto in via Cappel Verde e con la madre sali i settantadue gradini per entrare nell'abitazione della Naum. 
Via Cappel Verde da via XX settembre con la chiesa di Santo Spirito sullo sfondo

Qui vincendo qualche resistenza lo fecero inginocchiare sul pavimento di mattoni, la donna cominciò a invocare formule, poi s’ interruppe e mise a bollire un pentolino d’ acqua con dentro erbe che profumarono la stanza con un miscuglio fra il tiglio e l’ incenso. Giuseppe Brossa dopo una decina di minuti prese a smaniare, dalla sua bocca usciva della bava color verde e la Naum guardandolo negli occhi, lo afferrò per i capelli intimando al demonio di uscire da quel corpo, di andarsene e di finire dritto e filato nel pentolino con le erbe e l'infuso bollente. Pochi istanti dopo che il ragazzo era caduto a terra con il volto bianco e sudato, si udi un gran botto e il pentolino traballò sul fuoco poi si versò sul pavimento tra le fiamme e si ebbe pure l’ impressione che la casa tremasse. Ritornato a casa liberato dal maleficio le cronache aggiunsero che rimase cosi sino alla fine dei suoi giorni. Causa le proteste dei vicini, che si lamentavano del frequente via vai di clienti ad ogni ora del giorno e della notte e soprattutto non sopportando più i rumori e i fumi che provenivano dal suo alloggio nella lotta contro i demoni e contro varie malattie corporali nel 1898 la donna si trasferì non molto distante in via Porta Palatina, nella mansarda di un vecchio edificio dal lato di via Dora Grossa (ora via Garibaldi) e là continuò i suoi esorcismi benché fosse colpita da una grave forma di artrosi. Come ogni storia che si rispetti I pettegolezzi però non mancarono. C’era infatti chi asseriva che gli esorcismi non fossero opera sua ma di suo marito Gaetano che rimaneva nell’ ombra temendo di figurare come esorcista in quanto lavorava vicino al Seminario in una piccola fabbrica di candele che riforniva anche il duomo, dal che si comprende come preferisse non far sapere di essere coinvolto in opere che sia pure a fin di bene comportavano un rapporto con i demoni. Secondo alcuni lui avrebbe insegnato alla moglie i rituali e le formule apprese consultando gli antichi manoscritti nella biblioteca del seminario e lei avrebbe compiuto gli esorcismi dietro sua ispirazione. Gaetano morì pochi anni dopo il trasferimento in via Porta Palatina, ma la donna continuò a esercitare le sue pratiche. La clientela andò aumentando con il passare del tempo e non risulta che la Naum abbia mai avuto noie con il clero, anzi frequentava sempre la chiesa del Corpus Domini dove continuava ad accompagnare i clienti da lei liberati dalle diavolerie e dalle malattie. Mori nel 1911 all'età di 68 anni. In poche righe di cronaca La Gazzetta del Popolo annunciò la sua morte qualche giorno dopo lo svolgimento dei funerali. La donna scomparve nei ferventi ed affollati giorni della Grande Esposizione di Torino.
Chiesa dello Spirito Santo
In quei giorni di celebrazione della sviluppo delle nuove tecnologie e con la nascita della moderna Torino industriale con lei spari l’ affresco di una vecchia Torino che ora non esiste più. Infatti verso la fine dell’ ottocento il piccone risanatore umbertino abbattè per esempio Il Palazzo del Vescovo che si trovava nel tratto di via Porta Palatina in parte dove ora ci sono gli uffici comunali. Era cosi denominato poichè nella prima metà del seicento vi dimorò il vescovo Antonio Provana. Inoltre si eliminarono molte antiche vie che si trovavano nei dintorni del Duomo di San Giovanni e Torino perse una parte del suo patrimonio medievale....furono eliminati vicoli come la contrada del Cappel d'Oro e della Corona Grossa, i vicoli dei Pellicciai e dei Pasticcieri, quello dei Panierai e del Bastion Verde.. e di loro non è non è rimasta purtroppo che la memoria e qualche rara fotografia…
Ritratto stilizzato di Enrichetta Naum
Via Cappel Verde si salvò dallo sventramento. E ancora oggi in parte conserva il suo antico fascino. 
Al finire di questa storia un tocco di ulteriore mistero tutto da verificare. Qualcosa è rimasto… all’inizio della via sulla prima casa all’incrocio con via XX Settembre se alziamo gli occhi alcuni volti di pietra ci scrutano dall’alto con sguardo non molto benevolo e inoltre pare che la Naum non abbia mai lasciato l’ appartamento di via Cappel Verde dove gli esorcismi da lei compiuti secondo alcuni hanno impregnato il luogo ed ancora oggi sembrano udirsi strani rumori e dice che il suo fantasma compaia ogni tanto spaventando gli odierni abitanti.

Luciano Querio

Storia liberamente tratta consultando i libri di Renzo Rossotti

Bibliografia
Renzo Rossotti Curiosità e misteri di Torino. Newton Compton Editori 2001
Renzo Rossotti Guida insolita ai misteri, ai segreti, alle leggende e alle curiosità di Torino.Newton Compton Editori 2008
Renzo Rossotti Torino Esoterica. Newton Compton Editori 2005
Renzo Rossotti la grande guida delle strade di Torino. Newton Compton Editori 2003

Amati

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Ardi, materia, dissolviti piano,
cullata da questo folle vento.
La tua passione brilla di quell'amore,
fulcro vitale dell'esistenza.
Amati ancora, materia, e per l'ultima volta perditi, nell'immensità di questo istante magnifico.

Chiara Lagostina

Seguendo il profumo di... aglio!

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Allium ursinum
Fino a qualche anno fa, se sentivo dire “aglio” pensavo ai classici spicchi che più o meno tutti usiamo per cucinare: l’Allium Sativum, dalle mille virtù, conosciuto da molti anche come antisettico naturale, arrivando addirittura ad essere considerato di grande aiuto durante le epidemie di peste.
Da qualche anno in qua, però, se sento dire “aglio” penso a… delle distese di foglie e fiori!

Uno dei primi che mi hanno sorpresa è stato l’Allium ursinum, aglio che ancor prima di riconoscere come tale aveva attirato la mia attenzione durante delle passeggiate primaverili, vicino a delle rogge, dove le grandi foglie verdi ed i deliziosi fiorellini bianchi rivestivano alcuni terreni boscosi. A volte sentivo un inconfondibile odore e ad un certo punto ho capito che erano proprio quei bellissimi tappeti ad emanarlo!

Un’altra delicata piantina, riconducibile all’aglio essendo chiamata anche “aglio selvatico”, che spunta più o meno nello stesso periodo dell’aglio orsino ed i cui fiori lo possono ricordare, è l’Ornithogalum umbellatum. Il suo nome è traducibile in italiano come “latte di gallina” (ornis=uccello/gallina e gala=latte), per il latice contenuto nel fusto. Un altro nome con cui viene spesso indicata è “Stella di Betlemme”: la Terra Santa è la zona di origine dell’ornitogalo ed esistono leggende e rimandi tra la “stella” a sei punte formata dai suoi petali e dei simboli religiosi e spirituali.
Ornithogalum umbellatum
Ogni primavera vedo sbocciare questi delicati fiori ai piedi di un faggio pendulo: nel periodo in cui fanno capolino le nuove foglie dell'albero spuntano anche i lattiginosi fiori e nelle giornate di sole ci si può immergere in un magico brillio, tra il tappeto acceso di bianco e la cupola illuminata di verde. Per questo non mi ha stupita più di tanto leggere che, secondo la floriterapia di Bach, questo fiore porterebbe beneficio a chi ha subito il trauma di una cattiva notizia, la perdita di una persona cara, un forte spavento e si trova in uno stato infelice, sofferente, rifiutando il conforto degli altri: a me danno gioia anche solo a guardarli!
Tornando agli Allium veri e propri, ho incontrato l’ultimo nei pressi del lago di Doberdò. A volte non è per nulla facile riconoscere precisamente un fiore: leggendo informazioni sulla Riserva del lago ho trovato indicate come presenti almeno un paio di specie (Allium Suaveolen e Allium Angulosum) ma anche contattando qualcuno della zona non siamo giunti ad una indubbia identificazione.
Allium nei pressi del lago di Doberdò
Come quasi sempre accade parlando di flora, più si cerca più si scoprono nuove specie, a volte c’è da diventar matti ma quando la curiosità prende il sopravvento il divertimento è assicurato! Stavolta resto col dubbio, prima o poi tornerò nella stagione giusta ad osservare con attenzione e fotografare più dettagliatamente!
Un altro Allium che per molti versi somiglia a quello precedente l’ho visto solo in fotografia… e nella mia fantasia: l’ho dipinto! Tempo fa ho visto uno scatto fatto da “Il giardino dei progetti” a dell’Allium sphaerocephalon e mi sono irresistibilmente lasciata ispirare.

A questo punto lascio continuare le chiacchiere in giardino all'amica che ha scattato la foto e vi do l’arrivederci al prossimo post!

Anna Bernasconi dal blogTra realtà e fantasia
Allium Sphaerocephalum, fotografato e dipinto
Cara Anna,
ti chiedo di perdonarmi se così tanto tempo ho lasciato che trascorresse prima di dedicare la giusta attenzione al tuo sentito pensiero su queste adorabili perenni!
I mesi si sono avvicendati e non ho saputo cogliere il momento propizio per rendere più incisivo quel che mi hai scritto: fine marzo é ormai troppo tardi per invitare a mettere Allium a dimora (sono bulbi per lo più autunnali, da interrare entro novembre), ed è troppo presto per invitare tutti a guardarsi intorno alla ricerca dei fiori, che potremo apprezzare solo a tarda primavera. Eppure osservando con attenzione si possono già notare foglie aguzze che, irrobustendosi rapidamente, fanno capolino fuori dalla terra. All'occhio meno esperto potrebbero sembrare solo dei verdi cespi di una esotica insalata, ma non lasciatevi ingannare dall'apparenza dimessa, a breve saranno in grado di sorprendere il mondo rivelando la loro essenza floreale, ancora custodita gelosamente nell'oscurità.
Pare che il genere Allium conti un numero elevato di specie, ma ci pensi: si parla di quasi 700! Ecco, le sparpaglierei volentieri una ad una in ogni angolo del mio giardino, così, approfittando della loro innata generosità, sarei in breve sommersa da magnifiche sfere danzanti. Chissà che un giorno non dia inizio a questa matta collezione!
L'improvviso desiderio della primavera, in particolare dei suoi colori, mi ha condotta a ritrovare le tue belle immagini e con esse la memoria della mia personale scoperta; in fondo non da molti anni conosco la grazia del fiore aglino e ricordo ancora lo stupore della scoperta. Fu in Germania, sicuramente in un giardino botanico, poco meno di dieci anni fa: all'improvviso fanno bella mostra di se sfere perfette ma vaporose, misteriosamente rette da esili stecchini verdi, infilzati a terra alla rinfusa. Li osservo in danza scomposta ma armoniosa, ipnotica oserei dire, portata dal vento. Perfezione geometrica e texture morbida mi conquistano immediatamente ed è amore incondizionato per questo meraviglioso fiore, che riesce ad essere discreto anche nei suoi toni più saturi! E se la sua eleganza non fosse sufficiente a giustificare tanto interesse nei suoi confronti, non dimentichiamoci quanto potrebbe essere vitale avere una manciata di "teste" in tasca in caso di incontro ravvicinato con un vampiro! Il fatto che sia protagonista di un'antica e quasi dimenticata superstizione oggi ci fa sorridere, ma in fondo racconta quanto potere si attribuisse all'aglio; è una pianta che secondo la tradizione si è equamente spartita il ruolo di essenza degli inferi insieme a quello di erba dalle mille virtù.
Amuleto, questa la definizione più appropriata per le piante del sottosuolo poiché sacre agli dei degli inferi, che nella tradizione pagana simboleggiavano energie telluriche positive. Forse questo lo approfondirò...
E ancora, fonte di sali minerali e oligominerali, bulbo ricco di vitamine, diuretico: eccosolo alcune delle proprietà terapeutiche attribuite a questa pianta. Di certo sappiamo che l'essenza sulforata, alla base della sua aromaticità, impregna l'alito di chi lo consuma crudo e sin dai tempi di Plinio il Vecchio si cercavano rimedi efficaci per alleviare "l'effetto collaterale" dell'alitosi, come ad esempio mangiare una radice di bietola arrostita sulla brace. Potremmo provare una volta o l'altra!
Devo essere sincera e confessarti che potrei avere vasi Alliumin ogni dove, tranne nella mia cucina dove non se ne trova neppure una testa, non ne faccio mai uso! Incredibile, vero? Amo certamente l'aroma che l'intera pianta sprigiona al suo massimo e mi inebria la fragranza appetitosa del suo soffritto, eppure fatico a sopportare il suo sapore intenso e persistente, se non in pochissimi piatti...forse non lo so usare come si deve...magari tu saprai darmi qualche consiglio...

Hai visto che splendore i prati già invasi da miriadi di candide margheritine? Osservo i loro sinuosi movimenti in armonia con il vento e ne resto incantata.

Un abbraccio!


Famiglia: Liliaceae
Genere: Allium

Mi ha aiutata:
Alfredo Cattabiani "Florario", Milano, Mondadori, 1996

E così furono salvati dalle acque

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Museo del Louvre - tavoletta con la leggenda della nascita di Sargon il Grande
« Mia madre fu scambiata alla nascita, mio padre non lo conobbi. I fratelli di mio padre amarono le colline. La mia città è Azupiranu, che è collocata sulle rive dell'Eufrate. La mia madre 'scambiata' mi concepì, in segreto mi partorì. Mi mise in un cesto di giunchi, col bitume ella sigillò il coperchio. Mi gettò nel fiume che si levò su di me. Il fiume mi trasportò e mi portò ad Akki, l'estrattore d'acqua. Akki, l'estrattore d'acqua, mi prese come figlio e mi allevò. Akki, l'estrattore d'acqua, mi nominò suo giardiniere. Mentre ero giardiniere, Ishtar mi garantì il suo amore e per quattro e […] anni esercitai la sovranità. »[1]  
Queste parole si riferiscono a Sargon di Akkad, noto come Sargon il Grande. Fu imperatore accadico dal 2335 al 2279 prima della nascita del Cristo. Facilmente rintracciabili sono le analogie relative alla salvezza di Mosè. Un uomo della famiglia di « Levi andò a prendere in moglie una figlia di Levi. La donna concepì e partorì un figlio; vide che era bello e lo tenne nascosto per tre mesi. Ma non potendo tenerlo nascosto più oltre, prese un cestello di papiro, lo spalmò di bitume e di pece, vi mise dentro il bambino e lo depose fra i giunchi sulla riva del Nilo. La sorella del bambino si pose ad osservare da lontano che cosa gli sarebbe accaduto. Ora la figlia del faraone scese al Nilo per fare il bagno, mentre le sue ancelle passeggiavano lungo la sponda del Nilo. Essa vide il cestello fra i giunchi e mandò la sua schiava a prenderlo. L'aprì e vide il bambino: ecco, era un fanciullino che piangeva. Ne ebbe compassione e disse: «È un bambino degli Ebrei». La sorella del bambino disse allora alla figlia del faraone: «Devo andarti a chiamare una nutrice tra le donne ebree, perché allatti per te il bambino?». «Va'», le disse la figlia del faraone. La fanciulla andò a chiamare la madre del bambino. La figlia del faraone le disse: «Porta con te questo bambino e allattalo per me; io ti darò un salario». La donna prese il bambino e lo allattò. Quando il bambino fu cresciuto, lo condusse alla figlia del faraone. Egli divenne un figlio per lei ed ella lo chiamò Mosè, dicendo: «Io l'ho salvato dalle acque!».[2]

Roma, San Pietro in Vincoli. Mosè di Michelangelo
Ogni storia dello spirito ha inizio dall’acqua. Egitto, prima di Sargon il Grande. Agli albori della prima dinastia, intorno al 3400 avanti Cristo circa, apparvero improvvisamente scrittura, aritmetica, medicina ed una complessa religione: tutto questo senza che via sia traccia d’evoluzione in nessuna di queste discipline.
Egitto terra di mistero?

Osiride
Con molta probabilità queste discipline furono importate durante il IV millennio avanti Cristo. Notoriamente le culture importate non esprimono il massimo sviluppo durante la prima fase, ma nel momento in cui i nativi ne imparano le tecniche. All’interno della corposa religione dell’antico Egitto si trova un Dio salvato dalle acque: Osiride. La leggenda egizia, narrata da Plutarco, affermava che Osiride, dopo aver migliorato le condizioni di vita dei suoi sudditi, lasciò l’Egitto ed andò in giro per il mondo, per portare ad altre nazioni i benefici della civiltà. Nel periodo in cui era lontano dall’Egitto 72 membri della sua corte, capeggiati dal cognato Seth, tramarono contro di lui. Al suo ritorno fu invitato ad un bacchetto, durante il quale una cassa di legno ed oro fu offerta all’ospite che vi fosse adattato alla perfezione. Osiride non sapeva che la cassa era modellata sulle sue misure. Tutti gli ospiti del banchetto tentarono di entrarvi, senza successo. Osiride si distese comodamente dentro. Prima che riuscisse ad uscire i cospiratori si affrettarono a chiudere la cassa inchiodando il coperchio e tappando con il piombo tutte le fessure. Osiride non poteva respirare. Seth decise di gettare la cassa nel Nilo. Il sarcofago discese il fiume sino al mare per arenarsi nei pressi di Biblo dove un’acacia lo avvolse con i propri rami. Iside alla disperata ricerca di Osiride giunse a Biblo dove, dopo aver vissuto da comune mortale all’interno della corte della regina Nemano, riuscì ad ottenere la cassa di legno ed oro. Iside tentò vanamente di resuscitare Osiride, ma ne rimase fecondata. Qualche tempo dopo nacque Horus. Seth ritrovò la cassa con il corpo di Osiride. Preso dalla rabbia decise di smembrarlo e disperdere i pezzi per l’Egitto. Iside, dopo essersi liberata dalla prigionia imposta da Seth, ritrovò il corpo di Osiride e lo ricompose mummificandolo. 
Vi ho proposto le tre leggende – due delle quali incredibilmente identiche – per meglio comprendere l’importanza dell’acqua all’interno delle religioni. 
L’ordine dell’elenco potrebbe essere il seguente: Osiride, Sargon il Grande e Mosè. 
Possiamo ritenere che la leggenda di Mosè, non esistono documenti storici che comprovano la reale esistenza del legislatore, si basi su quanto pervenuto dalla Mesopotomia sotto forma di racconto sulla sorte di Sargon il Grande?

Lupa Capitolina, Musei Capitolini - Roma
L’elenco sarebbe incompleto senza una menzione a Romolo e Remo: Numitore ed Amulio erano fratelli che si contendevano il trono di Albalonga. Amulio cacciò il fratello e costrinse la figlia di Numitore, Rea Silvia, a diventare vestale. La ragazza in questo modo non avrebbe potuto sposarsi e generare figli. La ragazza fu amata da Marte e dal loro rapporto nacquero Romolo e Remo. Rea Silvia fu condannata a morte e gettata nel fiume Aniene. I figli furono messi in una cesta ed affidati alla corrente del fiume. La cesta si adagiò nei pressi di un fico – altre fonti riportano una grotta. Una lupa, scesa al fiume per abbeverarsi, udì il vagito dei bimbi. Li raggiunse e si mise ad allattarli – altre fonti riportano anche la presenza di un picchio portatore di cibo. Poco tempo dopo il cesto fu rinvenuto da un pastore di nome Faustolo che decise, insieme alla moglie Acca Larenzia, di salvare i bimbi dalle acque e crescerli come figli suoi.
La data della fondazione di Roma è stata fissata al 21 aprile del 753 avanti Cristo. Datazione riportata dallo storico latino Varrone in conformità a calcoli effettuati dall’astrologo Lucio Taruzio.
Sargon il Grande, Mosè ed ora Romolo e Remo.
Bimbi lasciati alla deriva nelle acque all’interno di un cesto.
Bimbi salvati dalle acque.
Molto interessante cercare di comprendere il ruolo dell’acqua nelle antiche religioni.
La Genesi della Bibbia. «Sia il firmamento in mezzo alle acque per separare le acque dalle acque». Dio fece il firmamento e separò le acque, che sono sotto il firmamento, dalle acque, che son sopra il firmamento. E così avvenne. »[3]
Non solo Bibbia. 
In molti miti della creazione del mondo l’acqua rappresenta la sorgente d’ogni forma di vita: è associata alla fecondità femminile. Il concetto dell’acqua che genera la vita, come abbiamo visto nelle leggende sopra descritte, fu elaborato in Mesopotamia, da qui è stato trasmesso all’ebraismo e da questi al cristianesimo e all’islam.
Prima dell’elaborazione dell’acqua come fonte di vita nella terra compresa tra il Tigri e l’Eufrate esistevano credenze similari?
Fin dalla Preistoria il complesso Acqua-Luna-Donna era percepito dalle popolazioni come il circuito della fecondità. In vari siti Neolitici, nella civiltà detta di Walternienburg-Bernburg, l’acqua era rappresentata con segno VVV, che rappresenta anche il più antico geroglifico egiziano dell’acqua corrente. [4]
L’acqua diventa sostanza magica e medicinale per eccellenza: guarisce, ringiovanisce, assicura la vita eterna.
Il mio interesse per i Salvati dalle Acque è da leggere in riferimento al rito del Répit o Ritorno alla vita dei bimbi nati-morti. Questo rito, ritrovato nella forma moderna e cristianizzata in Provenza intorno alla metà del XIII secolo, pianta le proprie radici in un lontano passato. I seguaci del cristianesimo hanno cercato il battesimo ad ogni costo per elevare il proprio figlio nato-morto alla luce del Paradiso. Non potevano permettere che l’anima restasse nell’eterno limbo o, nelle considerazioni peggiori, tra le fiamme dell’inferno. [5]

Verbania - Museo del Paesaggio. Ex voto del santuario della Madonna del Boden di Ornavasso (VB)
I genitori dei bimbi si trascinavano per giorni alla ricerca del Santuario che potesse intercedere per loro e per l’anima del piccolo. Chiedevano e pregavano il miracolo del momentaneo risveglio per impartire il battesimo. 
Il battesimo nasce per immersione nell’acqua. 
L’immersione equivale a purificazione: tutto si scioglie nell’acqua, ogni forma si disintegra e qualsiasi storia è abolita.[6]
Il simbolismo antico ed universale dell’immersione nell’acqua come mezzo di purificazione, o rigenerazione, fu accolto dal cristianesimo ed arricchito di nuove valenze religiose.
Il battesimo impartito da Giovanni mirava alla redenzione dell’anima ed al perdono dei peccati. Nel vangelo di Luca troviamo: «Vi battezzo con l’acqua, ma colui che è più forte di me vi battezzerà con lo Spirito Santo e col fuoco.»[7]
Nel cristianesimo il battesimo divenne il principale strumento di rigenerazione spirituale, perché l’immersione nell’acqua battesimale equivale alla sepoltura di Cristo. San Paolo scrive: «Ignorate voi tutti che noi tutti battezzati in Cristo Gesù siamo stati battezzati nella sua morte? »
Il ritorno alla vita dei bimbi nati-morti come avveniva?
I genitori si recavano al santuario prescelto poggiavano il corpo del bimbo nei pressi di un’icona, che svolgeva il ruolo d’intercessore per il ritorno alla vita, ed iniziavano a pregare. 
Nel momento in cui apparivano segni inconfutabili di ritorno alla vita, il bimbo era battezzato – spesso sotto condizione – con l’acqua dall’officiante.
Molti santuari del respiro o del ritorno alla vita si trovavano nei pressi di sorgenti. Scrive Mircea Eliade: «Alla multivalenza religiosa dell’acqua corrispondono, nella storia, numerosi culti e riti incentrati intorno alle sorgenti, ai fiumi e ai corsi d’acqua. »[8]
Il culto delle acque mostra un’impressionante continuità nella storia. Nessuna rivoluzione religiosa ha potuto abolirlo, alimentato dalla devozione popolare. Il culto delle acque finì per essere tollerato anche dal cristianesimo.
Acqua fonte di vita iniziale.
Acqua fonte di restituzione della vita.
L’acqua utilizzata per impartire il battesimo, sotto condizione, ai bimbi tornati dalla morte.
Dopo aver letto e scritto molto sul Répit una domanda mi sorge spontanea: Sargon il Grande, Osiride, Mosè, Romolo e Remo possono ritenersi i primi ritornati dalla morte?
Prima di rispondere sottraiamo Osiride da questo elenco: Sargon, Mosè, Romolo e Remo non erano bimbi lasciate in un cesto alla deriva nell’acqua?
Acqua che dona la vita.
Acqua che restituisce la vita.
Forse non ci hanno raccontato tutto.

Fabio Casalini



Bibliografia
Casalini Fabio e Francesco Teruggi. Mai Vivi, Mai Morti. Giuliano Ladolfi editore, 2015
Eliade Mircea. Trattato sulla storia delle Religioni. Bollati Boringhieri, 1976
Pallottino Massimo. Origini e storia primitiva di Roma. Rusconi editore, 1993
Tosi Mario. Dizionario enciclopedico delle divinità dell’Antico Egitto. Ananke, 2004



[1] Testo neoassiro risalente al VII a.C.
[2] Esodo 2
[3] Genesi 1
[4] Mircea Eliade, Trattato di storia delle Religioni. 1976
[5] Fabio Casalini e Francesco Teruggi, Mai Vivi, Mai Morti. 2015
[6] Mircea Eliade, Trattato di storia delle Religioni. 1976
[7] Vangelo di Luca 3,16
[8] Mircea Eliade, Trattato di storia delle Religioni. 1976

Lo spettro inquieto di Caterina Sforza, la "tygre" di Forlì

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Una donna velata si aggira  presso la rocca di Imola: forse lo spettro inquieto di Caterina?
La Rocca Sforzesca di Imola, splendido esempio di fortificazione in stile lombardo voluta tra Medioevo e Rinascimento dai signori di Milano, tra le sue antiche mura ospiterebbe presenze inquiete.
Attraversiamo il ponte levatoio fortificato e il portale d'ingresso, voltato a sesto acuto, per immetterci nella grande piazza d'arme e nelle segrete dell'imponente mastio; visitiamo le formidabili torri cilindriche i cui tetti sono sorretti da selve di travi lignee incrociate; accediamo al cammino di ronda. Da qui, come in un moderno gioco di strategia virtuale, la vista spazia dal fossato sottostante alla città, soffermandosi sull'orizzonte dei colli limitrofi.
La struttura complessa del castello porta con sé reminiscenze del genio di Leonardo da Vinci che, si dice, fosse giunto fin qui dalla corte di Ludovico il Moro per rendere la fortezza inespugnabile: lo stile, la pendenza dei muraglioni e la pianta complessa del fortilizio danno adito a numerosi interrogativi architettonici. Eppure non solo ciò riguarda lo stile, al castello di Imola, trasuda mistero: da quando se ne ha memoria, riferimenti al mondo del paranormale tra quelle mura non sono mai mancati.
Le grondaie gorgogliano, i piccioni tubano; passi sincopati, scricchiolii di cassapanche trascinate da una stanza invisibile all'altra...
Rocca di Imola, Sala delle armature
Con la complicità del riverbero vespertino, ombre guizzanti prendono forma sulle mura aranciate: qualcuno, qualcosa che non ha mai abbandonato la grande fortezza, respira ancora sotto quei mattoni vetusti.
La rocca sarebbe dimora di un'anima inquieta: una presenza infelice, combattiva e sensibile, che non è mai riuscita ad accettare il suo ingiusto destino.
Seguitemi: forse, un balzo a ritroso nel tempo potrebbe svelare l'arcano spettrale.
Il duca Galeazzo Maria Sforza e Lucrezia Marliani, genitori di Caterina (A. del Pollaiolo, Firenze e Berlino)
Milano, 1463. In un giorno imprecisato, in una stagione sconosciuta, a Milano nasce una bambina speciale. Caterina, così si chiama, è figlia della bella Lucrezia Landriani, moglie di un dignitario di corte e del duca Galeazzo Maria Sforza. Progenie illegittima, frutto di una scappatella: presso i signori del tempo è normale anzi, un'abitudine. Il duca, carattere ombroso e bizzarro, più interessato agli svaghi cortesi, alle battute di caccia e nuovi amori che al governo del ricco ducato ereditato dal padre Francesco, verso la piccola mostra una tenerezza inconsueta: alla stregua dei figli legittimi, presto anche Caterina è affidata alle cure della moglie di Galeazzo Maria, Bona di Savoia, tra le mura del castello Sforzesco di Milano.
Alla corte ambrosiana, frequentata da letterati e artisti, si respira un clima di grande apertura culturale: qui Caterina e i suoi fratellastri, secondo l'usanza del tempo, ricevono un'istruzione di stampo umanistico, basata sull'apprendimento del latino e la lettura dei classici. La famiglia ducale é solita risiedere a Milano ma anche a Pavia, oltre che a Galliate, Cusago e Vigevano: luoghi di delizie dove Galeazzo Maria si dedica all'arte venatoria e la stessa Caterina impara a cacciare e a cavalcare.
Milano, castello Sforzesco
Presto la consapevolezza, più spiccata di quella paterna, di appartenere ad una stirpe di gloriosi guerrieri, maturerà nella giovane un'inconsueta predisposizione al comando, al governo e perfino all'uso delle armi. Tutta questa grinta varrà a Caterina il soprannome di "tygre" di Forlì.
Al fine di consolidare il potere sui feudi romagnoli, nel 1473 il Galeazzo Maria offre in sposa la sua figliastra al nobile Girolamo Riario, signore di Imola legato ai della Rovere e parente di papa Sisto IV.
Caterina ha appena 10 anni, Girolamo 33.
Nel corso di una congiura ordita dalla piccola nobiltà vessata dai suoi capricci, il 26 dicembre 1476 il duca di Milano viene pugnalato a morte sulla soglia della basilica di santo Stefano. Il tempo di lasciare Milano è infine giunto; l'anno seguente, la fanciullina entra a Imola con tutti gli onori dovutile: ha appena 13 anni. Mentre il marito Girolamo si occupa di politica, lei cresce.
Scena romantica di cavalleria cortese (Pinacoteca di Budapest)
Agevolata da un atteggiamento amabile e disinvolto, ben presto Caterina si introduce nella vita mondana delle maggiori corti del Rinascimento, diventando primadonna in fatto di balli, pranzi e perfino battute di caccia, dove non perde occasione per dare filo da torcere ai gentiluomini.  Ammirata come donna fra le più belle ed eleganti d'Europa, presto la Sforza si accasa a Roma, sede di potere per eccellenza, dove é adulata da uno stuolo di artisti, filosofi, poeti e musicisti provenienti da tutta Europa: dalla nobiltà più importante e perfino di Sisto IV, che la apprezza come intermediaria diplomatica fra il soglio pontificio e il nuovo regime instaurato a Milano dal celebre zio Ludovico Sforza, detto "il Moro".
Tarocchi dorati di Bonifacio Bembo, tipico svago cortese di casa Sforza (Bergamo, Accademia Carrara)
La vita dei coniugi Riario-Sforza subisce una brusca svolta proprio con la morte del papa... Diffusasi la notizia della dipartita, i sostenitori delle fazioni che avevano patito ingiustizie durante il suo pontificato portano il terrore per le strade di Roma e saccheggiano la residenza dei Riario. Di risposta, a nome del marito Caterina  irrompe a cavallo in Castel Sant'Angelo con una scorta armata di fedelissimi; dopo 12 giorni di strenuo assedio, la Sforza é costretta ad arrendersi al Sacro Collegio a subire l'esilio in Romagna con la famiglia.
I guai sono solo appena iniziati: il vento non soffia più a favore della fanciulla milanese.
Roma. Castel Sant'Angelo
Nel 1488 Gerolamo é ucciso in una congiura ordita dalla nobile famiglia forlivese degli Orsi e il suo palazzo viene saccheggiato. La venticinquenne Caterina, incurante delle delle minacce ai suoi bambini presi in ostaggio, dall'alto delle mura della rocca forlivese, grida: «Fatelo, se volete: impiccateli pure davanti a me!»  e sollevatesi le gonne, mostra il pube. «Qui ho quanto basta per farne altri!»
Di fronte a tanta spavalderia, gli Orsi non osano toccare i giovani Riario. Poco dopo, con l'appoggio dello zio Ludovico il Moro, interessato a garantirsi influenza in Romagna per contrastare Venezia, la duchessa recupera il governo di Forlì e Imola: le case dei congiurati sono rase al suolo, gli oggetti preziosi distribuiti ai poveri...
...ma Caterina non può ancora quietare...
Dama dei Gelsomini, probabile ritratto di Caterina Sforza (Lorenzo di Credi, pinacoteca di Forlì)
Anche le seconde nozze della Sforza, contratte stavolta in segreto e per amore di Giacomo Feo, fratello del fedele castellano di Imola, hanno breve durata; l'invidia del figlio Ottaviano, che teme di perdere i diritti ereditari a vantaggio del giovane e sfrontato pretendente, invia dei sicari per uccidere sia Giacomo sia la propria madre. Informata in ritardo, Caterina, disperata e iraconda di fronte all'uccisione dell'amato, fa imprigionare e giustiziare tutti i congiurati tranne Ottaviano, che nel 1506 diventerà perfino vescovo di Viterbo. Seguirà un'altra congiura, subito sventata, ordita dagli Ordelaffi. In questi anni Caterina ha dedicato la sua vita privata alle più svariate attività, come al ''Liber de experimentiis Catherinae Sfortiae'',  ricettario alchemico parzialmente crittografato in cui sono descritte annotazioni di incantesimi e sortilegi, evocazioni spiritiche, pozioni e antidoti....

Nei più consueti affetti familiari Caterina rivela essere l'amorevole madre di numerosi figli: il più celebre di essi, il glorioso quanto sfortunato capitano di ventura Giovanni dalle Bande Nere, erediterà da lei la passione per le armi e il comando.
Allo scoccare del Cinquecento muore Lorenzo il Magnifico e si impongono i terribili Borgia.

«Contemporanei e posteri ne hanno fatto dei mostri capaci d'ogni frode e scelleratezza. Su di loro sono stati versati fiumi non d'inchiostro, ma di fiele.»
Presto, all'orizzonte incombono nubi temporalesche: i Borgia, bramosi di fondare un regno in Italia centrosettentrionale, consapevoli dell'importanza della Romagna nello scacchiere politico italico attaccano Imola.
Cesare Borgia detto "il Valentino" (Bergamo, Accademia Carrara)
La duchessa, impavida donna, incita i suoi a resistere all’assedio di Cesare Borgia detto il Valentino. Piegata dal lungo assedio posto dal temibile figlio di Alessandro VI, perfino nella sconfitta Caterina conosce una grandeur senza precedenti.
Condotta a Roma per essere rinchiusa come prigioniera in quel Castel Sant’Angelo che fu un tempo suo, anziché seguire legata ai ceppi il destriero del vincitore entra in città cavalcando al suo fianco, vestita come una regina avvinghiata da catene d’oro massiccio."
Dopo aver riacquistato la libertà, la duchessa si ritira a Firenze, a vita privata, dove si spegnerà tra rancori e disillusioni.
L'aura leggendaria che ancora oggi permea la figura della potente sovrana del Rinascimento affonda le sue radici nel contesto storico in cui ella visse: un momento di grande cambiamento in cui la stirpe degli Sforza rappresentava l'ultima dinastia laica, prima che il potere papale avesse la meglio. Tanto più, era inammissibile che una donna spadroneggiasse alla stregua di un uomo: ed ecco Caterina descritta dai vincitori come una donna malvagia e crudele, quasi demoniaca.
Gli Imolesi stessi sostengono che la nobile costruì il suo castello in una sola notte, con l’aiuto del diavolo. Sarà vero, come taluni narrano, che facesse gettare ospiti indesiderati e amanti in pozzi segreti muniti di lame affilate?
La rocca Sforzesca di Imola
Comunque sia, ancora oggi, tra le stupende rocche di Imola, Forlì e Dozza qualcuno sussurra di aver percepito la sua presenza: rumori che spesso provengono da stanze diverse da quella in cui vi trovate; apparizioni cangianti, ectoplasmi della donna che fu, colti a vagare per l’oscurità del castello con un lume in mano. Sugli incauti che hanno cercato di raggiungere il suo leggendario scrigno d'oro inerpicandosi per una stretta e buia scala a chiocciola, è calata un'ombra minacciosa, seguita da una tenebra impenetrabile.
La via per lo studiolo di Caterina, luogo di evocazioni rituali e composti alchemici, è andato smarrito.
A volte, alla flebile luce della luna calante qualcuno l'ha vista lanciarsi al galoppo fuori dal maniero, lancia in resta, per difenderlo dall'assalto dell'odiato Borgia.
 Rocca Sforzesca di Imola: tela romantica che immortala la cattura di Caterina
Nelle notti di luna piena, invece, il bel volto di Caterina avrebbe fatto capolino tra le merlature del suo castello, intenta a scrutare negli astri i segreti del futuro...o del suo passato infelice. Milano, città natia che le donò spensierati ricordi d'infanzia...suo padre, così vizioso eppure amorevole...gli innumerevoli viaggi  e gli altrettanti mariti, schiantati da morte violenta. 
Negli ultimi anni della sua vita, la duchessa confidò a un frate: 
«Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo».
Caterina, quali segreti avevi da raccontare? Perché non li hai tramandati ai posteri? 
Questo, il mistero di Caterina, forse il più grande, che non conosceremo mai.

Foto e testo: Marco Corrias (alias Marc Pevèn)

 Rocca Sforzesca di Imola al tramonto

Bibliografia
Carlo Pedretti, Caterina, Ludovico e Leonardo. Ipotesi di lavoro, in “Caterina Sforza: una donna del Cinquecento”, 2000
Michael Gelb, Il segreto da Vinci, Milano 2005
Gilberto Giorgetti, Gioconda o Caterina Sforza? Un quesito leonardesco in “La pie”, n.78, 2009
Antonio Burriel, Vita di Caterina Sforza Riario, Bologna, 1795

La storia del comandante nazista ordinato vescovo

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Pochi giorni fa abbiamo richiesto all’archivio del Senato della Repubblica materiale inerente all’armadio della vergogna. Ritengo che tutto questo debba essere comunicato al pubblico nella forma di divulgazione più semplice possibile.
L’espressione, relativa all’armadio della vergogna, fu ideata dal giornalista Franco Giustolisi nel corso di un’inchiesta per il settimanale L’Espresso. In questi articoli il giornalista denunciò l’esistenza di un armadio, rinvenuto nel 1994, in un locale di Palazzo Cesi-Gaddi a Roma. I locali del palazzo in Via Acquasparta erano la sede di vari organi di giustizia militare. All’interno dell’armadio furono rinvenuti 695 fascicoli d’inchiesta, ed un registro che conteneva 2274 notizie di reato relative a crimini di guerra commessi sul territorio italiano durante l’occupazione nazista e fascista.
Partiamo analizzando i dettagli del ritrovamento: nel 1994 il procuratore militare Antonino Intelisano ritrovò un armadio con le ante rivolte verso il muro. All’interno dell’armadio, situato nei locali di Palazzo Cesi-Gaddi a Roma, furono rinvenuti i documenti sopra descritti insieme con un promemoria del comando dei servizi segreti britannici, intitolato Atrocità in Italia, con il timbro top-secret. Questi documenti sono stati celati al pubblico ed al popolo italiano per oltre 50 anni. Posso immaginare lo sgomento del procuratore nel momento in cui ha aperto il primo fascicolo. 
Nell'archivio sono stati rinvenuti documenti inerenti l’eccidio di Sant’Anna di Stazzema, quello delle Fosse Ardeatine, gli eventi di Marzabotto e molti altri.
Tra questi un file è dedicato ad un comandante nazista divenuto prete ed infine vescovo. 
Tale personaggio non è mai stato giudicato per i crimini commessi.
Ripercorriamo la sua storia.
Siamo in Abruzzo, esattamente a Filetto di Camarda.
1944, fine di Maggio.
Le truppe tedesche dal fronte Castel di Sangro – Cassino si stavano ritirando verso il Nord dell’Italia. In Abruzzo vi erano diversi distaccamenti nazisti. A Filetto di Camarda sostavano quattro militari ed un maresciallo. Secondo alcune ricostruzioni gli stessi militari erano stati avvertiti della possibile presenza di partigiani nascosti nei boschi tutt'intorno al paese. Le testimonianze parlano di rapporti non conflittuali tra la popolazione locale ed i tedeschi. Qualche scaramuccia dovuta al commercio di derrate alimentari, ma nulla di più.
Agli inizi di giugno la situazione muta radicalmente. 
Alcune testimonianze riportano come possibile evento scatenante dei fatti, che accaddero in seguito, un incontro tra gli abitanti di Filetto: obiettivo della riunione era informare i partigiani della possibile partenza dei tedeschi verso il Nord e dell’eventualità che gli stessi potessero fare razzia di bestiame ed alimenti.
Il 7 giugno 1944 i partigiani escono dai boschi per sferrare un attacco a sorpresa ai tedeschi. 
L’operazione non giunse al risultato sperato: i partigiani uccisero un soldato tedesco, ferendone un secondo. Due tedeschi rimasti incolumi all'assalto partigiano si diressero verso Paganica e Camarda per chiedere rinforzi. Poco tempo dopo il paese fu invaso dalle truppe tedesche, che appena giunte in paese freddarono un uomo di 64 anni – Antonio Palumbo. Il maresciallo, residente a Filetto di Camarda, disapprovò il gesto ma fu ucciso senza esitazione dal sottufficiale che aveva freddato in precedenza Antonio Palumbo. Nell’arco di poche ore furono uccisi un ragazzo di 17 anni, Mario Marcocci, ed un altro abitante di Filetto, Ferdinando Meco. La rappresaglia era iniziata insieme al rastrellamento di civili. I tedeschi divisero gli abitanti in due gruppi: da una parte i ragazzi sotto i 16 anni con le donne e gli uomini sopra i 60 anni, dall'altra tutti gli uomini compresi tra i 16 ed i 60 anni. La prospettiva era chiaramente quella della fucilazione per gli uomini. Il primo gruppo, con i bambini e gli anziani, fu trasferito a breve distanza dall'abitato di Filetto. Gli uomini furono portati verso la montagna: ad un certo punto i tedeschi iniziarono a sparare verso gli inermi cittadini. Nove rimasero uccisi, altri scapparono in diverse direzioni. Purtroppo gli scampati furono raggiunti e freddati dai soldati nazisti. 
Abbandoniamo il dolorosissimo resoconto dei fatti per comprendere il personaggio a capo delle operazioni. L’ordine dell’esecuzione era stato dato dal capitano della 114° Divisione Cacciatori delle Alpi, Matthias Defregger, che dipendeva dal superiore Boelsen.
Nipote dell’artista tirolese Franz von Defregger e figlio del colonnello Hermann Defregger, Matthias studiò presso il collegio dei gesuiti di Feldkirch nel Vorarlberg. 
Abbiamo da poco appreso che si rese responsabile dell’eccidio di Filetto di Camarda, causando la morte di 17 persone, innocenti ed incolpevoli. 
Non si accontentò di causare la morte.
Ordinò il saccheggio e la distruzione del paese.
L’azione ignobile di rappresaglia gli consentì di essere elevato al grado di Maggiore. 
Scampato alla guerra, ai partigiani ed ai tribunali di giustizia, il nostro personaggio completò gli studi universitari in filosofia e teologia. Nel 1949 – 5 anni dopo aver ordinato di uccidere 17 persone – fu consacrato prete dal cardinale Faulhaber. 
Nel 1961 partecipò ad un raduno della 114° Divisione Cacciatori delle Alpi, celebrando la Messa. 
Un prete, che pochi anni prima aveva ordinato l’uccisione di 17 civili inermi, ha celebrato messa ad un raduno di ex nazisti. 
Esistono parole che non scadano nell'offesa?
Da parte mia no.
Allucinante. 
State comodi sulle vostre sedie o poltrone, non è ancora finita la vergogna.
Nel 1962 fu scelto per ricoprire la carica di vicario generale del cardinale Dopfner.
Nel 1968, esattamente il 14 settembre, il noto Paolo VI lo elevò a Vescovo.
Vescovo ausiliare di Monaco di Baviera, una piccola città della Germania.
Il suo motto episcopale?
Servo di tutti. 
Sicuramente servo del nazismo.
Era noto per la devozione mariana.
Non aggiungo parole evitando di offendere i tanti amici e lettori cristiani che da sempre mi seguono.
Ha ucciso, si è fatto prete e lo hanno nominato vescovo.
Si racconta che abbia cercato di impedire il massacro, che abbia cercato di mitigare la pena degli abitanti di Filetto. Altre testimonianze parlano invece di una grand’enfasi nel comandare e nel distribuire gli ordini appena giunto in paese. Non sapremo mai la verità, ma anche stando nel mezzo appare di una gravità assoluta.
Personalmente ritengo che Defregger debba aver lottato intensamente per impedire l’uccisione di civili inermi se, dopo poco, è stato nominato maggiore – forse anche grazie all’eccidio.
Gli eventi, riguardanti l’eccidio di Filetto di Camarda, rimasero sepolti nella storia sino al 1969, quando il giornale tedesco Der Spiegel li raccontò al mondo.

Negli anni successivi non è stato possibile processarlo come criminale di guerra poiché le donne di Filetto di Camarda hanno preferito dimenticare. 
Alcune annotazioni: quando il deputato del PCI Eude Cicerone lottò per processare l’assassino – prete - vescovo Defregger si trovò di fronte un muro alzato da un ex parroco del paese di Filetto, don Demetrio Gianfrancesco. 
Una seconda nota: Defregger fu assolto in istruttoria dal procuratore generale di Francoforte nel 1970 poiché aveva “solo” obbedito agli ordini dei superiori. Lo stesso magistrato, secondo me vergognosamente, concluse che l’uccisione degli ostaggi non era stata malvagia né crudele, e neppure comandata per motivi abbietti. 
Tutte le intenzioni di processarlo caddero nel dimenticatoio, e le persone di Filetto di Camarda preferirono aderire alle iniziative di riconciliazione promosse da don Demetrio. I parenti delle vittime incontrarono il vescovo Defregger durante un viaggio in Germania.
Aggiungo solo l'ultima nota: nei giorni successivi l'eccidio  di Filetto di Camarda la 114° Divisione Cacciatori delle Alpi, di cui Defregger faceva parte nelle vesti di maggiore e per cui nel 1961 al raduno celebrò la messa, si macchiò di ulteriori omicidi, tra cui il massacro di 40 persone a Gubbio.
A voi le conclusioni io non trovo parole, forse il mio senso di giustizia e la ricerca della verità stonano in tale situazione ed in questo paese chiamato Italia. 
Non credo al perdono.


Fabio Casalini

Un sentito e profondo ringraziamento a Rosella Reali che mi sta accompagnando in questa peregrinazione in terre di dolore e sofferenza.


Fonti bibliografiche
- archivio storico della Camera dei Deputati
- articolo del quotidiano Der Spiegel del 1969
- L'Aquila dall'armistizio alla Repubblica. 1943-1946 di Walter Cavalieri. Edizioni Studio Sette società aquilana di studi storici e strategici. L'Aquila 1994
- articolo del quotidiano Il Centro - Edizione l'Aquila del 2014 di Giovanni Altobelli

Io non ho ucciso Umberto. Ho ucciso il Re

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Roma 1947. Aula dell’assemblea costituente.

Sandro Pertini, che molti anni dopo diverrà Presidente della Repubblica, sostiene che Gaetano Bresci sia stato ucciso da alcune guardie carcerarie durante la sua detenzione a Porto Santo Stefano. [1]
Partendo da quest’annotazione nelle nostre menti sorgono spontanee diverse domande: la prima riguarda il personaggio in questione ovvero chi è Gaetano Bresci? La seconda attiene a Sandro Pertini ed al fatto di come sia entrato in possesso di certe informazioni. L’ultima non è scontata: perché nel 1947, subito dopo la fine della guerra, quando l’Italia aveva problemi seri Sandro Pertini si occupa della questione Bresci?
La risposta più semplice attiene al modo con cui Pertini è entrato in possesso delle informazioni sulla morte dell’anarchico: durante il ventennio fascista Sandro Pertini fu rinchiuso nello stesso carcere dove Bresci trovò la morte, ancora oggi al centro di sospetti ed insabbiamenti.
L’importanza del personaggio è legata agli eventi della sera del 29 luglio 1900, data i cui Gaetano Bresci esplode diversi colpi di pistola all’indirizzo del Re d’Italia.
Un uomo ha sparato a Umberto I.
Un anarchico ha ucciso il Re.
Io non ho ucciso Umberto. Io ho ucciso il re. Ho ucciso un principio”. [2]
Queste le parole di Bresci al maresciallo dei carabinieri, Andrea Braggio, che lo arrestava subito dopo l’attentato al Re, avvenuto dopo le ore 22 del 29 luglio 1900 a Monza. Bresci aveva da poco esploso un numero di colpi ancora ignoto: tre, stando alla sua versione, quattro, stando ai documenti ufficiali, raggiungendo il sovrano alla spalla, al polmone e al cuore.
Umberto I spirò poco dopo l’attentato. L’omicidio avvenne sotto gli occhi della popolazione festante che accompagnava l’incedere del corteo reale. 
Diverse altre affermazioni sono attribuite al Bresci negli istanti immediatamente seguenti l’arresto, che riporto integralmente: “Ho attentato al capo dello Stato perché è il responsabile di tutte le vittime pallide e sanguinanti del sistema che lui rappresenta e difende. Concepii tale disegnamento dopo le sanguinose repressioni avvenute in Sicilia in seguito agli stati d’assedio, emanati con decreto reale, e dopo avvenute le altre repressioni del 1898 ancora più numerose e barbare”. [3]
Ritengo opportuno risalire la linea del tempo per comprendere i fatti cui il Bresci si riferisce. 
Durante la permanenza negli Stati Uniti, l’anarchico è informato della feroce repressione dei fasci siciliani da parte di Crispi, nel 1894, e dei moti popolari, del 1898, durante il governo Antonio di Rudinì. A Milano, in seguito all'aumento del prezzo della farina e del pane, il popolo insorge ed assalta i forni. In tutta la Lombardia la situazione economica era talmente grave da convincere oltre 500.000 persone ad emigrare nei primi 50 anni dall’Unità d’Italia. I fatti di Milano, passati alla storia come la rivolta dello stomaco, durarono dal 6 al 9 maggio. La rivolta del popolo fu repressa nel sangue dall'esercito comandato dal generale Bava-Beccaris.  [4]
Secondo la versione ufficiale si contarono 80 vittime, testimoni oculari parlarono di oltre 300 morti, tra questi anche dei mendicanti che si trovavano in fila per ricevere la minestra dai frati di via Manforte. Su queste persone spararono con il cannone.
In seguito a queste eroiche gesta Bava-Beccaris fu insignito con la croce di grande ufficiale dell’ordine militare dei Savoia. Un mese dopo i fatti di Milano, Umberto I nominò senatore il coraggioso generale.
Negli ambienti anarchici – rivoluzionari, frequentati da Gaetano Bresci, l’uccisione del Re era da considerarsi il primo passo verso la rivoluzione repubblicana.
Dopo l’attentato al Re solo un gruppo d’anarchici di Roma prese le distanze dal regicida. 
La morte del sovrano scatenò forti entusiasmi tra i giovani anarchici che sognavano il rinverdire dei moti risorgimentali.
In netto contrasto la posizione dell’opinione pubblica e dei poteri costituiti: queste vibranti reazioni portarono il fratello di Bresci, ufficiale dell’esercito, a modificare il cognome con quello della madre. Un secondo fratello, calzolaio, fu arrestato e perseguitato a tal punto che 3 anni dopo decise di togliersi la vita.
Gaetano Bresci chiese patrocinio legale a Filippo Turati, che rifiutò per paura della reazione dell’opinione pubblica. La difesa fu affidata al presidente dell’ordine degli avvocati di Milano, Mario Martelli. [5]
Nel corso del processo Bresci ritornò sui motivi del gesto compiuto: Il proposito di uccidere Umberto I gli era tornato in mente dopo che aveva visto premiato l’autore della strage del maggio milanese che, a suo dire, andava impiccato.
Il processo si concluse rapidamente con la sentenza all'ergastolo per l’anarchico.[6]
Il 28 maggio 1904 Bresci è trovato impiccato nella sua cella nel carcere di Porto Santo Stefano. 
Tutta la documentazione relativa alla detenzione è scomparsa.
Gli atti del processo?
Introvabili.
Il secondino che aveva il compito di custodire il detenuto, si saprà in seguito, si assentò per qualche minuto. Al suo ritorno scoprì il corpo di Bresci, ormai cadavere, penzolare dall'inferriata alla quale l’anarchico si era appeso per il collo.
Torniamo ora al 1947 ed a Sandro Pertini,detenuto anni dopo nello stesso carcere.
La sua ferma convinzione di un omicidio di Stato a sanare un omicidio contro lo Stato si potrebbe spiegare grazie alle informazioni che ha raccolto negli anni della prigionia a Porto Santo Stefano. 
Alcune voci parlarono del metodo “fare il Sant'Antonio o santantonio”, che consisteva nel coprire il detenuto con un telo e massacrarlo di botte: quella che doveva essere una lezione si è trasformata in un omicidio?
La seconda ipotesi è da ricercarsi nella convinzione che i poteri dello Stato possano aver trovato interesse nell'uccidere l’anarchico.
Non sapremo mai la verità a causa della completa mancanza di documenti inerenti agli ultimi anni di vita di Gaetano Bresci.
Il luogo di sepoltura risulta sconosciuto.
Vi sono due ipotesi: la prima che il cadavere dell’anarchico abbia trovato pace in un terreno scavato nei pressi del carcere, la seconda riguarda la possibilità che il corpo sia stato gettato in mare dagli scogli.
Tutti i documenti andarono perduti, anche il dossier che Giolitti scrisse su Gaetano Bresci.[7]
Di lui cosa rimane?
La sua macchina fotografica e la rivoltella con cui uccise il Re, entrambe custodite al museo criminologico di Roma.


Fabio Casalini 


Didascalie
1- Attentato al Re d'Italia
2- Gaetano Bresci
3- Il generale Bava-Beccaris
4- Umberto I



[1] Il carcere di Porto Santo Stefano si trova a Ventotene nelle Isole Ponziane. Gaetano Bresci fu rinchiuso a San Vittore prima di essere condotto nel carcere di Porto Azzurro, sull’Isola d’Elba. Per poterlo controllare adeguatamente infine fu trasferito nello speciale carcere di Ventotene.
[2] Ortalli Massimo. Gaetano Bresci, tessitore, anarchico e uccisore di Re.
[3] Ortalli Massimo. Gaetano Bresci, tessitore, anarchico e uccisore di Re.
[4] Archivio del Corriere della Sera. Milano 1898, cannonate sulla folla.
[5] Filippo Turati rifiutò asserendo che “erano dieci anni che non svolgeva la professione”. Queste le parole di Turati a Gaetano Bresci durante un incontro in carcere.
[6] La pena di morte all’epoca del regicidio di Monza era stata abolita dal Codice Zanardelli, del 1889, tranne per alcuni reati militari.
[7] Gaddini Andrea. Gaetano Bresci. 

Kaisergruft, anime tetre. I segreti degli Asburgo d'Austria

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10) Kaisergruft - Tomba di Carlo VI (Von Hildebrandt, 1720)
30 Novembre 1780.
Un’alba gelida e lattiginosa avviluppa Vienna.
I tetti della capitale del vasto impero mitteleuropeo sono carichi di neve fresca, caduta nottetempo. Tra le vie della Città dei Sogni, all’unisono col ritmo marziale dei tamburi rintocca il suono stentoreo delle campane a morto.

Al passaggio del primo reparto di cavalleria, i cancelli dorati dell’Hofburgsi spalancano al punto da dilatare lo spazio esterno. Le cupole di ottone del palazzo imperiale quest’oggi non riflettono bagliori dorati;i finestroni barocchi paiono gli occhi di mille principesse in lutto: i timpani, fastigiati come ciglia appena sfiorate dal pianto dirotto del nevischio invernale.

2) Palazzo reale dell'Hofburg
Raggi di ruota mulinano, in moto centrifugo stabile. L’ampia esedra di Michaelerplatzaccoglie un cocchio funebre trainato da otto destrieri, avvolti in drappi listati a lutto. A seguire, un lungo corteo di carrozze ostenta i blasoni dei più alti ranghi dell’aristocrazia asburgica.
Maria Theresa, famosa regina, si appresta a varcare la soglia della sua ultima dimora terrena.
La processione si snoda lungo le vie; zoccoli e ruote schiacciano la neve candida, tramutandola in poltiglia marcescente. Le insegne della casa d'Asburgo, aquila nera bicipite in campo d’oro, aprono la via ai membri della famiglia imperiale. Alle loro spalle procedono le portantine del clero e della corte ducale; i musicisti chiudono ilcorteo. Le voci echeggiano tra le case a graticcio e i tetti spioventi del centro storico.
Meta finale, Santa Maria degli Angeli: affacciata sul lato ovest del Neumarkt, piazza del Mercato Nuovo eletta, in età barocca, a luogo di esequie e sepoltura dei membri della dinastia. Il cocchio è scortato da paggi in livrea corvina, con fiaccole ardenti; Su tutti, in sella a un lipizzano macchiato,si staglia Joseph II. Il biondo primogenito di Maria Theresa d'Asburgo e di FranzStefandi Lorena è scortato dalla guardia del corpo ungherese, armi rovesciate in segno di lutto;il suo sguardo gelido cela una sfumatura di sprezzo. Già imperatore dall’età di venticinque anni al motto di “Virtute et exemplo”, Joseph fino a oggi non ha mai potuto davvero governare in piena autonomia.
Troppo ingombrante l’ombra materna.Quasi, se la sente ancora addosso…

3) Vienna - Franziskanerplatz
Le campane di Santa Maria degli Angeli fanno eco a quelle delle altre chiese cittadine;i rintocchi funebri sottolineano la partecipazione del clero e del popolo all’ultimo atto. La gente, commossa, si accalca  a ridosso delle case a graticcio;ledonne anziane ricordano.
«Com’era bella da giovane, Maria Theresa…un bocciolo in fiore, dai capelli d’oro filato e gli occhi grandi color del cielo…com’era cara…»
L’udito di Joseph carpisce brandelli di frase. Il ritratto mentale della madre, in lui,è differente: la ricorda severa, austera e appesantita dalle numerose gravidanze: ben 16 figli, tra maschi e femmine, le valsero il soprannome di "suocera d'Europa".
Levoci sussurrano dicerie sugli ultimi giorni della sovrana: «la suamorte, preceduta da agonia breve di una settimana...»
“Quattro giorni soltanto” rimugina il kaiser. Non può soffrire le chiacchiere  della folla: d'altra parte, "tutto per il popolo, ma niente attraverso il popolo"é uno dei suoi più noti aforismi.
«Da quando ha iniziato a soffrire di un malessereignoto…brividi incontrollabili l’hanno scossa…»
“Malessere ignoto?” Joseph storce la bocca. Il male che ha trascinato sua madre nella tomba, lui lo conosce assai bene,ma non può rivelarlo: getterebbe il popolo nello sgomento.

4) Maria Teresa d'Austria (G. Mattei, 1739?); Giuseppe II (Joseph Hickel, 1771?)
Vaiolo.
Maria Theresagodette per anni di eccellente salute, tanto da aprire le finestre al gelo anche in pieno inverno finché…nel maggio di tre anni fa non contrasse il terribile morbo. Alla morte di Josepha, sua nuora, moglie di secondo letto del figlio, la reggente costrinse la giovanissima figlia Maria Josephine a seguirla per una preghiera davanti alla tomba:dopo pochi giorni, le due nobildonne mostrarono di aver contratto i sintomi della malattia. La fanciulla morì quasi subito; la sovrana, invece, le sopravvisse per tre anni ancora.
Al pensiero della sorellina tumulata, Joseph impallidisce.
"Cosa accadde, in realtà, in quella maledetta cripta?"
Per la sovrana, la perdita della figlia fu così dura che, finché restò in vita, se ne attribuì di continuo la colpa.La sua tempra d’acciaio, invece, iniziò a venir meno solo dall’ultimo anno.
"Sempre più spossata, solo dopo quattro giorni d’inferno mia madrerealizzò che la sua ora era infinegiunta...".
Erano da poco scoccate le nove di sera del 25 novembre quando, addobbata la Rittersaal, l’aula dei cavalieri dell’Hofburg, di nastri neri, dopo aver chiesto l’estrema unzione la sovrana ha esalatoil suo ultimo respiro. La salma,circondata dai cari, su insistenza dei monaci agostinianiè stata fatta oggetto d’incessanti preghiere in suffragio  dell'anima sua.
5) Reggia di Versailles: ricostruzione del baldacchino funebre di Luigi XIV 
"Forse che avesse qualche grave e innominabile peccato da espiare?"il kaiser ironizza. Rapporto d'odio e amore tra i due. Durante la malattia della madre, Joseph non si allontanò mai dal suo capezzale: salvo, scampato il pericolo tornare ad azzuffarsi.
La corte sostadi fronte alla chiesa dei cappuccini. Ilconfessore dell'imperatrice, un gesuita lombardo, scandisce i passi dell’orazione funebre.
«Al primo avviso funesto della morte  repentina della nostra sovrana, l'Europa tutta si scuote e pare mesta e pensosa sul suo futuro…Noi, noi medesimi l'abbiamo riguardata come una pubblica calamità! Quasicome un colpo di fulmine, che caduto di fronte ai nostri piedi ci ha sbigottiti.»
La bara viene sollevata dai membri dell’ordine della Chiave d’Oro: è ricoperta da un drappo di seta nera,dai bordi dorati. Ai suoi piedi, su due cuscinisono adagiate  le corone di Ungheria e Boemia. Il feretro è seguito dai dignitari di corte e dal corpo diplomatico viennese; la famiglia imperiale li segue dappresso.
«Chi fu allora a non dire, almeno tra sé e sé: ecco una delle più grandi regine dell'universo, improvvisamente abbassata dal trono al sepolcro, dai tesori alla nudità, dalle delizie al disfacimento, alla polvere?» tuona il gesuita.
L'accesso alla chiesaé illuminato da candelabri d'argento dai ceri sempre accesi; i vapori d'incenso trascolorano la realtà. Tutt’attorno al feretro è un girare, un rimescolarsi di gran cappe, d’alti pennacchi e spade da parata; uno strascico di pellicce e uniformi sfarzose.Come impone una vecchia tradizione che ancora lega gli Asburgo d’Austria a quelli di Spagna, gli alti gradi dell’esercito austriaco indossano costumi spagnoleggianti.
Joseph II squadra i cavalieri dall’alto al basso. “Parassiti, fautori di vecchie e detestabili mode..."
6) Vienna, Schatzkammer. Abito da parata imperiale (XVII sec.)
«Oh, giudizio di Dio, quanto è breve la vita, anche nei buoni sovrani! Quanto è mai falsa la luce del trono! Pare che il destino degli uomini sia quello di sotterrare i pensieri di morte,ancor prima di seppellire i morti stessi. S’intessono panegirici sulle ombre dei sovrani defunti…e mentre gli oratori si sforzano di farli comparire come eroi, noi cerchiamo di persuaderci che essi furono  soltanto uomini…».
Recitate le ultime orazioni, sotto la guida del confessore la bara discende l'angusta scala che conduce ai sotterranei. Alle spalle della processione, tutte le porte varcate sono rigorosamente sbarrate.
La via del ritorno é chiusa.
Di fronte al portale d'accesso alla cripta, il corteo rompe il silenzio. Qualcuno bisbiglia «é strana cosa far risuonare il batacchio in un luogo abitato soltanto da morti: chi potrà mai udire i rintocchi?»
Ilgesuita bussa con fare deciso.
«Qui est?»
Una voce sepolcrale echeggia dall’altra parte del portale bronzeo.
Il confessore, con voce imperiosa declama: «Maria TheresaWalburga Amalia Christina von Habsburg, imperatrice consorte del Sacro Romano Impero! Arciduchessa regnante d'Austria, re apostolico d'Ungheria, regina di Boemia! regnante di Croazia e Slavonia, duchessa di Parma e Piacenza…».
7Vienna, Schatzkammer. aquila bicipite di casa Asburgo 
«Nescimus rispondeuna voce cupa, interrompendo l’elenco di onorificenze. Noi non la conosciamo.
Ilgesuitaè incredulo. La fiamma delle torce vacilla; Joseph gesticola, incoraggiando il confessore a bussare ancora.
“Toc Toc!”
«Qui est?»
Prontamente,il ciambellano risponde:“Sua Maestà Imperiale!”.
«Nescimus!» ribadisce la voce, quasi ultraterrena. La via resta sbarrata.
Tra i membri del corteggio echeggiano frasi spezzate, inframmezzate a silenzi imbarazzanti; il confessore è paonazzo d'ira.Joseph sbuffa: spinge via il religioso e bussa con forza.
La voce, più terrosa e gutturale che mai, chiede per la terza volta chi osi violare il riposo delle anime.
«Una povera e miserabile peccatrice» ribatte il kaiser.
Concitata, silenziosa attesa. Il portone sferraglia, cigola, smagliando l’ordito di ragnatele invisibili. Il diritto di varcare la soglia é concesso soltanto nel momento in cui,spogliato il defunto di ogni blasone terreno, di buon grado i vivi accettanole regole del regno sotterraneo in cuitutti sono uguali di fronte alla morte.
Oltrela soglia li attende un drappello di frati incappucciati, dallo sguardo torvo: paiono nani delle Alpi,  nibelunghi usciti da unanfratto di saga germanica. Quello che sembra essere il priore invita gli ospiti ad accedere al luogo silente e inviolabile che prende il nome di "Kaisergruft".
La cripta imperiale.
8) Kaiserguft: infilata di casse della nobiltà minore


La cerimonia della tumulazione può avere inizio. Joseph trova che tutto ciò sia irritante. 
"Spazzerò via le ridondanti e ridicole  mode spagnole".
Il nuovo imperatore vuole far spazio a una nuova era: presto, la Ragione e la Scienza domineranno sulla fede cieca e superstiziosa.
Il percorso si snoda attraverso un tetro dedalo di gallerie sotterranee, metodicamente ampliate nel tempo: un complesso di ambienti scavati dal 1622 sotto il pavimento della Kapuzinerkirche, allo scopo di ospitare i sarcofagi di  145 e più membri del casato d'Asburgo. Al termine della  terribile Guerra dei Trent'anni che vide opporsi Protestanti e Cattolici in una strage senza fine, il 25 luglio 1632 la chiesa fu dedicata con la posa di una semplice bara contenente i resti mortali degli imperatori Mattia II e  Anna del Tirolo,committenti del convento e della cripta; l'attosimbolico sancì l’ingresso di diritto degli Asburgo d’Austria, con il titolo gravoso di  difensori della vera Fede, nell’Età Moderna.
"Periodo burrascoso, inaugurato da un crescendo di violenze, carestie e morbi virali" osserva Joseph, calandosi nella tenebra delle catacombe."Un'altalena di conflitti mortiferi, dalle aggressioni dell’Islam ottomano incalzante da est, alle maledette guerre di religione con gli altri paesi europei..."
Ilcorteo avanza alla luce delle torce; sui lati della galleria si stende una lunga e greve teoria di sepolcri, fusi nel bronzo massiccio. Sotto un pesante velo di polvere incombe il lezzo della decomposizione. Come inun labirinto, il corridoio svolta bruscamente a destra. Passandoaccanto al sarcofago di Leopold I, difensore dei domini asburgici durante l’assedio turco del 1683, gli astanti si fanno il segno della croce. Alla luce sinistra delle torce,il catafalco  ostenta un teschio sogghignante la cui calotta cranica, lucida e oblunga, è coronata di foglie d’alloro; sotto la mandibola ossuta penetra la lama di uno spesso e pesante spadone.
Emblemi di potenza e conquista, simboli di trionfo sulla morte.
9) Kaisergruft - Tomba di Leopoldo I (Von Hildebrandt, 1705)
L'apparato scultoreo é scaturitodalla fantasia fervida delvon Hildebrandt,progettista del palazzo di Schönbrunn poco fuori Vienna: splendida reggia che arrivò a competere con la francese Versailles.
"Nonostante affermasse di amarela pace, reLeopold consumò lasua vita in guerra”, riflette Joseph. Eppure, il sovrano non fu favorito da un aspetto bellicoso, anzi: quell'ometto, già cagionevole di suo, aveva ancheereditato il caratteristico labbro sporgente degli Asburgo, tendente ad afflosciarsi verso il basso.
Tara ereditaria, risultato delleprolungateunioni tra consanguinei.
Sulla destra, sempre su disegno di Von Hildebrandt, troneggia la tomba del figlio di Leopold: Joseph I. Il catafalco è tempestato di scene a sbalzo, ispirate alle battaglie che lo videro protagonista della Guerra di Successione spagnola.
Ilprozio” rammenta tra sé e séil giovane kaiser“procurò gravi perdite alle casse imperiali, che annualmente investivano circa 30.000 talleri soltanto per mantenere le spese dei lussi della corte viennese...".
Non per nulla era chiamato il re Sole di Germania. “Per non parlare degli oltre 300 musicisti impiegati per allietare le sue serate mondane..."
Illieto vivere del sovrano finì bruscamente nella primavera del 1711, nel pieno della guerra: Leopold, nel corso di una battuta di caccia nel cuore della foresta asburgica, colto da un malore cadde da cavallo. Chiazze rosse e pruriginose, ovunque: il sovrano era stato contagiato dallaterribile epidemia di morbillochein quegli anni investì l'Austria.
«Prozio Leopold» Joseph sospira. «Latuamorte, improvvisa e senza eredi,mutò le sorti favorevoli della guerra in disastro». Scopertosi a monologare tra i pannello bronzei, Joseph  sobbalza. Il corteonon é più con lui: lo vede allontanarsi nella penombra, prima di sparire dietro una curva. L'hanno lasciato al buio.
«Dannato d'un gesuita, baciapile  lombardo!  Come ha osato?»
Nella penombra delle torce a muro pressoché esauste vi é una nuova infilata di tombe; imperatori e regine, condottieri e duchesse: una vera e propria galleria di personalità illustri occupa entrambi i lati della galleria. Icatafalchid'ancienne régime sono mausolei metallici,coronati da statue di putti colti nell'atto di reggere specchi ovali con le effigi ritratte dei reali. Il peso dei coperchi, talvolta,ha sfondato le casse lasciando a nudo le miserespoglie mortali.
Piuttosto che un tempio dedicato alla fama, ilKaisergruftha l’aspetto di un mausoleo medievale, celato ai pubblici onori per scampare ai saccheggi.
Non a caso“kriptē”, dal greco, indica uno spazio nascosto nel ventre della terra.
10) Kaisergruft - Tomba di Carlo VI (Von Hildebrandt, 1720)
Come dal nulla, il catafalco più  imponente di tutti si staglia  di fronte a Joseph.
«La tomba del nonno...»   
Per i gusti sobri del nuovo sovrano, lo stile barocco del catafalco di Karl VI tocca i vertici dell'abominio. Le imprese guerresche dell'imperatore inscenano un’immensa schermaglia corale: il riflesso di polverose battaglie si dipana a sbalzo su tutta la cassa; lance appuntite e vessilli ripiegati minacciano chiunque osi avvicinarsi. Sui quattro angoli del catafalco, i corpi scheletrici dei regni asburgici vigilano come antichi guardiani barbarici: ciascuno di essi, sul lucido cranio, porta una corona differente. L'impressionante macchina scenica é frutto del lavoro instancabile di Balthasar Moll: artista tirolese che, appresi i  rudimenti nella bottega paterna d'intaglio ligneo, entrò nel gotha dei più celebrati scultori barocchi.
Quando Joseph si inginocchia ai piedi dell'arca,  è talmente stordito dal tripudio di tutti quei teschi, vessilli, globi cruciferi e diademi vinti da non percepire il drastico abbassamento della temperatura che sta avviluppando l'intera cripta...
Il suo sguardo scivola sulle virtù allegoriche.
“Se i volti di queste fanciulle immortalate nel bronzo  sono stati castamente celati da un velo, non può dirsi altrettanto dei loro seni floridi”.
L'ennesimo putto regge uno specchio metallico: l'effigie a rilievo ostenta il ritratto di profilo di un uomo aitante, imparruccato e sicuro di sé.
«Nonno...dopo la morte del prozio, la tua ascesa al potere mutò le sfavorevoli sorti di casa Asburgo...».
11) Carlo VI d'Asburgo (F. Solimena, 1685-1711)
Karl, erede della tarda età barocca, cercò di riunire Spagna e Germania sotto la stessa corona: infrantosi il sogno, portò avanti la politica famigliare in Europa centrale fino a fondare la compagnia marittima di Ostenda,  al fine di contrastare il mercato inglese e olandese nelle Indie orientali. Nel 1733, sul finire della guerra di successione polacca, mentre le forze spagnole si spartivano il sud Italia Karl ottenne in eredità la Lombardia spagnola.
Milano, storica chiave d'Italia e dell'impero.
Il volto del defunto risplende di una luce chiara e palpitante, come un intenso scintillio fosforescente che lascia interdetti. In quel preciso istante, il tempo pare annullarsi...e Joseph assiste a eventi passati....
Entrato a Milano, l'imperatore Karl corse subito in Duomo per raccogliersi in preghiera di fronte alle spoglie di San Carlo Borromeo, protettore dalla pestilenza. Presto, la devozione nei confronti del santo ambrosiano lo avrebbe portato a erigere a Vienna un’immensa basilica a lui dedicata con tanto di colonne coclidi,su imitazione di quelle romane...
12) Milano,  duomo vetrata di S. Carlo Borromeo (1910)
«Superstitio!»
Suo nonno che adora le ossa di un santo: una visione che nausea Joseph più di qualsiasi epidemia.
Cigolio metallico. Una voce, gracchiante e inattesa, ferisce le sue orecchie sensibili.
«Memento homo, quia pulvis es et in pulverem reverteris!»
Sibilare di fauci sdentate: lo scheletro con la corona imperiale sul capo si é mosso e ha parlato!
"Ricordati, uomo: polvere sei e polvere ritornerai!"
Il kaiser arretra. Per la prima volta in vita sua, prova paura.
Orazione funebre, epitaffio estremo: Ammonimento, ossessione di retaggio medievaleggiante, assurge a un  terribile trionfo della Morte in pompa magna.

Gli occhi di Joseph si perdono nelle orbite vuote del teschio: la visione riprende il suo corso.
Lo sguardo del kaiser penetra con indiscrezione nelle stanze private del nonno, nel palazzo della Neue Favorita, finché non gli si para innanzi una visione raccapricciante: Karl si contorce fra atroci spasmi, nella penombra del suo sfarzoso letto a baldacchino.
«Tu vedi, ora sai!»
Il teschio sogghigna. La sua mano scheletrica ha colto un cespo di funghi bianchicci nel bosco: cappelli verdognoli e gambi lunghi, riposti nel cesto parevano vecchie tibie incrociate.
«L'amanita phalloides  é infine giunta sulla tavola del sovrano vanesio e superstizioso» sogghigna la Morte.Sapore di funghi marcescenti, in fondo alla gola: Joseph è colto da un conato di vomito. La stanza inizia a girare.  Di fronte al pavimento che slitta vorticosamente, il suo impulso immediato è quello di fuggire. 
13) Duomo di Milano, scuròlo di S. Carlo (F. M. Richini, 1a metà '600)
“Al momento del decesso, gli Asburgo erano vessati dai debiti”. La fronte di Joseph è imperlata di sudore. “Il tesoro imperiale conteneva meno di 100.000 fiorini e la diserzione di molti soldati aveva indebolitole armate.”Cosa peggiore, nemmeno il nonno aveva figliato eredi maschi...
"I tempi non parevano ancora maturi per una successione femminile…eppure mia madre, battendosi, andò oltre ogni pronostico!" esclama Joseph, esorcizzando la visione mortifera.
In virtù della Prammatica Sanzione emanata dallo stesso Karl, nel 1740 la giovane e bella Maria Theresa divennela prima e unica donna della Casa d'Austria ad ereditare il governo dei vasti possedimenti imperiali. La validitàdeltrono, rifiutata da Francia, Spagna e numerosi regni tedeschi, gettò l'Europa centrale in una nuova guerra di successione: quella austriaca,dalla quale la tenacissima Maria Theresa uscì vittoriosa. Eppure la Asburgo capì che non sarebbe statamai eletta al soglio imperiale alla stregua di un uomo: la ragion di Statoimponevaun marito.
Joseph annaspa,in cerca di spiegazioni. In fondo alla tenebra ode il salmodiare dei frati; il fruscio delle pagine di un salterio annuncia una voce grave e stentorea.
Un funerale.
14) Funghi del genere "amanita phalloides"

Il viaggio continua: così dev'essere. L'imperatore é trasportato da forze invisibili all'interno all'ampia Maria-Theresien-Gruft, voltata da una cupola in cui i raggi rifiutano di penetrare. Il mausoleo accoglie il fastoso doppio sarcofago rococò di Maria Theresa e  Franz di Lorena: capolavorodel Moll,é il risultato di vent’anni di duro lavoro.
Sposando mio padre,  mia madrefinse di accontentarsi del ruolo, apparentemente fittizio, di imperatrice consorte.”
Al suono delle trombe del Giudizio, i simulacri della coppia imperiale, giacentisulcoperchio, paiono destarsi dal sonno della morte; mentre un putto regge una ghirlanda di stelle sulle loro teste,iconiugi si guardano dritto negli occhi. Le nude Virtù velate sotto i panneggi bronzei paiono sudari mortiferi; i rilievi ricordano i momenti cruciali della loro vita: le cerimonie in pompa magna, le incoronazioni...
Maria Theresa, un governo tutto al femminile.

15) Kaisergruft, Tomba di Maria Teresa e Francesco di Lorena (B. Moll , 1751-72)
"L'età teresiana passerà alla storia  come un periodo ricco di riforme economiche, sociali e di grande sviluppo culturale…”.
Sotto sotto, il kaiser stima sua madre: come donna e come regnante. Purtroppo, pur concedendo la co-reggenza sia al marito Franz sia al figlio, Maria Theresa di fatto impedì a entrambi d'intervenire negli affari di Stato. Ora che la via é libera, Joseph potrà finalmente portare a termine i suoi progetti di despota illuminato.
"Il mio grande sogno: garantire la certezza del diritto, abolendo la tortura e riducendo i reati che implicano la pena di morte; requisire i beni dei ricchi monasteri e dei  luoghi di culto che non adempiono più a funzioni umanitarie e donarli  agli ospedali; vietare la caccia alle streghe e impedire la conversione forzata delle minoranze religiose, in particolare ebraiche."
Tutte riforme che sua madre, di mentalità ancora tardo barocca, non aveva mai osato applicare.
A lato del catafalco vi é il sarcofago di Maria Isabella di Parma, che fu sua prima moglie...intelligente, malinconica e bella, croce e delizia della corte viennese…
Ripensando al suo fiore  spentosi anzitempo, Joseph sospira. "Non mi fosti sempre fedele" rammenta l'Asburgo "ma in fin dei conti, non saprei provare gelosia: casomai odio, per la donna che amasti...che  per giunta, era mia sorella Maria Cristina…"
Scandalo a corte!
Almeno, finché uno sfortunato parto non stroncò Maria Isabella, ancor giovane, mettendo tutti a tacere. Qualche anni più tardi, invece, Maria Cristina sarebbe morta sfigurata dal vaiolo. Il Canova ha immortalato il suo sepolcro nella chiesa viennese degli Agostiniani. 
Sull'altro lato del catafalcosi ergela tomba della sua seconda moglie, Maria Josepha: inconsapevole pedina di Maria Theresa, che pretendeva  a ogni costo un erede. Le seconde nozze portarono all'infelicità di entrambi gli sposi: Joseph, che dopo la morte dell'amata non avrebbe mai desiderato risposarsi, per giunta trovava Maria Josepha repellente.
"Con lei vissi quasi da scapolo, incontrandola giusto a tavola e a letto...vi ero costretto".
Nel1767, dopo soli due anni,anch’ella morì di vaiolo, ponendo fine alla situazione incresciosa. A lato, la piccola bara di Josephine: di fronte all'epitaffio della sorellina prediletta, una domanda assillante torna a martellare i pensieri del giovane kaiser...
"Cosa accadde, in realtà, in questa maledetta cripta?"
In cerca di risposte, il neo-imperatore si avvicina al sepolcro della sua seconda moglie e lo esamina: tra cassa e coperchio, un sottile spiraglio.
Joseph inizia a sudare. "Oh mio buon Dio!" 
La tomba era stata sigillata in modo approssimativo...
16) Tomba di fanciulla (Maria Giuseppina?) 
"Come fu possibile?"
Il pensiero di quelle dita ossute, già sorprese nell'atto di cogliere funghi mortali, si fa spazio nella sua psiche indebolita: può immaginarle insinuarsi, dissigillare la tomba e seminare il morbo...
"Qual terribile paradosso, quello di mia madre"...sussurra Joseph, sarcastico.Dedicare unavita a riformare il sistema sanitario, costruire ospedali moderni e perfino sottoporre i suoifigli a vaccinazioni forzate…per poi morire in maniera così stupida…e superstiziosa".
Improvvisamente, l'imperatore s’irrigidisce. Il Maria-Theresien-Gruft non é vuoto: una silhouette non del tutto visibile, confusa nella penombra, si aggira inquieta.
"Una dama in nero."
 Vaga da un sepolcro all'altro, sospirando fievolmente. Forse una gentildonna del corteggio reale che, come lui, si é perduta nel kaisergruft?
«Madama?»
La figura si ferma. Si volta.
«Joseph?»
Sul suo volto pallido spicca un paio di orbite vuote.
«Perché, quando ero stesa sul letto di morte, non venisti a trovarmi mai?»
Senza toccare il terreno, lo spettro della defunta si accosta al kaiser.
«Perché non presenziasti al mio funerale?»
Maria Josepha…di fronte al suo sposo, la donna ostenta le piaghe putride del vaiolo.
«Perché non portasti mai un fiore alla mia tomba?»
Lo spettro della consorte sembra aver perso quell’indole timida e mite, che in presenza del marito la faceva ogni volta tremare...
«Joseph...io ti amavo.»
Il kaiser è sconvolto. Non può credere…davvero, non può crederci…
La donna in nero non proferisce più verbo. Si limita a sussurrare, indicando il pavimento.    
Aipiedi del catafalco di Maria Theresa e Franz Stephan, dove prima non vi era nulla si scorge un sarcofago semplice e austero. L'imperatore fissa la lapide per un lasso di tempo che gli pare un’eternità.
"Qui giace Joseph II, colui che fallì qualsiasi cosa intraprese".
Un grido silente, nel cuore ipogeo del kaisergruft. Coronata e trionfante, la Morte sogghigna, facendosi beffe delle vanità e debolezze dei miseri mortali.


Testo e Foto (tranne 3 e 11, wikipedia): Marco Corrias alias Marc Pevèn


17) Londra, abito dark in Camden town
Bibliografia:
AA.VV La Cripta Imperiale presso i Padri Cappuccini a Vienna. Guida. Ebenda 2000
J. P. Bled, Maria Teresa d'Austria, Bologna, Il Mulino, 2003
E. Crankshaw, Maria Teresa d'Austria - Vita di un'imperatrice, Milano, Mursia, 2007
E. Ferri, Maria Teresa. Una donna al potere, Milano, Mondadori, 2008

Giovanni Pascoli e l'abbaglio del Passator cortese

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Esiste il ladro gentiluomo?
Trovando o forse meglio dire volendo trovare una risposta affermativa, una seconda domanda ci appare all’orizzonte: perché i briganti hanno un forte impatto sulla popolazione?
Il ladro gentiluomo è uno stereotipo della letteratura popolare, facilmente rintracciabile nel genere del romanzo giallo.
Questa figura è di norma una persona educata e benestante che non ha bisogno di lavorare per vivere, questo concetto conduce il pensiero al fatto che non debba rubare per sopravvivere.
Il ladro gentiluomo vive grazie all’astuzia, alla bella presenza ed al fascino.
Il brigante potrebbe rappresentare questa visione in una sua accezione allargata?
Normalmente la vita di un fuorilegge non inizia con un delitto, ma come vittima di un sopruso o d’ingiustizia da parte del potere costituito. L’aspetto interessante? La figura del brigante è associata all’idea che serve qualcuno per riparare le ingiustizie ed i torti subiti dal popolo. 
Robin Hood non rubava ai ricchi per donare ai poveri?
Forse l’eroe con l’arco non aveva bisogno di comprare la protezione della popolazione.
L’ultimo aspetto introduttivo riguarda l’invisibilità e l’invulnerabilità di questi personaggi. La loro cattura o morte dipende esclusivamente dal tradimento di uno dei compagni. 
Tutti questi aspetti si trovano in Stefano Pelloni,  conosciuto come il Passatore?

“Romagna solatia, dolce paese, 
cui regnarono Guidi e Malatesta;
cui tenne pure il Passator cortese,
re della strada, re della foresta.”

Giovanni Pascoli concluse la poesia Romagna citando il Pelloni con il soprannome di Passator cortese, malgrado fosse un brigante spietato e crudele. Cerchiamo di ricostruire la sua vita.
Nacque come Stefano Pelloni, figlio di un traghettatore o passatore sul fiume Lamone, il 4 agosto del 1824 a Boncellino di Bagnacavallo, paese della Romagna a breve distanza da Ravenna.
Giunto alla terza elementare abbandonò gli studi, in seguito a diverse bocciature. Sin da giovane s’inguaiò con i poteri costituiti. Durante un trasferimento ad Ancona, dove avrebbe dovuto scontare quattro anni di lavori forzati per il furto di due fucili ed altri tre per la fuga dal carcere di Bagnacavallo, Pelloni Stefano riuscì a scappare ai controllori dandosi alla macchia.
Le biografie raccontano che da subito il Passatore entrò in un gruppo d’azione dedito alle scorribande delinquenziali: in breve tempo lo trasformò in una banda armata.
La banda del Pelloni per anni effettuò violenze all’interno delle Legazioni Pontificie, termine che merita un piccolo approfondimento. Fino alla presa di Roma lo Stato Pontificio fu suddiviso in 17 delegazioni apostoliche, istaurate da Pio VII nel 1816. Le delegazioni assumevano il nome di Legazione quando erano governate da un cardinale. 
La banda del Passatore riuscì a tenere in apprensione la gendarmeria dello stato pontificio grazie ad una fitta rete di spie ed informatori. Possiamo parlare di connivenza tra la banda e la parte più povera della popolazione. 
Il Passatore come ottenne l’appoggio del popolo?
Semplicemente comprandolo. Stefano Pelloni ricompensava le genti di Romagna con i proventi di furti e rapine. 
L’operato di questo brigante fu violento e spesso sadico. I resoconti ricordano che fece a pezzi un uomo accusato di essere una spia. In altre occasioni il Passatore infierì sulle vittime decapitandole ed esponendo la testa in mezzo alla strada, come avviso alle spie e agli uomini della gendarmeria pontificia.
Pelloni firmava con le urla le proprie malefatte dichiarando apertamente, e a voce alta, il nome ed il soprannome: Stuvanén d’è pasador, la cui traduzione risulta Stefano figlio del Passatore.
Nel suo modus operandi rientrava l’occupazione armata d’interi paesi e borghi. Questi avvenimenti colpirono Bagnara di Romagna, Castel Guelfo, Brisighella e diversi altri luoghi. In queste occupazioni la banda assaltava le abitazioni degli abitanti più facoltosi, seviziandoli per ottenere informazioni inerenti al luogo ove erano nascoste le ricchezze.
Il personaggio colpiva l’immaginario collettivo, non solo quello della popolazione povera. Nell’ottobre del 1850 Garibaldi da New York scrisse la seguente lettera: le notizie del Passatore sono stupende. Noi baceremo il piede di questo bravo italiano che non paventa, in questi tempi di generale paura, di sfidare i dominatori. Mi chiedo se le informazioni che giungevano a Garibaldi erano esatte e veritiere.
La vergogna sostituisce il terrore.
La follia omicida sostituisce la paura.
La violenza sulle donne appartiene a questa banda di delinquenti armati.
Iniziano a diradarsi le nebbie sulla reale figura di quest’uomo.
Forlimpopoli, 25 gennaio del 1851.
Durante l’intervallo di un’opera teatrale i briganti entrarono nel teatro comunale salendo sul palco ed immobilizzando tutti i presenti, fucili alla mano. Derubarono gli spettatori, ma non accontentandosi del bottino decisero di utilizzare alcuni dei presenti come lascia-passare per le abitazioni d’altri facoltosi abitanti della città. Durante quest’operazione delinquenziale stuprarono diverse donne. Tra queste povere malcapitate anche la sorella di Pellegrino Artusi, che impazzì in seguito alle violenze subite. Artusi merita una nota a margine di questo resoconto per l’importanza del personaggio: è stato uno scrittore e gastronomo. Divenne famoso per il libro: la scienza in cucina e l’arte di mangiare bene. Ho parlato della pazzia della sorella che subì stupro: fu ricoverata in manicomio in seguito alla mancata accettazione delle violenze fisiche che il suo corpo e la sua mente dovettero oscenamente sopportare. Un’altra sorella rimase ferita negli eventi di Forlimpopoli. In seguito a questi accadimenti la famiglia Artusi decise di lasciare la Romagna, infestata da violente bande di briganti. Artusi riconobbe tra i vili aggressori del teatro di Forlimpopoli Don Pietro, parroco di una frazione di Trebozio e fiancheggiatore della banda armata. Il Passatore ed i suoi scagnozzi quel giorno realizzarono 5600 scudi, pari ad 1/7 di tutto il bottino delle rapine. 
Di politico queste azioni non hanno mai avuto nulla.
Non era un rivoluzionario, era un bandito.
La fortuna voltò le spalle a Stefano Pelloni nel marzo del 1851, pochi mesi dopo i fatti del teatro. 
Il Passatore fu individuato, grazie al sapiente lavoro di spionaggio delle guardie pontificie, nei pressi di Russi. Scoppiò uno scontro a fuoco che condusse il bandito alla morte. Il cadavere fu adagiato sopra un carro per la pubblica esibizione nelle strade di Romagna. 
Questo comportamento – che ricorda da vicino quello subito cinque secoli prima da Dolcino – serviva per attestare la morte del malfattore, ma anche per non creare inutili leggende sul Passatore. 
Il cadavere fu seppellito presso la Certosa di Bologna, in luogo sconsacrato.
Dobbiamo chiederci perché Giovanni Pascoli inserì il Passatore, definendolo cortese, nella poesia Romagna. 
La sorella di Stefano Pelloni, Lauretana, confessò: "non ha mai dato niente a nessuno: se dava qualcosa lo faceva perché aveva bisogno di complicità o altro".
La domanda ritorna: per quale motivo Giovanni Pascoli lo definì cortese e gli dedicò la chiusura della poesia Romagna?
Le persone debbono sempre credere in qualcosa o in qualcuno, spesso si creano eroi e miti sbagliati seguendo l’immaginario popolare.


Fabio Casalini


Bibliografia

Dursi Massimo. Stefano Pelloni deto il passatore: cronache popolari. Giulio Einaudi 1963
Hobsmawn Eric. Banditi; banditismo sociale nell’età moderna. Giulio Einaudi 1971
Mengozzi Dino. Sicurezza e criminalità. Rivolte e comportamenti irregolari nell’Italia Centrale. Franco Angeli 1999
Segantini Francesco. Fatti memorabili della banda del Passatore in terra di Romagna. Faenza. 1929



Le stragi di Perugia

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Massacro di Perugia - Accademia delle Belle Arti di Perugia
«Le truppe infuriate parevano aver ripudiato ogni legge e irrompevano a volontà in tutte le case, commettendo omicidi scioccanti e altre barbarità sugli ospiti indifesi, uomini donne e bambini.»[1]  
Questo breve resoconto apparve all’interno del New York Times il 25 giugno del 1859. Risaliamo la linea del tempo per comprendere cosa accadde in quel giugno.
Perugia, Umbria.
Molti giovani abitanti della città salirono nel nord dell’Italia per combattere, come volontari, nell’esercito sardo. 
Si doveva fare l’Italia.
Molti ci credevano.
All’interno della città si stava formando un comitato d’insurrezione legato alla Società Nazionale: associazione nata a Torino nel 1857 per iniziativa di Daniele Manin e di Giuseppe La Farina. L’obiettivo di tale società si ritrova all’interno della dichiarazione costitutiva, dove si afferma la necessità d’unificazione, dell’indipendenza dell’Italia e s’identifica, quale mezzo per il raggiungimento dei primi due obiettivi, l’appoggio a casa Savoia. [2]
Il comitato decise per l’azione il 14 giugno: si presentò al rappresentante del Papa in città, monsignor Luigi Giordani, per chiedere allo stato Pontificio l’abbandono della posizione di neutralità assunta nei confronti della guerra di liberazione ed unificazione dell’Italia. Il rappresentante del Papa rifiutò l’offerta ed il comitato decise per il suo allontanamento dalla città prendendo possesso del governo cittadino, offrendosi a Vittorio Emanuele. L’aiuto di casa Savoia era da escludersi a priori poiché Cavour aveva precisi accordi con Napoleone III. La posizione del Papa era chiara: contrario a qualsiasi movimento filo-unitario che poteva indebolire il Regno in Terra – quello dei Cieli, come vedremo in seguito, appartiene loro di diritto – e non intendeva cedere nessuna città agli insorti, per questo motivo Perugia doveva essere mantenuta e se persa doveva essere riconquistata, come monito ad eventuali altre insurrezioni. 
Ispiratore della rivolta di Perugia fu Carlo Boncompagni su idea del marchese Filippo Gualtiero: i due altolocati potevano contare sull’aiuto di circa 8000 volontari toscani degnamente armati.[3] Dalla Toscana i perugini attendevano l’invio d’uomini ed armi, purtroppo arrivano solo qualche centinaio di fucili in condizioni non ottimali. 
Torniamo al 14 giugno del 1859. Il comitato d’insurrezione si presentò al delegato del Papa costringendolo alla fuga nella città di Foligno. Rimase al suo posto il cardinale Arcivescovo Gioacchino Pecci, poi papa Leone XIII, che aveva sin dall’aprile precedente avvertito la Segreteria di Stato di quanto si andava preparando nella città umbra.[4]
Il segretario di Stato, Giacomo Antonelli, informato dell’accaduto, comunicò a monsignor Giordani di – riporto le sue parole – «impedire insieme alla truppa ogni disordine, chiamando anche ove occorra qualche compagnia da Spoleto, nell’attesa di rinforzi di due mila uomini e forse anche francesi.»[5]
Queste parole furono comunicate il 14 giugno stesso.
Rapidità di pensiero e d’azione.
La strage di Perugia - Accademia delle Belle Arti di Perugia
Il Papa decise per la spedizione del 1° reggimento estero, che contava oltre 1700 uomini sotto la guida del colonnello Antonio Schmidt d’Altorf. Le truppe pontificie giunsero a Foligno il 19 giugno, 5 giorni dopo il cambio di governo a Perugia. Schmidt, Giordani ed il consigliere di Stato Luigi Lattanzi, presero la decisione di muovere i soldati verso la città umbra il prima possibile, per evitare eventuali rifornimenti d’uomini ed armi dalla Toscana. 
Il comitato degli insorti rivolse un appello al popolo perché si preparasse alla difesa della propria terra dalle truppe del Papa.
Il 20 giugno le truppe papali si presentarono a Perugia per liberare la città. I militari del pontefice – il cui compito dovrebbe essere quello di costruire ponti e non distruggerli[6] - erano circa 2000 ed in gran parte svizzeri. In breve tempo spezzarono la resistenza dei perugini presso Porta San Pietro. La battaglia costò la vita a 10 soldati delle truppe pontificie e 27 tra gli insorti. 
I militari avevano un preciso compito: riprendere la città a qualsiasi costo e far ricadere su di essa il costo dell’operazione militare. 
Il significato è molto preciso: saccheggio!
I soldati si muovono dietro preciso ordine. Quale organo superiore autorizzò il sacco di Perugia?
Tre fonti riportano la seguente testimonianza: « II sottoscritto Commissario Sostituto Ministro da incarico a V. E. di ricuperare le Provincie alla Santità di N. S. sedotte da pochi faziosi, ed è perciò che Le raccomanda rigore perché servir deve d’esempio alle altre, e com. si potranno tenerle lontane alla rivoluzione. Do inoltre facoltà a V. S. di poter fare decapitare i rivoltati che si ritrovassero nelle case, non che risparmiare la spesa al Governo, e fare ricadere, tanto il vitto che la spesa della presente spedizione alla Provincia stessa. Il Sostituto del Ministero C.L. Mazio»[7][8][9]
Pio IX sino a che punto poteva essere all'oscuro di tutto questo?
Schmidt sembra abbia ricevuto tale ordine direttamente da Luigi Mazio, uditore generale militare, ministro pontificio delle armi e persona molto influente.
Saccheggio, morte e violenze inaudite sulla popolazione inerme.
Riporto alcune testimonianze per meglio comprendere quel folle gesto delle truppe del Papa.
«Furono saccheggiate trenta case, nelle quali — per confessione dello stesso Schmidt — fu fatto massacro delle stesse donne; furono invasi un monastero, due chiese, un ospedale e un conservatorio di orfane, nel quale sotto gli occhi delle maestre e delle compagne due giovanette furono contaminate. Alle immanità dei saccheggiatori seguirono, come legittimo corollario, il Governo statario bandito a Perugia dallo Schmidt, le onorificenze largite a lui ed ai suoi satelliti dal pontefice e i solenni e pomposi funerali indetti, dal cardinale vescovo Pecci (Papa Leone XIII) con l’iscrizione satanicamente provocatrice messa sul catafalco: beati mortui qui in Domino moriuntur.»[10]
Una seconda fonte per comprendere l’accaduto  giunge direttamente dall'intendente militare pontificio Monari: « I soldati passarono sopra queste barricate, presero d'assalto tutte le case ed il convento ove uccisero e ferirono quanti poterono, non eccettuate alcune donne, e procedendo innanzi fecero lo stesso nella Locanda a S. Ercolano, uccisero il proprietario e due addetti, ed erano per fare altrettanto ad una famiglia americana, se un volteggiatore non vi si fosse opposto, ma vi diedero il sacco, lasciando nel lutto e nella miseria la moglie del proprietario e arrecando un danno di circa 2.000 dollari alla famiglia americana. Fatti simili sono accaduti in tre case, dappoiché il saccheggio ha durato qualche tempo durante il quale tre case sono state incendiate. I soldati vincitori hanno fatto man bassa su tutto quanto loro capitava innanzi.»[11]
Con molta probabilità tutto questo è giunto sino a noi grazie alla presenza di questa famiglia americana. L’incidente causò un problema diplomatico tra il governo degli Stati Uniti e la Santa Sede. Riporto la testimonianza dell’ambasciatore, Stockton, degli Stati Uniti a Roma: « Una soldatesca brutale e mercenaria fu sguinzagliata contro gli abitanti che non facevano resistenza; quando fu finito quel poco di resistenza che era stata fatta, persone inermi e indifese, senza riguardo a età o sesso, furono, violando l'uso delle nazioni civili, fucilate a sangue freddo.» 
Ritratto di Pio IX
Ho iniziato il resoconto con l’articolo apparso sul New York Times del 25 giugno 1859. L’articolo e la grande diffusione delle stragi sui quotidiani di tutto il mondo, fece recepire al pubblico mondiale che le stesse erano state autorizzate dal Papa in persona, Pio IX. Il Pontefice si premunì di definire tali affermazioni come “maligna invenzione”. 
I fatti di Perugia colpirono l’immaginario collettivo. Giosuè Carducci ricordò l’evento nel sonetto Per le Stragi di Perugia. Il poeta statunitense Whittier scrisse From Perugia in memoria dei fatti raccontati. 
Le responsabilità?
Pio IX come si comportò dopo la strage ed il saccheggio?
Istituì la medaglia “Benemerenti per la presa di Perugia” da assegnarsi ai soldati che parteciparono alla presa della città. 
Molto particolare ai miei occhi la frase “maligna invenzione” dopo l’accusa di essere il responsabile dei fatti di Perugia e l’istituzione della medaglia al valore per coloro che quella strage hanno compiuto.
Sapeva?
Pio IX era il responsabile diretto degli eventi?
Il 6 luglio del 1985 fu nominato venerabile.
Il 3 settembre del 2000 fu nominato beato da Giovanni Paolo II.
Le stragi di Perugia non sono l’unico nefasto accadimento avvenuto sotto il suo regno, non riesco a parlare di pontificato per Pio IX. Vorrei ricordare che molti rivoluzionari, che si opponevano al potere temporale del Papa, furono condannati a morte, alcuni tramite decapitazione. 
Mastro Titta - Boia che finì la sua carriera sotto Pio IX - mostra una testa femminile recisa
Ricordo che lo stesso Papa – Re nel 1874 istituì il “non expedit”, con la quale invitava i cattolici a disertare le elezioni politiche della neonata Italia Unita.
Papa, venerabile e beato.
Una domanda mi sorge spontanea: come si può beatificare Pio IX nello stesso anno in cui la Chiesa Cattolica chiede amaramente perdono delle proprie azioni nefaste? 
Non riesco a comprendere come da una parte si chieda perdono per aver causato morte e dolore e dall'altra si beatifica uno dei - presunti- responsabili di quelle morti e di quel dolore.


Fabio Casalini


Bibliografia
Della Torre Paolo. Enciclopedia Cattolica, volume IX
Gay Nelson. Uno screzio diplomatico fra il governo pontificio e il governo americano e la condotta degli Svizzeri a Perugia il 20 giugno 1859, Perugia 1907 
La Farina Giuseppe. Società nazionale italiana. Tipografia dell’Espero, Torino 1860
New York Times. The massacre of Perugia. 1859
Tomassini Stefano. Roma, il Papa, il Re. L’unità d’Italia e il crollo dello stato pontificio. Milano 2011
Ugolini Romano. Perugia 1859: l’ordine di sacheggio in Rassegna storica del Risorgimento. 1972
Villari Pasquale. Storia generale d’Italia, Milano 1881




[1] The massacre of Perugia – New York Times 25 giugno 1859
[2]Giuseppe La Farina – Società nazionale italiana. Tipografia dell’Espero, Torino 1860
[3]Paolo Della Torre – Enciclopedia Cattolica, volume IX
[4]Paolo Della Torre – Enciclopedia Cattolica, volume IX
[5]Nelson Gay – Uno screzio diplomatico fra il governo pontificio e il governo americano e la condotta degli Svizzeri a Perugia il 20 giugno 1859, Perugia 1907
[6]Pontifex dal latino ha significato di costruttore di ponti
[7]Romano Ugolini – Perugia 1859: l’ordine di sacheggio in Rassegna storica del Risorgimento. 1972
[8]Nelson Gay – Uno screzio diplomatico fra il governo pontificio e il governo americano e la condotta degli Svizzeri a Perugia il 20 giugno 1859, Perugia 1907
[9] Tomassini Stefano – Roma, il Papa, il Re. L’unità d’Italia e il crollo dello stato pontificio. Milano 2011
[10] Villari Pasquale – Storia generale d’Italia, Milano 1881
[11] La Propaganda – L’insulto a Dio. 1903

Teatro Farnese: capolavoro barocco dell'alleanza

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Recentemente mi è capitato di recarmi a Parma, città che non avevo mai visitato prima, per assistere ad una prova di orchestra della Filarmonica Arturo Toscanini diretta dal Maestro Francesco Lanzillotta uno tra i più giovani e promettenti direttori d’orchestra nel panorama musicale italiano.
Come spesso ricordo abbiamo meravigliosi tesori a due passi da noi e, nonostante ciò, cerchiamo sempre mete lontane, esotiche e chissà perché di fronte a un viaggio di poche centinaia di Km talvolta arricciamo il naso quasi come se fosse la distanza percorsa a decretarne la bellezza e l’interesse.
Ho dunque deciso di riservare parte della giornata per un primo, seppur veloce, assaggio all’elegante ed antica capitale dell’omonimo ducato incominciando da Palazzo della Pilotta proprio nel centro della città che rappresenta uno dei molti splendidi monumenti che la famiglia Farnese ci ha lasciato in eredità facendo di Parma, già da allora, un centro di eccellenza e una capitale culturale a livelli di Londra e Parigi.
Salendo l’ampia scalinata del palazzo e giunti al primo piano è impossibile non rimanere affascinati dall’ imponente portale ligneo finemente lavorato con stucchi sino a farlo sembrare marmo che rappresenta l’ingresso del teatro luogo un tempo destinato a sala d’armi e sede di tornei. 
Seppur pare impossibile, se paragoniamo le possibilità tecnologiche dei nostri giorni rispetto a quelle di 500 anni fa, Teatro Farnese fu costruito in un solo anno, tra il 1617 e il 1618 ad opera dell’ architetto ferrarese Giovan Battista Aleotti, detto l’Argenta soprannome che ricorda il paese natio dell’artista. 
Ma ecco la storia della nascita di Teatro Farnese.
Nel 1617 Cosimo II de Medici, amico e protettore di Galileo Galilei, decise di intraprendere un viaggio da Firenze alla volta di Milano per rendere omaggio alla tomba di Carlo Borromeo canonizzato alcuni anni prima ipotizzando una sosta nella città di Parma allora governata da Ranuccio I Farnese, duca di Parma e Piacenza.
Venuto a conoscenza della possibile visita dell’illustre personaggio Ranuccio intravide la possibilità di stringere un’alleanza politica tra le due casate da suggellare con un matrimonio tra i giovani eredi. Venne pertanto deciso di accogliere Cosimo II de Medici con tutti gli onori e memorabili celebrazioni ma nessun palazzo parve adeguato alla circostanza. Fu così che Ranuccio ordinò di edificare un nuovo teatro all’interno del palazzo della Pilotta ispirandosi a quello Mediceo allora costruito all’interno del complesso degli Uffizi e all’Olimpionico di Vicenza del Palladio costruendo un grandioso proscenio con particolari prospettive illusionistiche che fa da cornice ad un profondo palcoscenico.
Purtroppo il viaggio di Cosimo II de Medici venne posticipato per motivi di salute ma il teatro, considerato da molti del tempo una delle meravigli d’Europa, fu comunque terminato. Il destino fu però beffardo nei confronti di Ranuccio e Cosimo II de Medici: nessuno di loro ebbe il piacere di vederlo completato in quanto entrambi morirono prima che l’opera venisse ultimata.
Il teatro fu comunque inaugurato nel 1628 proprio per coronare il matrimonio tra i rampolli Odoardo Farnese e la Serenissima Principessa Margherita di Toscana della casata de Medici come Ranuccio, quando era ancora in vita, avrebbe voluto. Venne messo in scena uno spettacolo allegorico-mitologico dal titolo “Mercurio e Marte”, evento con effetti scenografici e scenotecnici di rara suggestione accompagnato da musiche composte dal genio cremonese Claudio Monteverdi, tra i maggiori innovatori del linguaggio musicale del tempo.
Viste le eccezionali dimensioni della struttura, Monteverdi dovette risolvere il problema dell’acustica e molti studiosi ritengono che uno degli architetti incaricati alla realizzazione del teatro, su suggerimento dello stesso Monteverdi, realizzò una novità assoluta destinata ad un grande futuro: la fossa orchestrale.
La messinscena di “Mercurio e Marte” fu spettacolare soprattutto nella parte finale finale quando, tramite un ingegnoso sistema di vasche comunicanti che attingevano l’acqua dal vicino fiume, venne allagata l’intera cavea sino alle balaustre e inscenata una naumachia, ovvero una battaglia navale.
Per evitare che il legno si impregnasse d’acqua la cavea e le pareti furono completamente rivestite di fogli appositi e sul pavimento vennero adagiati diversi mostri marini.
Proprio quando la battaglia sembrava terminata e le acque chete, tramite sistemi di corde che arrivavano sino a soffitto e sofisticati macchinari, i mostri fecero la loro improvvisa apparizione emergendo dal mare e formando un semicerchio. In un conclusivo colpo di scena la platea venne allagata da un potente getto d’acqua proveniente dalle porte laterali che trascinò con se i mostri marini nello stupore generale degli spettatori.
Visti i costi per la manutenzione del Teatro e le complessità legate alle macchine scenografiche dalla sua costruzione fu utilizzato solo 9 volte esclusivamente in occasione di eventi di particolare rilievo. Cadde in uno stato di abbandono con il termine della dinastia dei Farnese, il colpo di grazia lo ricevette nel 1944 quando una bomba lo centrò in pieno distruggendo per sempre la gran parte delle preziose strutture di abete rosso del Friuli finemente lavorate e dipinte con stucchi per simulare marmoree pareti e quasi tutte le statue in paglia e gesso. Si salvarono solo poche di esse due delle quali ancora nelle loro originali posizioni sui fianchi del palco raffiguranti Ranuccio e Odoardo Farnese.
Sul finire degli anni 50, per porre rimedio agli scempi della guerra, il teatro venne completamente ricostruito sulla base dei progetti originali ma le strutture furono lasciate a legno vivo per poterle confrontare con alcune originali dell’epoca apprezzando il fascino degli stucchi e dei dipinti frutto di tanto artistico lavoro.
Le sotto-gradinate del teatro sono aperte al pubblico e oltre a mostrare come il teatro sia stato concepito ospitano vari reperti come ad esempio un modellino in scala del teatro, foto storiche, alcune statue di gesso originali che al tempo decoravano l’interno e due modellini di navi da guerra che servirono per l’istruzione militare del giovane principe Ferdinando di Borbone.
Solo pochi anni fa, dopo un’inattività durata quasi 300 anni, il Comune di Parma ha ripreso ad utilizzare il teatro per alcune rappresentazioni con grandi Maestri contemporanei quali ad esempio Claudio Abbado e la sua Orchestra Mozart riaprendo al pubblico lo sfarzoso teatro unico nel suo genere simbolo della potenza della dinastia Farnese.
Teatro Farnese: un capolavoro di rara bellezza che scatena un turbinio di sentimenti ed emozioni forti al pensiero di poter assistere a una rappresentazione in un luogo così speciale.
Vi invito a visitare Parma come turisti curiosi e “ignoranti”: più scrivo (a livello dilettantistico) su questo blog e più mi rendo conto di non sapere ma è la consapevolezza di contribuire aggiungere ogni volta un piccolo tassello, come dice Fabio, che mi da rinnovato slancio per la prossima avventura.

Marco Boldini



La Madonna del Latte

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Baceno, chiesa dedicata a San Gaudenzio - Verbania (Piemonte)

Il Concilio di Trento con il decreto De invocatione, veneratione, et reliquiis sanctorum et sacris imaginibus definì la posizione della Chiesa riguardo alle iconografie devozionali. Tra gli scopi di questo decreto vi era il voler evitare immagini di natura sensuale o percepite come tali dalla morale dell'epoca.
La Riforma cattolica tridentina annoverò tra queste immagini sconvenienti, che si riteneva potessero fuorviare il fedele, le rappresentazioni di Maria a seno scoperto poiché accusate di distogliere i fedeli dalla preghiera. 
Santuario di Re - Verbania (Piemonte)
San Gimignano, chiesa dedicata a Sant'Agostino - Siena (Toscana)
Fu demandato ai vescovi il compito di valutare le varie rappresentazioni e di decidere se queste dovessero essere ritoccate, oppure rimosse. 
Nella diocesi di Milano fu in particolare Carlo Borromeo a trovare sconvenienti tali immagini molto diffuse in Brianza, facendo provvedere in molti casi a coprirle con ritocchi. La Madonna del Latte, o galactotrofusa, ed in latino Madonna lactans o virgo lactans, è icononografia cristiana ricorrente in arte. Nelle rappresentazioni può essere accompagnata dall'espressione monstra te esse matrem. La Madonna è rappresentata con il seno scoperto, colta nel momento dell'allattamento o in procinto di farlo. 
Pistoia, Basilica dell'Umiltà (Toscana)
Sesto Calende, Abbazia dedicata a San Donato - Varese (Lombardia)
Esistono icone nelle quali la Madonna è sempre a seno scoperto ma non allatta: è immortalata mentre un getto di latte scende dal seno nella bocca di Gesù oppure di un santo. Famosa è l'iconografia denominata Lactatio Bernardi, in riferimento al miracolo accaduto a San Bernardo da Chiaravalle. 
Premia, oratorio dedicato a San Bernardo - Verbania (Piemonte)
Paruzzaro, chiesa dedicata a San Marcello - Novara (Piemonte)
Le rappresentazioni della Madonna del latte giungono da lontano. Le prime testimonianze risalgono all'antico Egitto, epoca nella quale erano diffuse le immagini della Dea Iside intenta ad allattare Horus. Il culto di Iside si intreccerà con il Cristianesimo. 
Molte statue della dea Iside furono venerate come Madonne originali (tratto da Cesare Capone, Simboli e Madonna del latte. Articolo apparso sulla rivista Medioevo nel dicembre del 2009). Sempre in Egitto ritroviamo le prime testimonianze cristiane, ufficiali, dal VI secolo. 
Bolzano Novarese, chiesa dedicata a San Martino - Novara (Piemonte)
Massino Visconti, chiesa dedicata all'arcangelo Michele - Novara (Piemonte)
Dall'Egitto l'iconografia si spostò nel mondo delle chiese orientali assumendo il nome, greco, di Galaktotrophousa. In Occidente iniziò ad apparire all'inizio del Trecento. 
Nell'Europa occidentale con il culto si diffuse inoltre l'uso di custodire nelle chiese come reliquie ampolle contenenti il latte della Madonna (il Sacro Latte), cui si attribuivano gli effetti miracolosi di restituire il latte alle puerpere che lo avessero perso.

Fabio Casalini

A questo link troverete l'album di fotografie relativo a questa iconografia all'interno della nostra pagina Facebook: 
ALBUM DELLA MADONNA DEL LATTE - PAGINA DEI VIAGGIATORI IGNORANTI

Se avete tempo e voglia come commento a questo articolo lasciateci indicazione di dove trovare altre Madonne del Latte. 
Ad oggi 24 aprile siamo a quasi 300 grazie al contributo di molti lettori.

Il "Quadro delle Tre Mani": testamento di pittori maledetti

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Morazzone, Sestri Ponente (Ge) - S. Carlo, Madonna e Angeli (dettaglio)
Alla fine del Cinquecento, il celebre Concilio di Trento dettò nuove e rigide regole anche in materia di pittura:  i  contrasti religiosi sorti a seguito della Riforma protestante avviata nel 1517 da Martin Lutero avevano portato da lungo tempo a un clima di guerra fredda che aveva coinvolto perfino le arti figurative...
Oggetto principale degli strali dei pensatori cattolici è Michelangelo, di cui si riconosce il genio, ma del quale si deplorano le invenzioni. Egli è ritenuto, anzi, il pittore che più di ogni altro
si allontana dai canoni evangelici, per inseguire una visione personale degli eventi religiosi e ciò, a loro dire, va respinto senza mezzi termini.
Francesco Salviati - La Carità, esempio di pittura manierista (Firenze, Uffizi)
É la condanna estrema e definitiva dei nudi di Michelangelo per la Cappella Sistina, dei colli lunghi del Parmigianino e di tutte quelle anomale Madonne sinuose, attorniate da finti Gesù bambini impegnati più a tendere piccoli archi e a giocare con grappoli d'uva che a benedire i mortali. Dopo anni di bizzosi capricci  pittorici, il popolo attraverso le immagini doveva tornare a comprendere i misteri della Fede cattolica che i protestanti, nuovi iconoclasti, avevano messo con tale impeto alla berlina!
«Qual sarà quello ostinato(eccetto non sia luterano) che, vedendo l’imagine del nostro Signore crocifisso piagato e sanguinolento, non abbia qualche rimorso ne la consienza e non gli venga
voglia di onorarla e di farli riverenza?» (G. A. Giglio, Degli errori e degli abusi de’ pittori)
Cerano, tele controriformate. Estasi di S. Gaetano da Thiene, Resurrezione di Cristo, S. Carlo e Francesco adorano la Madonna di S. Maria dei Miracoli (Milano S. Antonio abate - Torino, Pinacoteca Sabauda)
Dunque si esigeva una pittura che ispirasse commozione, che legasse intimamente lo spirito del fedele al mistero che gli veniva posto dinanzi, che riuscisse ad “imprimere nel popolo il vero culto di Dio e la grandezza delle cose eterne, e convertire come ministro celeste i cuori delle nazioni intiere, e cangiarli in altra forma, e seco rapirli in cielo”.
Furono l'onnipresente Carlo Borromeo, celebre santo nato ad Arona,  e il  bolognese cardinal Paleotti i primi a comprendere come anche le immagini dovessero uniformarsi a una credibile regolamentazione programmatica di purificazione morale: bandite le bizzarrie del tardo Rinascimento e con esse la rappresentazione del nudo, si decise di puntare su una maggior aderenza ai Sacri Testi e, soprattutto, sulla chiarezza narrativa: il passato clima di gioiosa eleganza e di sensuale bellezza andava sostituito con un nuovo clima di rigore morale...
Molti critici d'arte parvero riconoscere in questa fase il crepuscolo e la negazione del genio. In verità non fu così, o meglio, non sempre. Spesso, più che le indicazioni imposte da terzi, inesperti in materia artistica, fu sempre il clima stesso del luogo a influenzare gli artisti.
Quasi per reazione alle forme di controllo e coercizione imposte dalla Chiesa Controriformata, gli artisti cercano un’originalità trasgressiva, capricciosa, strana e alternativa, tale da essere tollerata e talvolta, anzi, incoraggiata dai committenti stessi…
Cerano, Gionata rompe il digiuno (S. Raffaele)
Ecco perché, quasi tutti i pittori iniziarono a condurre una doppia esistenza: se per i committenti ecclesiastici essi di presentavano in veste di castigati madonnari, per l'aristocrazia più raffinata erano gli eleganti ideatori di tutte quelle sfrenate coreografie palaziali che poi avrebbero portato al Barocco.
Agli inizi del Seicento, secolo di contraddizioni, quasi in antitesi si affrontano due scuole pittoriche principali: quella caravaggesca, portata un po' ovunque in tutta Italia dal genio bergamasco del Merisi  e quella emiliana, già foriera di quel revival classicheggiante e neo-pagano che nutrirà il barocco romano maturo.
Mappa seicentesca della "Lombardia" comprendente terre più vaste
A Milano e in Lombardia, in Piemonte e in Svizzera, invece, che aria tirava?
‘Lombardia’ era un termine geografico che rispecchiava piuttosto l’assetto dell’antico Stato spagnolo di Milano, comprendente i territori dell’attuale Piemonte orientale, dalla provincia di Novara alle sponde occidentali del Lago Maggiore, alla Riviera d’Orta, alla Valsesia: terre dell'arcidiocesi ambrosiana, roccaforte della Controriforma e baluardo contro l'infiltrazione protestante, ancorate al mito di san Carlo Borromeo, dove si sparsero  i germi di uno stile unico.
Morazzone, Lotta di Giacobbe con l’Angelo, 1610, Milano, Museo Diocesiano
Uno stile talmenteanticonformista di fare pittura che avrebbe conosciuto molti seguaci in un ampio spazio che coinvolse perfino Torino e Genova;nella prima, in cerca di affermazione in campo internazionale e auto rappresentazione, i Savoia erano in cerca di artisti che celebrassero la dinastia; nella seconda, marittima, laica e opulenta, l'attrazione tra opposti e l'assenza di forti ideali morali portò a sperimentare  un incontro con il misticismo lombardo, inedito e ricco di spunti.
Federico Borromeo, cugino di Carlo, nuovo arcivescovo di Milano nonché raffinato collezionista e fondatore dell'accademia ambrosiana, non aveva tardato a riconoscere in una triade di pittori "locali", il valsesiano Giovan Battista Crespi detto Cerano, il varesotto Francesco Mazzucchelli detto Morazzone e il bolognese naturalizzato ambrosiano Giulio Cesare Procaccini, caratteristiche di vera innovazione: i tre moschettieri del Seicento Lombardo.
Procaccini - Genova - Madonna fra i Santi Carlo e Francesco d'Assisi
Coetanei, i tre artisti erano già stati impegnati da tempo da committenze d'alto livello di natura prevalentemente religiosa: il Cerano, monumentale, visionario e nordicheggiante, maturando in vent'anni una maniera pittorica cupa e violenta, nel 1621 si ritrovò a capo  dell'Accademia Ambrosiana fondata dal cardinale Federico Borromeo. Cerano dá vita ad una scuola ben individuabile, in grado di differenziarsi dalle altre coeve esperienze italiane, in virtù dei suoi accenti singolarmente cupi, nutriti da esasperazioni formali ancora tardo manieriste, idonee a tradurre in immagine i toni drammatici e visionari della religiosità del tempo: i suoi quadroni dei miracoli di San Carlo, coinvolgenti e talvolta raccapriccianti, inscenano  drammi corali dalla parlata solenne e insieme umana, drammaticamente atipica, che ne sanciscono il successo.
In contemporanea, il crudo iperrealismo del valsesiano viene temperato dal pennello più vaporoso, morbido e luminoso, culturalmente aggiornatissimo, del Procaccini: quest'ultimo, tra il 1610 e il 1625, sforna una serie di pale d'altare esteticamente impeccabili e smaltate dove madonne,  angeli e santi intessono dialoghi fatti di sguardi tanto colmi d'amore quanto sensualmente equivoci…
Nella invocazione dei santi, inoltre, nella venerazione delle reliquie e nell’uso sacro delle immagini sia bandita ogni superstizione, sia eliminata ogni turpe ricerca di denaro e sia evitata ogni licenza, in modo da non dipingere o adornare le immagini con procace bellezza (Decisioni dei Concilii Ecumenici.)
La violenza del Cerano, la sua profonda e tormentata analisi del peccato espiatorio oltrepassa di gran lunga le richieste di pietà e chiarezza del cardinale; dal canto suo Procaccini, rispolverando le dolcezze manieristiche bandite dal concilio di Trento, ambiguamente edulcorate,procedendo su binari paralleli bilancia e tempera le manie mortifere del collega.
Collegiata di Varese - Cerano - Messa di San Gregorio (dettaglio infernale)
Il terzo grande attore, il Morazzonefantasioso e teatrale, dá vita a fondali mozzafiato presso i maggiori cantieri dei Sacri Monti lombardo/piemontesi di Varallo, Orta e Varese, lasciandovi tracce importanti del suo cammino evolutivo. 
Sotto l'occhio vigile del cardinale si verifica così una frequente compresenza dei tre artisti: così diversi ma riconoscibili nella loro forte individualità, quanto profondamente accomunati da una sintonia tale da porli in reciproco scambio. É proprio questo anomalo, magico sodalizio ad aprire nuovi e originali scenari, per la pittura lombardo-piemontese  nel campo dei soggetti devozionali più drammaticamente coinvolgenti. 
Sacro Monte d Varallo. Morazzone - Salita al Calvario 
Emblematico, a tal proposito, é il Martirio delle sante Seconda e Rufina, meglio conosciuto come "Il Quadro delle Tre Mani" (1625): oggi conservato Brera, al tempo, nonostante le sue ampie dimensioni. (2 mt x 2) era riservato al colto collezionismo privato. Frutto di una sorta di competizione artistica promossa da Scipione Toso, importante  mecenate  della Milano del primo '600, il quadro costituisce un'iniziativa bizzarra e unica, dagli esiti forse non del tutto omogenei ma significativi: i tre più importanti pittori del Seicento lombardo, richiamati in lizza a sfidarsi all'interno della stessa tela, non di sa con quanta consapevolezza composero un manifesto della pittura borromaica del Seicento, in tutte le sue sfumature.
Cerano, Morazzone, Procaccini. Pala delle Tre Mani
Osserviamo le 3 maniere a confronto.
Nell'atmosfera tenebrosa dell'opera, squarciata da improvvisi bagliori di luce, sono raffigurate Rufina e Seconda, due sante romane che subirono il martirio ai tempi dell'imperatore Gallieno (260 d.C.), per non aver voluto infrangere il voto di castità. Il responsabile della loro morte violenta é il cupo cavaliere dalla corta veste romana che irrompe  a sinistra della tela con vigore nefasto: si tratta del prefetto Archesilao, che le ha fatte condurre al X miglio della via Cornelia per portare a termine la pena capitale. Santa Seconda é appena stramazzata al suolo, riversa, con il collo mozzato e sanguinante; la sua testa é rotolata poco più in lá. un angioletto corrucciato e cianotico, osserva il misfatto appena consumatosi, avvolgendo in un tenero abbraccio un cane da caccia: in realtà lo trattenere dalla brama di sfamarsi di carni umane.
Cerano - Incoronazione di Spine (Quadreria dell'Isola Bella) 
Questa parte, la più macabra e patetica del dipinto, fu realizzata dal Cerano, gran drammaturgo fra gli artisti di scuola lombarda. Il suo tocco rapido e bizzarro, capace di materializzare figure monumentali e incombenti, porta ad esiti estremi la ricca pennellata del Rubens: qui, non più intinta di cromie cariche ma di terre scure e neri di seppia che giocano sui riflessi delle armature dei carnefici dalle loriche spagnoleggianti.
Sulla destra del quadro, l'immagine di santa Rufina stride con Seconda:   consolata da un angioletto roseo, tornito e sicuro di sé, essa prega in ginocchio in attesa che i carnefici la bastonino a morte. L'origine bolognese di Giulio CesareProcaccini si riflette nella flessuosa eleganza e nell'incarnato delicato della santa che attende il martirio, confortata dal putto: il ricordo di Correggio, passato attraverso la scuola dei Carracci, ritorna nell'espressione serena, quasi sorridente della giovane, dalle incantevoli mani affusolate. La stesura pittorica dura e metallica delle vesti e la posa artificiosa sono caratteristiche della sua fase matura.
«E poi sete; sete a perdita d’occhi; e tremori, ambiguità, strusciamenti di carni a non finire. […] bagliori, fili di luce; come se a quei tempi, i milanesi, vivessero, pregassero, s’ammalassero e spirassero nell’oro; anche quando, cosa più che comune, peste li coglieva» (Testori 1973).
G. C. Procaccini. Sposalizio di S. Caterina (Pinacoteca di Brera)
L'invenzione compositiva generale apparterrebbe al Morazzone: al centro del quadro, in tutto il suo violento dinamismo irrompe sulla scena un moro munito di sciabola baluginante, con un turbante sul capo. Nel frattempo, un paggio in armatura osserva nell'ombra e un elegantissimo angioletto si libra in volo reggendo la palma del martirio.
Il carnefice, perno centrale e drammatico di un'azione complessa dove convergono le linee diagonali lungo le quali sono disposte tutte le altre figure, richiamando la struttura compositiva del martirio di San Matteo dipinto del Caravaggio per San Luigi dei francesi,  orienta il Morazzone verso la nuova e più libera sperimentazione di un linguaggio barocco in via di sviluppo.

«Tu, Morazzon, che con colori vivi
moribondo il fingesti in vive carte
e la sua dea rappresentasti e i rivi
del’acque amare da’ begli occhi sparte,
spira agl’inchiostri miei di vita privi
l’aura vital de la tua nobil’arte
ed a ritrarlo, ancor morto ma bello,
insegni ala mia penna il tuo pennello.»
G.B. Marino, Il Tempio. Panegirico (1615)

I corpi delle sante, abbandonati alle bestie, furono raccolti da una matrona romana, Plautilla, e sul luogo del martirio venne poi eretta una basilica in memoria.
Il letterato locale Giovanni Pasta celebra il quadro allorché si trovava già nella collezione del cardinale Cesare Monti, arcivescovo di Milano dal 1635 al 1650. E’ lui che per la prima volta lo definisce il quadro delle tre mani. Nel suo testo elogia
“I divini Morazzone, Cerano, Procaccini … tre pennelli, anzi tre grazie pennelleggianti”
Morte, tragedia ed “exemplum” da imitare: Mentre Cerano e Morazzone si compiacquero d’ostentare un campionario di passioni laceranti consumate sotto cieli plumbei, il Procaccini continuò lungo la sua strada: il celebre “Sposalizio mistico di Santa Caterina” rappresenta un'intenerita esplorazione degli affetti di Correggio  e di Parmigianino, coniugata con la pittura lucente e a ricchi impasti di Rubens; quel che ne scaturisce un’immagine radiosa ed elegante, che testimonia lo scarto vistoso del pittore di origine bolognese rispetto ai suoi contemporanei compagni di avventura, dai quali lo differenzia anche la ricerca di tipologie aggraziate, di una bellezza insieme idealizzata e sensuale, suggellata dal rincorrersi dei riccioli d’oro e delle espressioni sorridenti.
Cerano, Martirio di S. Caterina (Milano, S. Maria dei Miracoli)
Comunque sia, al di là delle profonde differenze, i tre spopolarono al punto da raggiungere il successo internazionale: il cavalier Marino, maggior poeta barocco del tempi, si dannava nel vano tentativo di acquistare le loro «tele» che definiva «non degne di gente comune, ma di re e imperatori!»
Il successo dei tre moschettieri del Seicento lombardo era stato proprio suggellato, nel 1623, dalla pubblicazione a Parigi  ella più ambiziosa raccolta poetica del cavaliere napoletano: “l’Adone”, opera di tali ambizioni e di risonanza da consacrare ai posteri, tra gli altri artisti, anche i tre  moschettieri della cultura figurativa del  primo Seicento lombardo:
«voi, per cui Milan pareggia Urbino, / Morazzone e Serrano e Procaccino».
Ritratto di Giovanni Battista Marino, (Frans Pourbus il Giovane, 1621)
Pochi anni dopo la morte quasi contemporanea del Procaccini e del Morazzone (1625-1626), che aveva da poco concluso a Novara il suo testamento pittorico con la "Cappella della Buona Morte" in san Gaudenzio, la grande tragedia della peste del 1630 segnò davvero la conclusione di un ciclo, nonché la svolta verso un inesorabile decadenza di quella Milano spagnola che fino ad allora era stata uno dei più brillanti centri culturali d'Europa. Alla peste seguono quasi immediatamente la morte del cardinal Federico  (1631) e del Cerano (1632).
 Daniele Crespi, quarto moschettiere, fulgore e meteora, morì giovanissimo falciato dalla peste: del nostro d'Artagnan pittore abbiamo già trattato approfonditamente. Non a caso, i grandi pittori del Seicento lombardo sarebbero stati battezzati col soprannome di "pestanti": i tre, anzi quattro moschettieri,  cavalieri della peste bubbonica, incarnarono  l’estremo sussulto di questa vibrante stagione figurativa: quasi un  sotterraneo riverbero, un doloroso travaso, delle tragiche esperienze dei contagi. Dopo secoli d'oblio e pregiudizio verso il barocco nutriti dai critici d’arte e gli studiosi illuministi, il Seicento lombardo sarebbe stato riscoperto dal tedesco Pevsner e dal celebre critico d'arte monferrino Roberto Longhi, che non a caso si sentiva sia piemontese sia lombardo e che così, dei pittori scrisse:
Cerano - san Giacomo sconfigge i mori
“Capricci spirituali a punta di penna e di pennello.
Schermidori di sagrestia. Languidezze e livori.
Fiori, muscoli, pestilenze. Fossette di grazia e ferite di crudeltà.
Delicate acerbezze”
(Longhi 1926).

Parole di un’esattezza e di una sensibilità tali, che ancora oggi ci lasciano incantati.

Marco Corrias, alias Marc Pevèn

Bibliografia: 

- M. Gregori, Pittura a Milano dal seicento al Neoclassicismo, 1999
- P. Biscottini, Carlo e Federico. La luce dei Borromeo nella Milano spagnola, 2005
- M. Rosci, Il Cerano, protagonista del Seicento Lombardo, 2005
- P. Plebani, Il Seicento lombardo tra letteratura artistica e collezionismo, 2013
- S. Coppa, P. Strada, Seicento Lombardo a Brera, Capolavori e riscoperte, 2014

L'abbazia di Chiaravalle a Milano

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[Troverai più nei boschi che nei libri. Gli alberi e le rocce ti insegneranno cose che nessun maestro ti dirà]
San Bernardo da Chiaravalle

Bernardo nasce, terzo di sette fratelli, a Fontaine-lès Dijon nel 1090. Il padre, Tescelino il Sauro, era un vassallo d’Oddone I di Borgogna. La madre, Aletta, figlia anch’essa di un vassallo del duca di Borgogna. Bernardo studiò grammatica e retorica nella scuola dei canonici di Notre Dame di Saint-Vorles, luogo nel quale la sua famiglia aveva possedimenti. All’età di 20 anni rientra nel castello paterno per ritirarsi in preghiera. L’anno successivo, con altri 30 compagni, si fece monaco e si ritirò nell’abbazia cistercense di Citeaux, fondata 15 anni prima da Roberto di Molesmes. Nel 1115 si trasferì nelle proprietà di un parente nella regione dello Champagne, esattamente nella diocesi di Langres, dove costruiscono un monastero: chiamarono quella valle Clairvaux, ossia Chiaravalle. In breve tempo ottiene l’approvazione del vescovo, Guglielmo di Champeaux, e numerose donazioni che permettono l’irradiazione da Clairvaux ad altre zone.

[Il nostro progresso non consiste nel presumere di essere arrivati ma nel tendere continuamente alla meta] 
San Bernardo da Chiaravalle

Nell’ottica dello sviluppo territoriale prefissato da Bernardo s’inserisce la nascita dell’abbazia di Chiaravalle presso Milano. Intorno alla struttura si sviluppò un borgo agricolo che fu annesso a Milano nel 1923. 
La complessa storia della struttura monastica ebbe inizio nel 1134, quando i primi monaci cistercensi giunsero in Italia, provenienti da Moiremont presso Dijon, per stabilirsi nella Pieve di Abbiategrasso. Un secondo gruppo di cistercensi giunse l’anno seguente, ospiti dei benedettini di Sant’Ambrogio, per sostenere Innocenzo II nella disputa contro l’antipapa Anacleto II. Bernardo giunse a Milano per convincere i milanesi a sostenere il papa e sospendere la guerra che contrapponeva Milano al resto della Lombardia. La città, o forse meglio dire le sue autorità, s’impegnò per riconoscenza verso Bernardo a costruire un monastero. Il monaco, che diverrà santo e non solo, decise di seguire personalmente la costruzione e lo sviluppo della struttura. Decisa l’ubicazione lasciò sul posto un gruppo di monaci con il preciso compito di raccogliere fondi a favore del monastero. Le prime costruzioni videro la luce nel periodo compreso tra il 1150 ed il 1160. La fine dei lavori risalirebbe al 1221, quando il vescovo di Milano, Enrico da Settala, consacrò la struttura a Santa Maria. All’interno della struttura si può ritrovare la lapide posta nell’occasione, che riporta la seguente dicitura: « Nell'anno di grazia 1135 addì 22.1, fu costruito questo monastero dal beato Bernardo abbate di Chiaravalle: nel 1221 fu consacrata questa Chiesa dal Signor Enrico Arcivescovo milanese, il 2 maggio, in onore di S. Maria di Chiaravalle.»
Dell’originaria costruzione non rimane traccia.
L’abbazia rappresenta uno dei primi esempi d’architettura gotica in Italia e grazie al lavoro dei monaci, che operarono nel campo idraulico ed agricolo, fu fondamentale per lo sviluppo economico del milanese negli anni successivi alla sua fondazione.

[Se poni mente a ciò che ti fuoriesce dalla bocca, dalle nari, da ogni tuo meato, dovrai convenire non esserci altro più repellente letamaio del corpo umano]
San Bernardo da Chiaravalle
Addentriamoci in questo luogo denso d’atmosfere perdute, di nebbie medievali e misteri irrisolti. La nostra attenzione è immediatamente rapita dal chiostro dell’abbazia. Per accedere al luogo si deve procedere lungo la navata di destra ed, in corrispondenza del coro posto al centro del luogo sacro, troverete una porta che vi consentirà l’immersione in un mondo dimenticato.
Il chiostro rappresenta la contemplazione. Vi sono quattro lati che rappresentano il disprezzo di se (lato est) il disprezzo del mondo (lato sud) l’amore per il prossimo (lato ovest) e l’amore di Dio (lato nord). 
La base di tutta la costruzione è la pazienza.
La pazienza dei costruttori e di coloro che quei luoghi hanno vissuto ed amato.
Capitelli illuminati dal sole.
Simboli che provengono dal passato seguono il nostro peregrinare lungo sentieri levigati dai docili passi dei monaci.
Siamo attratti dall’unione.
Dall’uno che diviene multiplo di se stesso.
Il corpo immobile ammira la colonna annodata. 
Questi elementi architettonici sono conosciuti con il termine di colonne ofitiche. Siamo alla presenza di una coppia di colonne unite insieme da un nodo. Elemento utilizzato durante il periodo romanico, quando si diffuse in un’ampia area geografica tra l’Italia, la Baviera e la Borgogna. La definizione deriva dal greco ophis, serpente. Particolarmente attivi nella loro costruzione furono i maestri comacini ed i monaci cistercensi. Il simbolo potrebbe rappresentare la doppia natura umana e divina di Cristo. Altra possibilità è data dall’unione del padre e del figlio tramite lo spirito santo.
Andrebbe sfatato il mito secondo il quale i monaci-costruttori cistercensi furono gli artefici, scopritori e primi costruttori di colonne ofitiche. Con molta probabilità le videro in altre costruzioni, a memoria personale riporto la Pieve di San Pietro a Gropina, e decisero di inglobarle nella loro arte per il profondo simbolismo che trasmettevano, o forse per quello che loro pensavano trasmettere. 
La colonna di Chiaravalle supera il tempo e lo spazio che occupa.
Il maestro che costruì il nodo elevò la pietra a materia plastica.
La trasformò a suo piacimento.
Un paragone, forse ardito, mi appare all’improvviso: se la statua di Mosè realizzata da Michelangelo parlasse, potrebbe aiutarci a comprendere questa struttura architettonica?
Il nostro sguardo incontra i capitelli, che sono costituiti da un calice svasato decorato da foglie stilizzate dalle quali spuntano teste umane ed animali. La maggioranza dei capitelli è del tipo a crochet: espressioni tipiche dell’arte gotica dei secoli XII e XIII. Il capitello a crochet, o uncino, è essenzialmente costituito da una foglia a base larga che si assottiglia verso l’estremità; è possibile riscontrare un secondo ordine di foglie ad uncino disposte in direzione sfalsata rispetto a quella del primo. 
Molto incisivo il capitello decorato da aquile con le ali spiegate.
Uomini ed animali si alternano.
Percorriamo il chiostro dimenticando il tempo, ed in alcuni istanti anche lo spazio.
Andiamo verso il lato sud, quello che rappresenta il disprezzo del mondo.
Volgiamo lo sguardo al cielo.
La Ciribiciaccola si eleva sopra la chiesa.
La data esatta di costruzione non è nota. Ipoteticamente è stata avanzato un periodo compreso tra il 1330 ed il 1340. La torre è attribuita a Francesco Pecorari da Cremona, a causa della somiglianza con il Torrazzo di Cremona ed il campanile di San Gottardo a Milano.
Interessante il termine Ciribiciaccola: potrebbe derivare dai piccoli della cicogna, ciri, o dallo sbattere del becco contro le colonnine della torre.
Dobbiamo uscire dal nostro noto.
Abbandoniamo l’idea della cicogna che porta i bambini a casa.
Nell’antica Roma esisteva una legge-cicogna che obbligava i figli a prendersi cura dei genitori.
Nel cristianesimo la cicogna simboleggia purezza, castità e vigilanza.
La cicogna appare sopra il portone d’ingresso all’abbazia.
San Bernardo, che ricordo promulgatore dell’Ordine dei cavalieri Templari, ha voluto lasciare un messaggio?
I monaci devono vigilare sul rispetto dell’ortodossia?
Devono controllare l’eresia dilagante? 
[Solo un malato può comprendere ed avere compassione di un altro malato. I cristiani partendo dalle proprie sofferenze imparano a compatire quelle degli altri]
San Bernardo da Chiaravalle


Fabio Casalini


Bibliografia
Angelo Caccin, L'Abbazia di Chiaravalle milanese - Il Monastero e la Chiesa - Storia e Arte, Milano, Moneta, 1979. 
Giorgio Picasso, Monasteri benedettini in Lombardia, Milano, Silvana Editoriale, 1980. 
Ferdinando Reggiori, L'Abbazia di Chiaravalle, Milano, Banca Popolare di Milano, 1970.

Il vescovo del male e la fuga dei gerarchi nazisti

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Una figura sinistra si aggira nelle pagine dimenticate della storia del Novecento.
Una persona che potrebbe rappresentare il male se non fosse un rappresentante del bene, o di quello che noi siamo abituati a pensare come tale. 
Sacerdote, Vescovo, consultore presso il Sant’Uffizio, scrittore filo-nazista ed artefice della Ratline che permise la fuga di diversi, ed importanti, gerarchi nazisti.
Andiamo con ordine e cerchiamo di ricostruire quest’assurda vicenda dimenticata nelle pagine di qualche libro da mercatino, o peggio ancora negli articoli da ventesima pagina nei quotidiani di qualche anno addietro.
Alois Hudal nacque a Graz il 31 maggio del 1885.
Fu ordinato sacerdote il 19 luglio del 1908 a 23 anni.
Nel 1923 fu nominato rettore della chiesa e dell’ospizio di Santa Maria dell’Anima, chiesa nazionale tedesca nella città di Roma.
Il 4 gennaio del 1930 fu nominato consultore della Suprema Sacra Congregazione del Sant’Uffizio, nome che dovremmo tradurre con Santa Inquisizione.
Il 18 giugno del 1933 fu ordinato vescovo dall’allora cardinale Pacelli, divenuto Papa con il nome di Pio XII.
Il 1933 anno complesso che dobbiamo analizzare insieme.
Il 20 luglio di quell’anno ci fu la firma del Concordato tra il Vaticano, allora retto da Pio XI, e la Germania che si era avviata al Nazismo: ricordo che il 30 gennaio di quell’anno Adolf Hitler fu nominato cancelliere del Reich.
La firma del concordato avvenne in un momento particolare della Germania nazista: il 14 luglio del 1933 fu discussa nel Parlamento tedesco la Legge sulla prevenzione della nascita di persone affette da malattie ereditaria, o che all’epoca si pensavano tali. Dato che il 20 luglio era il giorno prefissato per la firma con la Chiesa Cattolica, si ritenne opportuno posticipare la promulgazione della legge al 25 luglio dello stesso anno, cinque giorni dopo la firma tra Eugenio Pacelli che rappresentava Pio XI e Franz Von Papen che sostituiva il presidente tedesco Von Hindenburg.
Mi soffermo sulla legge promulgata qualche giorno dopo la firma con il Vaticano: tale legge prevedeva la sterilizzazione forzata di persone affette da una serie di malattie ereditarie e degli alcolisti cronici. Il ministero degli interni supponeva un numero pari a 410.000 persone da sterilizzare. In quel periodo una figura, legata alla chiesa cattolica, si elevò a difensore dei poveri e dei disabili, il vescovo Clemens August von Galan. Negli anni successivi fu soprannominato il Leone di Munster in onore della sua forza e resistenza contro il governo nazista.
Non tutti i vescovi, cardinali e Papi si comportarono allo stesso modo, come vedremo in seguito diversi personaggi di spicco si collusero irrimediabilmente con Hitler e le sue folli idee.
Il concordato tra la chiesa cattolica ed il Reich prevedeva delle concessioni al Vaticano in terra tedesca, tra le quali la protezione delle associazioni cattoliche, la garanzia dell’insegnamento della religione Cattolica nelle scuole, la libera distribuzione degli uffici ecclesiastici e l’assicurazione della formazione dei sacerdoti nelle università. In cambio il regime nazista pretese che il clero fosse apolitico e che fosse mantenuto il matrimonio civile prima delle nozze religiose.
L’accordo tra Santa Sede e Germania prevedeva anche il giuramento dei vescovi davanti al governo, che recitava testualmente: davanti a Dio e sui Santi Vangeli, giuro e prometto, come si conviene ad un Vescovo, fedeltà al Reich Germanico e allo Stato. Giuro e prometto di rispettare e di far rispettare dal mio clero il Governo stabilito secondo le leggi costituzionali dello Stato. Preoccupandomi, com'è mio dovere, del bene e dell'interesse dello Stato Germanico, cercherò, nell'esercizio del sacro ministero affidatomi, di impedire ogni danno che possa minacciarlo. (articolo 16 Concordato).
Secondo Pacelli la firma del concordato non implicava il riconoscimento dell’ideologia nazista da parte della curia. Il Vaticano trattava con tutti i partner possibili, anche i regimi totalitari. Dal punto di vista politico, perché il Vaticano è un organismo politico, il concordato divenne una straordinaria linea di difesa per la chiesa cattolica rispetto all’avanzare delle idee comuniste. L’accordo fu salutato da Hitler come la conquista d’ulteriore prestigio internazionale, anche se con il passare del tempo divenne un vincolo scomodo.
La base della neutralità della Chiesa Cattolica durante la seconda guerra mondiale si pose nel luglio del 1933?
Le priorità del Papa, e della santa Sede, furono di impedire l’avanzata delle idee che scendevano come il vento impetuoso da Est?
Torniamo al Vescovo che rappresentava il male in terra, Alois Hudal.
Nel 1937 il primo passo verso l’adesione alle idee naziste: Hudal pubblicò un libro, I fondamenti spirituali del nazional socialismo, che rappresentava l’entusiastica adesione personale alle idee di Hitler. Nel forziere aperto nei primi anni del decennio scorso è apparsa l’edizione con la seguente dedica: al Fuhrer del rinascimento – risorgimento tedesco, al novello Sigfrido della grandezza e della speranza della Germania – Adolf Hitler.
L’anno seguente la Germania nazista invase ed occupò l’Austria. Il cancelliere austriaco, Seyss-Inquart chiese alla Germania di intervenire militarmente in Austria per porre fine ai disordini nel paese. Il 12 marzo 1938 l’esercito tedesco invase l’Austria. Per ordine del cancelliere l’esercito locale non oppose resistenza. Lo stesso giorno la Germania proclamò l’annessione dell’Austria alla Germania. Il vescovo del male non fece attendere molto la sua reazione entusiastica a quest’annessione. Inviò un telegramma alla dirigenza del Reich per congratularsi della buona riuscita dell’Anschluss, termine utilizzato per definire l’occupazione dell’Austria da parte della Germania. La traduzione dalla lingua tedesca è annessione o connessione.
Durante il periodo nazista, il vescovo cattolico Hudal ostentava, vergognosamente, la sua entusiastica adesione al regime. Si premuniva di girare per Roma con un distintivo in oro raffigurante i simboli del nazismo. Non accontentandosi di indossare delle piccole svastiche sopra il vestito da vescovo, fece incorporare il vessillo della Germania nazista sull’auto di rappresentanza.
Le parole potrebbero finire ora. Il giudizio è stato emesso: vescovo del Male. Dobbiamo andare oltre, inseguire la linea del tempo di quegli anni orribili, macchiati dal sangue di tanti innocenti.
Durante la guerra continuò a ricoprire ruoli di notevole importanza nell’apparato del Vaticano. Esistono delle connivenze con gli organi superiori del Vaticano?
Sappiamo che Hudal e Pacelli si conoscevano da molti anni, dai tempi della Germania. Nel 1933 fu proprio Pacelli ad elevare al grado di vescovo Hudal. Alcuni storici cattolici sostengono che Pacelli si allontanò dal vescovo del male: “Hudal non era gradito a Pio XII, che per quattro anni di fila negò udienza. Il vescovo non aveva organizzazione a sua disposizione”. Queste sono le parole di Robert Graham, gesuita e storico per la chiesa cattolica della seconda guerra mondiale.
Il giudizio d’altri storici è nettamente diverso poiché Pio XII era noto per le simpatie verso i regimi autoritari di destra. Pacelli fu vicino ad ambienti conservatori tedeschi, vicinanza dovuta al fatto che dal 1917 fu Nunzio Apostolico in Baviera, anche se non appoggiava il separatismo della Baviera perché riteneva che solo una Germania forte ed unita potesse fungere da baluardo contro il bolscevismo.
La guerra distrugge l’Europa, uccide milioni di persone.
Bombe, proiettili, camere a gas.
Il Vaticano cerca di correre in soccorso di tutte le vittime del conflitto. Il Papa affida alla Pontifica commissione per l’assistenza – la chiameremo PcA – la cura dei profughi e degli ex prigionieri di guerra.
Il nazismo è sconfitto. Hudal non demorde. I gerarchi nazisti debbono essere salvati.
La PcA austriaca, capeggiata dal vescovo del male, rilasciò carte d’identità riconosciute dalle autorità italiane ed alleate. I documenti, in bianco, furono firmati dal Barone Von Froelichsthal.
Alois Hudal si vantò, nelle memorie scritte negli ultimi anni di vita, di aver distribuito migliaia di documenti ad austriaci e tedeschi incorporati nel Reich di Hitler.
Alois Hudal operò in stretta collaborazione con un frate cappuccino, Leopoldo Von Gumppenberg, ex paracadutista dell’esercito, per salvare i gerarchi nazisti.
Pio XII, salito al soglio pontificio nel 1939, prese le distanze da Hudal dicendo. “può agire solo a suo nome e a sue spese”. Papa Pacelli avrà rifiutato contatti diretti con il vescovo del male ed avrà preso le distanze, ma non lo allontanò mai dal corpo della chiesa cattolica.
Quale era l’importanza della PcA?
Quest’organizzazione giocò un ruolo fondamentale nell’ottenimento del titre de voyage che era rilasciato dalla Croce Rossa. I membri dell’organizzazione raccomandavano i personaggi alla Croce Rossa, la quale rilasciava il titolo di viaggio che consentiva l’emigrazione in quei paesi disposti ad accogliere profughi, e gerarchi nazisti, dall’Europa. Nel 1947 la Croce Rossa aveva già rilasciato 25000 titoli di viaggio per l’emigrazione dei profughi europei.
Uno dei paesi maggiormente attivi nell’accoglienza di profughi, gerarchi nazisti in primo luogo, fu l’Argentina di Juan Domingo Peron. Il dittatore aveva creato una rete perfetta per portare nel suo paese i criminali nazisti ricercati dagli alleati. Dal 1947 ai primi anni Cinquanta il terminale europeo della Ratline, linea dei ratti, fu Genova dove esisteva uno speciale ufficio retto da un ex delle SS amico di Peron. A Genova vi era un secondo ufficio che collaborava con quello di Peron, gestito dai cattolici e precisamente da Monsignor Petranovic, che dipendeva direttamente dal cardinale Siri. Questo cardinale divenne famoso dopo la morte di Pio XII per essere stato eletto Papa per il breve trascorrere di un giorno.
Tramite Hudal e la sua organizzazione fuggirono gerarchi nazisti come Klaus Barbie - capo della Gestapo - Franz Strangl - comandante del campo di sterminio di Treblinka - Adolf Eichmann, Eric Priebke e Joseph Mengele: per gli ultimi tre, purtroppo, non servono presentazioni. 
Nel periodo immediatamente successivo alla fine della guerra Hudal collaborò con la rivista Der Weg, che aveva redazione a Buenos Aires, retta da Juan Maler criminale di guerra nazista fuggito grazie all’intervento del vescovo del male. Juan Maler era il falso nome di Reinnard Koops, gerarca nazista di stanza nei Balcani. Der Weg rappresentò il punto di riferimento per gli ex nazisti e i loro sostenitori in tutto il mondo. Juan Maler in una lettera al vescovo afferma che: “Der Weg è l’unica possibilità di mantenere vivi i rapporti e i valori della nostra civiltà cristiana occidentale, in epoca di totale abbandono”.
Nel 1948 apparve su Der Weg un articolo di Hudal nel quale scriveva: “Passerà soltanto qualche anno e inizierà la grande revisione della storiografia tedesca degli ultimi 30 anni, al fine di garantire al nostro popolo diritto e giustizia”. Il vescovo si spinse a dire. “E’ un delitto la distruzione dell’esercito tedesco perché esso è il più disciplinato che la storia abbia mai visto”.
Sempre del 1948 è una lettera, ritrovata presso Santa Maria dell’Anima, che Max Fuhrer, criminale nazista, inviò a Hudal da San Paolo in Brasile. Del 1949 una seconda lettera indirizzata al vescovo Hudal da Walter Tubenthal, dal 1934 al 1945 presidente distrettuale a Treuburg nella Prussia Occidentale.
Il 3 febbraio del 1950 un dirigente della PcA, Monsignor Baldelli, scrive alla Reverenza Eccellenza Alois Hudal per comunicargli la chiusura della PcA Austriaca.
Nel 1952 Hudal perse il posto di rettore del collegio di Santa Maria dell’Anima e diede le dimissioni da ogni incarico. Trascorse gli ultimi anni di vita nel ritiro di Grottaferrata scrivendo le sue memorie, intitolate Romische Tagebucher, in altre parole i Diari Romani. In questi suoi fanatici e farneticanti scritti Hudal non arretrò mai, anzi: “ Era sempre meglio Hitler che la paccottiglia giudeo – bolscevica, la democrazia socialdemocratica o per contro il capitalismo americano”. Difese sino in fondo la sua idea, ricordando che: “Nell’ospedale di Santo Spirito a Roma è morto tra le mie braccia, assistito da me sino all’ultimo, il barone Von Wachter che era ricercato ovunque dalle autorità alleate ed ebraiche. Von Watcher riuscì grazie all’aiuto commovente dei sacerdoti italiani a vivere per mesi a Roma sotto falso nome”.
L’articolo si conclude aprendo una nuova strada. Nell’incedere dei fatti ho nominato la Ratline e il cardinale di Genova Giuseppe Siri: forse non tutti sanno che il 26 ottobre del 1958 sarebbe stato eletto Papa, assumendo il nome di Gregorio XVII.
Pagina che non mancherò di raccontarvi nel prossimo articolo.

Fabio Casalini

Un sentito ringraziamento a Rosella per il lavoro svolto e l'aiuto determinante alla riuscita delle ricerche.


Bibliografia
Caldiron Guido, I segreti del Quarto Reich, la fuga dei criminali nazisti e la rete internazionale che li ha protetti. Newton Compton Editori. Roma, edizione e-book 2016
Concordato Vaticano - Germania, Libreria editrice Vaticana, 1933
Feldkamp Michael, La diplomazia Pontificia. Edizioni Jaca Book, Milano 1995
Lai Benny, Il Papa non eletto. Giuseppe Siri, cardinale di Santa Romana Chiesa. Laterza editore, Bari 1993
Patti Martino, Il Fuhrer e il prelato, cattolici con la svastica. Articolo apparso sul Manifesto del 6 ottobre 2006
Politi Marco, Anche un ente vaticano favorì i nazisti in fuga. Articolo apparso sulla Repubblica del 29 maggio 1994
Renzetti Roberto, San Francesco e i crimini dei francescani. Tempesta editore, Roma 2013
Wolf Hubert, Il Papa e il diavolo. Il Vaticano e il Terzo Reich. Donzelli editore. 2008

Illustrazioni
1- Firma del concordato tra la Santa Sede e la Germania. Nella fotografia sono riconoscibili Eugenio Pacelli, futuro Papa Pio XII, Alfredo Ottaviani ed Enrico Maria Montini, futuro Papa Paolo VI.
2- Alois Hudal, il vescovo del male.
3- Eugenio Pacelli tra soldati nazisti all'uscita da un incontro.

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