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Bernardino Luini: da "castagnàtt" a sublime pennello

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Le Sommeil De l'Enfant Jesus (Parigi, Musée du Louvre)

Alla fine del '400 tale Bernardino Scapi (1480 -1532), giovane di umili origini campagnole, ancora all'oscuro delle grandi qualità artistiche che lo avrebbero reso famoso, era abituato a spostarsi periodicamente come ambulante da un mercato all'altro tra le valli varesotte del Luinese e quelle del Canton Ticino, allora aggregate senza soluzione di continuità al più esteso Ducato Sforzesco di Milano. Bernardino portava avanti l’attività di famiglia: quella del "castagnátt" o venditore di castagne, ancora oggi così abbondanti, grandi e lucide, tra la Val Veddasca e la val Dumentina. Secondo il mito romantico Bernardino, poi chiamato Luini ("da Luino") iniziò a dare la punta al suo pennello di pelo di cinghiale  tra un mercato ortofrutticolo e l’altro; poiché ogni buon mito che si rispetti cela sempre un pizzico di verità, va effettivamente notato che il pittore visse in un contesto, quello tra fine '400 inizi '500, in cui l’attività artistica era un mestiere, non ancora un arte, ma con regole ben precise e affini a quelle della mercatura e dell’artigianato: e che gran artigiano diventò presto il nostro Bernardino!


San Giorgio di Runo, Dumenza (Varese)

Fu proprio a Luino, ai piedi dell'avito borgo di Dumenza, guarda caso tutt'oggi sede di un mercato antico e famoso, che il giovane mosse i primi passi nella periferia lacustre del Ducato Sforzesco. Sulle pareti della chiesa cimiteriale di san Pietro campeggia ancora una pregevole Adorazione dei Magi: tra i primi saggi a buon fresco che il pittore donó alla sua valle natia, essa ci permette, in compagnia degli affreschi del Carmine e dell'ignoto oratorio ticinese di Dino, di ricostruire i già fulgidi esordi del pittore. Chi si aspettava che Bernardino sarebbe diventato uno dei protagonisti della pittura del Cinquecento lombardo?
In virtù della sua mobilità, presto il Luini lasciò la sua terra natia per un primo trasferimento a Milano (1500): non un buon momento per la città, appena conquistata dalle forze armate del generale Gian
Giacomo Trivulzio, milanese voltagabbana al soldo dei Francesi. Ludovico il Moro, famoso duca di Milano, munifico committente di Leonardo da Vinci e Donato Bramante, era stato appena catturato e venduto al nemico dai terribili mercenari svizzeri: ecco perché il Luini fu costretto a lasciare la città per un oscuro e poco fruttuoso periodo di praticantato veronese (1506).


Adorazione dei Magi - S. Pietro a Luino (Varese)

Solo pochi anni d'attesa e Bernardino poté ristabilirsi in una Milano divenuta filo-francese, dove sotto la reggenza dello stesso Trivulzio poco era davvero cambiato, anzi: i francesi avevano permesso all'aristocrazia locale di costituire cenacoli artistici indipendenti, luoghi favorevoli dove procacciarsi committenze sacre e profane. Sulla scia del Bramantino, artista preferito dal Trivulzio, la città imparò a conoscere il primo Luini attraverso uno stile metafisico che, lungi dall'adeguarlo ai suoi contemporanei, anticipò De Chirico a distanza di quattrocento anni: il fatto accadde sotto la protezione della nobile famiglia dei Rabia, per i quali il Luini affrescò il palazzo cittadino e cicli mitologici nella Villa della Pelucca al tempo a Sesto san Giovanni, oggi staccati ed esposti a Brera (1512). Qui osserviamo le sue nude ninfe materializzarsi come note lievi sospese a pastello nell'etere senza tempo di un sogno, non troppo lontano dalle nude polinesiane di Gauguin o, meglio ancora, dai torsi dei Bagni Misteriosi di De Chirico al parco Sempione. Altre famose opere, sempre a tinte chiare ma di carattere sacro, le ritroviamo nella Madonna di Chiaravalle e della Certosa di Pavia (1512-1513).

Bagnanti di Villa Rabia della Pelucca (Brera, Milano)

Bernardino, sperimentatore quieto di cui scarseggiano dati biografici, cambierà presto registro stilistico al fine di riadattarlo alle richieste delle committenze religiose: nella cappella del Ss. Sacramento in san Giorgio a Palazzo  (1513-1515)  il pittore sperimenta dipinti a olio su tavola, smaltati come gioielli e dagli sfondi tenebrosi come quelli di un novello Caravaggio. Ed ecco il Luini iniziare a rivestire, gomito a gomito con un giovanissimo Gaudenzio Ferrari come collaboratore, il ruolo del più famoso pittore "leonardesco" del Rinascimento. Da questo momento Il suo stile, consacrato a una  grazia quasi peruginesca di pose e sguardi delicati, liquidando le inquietudini espressive bramantinesche degli esordi, si assesta.

S. Giorgio al Palazzo, Deposizione (Milano)

La maturità é giunta: tramite un'originale sintesi tra lo sfumato di Leonardo e il rigore metafisico-prospettico di glorie locali come Vincenzo Foppa, Bramantino e Zenale, nel 1522 Luini realizza i noti affreschi per il tramezzo del monastero di S. Maurizio. Nel grande ciclo presbiteriale del Santuario di Saronno (1525), il pittore inaugura invece scene dal nuovo respiro monumentale che sottolineano palesi aggiornamenti sulla cultura figurativa centro-italiana: la disposizione dei personaggi, di gusto leonardesco ma dalla rinnovata cromia urbinate, disposti per la prima volta entro quinte architettoniche che rimandano palesemente ai cicli raffaelleschi delle Stanze Vaticane, con particolare riferimento alla Scuola di Atene, alludono all'esperienza di un viaggio romano d'approfondimento.

S. Maurizio Maggiore,  Ss. Apollonia e Lucia (Milano)

"Pinctore delicatissimo, vago et onesto nelle figure sue", Luini gode ancora in tutto il mondo di  una fama notevole che si lega in gran parte alle tele di piccolo formato, al tempo destinate a committenza privata, assai apprezzate per la morbidezza e la delicatezza dei toni, oltre che per l'immediatezza nella resa dei soggetti. Ne sono esempi le numerose scene materne: una profusione di Madonne col Bambino dove l'artista imparò, in maniera quasi seriale ma qualitativamente elevatissima, a produrre "copie" dalla fisionomia Leonardesca estrapolandole da un gruppo di cartoni vinciani, di cui l'artista era in possesso: una pratica assai diffusa e portatrice di idee per tutto il '500.
Luini e Leonardo: la loro storia, come i binari di un treno che corrono fianco a fianco senza incontrarsi mai. Fu così che il più grande emulo di Leonardo da Vinci, eppure mai suo allievo, iniziò ad affinarne lo stile quando quest'ultimo era ormai transfuga ad Amboise, in Francia, e prossimo a spegnersi. Allora a Milano la via era libera; lo stile sublime ormai definito; i colori e la dolcezza dei volti femminili di queste imprese incarnarono per secoli l’identità figurativa di un’intera area geografica e culturale apprezzata in tutto il mondo: la Lombardia del Rinascimento. 
Non per nulla, da New York a san Pietroburgo, passando per Parigi e Bucarest, ogni museo che si rispetti ha il suo bel Luini, o anche più di uno!

Santuario di Saronno, Presentazione al Tempio (Saronno, Varese)

A distanza di 20 anni dagli esordi, lungi dal montarsi la testa Bernardino era un genio del mestiere che lavorava con la stessa lena di quando vendeva castagne. La fortuna critica del varesotto scaturì proprio dal suo classicismo moderato, a metà strada tra Leonardo e Raffaello, ma di ben più facile e scorrevole lettura in quanto purificato dalle ambiguità psicologiche del sommo toscano.  L'appezzamento per il Luino esplose proprio nel corso dell’Ottocento allorché Balzac , Ruskin e Stendhal ne lodarono le qualità in termini entusiastici; proprio quest'ultimo, di fronte alla tavola con Salomé e la testa del Battista degli Uffizi, provò un malore tale da dare il via al dibattuto mito romantico sulla “Sindrome di Stendhal”.

Madonna del Roseto (Milano, Pinacotea di Brera)

Prima di morire, Luini torno nella sua terra natia. L'ultima grande impresa a fresco fu la grande scena di Crocifissione del santuario della Madonna degli Angeli a Lugano (1529): "il più gran teatro del suo ingegno", dove rinnovò la gloriosa tradizione decorativa dei tramezzi monastici di Lombardia rifiutando la tradizionale suddivisione delle scene in riquadri separati già apprezzata in san Maurizio, a favore dell'unitarietà spaziale del racconto. Gaudenzio Ferrari, il suo successore spirituale, oltre ai dolci elementi  vaporosi e chiaroscurali di matrice leonardesca, avrebbe ereditato da lui anche questa propensione per i tramezzi affrescati.
La prolifica attività di bottega, continuata dai figli Pietro e Aurelio, avrebbe dato esiti talvolta interessanti, ma per nulla simili all'estro sognante di Bernardino

Crocifissione, S.Maria degli Angeli (Lugano, Ch)

Foto e testo: Marco Corrias (alias Marc Pevén)



Bibliografia
Gregori M.; Pittura a Milano, Rinascimento e Manierismo, 1998
Bandera S.; Fiorio, M.T.; Bernardino Luini and Renaissance Painting in Milan, 2000
M. Morandotti, Foppa, Zenale and Luini, Lombard painters before and after Leonardo, 2012
Agosti G.; Stoppa J.; Bernardino Luini e i suoi figli. Catalogo della mostra, 2014



In memoria di Giordano Bruno

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Verrà un giorno che l'uomo si sveglierà dall'oblio e finalmente comprenderà chi è veramente e a chi ha ceduto le redini della sua esistenza, a una mente fallace, menzognera, che lo rende e lo tiene schiavo... l'uomo non ha limiti e quando un giorno se ne renderà conto, sarà libero anche qui in questo mondo.

Giordano Bruno trova la morte il 17 febbraio del 1600.
Le fiamme divorarono il suo corpo in Campo dei Fiori a Roma.
Quel rogo è ancora vivo.
Quella cenere ancora pesa sulla coscienza di chi emise la sentenza.


Il timore che provate voi a infliggermi questa pena è superiore a quello che provo io a subirla.

Una mente libera che impediva il controllo delle persone.
Ieri come oggi.
La sua libertà rappresentava il terrore della Santa Inquisizione.
La sua velocità di pensiero spaventava chi doveva gestire il percorso dell’umanità.



Colui che vede in se stesso tutte le cose è al tempo stesso tutte le cose.

Paura nelle menti dei cattolici.
Non doveva parlare.
Non poteva parlare. Nemmeno nell’ultimo istante.
La mordacchia come ultimo baluardo difensivo di una struttura che non teme il confronto con il gregge.


Non so quando, ma so che in tanti siamo venuti in questo secolo per sviluppare arti e scienze, porre i semi della nuova cultura che fiorirà, inattesa, improvvisa, proprio quando il potere si illuderà di avere vinto

Giordano Bruno morì per la libertà di tutti noi.
Ucciso da quella Chiesa che ancora rifiutava la sfericità della terra e le teorie di Copernico.
Sfidava i dogmi proponendo orizzonti nuovi per l’uomo.
Poneva il seme di un mondo nuovo, di una cultura libera dal potere temporale.


Se questa scienza che grandi vantaggi porterà all'uomo, non servirà all'uomo per comprendere se stesso, finirà per rigirarsi contro l'uomo.

Il frate domenicano Giordano accusato d’eresia.
L’uomo sotto processo per aver espresso opinioni divergenti a quelle della Chiesa.
Il filosofo inquisito per otto lunghi anni su argomenti filosofici e scientifici.
Il pensatore Giordano che si ribella alla sentenza già scritta tentando di riportare sulla retta via i suoi accusatori.


Chi aumenta sapienza, aumenta dolore.

Il rogo purificatore non era previsto.
Giordano Bruno doveva abiurare, eliminare il suo mondo dall’umanità.
La chiesa deve vincere, sempre.
Più alta l’immagine dell’accusato minore impatto favorevole avrà l’eliminazione fisica.



L’universo è uno, infinito, immobile. Non è in grado di comprensione alcuna, è senza fine e limiti, si estende all’infinito, e di conseguenza è immobile.

Giordano in ginocchio di fronte all’inquisitore.
Le strade per vivere sono due: abiurare o dimostrare di non aver mai sostenuto idee contrarie alla concezione della Chiesa.
Bruno non cancella il suo pensiero, il  libero scrivere.
Il frate non abiura, non può. Non salva se stesso per salvare tutti noi.


I naturalisti non hanno davvero nessuna colpa se gli uomini mancano di auto comprensione. Giordano Bruno è stato bruciato perché diceva che gli uomini sono, insieme al loro pianeta, solo un granello di polvere fra innumerevoli altre nuvolette di polvere. [Konrad Lorenz]

Un freddo febbraio del 1600 finisce la vita di Giordano Bruno.
La chiesa ha vinto, ancora una volta.
Il frate di Nola rappresentava quello che loro non erano in grado di raggiungere.
Ucciso perché ha scelto il libero pensare ai dogmi della fede.

I cardinali dormienti si affannano 
A punire Bruno, che invece è lontano. Vola.
Il suo superbo corsiero, vivo come il pensiero
Già passa le Alpi.
[Christopher Marlowe]

Il rogo, le fiamme ed il dolore non spegneranno il suo pensare.
Bruciato perché tra la madre ed il padre ha scelto la prima: la filosofia.
Giordano Bruno sapeva la forza del pensiero.
Gli inquisitori, deboli, ignoranti e senza libero pensiero, non potevano che ucciderlo.


Mio caro signor dottore, queste poesie di Giordano Bruno sono un regalo di cui le sono grato con tutto il cuore. Mi sono permesso di appropriarmele come se le avessi scritte io e per me – e le ho prese come gocce corroboranti. Se lei sapesse quanto raramente mi viene ancora qualcosa di corroborante dall'esterno. [Friedrich Nietzsche]

Loro sono fedeli.
Loro seguono il dogma.
Non sviluppano idee proprie.
Prendono quello che cade dall’alto.


Fabio Casalini

Pavia, la città dalle 100 torri

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Veduta aerea di Pavia (S. Teodoro, B Lanzani, 1524)

Pavia città dalle Cento Torri: titolo accostato, nella nostra Penisola, a una miriade di centri storici, primo fra tutti a San Gimignano e perfino a quella Milano medievale che poi le perdette tutte. 
Generalmente in età comunale in Italia le torri sorsero in città- stato autogestite, dotate di grande prestigio e benessere economico, tanto che nella stessa Pavia già nel 1000 erano venuti a stabilirvisi piccoli nobili titolari di benefici feudali: i Beccaria, i Bottigella; i Gambarana, i Langosco e i Belcredi, che possedevano rocche e terreni in Oltrepò e Lomellina. Il potere di richiamo della ricca città li portò a procurarvisi casa, inaugurando una politica di compromessi politici, tipici dell’ambito centrosettentrionale d’Italia. 

Torre del Maino (51 mt.)  le due “dell’Università” (38 e 39 mt.)

Già nel 1121 l’elezione dei primi consoli, di fatto, ufficializzò il periodo di gestione comunale della città. Fu così che nacque un governo comunale: non una democrazia, bensì un’oligarchia allargata, promossa da piccoli nobili fattisi cittadini. Situazione del tutto diversa da quanto accadeva Oltralpe, dove comuni borghesi (e fondamentalmente, fittizi) furono fondati e sovvenzionati nientemeno che da re e imperatori.
Le torri pavesi sono oggetti inspiegabili, quasi “metafisici”: a differenza di altre città come Bologna, la documentazione sul loro conto è pressoché inesistente. Il primo autore a parlarcene è d’epoca tarda: Opicino dè Canistris (1330), bizzarro chierico e miniaturista al servizio della corte pontifica avignonese, nel suo“Libellus descriptione Papiae” elencò chiese, monasteri e mercati urbani nella pavia medievale. La ben più celebre testimonianza di Francesco Petrarca, ospite di Ottone Visconti presso la ricca biblioteca del castello (1353-9), ci tramanda una personale impressione di Pavia come città turrita affiorante sulla pianura alluvionale del fiume Ticino. Importante ricostruzione d’epoca, resta la visione a volo d’uccello degli affreschi di Bernardino Lanzani, in San Teodoro (1524).

Mappa cinquecentesca di Pavia

Ben cinque baluardi, rimasti integri, segnano ancora lo skyline pavese in modo enigmatico e netto. Si ricordino le tre celebri torri di piazza Leonardo da Vinci: la più alta detta del Maino (51 mt.) dal nome dei nobili che a lungo la possedettero, e le due “dell’Università” (38 e 39 mt): molto vicine al limes murario settentrionale, forse esse ebbero il ruolo di vedette sull’aperta campagna.
Rigorosamente a pianta quadrata, le torri sono collocate fuori asse rispetto al reticolo viario della città, e perfino tra loro; prive di aperture per tutta la parte superiore, quasi come obelischi, sono anche le uniche torri, a Pavia, ad avere accesso al livello del terreno. Per tutte le altre si entrava attraverso ingressi posti a diversi metri da terra, tramite scale di legno.
Nell’area sudest si protendono altri due “obelischi” in laterizio, meno celebri ma altrettanto spettacolari: murate tra antichi palazzi, la torre di San Dalmazio (41 mt.)e la Belcreda, la più alta in città, che svetta all’invidiabile altezza di 60 metri. Proprio il dislivello che porta al Ticino fa apparire i baluardi a guardia del fiume meno alti di quanto siano realmente.

Torri di san Dalmazio (41 mt.) e Belcreda 60 mt. 

L’angusta struttura interna esclude la validità bellica di tutte le torri menzionate, per mancanza di aperture e spazio per viveri e armati: I buchi che le contraddistinguono non sono feritoie, ma solo buche pontaie create dai “muratori” per erigerle. L’altezza eccessiva metteva certamente i proprietari in sicuro, rendendo però impossibile scagliare frecce dall’alto con precisione: il confronto con le torri di cinta, (non più esistenti) basse e larghe, metteva allo scoperto l’inefficienza strutturale delle famose torri.
Altre sopravvivenze, sparse nell’antico tessuto urbano, vanno cercate pazientemente tra i vicoli: ed ecco apparire la torre di casa Lacchini e di S. Margherita in piazza Borromeo, di S. Tomaso, dei Catassi, di casa Parona e Martignoni, della Rocchetta, di piazza Cavagneria, della Zecca e molte altre ormai obliate. In concomitanza con la crisi del libero comune (XIV secolo), molte di esse subirono gravi manomissioni; altre andarono distrutte, finché se ne perse il ricordo. Talune torri sono state individuate come caseforti, formate da un voltone unito alla torre e destinate a sbarrare le vie agli angoli delle strade: è il caso di Torre degli Aquila, di Sant’Ennodio degli Isimbardi.

Torre di S. Margherita (18,70 mt.) e di casa Lacchini (mt 34,50), accorciate.

Le torri pavesi non sono certamente le più alte d’Italia, bensì le più antiche: tutte databili agli albori del XII secolo, con spessori murari arditamente sottili e graduali restringimenti a “riseghe”, tendenti a salire. Questi baluardi, attenendosi a uno slancio nemmeno cercato ma comunque ottenuto, in un’epoca in cui si facevano cose semplici e belle senza volerlo, furono ideate per scelta in tutta la loro disadorna semplicità: talmente diverse dall’estetica deliberatamente ornata e quasi centro italiana di quelle bolognesi.
In assenza di fonti certe, sono queste torri a dar voce ai nobili corazzati e severi che si trasferirono in città in cerca di successo e visibilità: la tendenza feudale a costruire sempre più in alto è una tipica gara per rendersi importanti e potenti agli occhi della cittadinanza.
Eppure, Pavia si distinse da tutte le altre città italiane per la relativa stabilità tra fazioni al suo interno. La conflittualità interna era scarsa; la posizione naturale, difesa dalle mura e dal fiume Ticino, la rendeva tranquilla e pressoché inespugnabile: ricca, in virtù del suo controllo sulle vie di terra e d’acqua, che fin dal regno ostrogoto e longobardo le permisero di commerciare attraverso le vie del Po con Ravenna e Venezia, Bisanzio e la Persia.

Ponte Visconteo sul fiume Ticino

 In un tale contesto, nel 1061 l’unità di intenti spinse Pavia a sfidare la rinata e potente Milano per uno sbocco sul mar Ligure, nella battaglia (dagli esiti incerti) di Campomorto. L’ostilità all’egemonia ambrosiana e il nobile passato urbano agevolarono gli imperatori tedeschi a eleggere Pavia città alleata, al punto che perfino Federico di Svevia qui fu incoronato re d’Italia: proprio quel Barbarossa che, nel 1158 e nel 1162 rase al suolo Milano, riaffermando il monopolio pavese.
Purtroppo il simbolo per eccellenza delle virtù cittadine è andato perduto per sempre: la torre Civica, poi campanaria del duomo, eretta nel 1063 e più alta e larga di tutte le altre (73 mt.) al punto da poter ospitare un centinaio di guerrieri sulla sua piattaforma, collassò nel 1989 lasciando dietro di sé dolore per le sue vittime e rimpianti per la mancata ricostruzione.

Testo e foto: Marco Corrias (alias Marc Pevèn)

Resti della grande torre civica


Padre Pio: tra povertà e ricchezza

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Nella prima puntata, di questa ricerca all’interno della vita di una delle figure più rappresentative e discusse del XX secolo, ci siamo lasciati al 31 maggio del 1923, giorno dell’emissione del decreto non constat de supernaturalitate da parte del Vaticano. Il decreto retrocedeva Padre Pio a persona normale senza alcun rapporto con il soprannaturale. 
La notizia, come potevamo prevedere, ebbe grande rilievo sui quotidiani nazionali ed esteri in seguito alla pubblicazione del decreto sull’Osservatore Romano del 5 luglio 1923.
Il dicembre dell’anno successivo il dottor Giorgio Festachiese al Vaticano il permesso di visitare nuovamente Padre Pio. Il permesso fu negato dalle autorità ecclesiastiche.
Le indagini sul frate da Pietralcina si conclusero nel maggio del 1931. Il Vaticano invitò i fedeli a non considerare soprannaturali le manifestazioni di Padre Pio. Al frate fu vietata la celebrazione della messa e l’esercizio della confessione.
Le proteste dei fedeli e dei frati del convento furono vibranti e vigorose.
Il Vaticano, inizialmente, non mutò opinione.
Dal maggio del 1931 al luglio del 1933 la vicenda si tinge di giallo.
Al fine di comprendere i fatti intercorsi in quei due anni devo presentare un personaggio chiave di tutta la vicenda relativa a Padre Pio: si tratta di Emanuele Brunatto.
Brunatto appare nella vicenda di Padre Pio negli ultimi anni del secondo decennio del secolo scorso. Avventuriero d’origini napoletane lesse delle manifestazioni soprannaturali di Padre Pio sul Mattino di Napoli. Inizialmente decise di proseguire l’attività, legata al campo dell’alta moda, che da poco aveva iniziato. A causa di cattive gestioni e gelosie tra le sarte, che si occupavano della nascita degli abiti, la società fallì. Al Brunatto ritornò prepotente l’idea di recarsi a San Giovanni Rotondo per conoscere di persona Padre Pio. Giunto in Puglia conosce il frate da Pietralcina e, secondo alcuni, si converte immediatamente mentre, secondo altri scrittori, stringe sodalizio con Padre Pio. Inizialmente si stabilisce in una fattoria nei pressi del convento. Poco tempo dopo si trasferisce all’interno del convento stesso, e precisamente nella cella numero 6. Ricordo che la cella di Padre Pio era la numero 5.
Emanuele Brunatto assiste, ancora da spettatore, alle vicende inquisitoriali - essendo relative all’operato del Sant’Uffizio è lecito nominarle in questo modo – che vedono implicato Padre Pio. Nei mesi successivi decise di passare all’azione, raccogliendo materiale inedito, probabilmente relativo a comportamenti non limpidi, su alcune persone del clero pugliese. I soggetti colpiti dalle azioni di Brunatto sono: l’arcivescovo di Mafredonia, Pasquale Gagliardi, l’arciprete di San Giovanni Rotondo, Giuseppe Prencipe ed un canonico del paese, Domenico Palladino.
Quali i motivi alla base del dossier segreto?
I tre erano ritenuti gli artefici della persecuzione nei confronti di Padre Pio. L’arcivescovo di Manfredonia nel corso di una riunione concistoriale dichiarò: “Padre Pio è indemoniato.Ve lo dico io, è un indemoniato, e i frati di San Giovanni Rotondo sono una banda di truffatori. L’ho visto io, proprio con i miei occhi, il padre Pio mentre si profumava e si incipriava. Lo giuro sulla mia croce pastorale”. [1]
Le tensioni tra Vaticano ed il convento di San Giovanni Rotondo non cessano.
Emanuele Brunatto perse la pazienza e nel 1927, dopo aver lasciato il convento di Padre Pio per pressioni superiori, pubblica a Lipsia, con l’aiuto del sindaco di San Giovanni Rotondo, il libro Lettere alla Chiesa firmandosi con lo pseudonimo di Felice de Rossi. La pubblicazione è un attacco frontale al clero della Puglia e del Foggiano nel particolare. Il libro contiene tutto il materiale raccolto, in segreto, sulla vita dell’arcivescovo di Manfredonia e l’arciprete di San Giovanni Rotondo. Il Vaticano si trova in una situazione complessa: da una parte il materiale pericoloso che potrebbe creare uno scandalo, dall’altra le lunghe ombre di un ricatto da parte di Brunatto per eliminare le restrizioni cui era soggetto Padre Pio.
Il Vaticano accettò il ricatto pur di non far circolare il materiale compromettente ma… si dimenticò di levare le restrizioni al frate di Pietralcina.
Il Brunatto rincarò la dose decidendo di pubblicare un secondo libro, Gli Anticristi della chiesa cattolica, dove attaccò tutta la cristianità, Papa incluso.
All’improvviso il 14 luglio del 1933 si concluse la segregazione di Padre Pio.
Dal 1931 al 1933 la vicenda del frate con le stigmate assunse il colore del giallo per sfumare nel grigio dell’assoluzione…
Papa Pio XI affermerà che è la prima volta che il Sant’Uffizio si rimangia i suoi decreti.[2]
Avanziamo nel tempo.
Il miracolo di guarigione di un potente fece ottenere a Padre Pio una quota azionaria della Zarlatti, azienda che stava sviluppando un brevetto per una locomotiva alimentata a vapore ed aria compressa. Il frate non potendo sfruttare la quota azionaria, per il voto di povertà, si fece rappresentare dal Emanuele Brunatto, il signore della cella numero 6 e dei dossier segreti contro la curia romana.
Il tempo corre veloce, come la fama del piccolo frate venuto dalla Campania.
Il 9 gennaio del 1940 Padre Pio manifesta l’intento di costruire un ospedale, denominato casa sollievo della sofferenza.
Il 3 giugno del 1941 Emanuele Brunatto invia da Parigi, dove nel frattempo si era trasferito, una lettera d’accredito di ben 350.000.000 £. Il denaro transita nella filiale di Firenze del Credito Italiano. Il denaro servirà per l’inizio dei lavori dell’ospedale voluto da Padre Pio.
I soldi sono molti, anche le domande che nascono sulla loro formazione.
Nel 1943 un secondo, lauto, contributo giunge per i lavori dell’ospedale: il denaro giunge dall’UNRRA, associazione legata all’ONU, a seguito della conversione del fidanzato di una giornalista inglese. L’uomo, guarda caso, era consigliere delegato dell’UNRRA. L’ammontare del contributo si aggira tra i 250.000.000 ed i 400.000.000 milioni. La differenza potrebbe essersi persa durante il trasferimento del denaro…
Alla fine della seconda guerra mondiale Emanuele Brunatto fonda l’associazione Per la difesa delle opere e della persona di Padre Pio da Pietralcina.
I segreti ed i misteri legati al sodalizio tra queste due persone non si esauriscono mai.
Padre Pio, come tutta la curia romana e la cristianità, fu implicato in uno scandalo che scosse l’opinione pubblica durante i meravigliosi anni cinquanta.
Addentriamoci nei meandri del caso Giuffrè.
Giambattista Giuffrè era un banchiere d’Imola. Per conto d’alcuni enti ecclesiastici iniziò ad occuparsi della ricostruzione di conventi e chiese danneggiate durante i bombardamenti della seconda guerra mondiale. Giuffrè amministrò i soldi delle parrocchie e degli istituti religiosi che a lui si rivolgevano, offrendo in cambio tassi d’interesse che potevano giungere a cifre incredibili: si andava dal 70% al 100% di guadagno annuo.
Quale garanzia offriva Gianbattista Giuffrè ai suoi investitori?
La sua profonda e conosciuta amicizia con ambienti religiosi influenti.
La presenza di Giuffrè nella vita religiosa del paese gli valse il soprannome di Banchiere di Dio.
Raccolse ingenti somme di denaro restituendo, almeno inizialmente, gli elevati interessi promessi con la nuova raccolta da ignari investitori. Giuffrè non investiva il denaro raccolto, ma lo utilizzava per corrispondere gli interessi, secondo il classico meccanismo dello Schema Ponzi. [3]
Il problema si presentò quando alcuni investitori iniziarono a sospettare di Giuffrè e chiesero il rimborso del capitale iniziale. Il banchiere di Dio non riuscì nell’impresa di rimborsare quanto aveva ottenuto a scopo d’investimento. Tra i più colpiti ricordiamo i frati cappuccini – in onore ed in memoria del voto di povertà di san Francesco – ed altri enti religiosi di centrale importanza. Essendo colpita buona parte della cristianità il Vaticano riuscì a far passare – almeno inizialmente – sotto silenzio l’accaduto.
Non tutti i quotidiani ed i settimanali si allontanarono dall’accaduto. 
L’Espresso del 9 aprile 1961accusava Padre Pio e Gianbattista Giuffrè di essere i mandati della truffa. [4]
Lo scandalo sconvolse non solo il paese ma anche l’animo gentile e contadino di Papa Giovanni XXIII che decise di inviare il fidato Monsignor Maccari a San Giovanni Rotondo, per indagare sui frati e sulle voci che giungevano dalla Puglia sull’operato di Padre Pio.
Monsignor Maccari cosa trovò al suo arrivo nel convento pugliese?
Il Papa Buono come reagì di fronte al resoconto, dettagliato e circostanziato, del suo fidato collaboratore?
Tutto questo, e molto altro, nel prossimo articolo su Padre Pio, inganno o santità?

Fabio Casalini

Bibliografia

Allegri Renzo, I miracoli di Padre Pio. Mondadori. 1993
Bergadano Elena, Padre Pio il profumo dell'amore. Edizioni Paoline. 2013
Gemelli Agostino, Contro Padre Pio. Mimesis edizioni. 2010
Guarino Francesco, Padre Pio il santo tra noi. Edizioni il pellegrino di Padre Pio. 2014
Guarino Mario, Beato Impostore, Kaos edizioni. 1999
Renzetti Roberto, San Francesco e i crimini dei francescani. Tempesta Editore. 2013




[1] Renzetti Roberto, San Francesco e i crimini dei francescani. Tempesta Editore. 2013
[2] Bergadano Elena, Padre Pio il profumo dell’amore. Edizioni Paoline. 1999
[3]Lo schema Ponzi è un modello economico di vendita truffaldino che promette forti guadagni alle vittime a patto che queste reclutino nuovi investitori. La tecnica prende il nome da Charles Ponzi, un immigrato italiano negli Stati Uniti che divenne famigerato per avere applicato una simile truffa su larga scala nei confronti della comunità di immigrati prima e poi in tutta la nazione. Ponzi non fu il primo a usare questa tecnica, ma ebbe tanto successo da legarvi il suo nome. Con la sua truffa coinvolse 40 000 persone e, partendo dalla modica cifra di due dollari arrivò a raccoglierne oltre 15 milioni.
[4] Renzetti Roberto, San Francesco e i crimini dei francescani. Tempesta Editore. 2013

Corpus Domini. Reliquie di Cristo?

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Il testo seguente è frutto della mia fantasia, scolpita con fatti storici e credenze antiche.
O se Dio!
Ma quale Dio, quale padre, avrebbe concepito la guerra, ed il nero alito di questa miserabile e vulnerabile umanità.
Scavammo la terra profonda per varie notti consecutive, la polvere nel Tempio di Salomone, si dilagava rossa come sangue appena sversato, nell’aria fetida e mal odorante di quella calda estate in Terra Santa, quegli immensi corridoi si snodavano come serpenti fino al cuore della terra e ad il suo inferno, vecchi veggenti arabi sputavano sulle nostre vesti maledicendoci, per ciò che stavamo compiendo, e spesso morirono sotto le nostre lame perché non volevano farci sottrarre nulla da quella terra, eravamo pronti a trovar L’Arca dell’Alleanza, ma quella sabbia antica conteneva altro.
Quando la mia vanga si spezzo contrò uno scrigno in roseo marmo, con inciso la frase Yesuha ben Josep, fui scacciato insieme ai soldati minori, dai grandi maestri tra cui Ugo di Payns, che con violenza ci gridarono di lasciare la stanza, risalendo malmenato ai piani superiori udì il maestro pronunciare Corpus domini tra un pianto feroce, ed isterico.
Tutta la sua fede crollò come questo tempio, sulle reliquie di Cristo nostro Signore, sempre più umano che divino.
Fu dunque scoperta la tomba di Cristo?
Decenni successivi ormai giunti al 1265, Papa Urbano IV, proclamò la festa del Corpus Domini, la festa del corpo di cristo.
Forse per dichiarare simbolicamente questo evento? 
Visto che questo papa altro non era che Jacques Pantaleon, Patriarca di Gerusalemme che portò in Europa la reliquia.
Quali accordi vennero stipulati tra templari e santa sede, per far tacere forse questo segreto, o teoria?
Si sa che essi furono sterminati, ma che i loro segreti siano nascosti nelle cattedrali gotiche, che invasero la Francia, sotto la costellazione della Vergine.
Tra Vergini nere, e discendenti dei figli di Cristo

Simone De Bernardin


Fotografie
1- Baceno, Verbania. Chiesa dedicata a San Gaudenzio, affresco di Giacomo da Cardone.
2- Paruzzaro, Novara. Chiesa dedicata a San Marcello, affresco del Maestro della Passione di Postua.

La Mongolfiera

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“Morz en une eure tot desfait. 
Que vaut biautez, que vaut richece ?
Que vaut honeurs, que vaut hautece?”
(Hélinand de Froidmont, Vers de la Mort, 1160-1229)

La primavera aveva aperto la strada ai primi tepori in quella mattina di metà aprile.
Il cielo privato dell'aspetto incolore tipico delle giornate invernali era trapuntato da batuffoli di cotone che si rincorrevano nel nitido azzurro, proiettando strampalate forme in quegli specchi d'acqua regolari contornati da pioppi. Erano le risaie che si stendevano tra Lumellogno e Gionzana.
Refoli di vento freddo provenienti dai ghiacci del Monte Rosa solcavano ancora la baraggia un po più ad ovest mentre l'autostrada nel suo nervosismo quotidiano, come un serpentone, collegava Torino a Milano.
Ma nella celestiale solitudine dei campi non giungeva alcun suono, il monotono fragore si disperdeva come cenere al vento.
L'appuntamento era fissato per le nove in punto ma Cesare, famoso per i suoi proverbiali ritardi, si presentò una buona mezz'ora dopo tutto trafelato e con la fronte già luccicante di sudore, mentre Guido appisolato su un muretto si perdeva nell'immensità del cielo fischiettando una canzone.
Cesare e Guido amavano stare con la testa fra le nuvole sin da quando erano ragazzini; ai comuni giochi d'estate erano soliti sfuggire per restare sdraiati nei campi con un filo d'erba tra le labbra ad osservare il volo degli aironi o le temerarie evoluzioni dei piccoli aerei provenienti dal vicino campo volo di Vercelli.
Fu così che Cesare conseguì il brevetto e divenne pilota di mongolfiera. Restare lassù, sospeso in quel terrazzo tra terra e cielo era quanto di più bello la vita potesse concedergli ed oggi aveva deciso con Guido, complici le correnti favorevoli alla rotta, di spingersi fino alle propaggini delle Alpi, impresa che sino ad ora non avevano mai sperimentato.
Il meteo sembrava essere dalla loro garantendo tempo stabile per tutta la giornata; l'entusiasmo era alle stelle e dopo i preparativi di routine balzarono nella cesta di vimini mettendo in moto il bruciatore, trasformando il gas nella fiamma ascensionale che li avrebbe librati nel cielo.
L'enorme bolla d'aria calda tricolore iniziò a levarsi placidamente e le case e le cascine si rimpicciolivano sempre più sfumando in un lento addio.
L'attento studio direzionale dei venti da parte di Cesare si rivelò vincente, individuata la giusta corrente il grosso pallone iniziò a dirigersi verso nord.
Sotto di loro scorrevano calme le acque del Ticino, da lassù si poteva ben distinguere il cupolone di San Gaudenzio che svettante sembrava volesse raggiungerli.
Tutt'attorno erano le cime violette della catena alpina; Il Monviso luccicava lontano in direzione del mare del quale derubava i toni ed il Monte Rosa come un grosso torrone veniva voglia di addentarlo.
Il pallone sospinto dal vento cabrava cheto nella direzione stabilita. Ecco Castelletto Ticino dove il confine lombardo abbraccia quello piemontese ed il Lago Maggiore confluisce le sue acque nell'omonimo fiume.
Di lassù la vetta del Mottarone spuntava come un grosso pandoro spolverato di zucchero a velo, così si mostrava ai loro occhi incantati e pieni di magia l'ultima neve di primavera.
Altri piccoli nevai scintillavano dalle zone più in ombra e una lucentezza azzurrina oltre la cima richiamava le calme acque del Cusio incastonate laggiù tra quelle pendici che conducono nella valle del Sesia.
Come guanciali verde smeraldo i dolci declivi del Vergante gettavano occhiate di sole verso le fresche acque del Verbano, mentre l'oggetto volante spariva alcuni istanti in una nube di vapore per affacciarsi poi nuovamente travolto da una pioggia di sole accecante nel vuoto dell'ampio cielo.
Nuove pennellate d'azzurro ed ecco il Montorfano, sipario tra la piana di Fondotoce e la nuda terra d'Ossola somigliante ad una foglia d'acero; lontane le fulgide cime imporporate del Mischabel governavano quell'immobile silenzio. Un urto e la bussola puntò ad est dove come un grosso cavolo verde attorcigliato da forre e cenge da briganti c'era la Val Grande. Terra di silenzi e volti duri scolpiti nel legno e di gente che non teme la fatica che spacca le mani.
Il vento li sospinse in quella coltre di nubi basse affumicate che ribollendo ricordavano un pentolone di patate, lasciando solo a tratti immaginare le sue profondità grigie, muschiose e tetre.
Un “cielo incomprensibile che non si capiva se fossero nubi o soltanto nebbia al di là della quale il sole, forse…” appellandoci alla sensibilità di Dino Buzzati.
Quel cielo che sembrava disceso sulla terra. Squarci azzurri alternati a nuvoloni scuri regalavano fresche ombre riparate dal fitto fogliame; regno di gheppi, camosci, aquile e vipere.
Qui si è soli pensò Cesare davanti a quel “nulla” così sterminato, imprigionato in una bolla aldilà del mondo e del tempo. 
Fantasticava: sì potrebbe restare per ore, giorni o settimane nascosti tra i rami, come un buratt, ad osservare da lontano qualche sporadico escursionista transitare, senza essere visti, come fanno gli animali della giungla. Perché la grande valle assume un'infinità di sfumature e come un libro di Salgari dimenticato in una balma, il vento si insinua, sfoglia le sue pagine e narra di mondi lontanissimi.
Qui incontriamo il Nepal, le acque cristalline delle Andamàne, la fittezza della foresta del Suriname e l'umiltà silenziosa e sterminata del deserto di Thar.
Fasce ancora inesplorate si aprivano ai loro occhi, popolate dai “boschi di Adamo” dove il silenzio è spezzato da sinistri scrosci di sassi il cui eco risuona come brani di messa da morto racchiusi in stretti budelli dissestati .
Rammentando una vecchia cartina, Guido indicò con incontenibile entusiasmo: quella laggiù simile ad imbuto dev'essere la gola dell'Arca! Interrogando Cesare, ghermito dallo scenario dei Corni di Nibbio che lentamente si lasciavano alle spalle, declinando in un'asprezza elaborata da secoli, specchio di solitudini fitte e spinose. Un contorto regno del nulla che inspiegabilmente rapiva e si dileguava nella ripidezza dei valloni, nelle sue bocchette custodi di cose eterne e leggendarie.

Osservando quella selva sterminata era come udire il rumore del mondo, un gorgoglio intimo ed arcano, quel vagito primordiale della terra per sempre svanito nei tumultuosi respiri quotidiani. La “voce” emergeva nitida dalle gole della Val Negra, dove nella timorosa primavera i getti d'ortica crescono alti anche a ridosso di quel luogo impossibile.
La voce gira, rigira e sfugge timorosa, poi s'incaglia in fiere di faggi, si getta su sentieri di capre che vanno a morire risalendo gli erti pendii della Soliva, poco sotto il colle della Forcola, dove par di camminare in cielo, precipita poi nei fondali di pietre d'la Ransciola ed infine s'acquieta  nella notte sugli usci delle remote baite, in cui una minuscola donnetta in panni color pece cuce delicata come un ombra un vecchio scialle. Scivola sulle piode, nei camini, dietro agli orti di Cicogna, manciata di tremolanti lumi accucciati nella notte ed unico segno tangibile di presenza umana in quel groviglio intricato di rododendri e sfasciumi di rocce.
Quella terra li attraeva con un singolare magnetismo; planando sulle creste secolari Cesare si accorse che la quota era pericolosamente calata, le cime del Pedum osservavano il loro incerto volteggiare dall'alto con incresciosa severità; più lontano sfumavano i resti delle baite diroccate di Caurì già avvolte in una carezza d'ombra e distante il rombare del San Bernardino giungeva greve sin a quel canestro appeso al cielo.
Sotto il tappeto di nubi si lagnava una dïàfana luce simile ad un pallore di betulla. Come una foglia morta il pallone multicolore tentennava la sua corsa quasi fosse condannato ad un gravoso destino.
Cesare non si disperava in manovre di salvataggio, appariva stranamente sereno agli occhi di Guido, ora dilaniato dall'angoscia, quella vera, che corrode gli intestini e svuota l'anima. Non l'aveva mai visto così in vita sua. Tentò di scuoterlo dall'inconsueto torpore.
Il verde della Val Portaiola ormai si fondeva con quella massa policromatica a cui disperatamente Guido si abbrancava, ma Cesare sembrava non esserci più; la sua sagoma leggera pareva sfaldarsi in un'effusione di vapori, come un fatale gioco di bimbi.
Tutto era fuori controllo, dal basso si sollevavano respiri di terra, spruzzi d'acqua e pulviscolo e la nebbia adagiata nelle conche umide guizzava avvolgendo l'oggetto volante in un'invisibile macchia.
Cesare! Cesare! Berciava Guido a quella figura bidimensionale simile ad una carta da gioco balzata fuori dal mazzo, in bilico, pronta a precipitare al primo soffio d'alito amaro.
Ma Cesare già volteggiava distante più alto delle nuvole, come una farfalla uscita dal suo bozzolo. Osservava Guido ansimante attendere con sgomento la fine, quel buco nero più cupo della notte.
L'urlo ormai afono si frantumò in mille pezzi di ferro, di ossa e di legno. Un sordo rumore si levò a pochi metri dal Rio Fiorina accompagnato da una grigiastra  nube. Un capriolo impaurito fuggì su un costolone di rocce che tagliava di netto il cielo, restò ad osservare la massa informe ed ancora fumante per un momento, poi scomparve tra la boscaglia.
Achille, come tutte le mattine dopo la sveglia puntuale delle 4,30, con i gomiti poggiati sul vetusto tavolo rugoso della cucina consumava la colazione, accompagnato da una scodella di latte ed una fetta di polenta. Trecentosessantacinque fette di polenta, cascasse il mondo, la sua giornata iniziava così!
Nella bella stagione i suoi ingressi in valle erano frequenti, spinto da un atavico richiamo calcava con religiosa dedizione quello spazio dagli incerti confini in cui tanto tempo fa aveva riposto uno spicchio di cuore. Quel giorno discendendo da Scaredi era diretto a In la Piana, zone che conosceva bene; suo nonno, dipendente del Sutermeister, trascorse parecchi anni in Val Pogallo.
La primitiva memoria agitava così l'eredità genuina dei ricordi come braci di un camino mai del tutto sopite, come le dolci madeleine, citando Proust, quei teneri biscotti che zia Leonia amava inzuppare nell'infuso di tiglio, e che Marcel, una sera d'inverno ormai adulto, si ritrovò casualmente a riassaporare. Al primo morso il dolciume, in una nostalgica rivelazione d'infanzia, disancorò gioie antiche ritenute ormai perdute.
Pochi istanti dopo aver superato la passerella sul fiume un'inquietante visione assalì Achille.
Un grosso pallone di nylon giaceva raggrinzito come una prugna secca pencolante tra i rami più alti di alcuni faggi, ed un cesto di grosse dimensioni emergeva in mezzo al pietrame.
Posato zaino e bastone galoppò in direzione della matassa di vimini con la speranza di trovare ancora tracce di vita pulsante. Gli ospiti dell'aerostato potevano essere feriti ma, forse, ancora in vita!
Con uno scatto ribaltò il cestone ma nessuna presenza umana giaceva al suo interno, bensì due cerbiatti. Un flebile bramito lo raggiunse, scuotendolo in un sinistro brivido.
Com'era possibile tutto ciò? Achille stordito dalla surrealtà della situazione rimase interdetto alcuni istanti. Tentò di distogliere l'attenzione da quelle due splendide creature generate da un utero cosmico ma i loro occhi bui gli incutevano paura quando, inspiegabilmente, riaffiorò dalla coscienza, velato da una cupa illusione, il frammento di un libro a cui era profondamente affezionato.
Suonava all'incirca così: “Forse la reincarnazione è soltanto un modo per sovvertire la visione che i vivi hanno dei morti, per esprimere la vita dal punto di vista dei morti”
Qualcosa era accaduto tra quegli alti prati solitari, qualcosa di miracoloso, oscuro ed inspiegabile.
Achille, fragile e smarrito, sistemò i cuccioli alla bell'e meglio sul fondo dello zaino, creando un soffice giaciglio con un caldo maglione di lana, caricò il sacco sulle spalle e sistemato il berretto di lana ben calato sulla fronte s'incamminò, a piccoli passi, mentre grossi cumuli oscuravano il sole raggelando l'aria ancora tenera. Presto divenne un puntino lontano inghiottito dal verde ancora acerbo dei solenni boschi.


Si racconta che Achille viva in solitudine in un luogo imprecisato, forse una balma tra Pobbiè e Cortepiano, come un novello Sant'Egidio. Alcuni sostengono di averlo scorto con la sua lunga barba color cenere aggirarsi tra ciò che resta di Varola, sbisciando tra le felci e la ruota grande di ferro.

Gli animali pare non abbiano timore di lui e nelle notti di vento, quando si agita il vocabolario degli spiriti che noi abbiamo ormai disimparato, è facile udire il suo canto solcare le creste più alte, risuonare nelle buie valli per poi precipitare in un eco remoto carico di nostalgia.

Filippo Spadoni



"La Mongolfiera"è un racconto germogliato dalla mia  fantasia, fatti e riferimenti a persone reali sono puramente casuali nonostante certe esperienze e sentimenti siano molto fedeli a frammenti della mia vita.



Bibliografia:

  • Un amore - Dino Buzzati Arnoldo Mondadori Editore, 1963
  • Neve di primavera - Yukio Mishima, 1968
  • Dalla parte di Swann - Marcel Proust, 1913

Milano capitale dell’impero Romano. La caduta degli dei

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G. C. Procaccini. Costantino riceve gli strumenti della Passione (Castello Sforzesco)
Milano romana è una metropoli cinta da un doppio giro di mura cremisi. Teatri, templi e palazzi risplendono d'oro: “il numero di terme, basiliche e anfiteatri è tale da non temere il confronto con la stessa Roma”, afferma il poeta e storico Decimo Magno Ausonio. 
Mille anni di storia e arte in questa Terra di Mezzo.
Atmosfere riflesse sulle cupole delle venerande basiliche dedicate ai santi Ambrogio, Lorenzo ed Eustorgio, Nazaro e Simpliciano. Al loro interno, ben prima che Ravenna imperasse, il fulgore dei mosaici dorati indica la strada dalla città terrena a quella celeste, ispirando meraviglia e stupore.
284-402 d.C.
Smessi i panni di quieta cittadina di provincia qual era, Milano si veste da capitale dell'Impero romano d'Occidente. Costantino, orgoglioso, diadema sul capo, sconfitto il rivale Massenzio sul ponte Milvio presso Roma (305), indossa la porpora e  promulga l'Editto di Tolleranza di tutte le fedi proprio nell'Urbe padana (313). Alcuni tra i suoi successori faranno di tutto per remare contro il nuovo culto dei Cristiani: l'imperatore - filosofo Giuliano (360) introduce riti di provenienza orientale: Cibéle, selvaggia dea madre, conduce una biga trainata da leoni, immortalati nel bronzo sulla cima del grande circo mediolanense; nel frattempo i grandi felini, in carne e ossa, ruggiscono e sbranano i cristiani nell'arena. Al fianco della generosa e temibile Cibéle vi è Attis, suo compagno imberbe. Il Cristo pagano ammira lo spettacolo truce dall’alto di un obelisco: storia tragica, quella dei due amanti divini...da compagno infiammato e fremente per la sua implacabile dómina ad auriga eunuco del carro, il passo fatale di Attis è fin troppo breve.
Patera di Parabiago, con Cibele e Attis (Milano, museo archeologico)
"Impossibile fondare un nuovo Impero su un culto orgiastico e depravato!" sbotta l'élite filo-cristiana.
Non perdoneranno mai all'imperatore il suo tentativo di riformare il paganesimo: perciò Giuliano è ricordato dai posteri come “l’Apostata”, ossia colui che ha negato il suo vero credo.
Gli ortodossi, intransigenti seguaci della nuova fede, si accalcano sull'ampio sagrato della Basilica Vetus ossia "l'antica", preceduta da un arioso colonnato corinzio ricavato da un tempio pagano dedicato a Minerva.
Ambrogio, futuro arcivescovo, con il flagello stretto nel pugno dà l'assalto finale alla basilica occupata da Aussenzio, vescovo degli ariani: i seguaci di Ario, profeta berbero, sostengono che il figlio di un Dio unico, eterno ed indivisibile non possa essere considerato a sua volta il Dio incarnato: il concetto confonde le genti, portandole a credere che si tratti soltanto di un nuovo sfogo politeista...
"No!" tuona Ambrogio. "Padre e figlio sono fatti della medesima sostanza", e in base a questo principio lui è pronto a spargere sangue. Una sassaiola esplode tra le colonne di san Lorenzo: l'ascesa di Ambrogio da funzionario a vescovo coincide con il trionfo di quelli che poi saranno chiamati "cattolici", almeno finché i barbari non caleranno portando con sé nuovi riti pagani. Ma il tempo della caduta degli dei dal variegato pantheon tardoantico non è ancora giunto: il nuovo pastore di greggi sconfigge il demonio schiantandolo contro una colonna e ritrova le ossa dei protomartiri Gervasio e Protasio, sbranati nel circo ambrosiano: Ambrogio ha perfino piegato l'imperatore Teodosio, sostenitore di una strage di cristiani da parte dei suoi mercenari ostrogoti presso Tessalonica, in Grecia.
Basilica di S. Ambrogio (Mi) - Il presbiterio
Ambrogio inaugura il potere temporale della Chiesa cristiana. 
Gira perfino la voce che il vescovo, mentre celebrava la consueta messa in basilica, abbia trasportato la sua anima in un luogo lontano: presso Tours, nelle Gallie. Qui Ambrogio avrebbe presenziato ai funerali del suo amico Martino, il famoso santo del mantello donato al povero: gesto estremo di Fede e mistero, la “bilocazione” del santo ambrosiano.
La politica estera, nel mondo antico, è una faccenda all'ordine del giorno.
Il tempo passa: il patriarca, logorato, si chiude  nella nuova basilica dedicata ai martiri; al ritmo dei canti ambrosiani, da lui stesso composti, osserva una serpe di bronzo...
…Nehushtan.
É il rettile forgiato da Mosè nel deserto: una bestia pagana destinata a rivoltarsi contro il suo stesso creatore.
Basilica di S. Ambrogio (Mi) - Il serpente del Giudizio
"Alla fine dei tempi scenderà dalla colonna per raggiungere il luogo dell'Ultimo Giudizio."


A quel punto, i mosaici ambrosiani crolleranno al suolo. Qualche tassello inizia già a staccarsi...forse, l'ora estrema non è poi così lontana...
Quando Ambrogio viene sepolto nella sua basilica, il sottile e complesso gioco della politica imperiale passa dalle mani di un uomo di fede dedito alla politica e alla diplomazia a quelle di un vero uomo d’armi: il generale Stilicone, di sangue per metà romano e metà barbarico, è ardito e ambizioso. Di stirpe vandalica  ma avvezzo da anni alla civiltà classica, il generalissimo si prepara ad affrontare la violenta calata dei Goti del temibile re Alarico. Il barbuto Ataulfo, cognato del re, rapisce la figlia dell'imperatore, e la sposa con la forza.
Il talamo di Galla Placidia, figlia di Teodosio, promette sogni di gloria imperitura: diventare un augusto.
Van Dick - S. Ambrogio si scontra con l'imperatore Teodosio
Stilicone sconfigge i barbari: li ricaccia oltralpe, ma non tutto va per il verso giusto. Lungi dal disintegrare le file dell'orda, si dice che il generale abbia graziato il loro capo Alarico organizzandone la fuga. La situazione, di per sé ambigua, nutre la mente debole e invidiosa di Onorio, figlio vizioso di Teodosio e fratello di Galla Placidia, di idee azzardate e pericolose.
"Stilicone resta pur sempre un barbaro…il cattivo sangue non mente…presto ci tradirà tutti per schierarsi con i suoi simili...Stilicone punta alla corona imperiale…”
Nel 408 a Ravenna il generalissimo è braccato dai sicari di Onorio. In quel preciso momento il giovane imperatore dal viso pallido, incurante degli ordini da lui stesso impartiti e delle loro conseguenze nefaste, si diletta nel suo serraglio, lanciando becchime agli amati pavoni. Tradito dalla falsa promessa per cui sarà risparmiato, Stilicone viene catturato e decapitato: il più grande stratega del tempo si spegne. Non potendo più difendere i confini dalle calate barbariche, Onorio sposta definitivamente la capitale imperiale da Milano a Ravenna: Mediolanum decade.
Dittico di Stilicone (Monza, museo del Duomo)
“Dagli atrii muscosi, dai fori cadenti, dai boschi, dall’arse fucine stridenti” rimerà Alessandro Manzoni, mille e cinquecento anni più tardi, riferendosi alla Milano barbarica in divenire!

Infine, l'era del serpente é davvero giunta, e con essa la caduta degli dei.
Ambrogio, acuto cronista del suo tempo, se n’era già accorto. Sono stati gli Unni, bellicoso popolo proveniente al di là della palude Meotide, oltre l'oceano glaciale, a scatenare l’effetto domino: genti infernali dai crani deformi e dalle guance segnate dal ferro fin dall'infanzia, gli Unni hanno travolto di proposito i popoli stanziati lungo il confine imperiale. Travolgendo dapprima i nomadi Sarmati, metallurgi provetti, e i cavalieri Alani di stirpe iranica, hanno scatenato la fuga di questi, portando il panico tra le popolose tribù germaniche di Ostrogoti, Visigoti, Burgundi, Sciri, Svevi, Franchi, Alamanni e Gepidi. Orde di popoli agguerriti, spaventati e infuriati dalla politica romana del "divide et impera"si riversano sul limes per forzarlo con tutte le loro le armi. Giunta la conferma dei fatti, Ambrogio esclama: «Siamo giunti alla fine del mondo!»

Nehushtan, la serpe di bronzo, scivola giù dalla sua colonna....

Milano cade nelle mani forti e bramose dei Visigoti. Presto altri barbari si aggiungeranno al famoso e sfrenato sacco di Roma: cinquant'anni ancora e Attila, re degli Unni, oserà installarsi tra le rovine del palazzo imperiale della città. La città è presa: Mediolanum capta est. 
Il futuro pare terribile. Sarà proprio così?


S. Eustorgio (Mi) - Cappella Portinari
Marc Pevèn (alias Marco Corrias)


Questo racconto storico, strettamente aderente ai fatti accaduti, inaugura la prima visita guidata dei Viaggiatori Ignoranti a Milano del prossimo sabato 5 marzo.

Per informazioni:

*L’ingresso  ai luoghi in cui è previsto il biglietto è incluso nel prezzo.
*Tutte le foto tranne il dipinto di Van Dick e il Dittico di Stilicone (wikipedia) sono state scattate dal sottoscritto.

A Menorca

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(piccolo fiore, cresciuto sulla terra arida )
Sorgevano candide
gettate nel caos e nell'arsura
di remote sabbie, nell'arida terra d'argilla,
fra il tiepor di muri a secco
e la spuma di una mar divino
desolate come naufraghi
in preda a morte certa.
Eppur gioiose,
eppur vitali
in tal incanto.
Fu estraneo il loro nome
ma giunse fugace nell'essenza
donatami dal maestrale imminente
in uno schiaffo salato
nella breve pace di quel soffio
il senso più puro di speranza
e di quella assoluta tenebrosa bellezza che vi si annida
nell'ignudo istante, nell'eternità mai calante di questa antica terra
matrigna negli occhi di un poeta
madre nel cuor della sua gente.
Sarei morto forse convinto di dormir in quel puro attimo di Vita
svegliato dal Suo Amor
ma infondo è terra o sentimento questo scoglio?


Simone De Bernardin

Padre Pio ed i miracoli della politica del Novecento

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Ci siamo lasciati al 1961 ed alla visita di Monsignor Maccari a San Giovanni Rotondo. Il motivo del viaggio era quello d’indagare circa le voci – contrastanti e preoccupanti – che giungevano dalla Puglia. 
Per comprendere la preoccupazione del Vaticano e della persona di Giovanni XXIII, dobbiamo tornare al 1960. Giovanni XXIII fu informato da monsignor Parente, assessore del Sant’Uffizio, del contenuto d’alcune bobine registrate nel convento e nel confessionale di San Giovanni Rotondo. Il Papa da mesi prendeva informazioni su tre donne, i cui nomi tornavano spesso nella vita di Padre Pio.
Carlo Maccari, inquisitore poi promosso Vescovo d’Ancona, raccolse le accuse contro Padre Pio in un dossier di oltre 200 pagine.
Prima di proseguire nel resoconto cronologico ritengo interessante proporvi uno stralcio dell’intervista a Maccari apparsa sull’Europeo del 16 agosto 1991: «Vi erano tre pie donne che comandavano Padre Pio al punto da renderlo schiavo. Erano loro che smistavano i confessandi. Padre Pio parlava a voce alta e non abbassava la tendina del confessionale. Loro sentivano tutto, sapevano chi era assolto e chi no, andavano in giro a dirlo. Addio segreto confessionale. Queste anime buone si facevano largo ad ombrellate per entrare in chiesa, dicevano che era loro diritto. E poi il traffico delle reliquie, tutte quelle pezzuole intrise di sangue di gallina…».[1]
Monsignor Maccari fece una relazione su tutto ciò che aveva visto in quel convento. Gran parte dei 125 frati aveva un’automobile ed il tenore di vita dei seguaci di Francesco d’Assisi era spropositato. Gruppi di donne sostavano nel convento anche la notte. Vi era un commercio di bende sporche di sangue, che come sappiamo dall’intervista era di gallina, al prezzo di 70.000 euro attuali. [2]
Vorrei tornare all’intervista rilasciata da Carlo Maccari per analizzare un aspetto poco noto: «Andavo spesso a Roma a prendere istruzioni. Mi accompagnavano in macchina alla stazione di Foggia. In molti sapevano i miei orari. Un giorno che ritorno alle prime luci dell’alba accadde un incidente inspiegabile: dietro ad una curva due fucilate colpiscono un’automobile come la mia, targata Roma. Al mio posto è stato ferito un povero bambino malato che andava da Padre Pio».[3]
L’inquisitore ammette pubblicamente di aver rischiato di morire nello svolgimento del proprio incarico. Ricorda molto da vicino la vicenda di Pietro da Verona, ma questa è un’altra storia.
Carlo Maccari era convinto che volessero ammazzarlo.
Il resoconto dell’indagine, e la reazione di Giovanni XXIII, le conosciamo grazie allo scrittore Sergio Luzzatto. Il Papa annota il 25 giugno del 1960 su quattro foglietti, rimasti inediti sino al 2007, le seguenti frasi: « Stamane da mgr Parente, informazioni gravissime circa P.P. e quanto lo concerne a S. Giovanni Rotondo. L’informatore aveva la faccia e il cuore distrutto. ». « Con la grazia del Signore io mi sento calmo e quasi indifferente come innanzi a una dolorosa e vastissima infatuazione religiosa il cui fenomeno preoccupante si avvia a una soluzione provvidenziale. Mi dispiace di P.P. che ha pur un’anima da salvare, e per cui prego intensamente ». « L’accaduto —cioè la scoperta per mezzo di filmine, si vera sunt quae referentur [se sono vere le cose riferite], dei suoi rapporti intimi e scorretti con le femmine che costituiscono la sua guardia pretoriana sin qui infrangibile intorno alla sua persona — fa pensare ad un vastissimo disastro di anime, diabolicamente preparato, a discredito della S. Chiesa nel mondo, e qui in Italia specialmente. Nella calma del mio spirito, io umilmente persisto a ritenere che il Signore faciat cum tentatione provandum, e dall’immenso inganno verrà un insegnamento a chiarezza e a salute di molti ». « Motivo di tranquillità spirituale per me, e grazia e privilegio inestimabile è il sentirmi personalmente puro da questa contaminazione che da ben 40 anni circa ha intaccato centinaia di migliaia di anime istupidite e sconvolte in proporzioni inverosimili ».[4]
Seguirono giornate, settimane e mesi confusi. Iniziarono le proteste popolari guidate dal sindaco di San Giovanni Rotondo, Morcaldi, contro i divieti a Padre Pio. Il Vaticano fu irremovibile nel suo atteggiamento. Anni burrascosi nel rapporto tra Santa Sede e convento di San Giovanni Rotondo. Nel 1962 Emanuele Brunatto tornò a Roma dove incontrò il segretario di Stato, cardinale Ottaviani. In quel periodo Brunatto stava preparando un dossier segreto contro il Vaticano.
Il 3 giugno del 1963 Papa Giovanni XXIII muore.
Il 30 luglio del 1964 il nuovo Papa, Paolo VI, comunicò ufficialmente che a Padre Pio era restituita ogni libertà nel suo ministero. Concesse anche l’indulto per continuare a celebrare, anche pubblicamente, la messa secondo il rito di Pio V.
Quale il prezzo per la completa libertà di Padre Pio?
In contemporanea alla restituzione dei diritti al frate di Pietralcina molteplici attività finanziarie gestite dal cappuccino con le stigmate passarono alla Santa Sede.
Guarino – nel libro Beato impostore – scrive che Paolo VI era un pontefice molto pragmatico e disinvolto, basti pensare a Marcinkus e Sindona. Padre Pio stava per compiere 80 anni. Era opportuno chiudere la contesa tra la santa Sede, da una parte, ed il convento di San Giovanni Rotondo, dall’altra, predisponendosi a raccogliere i frutti materiali dell’operato del frate. Lo IOR redasse due testamenti, che padre Pio firmò a maggio del 1964, ed una dichiarazione pubblica in cui il frate smentiva le varie notizie di stampa sul suo essere segregato. [5]
Non posso concludere la vicenda legata a Padre Pio senza ricordare l’uscita di scena di Emanuele Brunatto, il fedele custode di Padre Pio.
Dopo la vicenda dei magnetofoni nella cella e nel confessionale del frate pubblicò “Il libro bianco”. Correva il giugno del 1963. Brunatto sosteneva l’assoluta estraneità di Padre Pio dalle vicende che lo vedevano implicato. Secondo Emanuele Brunatto l’intento di questa campagna, contro il cappuccino, era di accaparrarsi i soldi che le opere del frate facevano giungere a San Giovanni Rotondo.
La sera del 9 febbraio 1965, Emanuele Brunatto, telefona ad un vecchio amico di Roma pregandolo di andarlo a trovare nel suo appartamento di Via Nazionale. All’amico chiede di prendere in consegna una grande quantità di materiale – tra cui documenti e bobine – e di celarlo in un luogo sicuro. L’interlocutore chiede una notte di tempo per recuperare un’automobile, che dovrà servire per il trasporto dell’ingente quantità di documentazione.
La mattina del 10 febbraio 1965 Emanuele Brunatto è trovato morto nel suo appartamento dalla donna delle pulizie.
La versione ufficiale della polizia afferma che Brunatto è stato stroncato da infarto. Altri sostengono una tesi diversa. Alcuni amici, tra cui un importante imprenditore veneto, parlano di avvelenamento da stricnina.
I documenti? Spariti.
Nessuna notizia su quotidiani nazionali e locali.
In una notte Emanuele Brunatto cessa di esistere, non solo di vivere.
Padre Pio muore nel 1968.
Nei giorni precedenti le stigmate spariscono.
Con molta probabilità per teologi e fedeli la sparizione delle stigmate è da considerarsi un miracolo ancora più grande della loro apparizione.
Il 21 gennaio del 1990 Padre Pio è dichiarato venerabile.
Il 2 maggio del 1999 Padre Pio è beatificato, poco prima del grande Giubileo voluto dal papa venuto dalla Polonia.
Un passaggio interessante, avvenuto durante la causa di beatificazione, attiene alle dichiarazioni di uno dei postulatori alla causa di Padre Pio, Gerardo di Flumeri che, con riferimento alle accuse di lussuria mosse nei confronti del cappuccino, disse: « Le pie donne sue penitenti erano tutte anziane, tutte virtuose e anche tutte prive di qualsiasi attrazione fisica. Eppure tutte furono inquisite da monsignor Maccari con la domanda brutale: avete fatto l’amore con lui? E quante volte? Ci fu una che disse di aver peccato. Padre Pio lo seppe eppure continuò a confessare con quella sventurata. Là tra tanta gente alle volte capitavano anche i matti».
Interessante l’analisi di queste parole.
Con riferimento alle donne, se non fossero state anziane, virtuose e poco attraenti?
Secondo aspetto: qualunque persona non la pensava come volevano a San Giovanni Rotondo era da considerare sventurato e matto?
Il 16 gennaio del 2002 Padre Pio diviene San Pio.
Tra i miracoli riconosciuti per la causa di santificazione: le stigmate, la bilocazione, la profezia e la scrutazione nei cuori dei fedeli.
Il 24 aprile del 2008 il cadavere fu estratto dalla tomba per darlo in visione ai fedeli.
L’evento ha dato una nuova spinta agli affari degli oltre 140 hotel ed affittacamere sorti nei pressi del convento, molti dei quali in deroga al piano urbanistico nell’anno santo del giubileo.
A fianco della salma furono posti distributori automatici di medaglie e ceri.
Il 19 aprile del 2010 la salma di Padre Pio è stata trasferita nella cripta all’interno della chiesa dedicata al santo. Il luogo di riposo è decorato con mosaici ed il soffitto ricoperto di foglia d’oro, ricavato dalla fusione degli ex voto che i fedeli negli anni hanno portato a San Giovanni Rotondo. Tutto questo sfarzo ricordando San Francesco d’Assisi ed il voto di povertà, cui tutti i francescani sono tenuti.
Nel mese di febbraio del 2016 il corpo di San Pio è stato esposto in Vaticano per la gioia di migliaia di fedeli che sono accorsi a fotografare, strofinare sciarpe e fazzoletti, pregare sul feretro che si faceva largo nelle strade di Roma.
Roma medievale.
Roma città eterna.
Alla fine la chiesa vince sempre.
Come concludere questa lunga narrazione sulle vicende del frate con le stigmate?
Risalendo al tempo in cui tutto ebbe inizio. Negli anni precedenti il 1920 Padre Pio fu trasferito, dopo aver ottenuto il congedo di un anno dall’esercito che lo reclamava in vista della guerra, nel convento di Foggia. Le visioni e le lotte con il diavolo erano talmente vigorose da spaventare il responsabile del luogo sacro che decise di scrivere al vescovo di Ariano Irpino, il quale commentò « il Medioevo è finito da un pezzo, e voi credete ancora a queste panzane?».[6]

Fabio Casalini

Bibliografia
- Guarino Mario. Beato Impostore. Kaos edizioni. 1999
- Luzzatto Sergio, Padre Pio. Miracoli e politica dell'Italia del Novecento. Giulio Einaudi editore, 2009
- Renzetti Roberto. San Francesco ed i crimini dei francescani. Tempesta editore. 2013



[1] Intervista a Carlo Maccari apparsa sull’Europeo del 16 agosto 1991
[2] San Francesco ed i crimini dei francescani di Roberto Renzetti. Tempesta Editore. 2013
[3] Intervista a Carlo Maccari apparsa sull’Europeo del 16 agosto 1991
[4] Sergio Luzzatto, Padre Pio. Miracoli e politica dell’Italia del Novecento. Giulio Einaudi editore. 2009
[5] Mario Guarino, Beato impostore. Kaos 1999
[6] Mario Guarino, Beato impostore. Kaos 1999

San Francesco in Pertica, all'ombra dei grandi

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Il Sacro Monte di Varese visto dal Monte San Francesco

Il Sacro Monte (col borgo e la via sacra) ed il Campo dei Fiori (con l'osservatorio, gli edifici storici ed i sentieri), lo sovrastano per fama ed altitudine e così, da punti di vista sia fisici che mentali, non è facile notarlo. Io mi sono resa conto della sua presenza guardando dall'alto, leggendone il nome su una carta escursionistica, un pomeriggio in cui avevo voglia di sgranchire le gambe...
Tutti salgono al Sacro Monte di Varese per la via delle cappelle, un'unica via per tanti tipi di spiritualità: c'è chi è spinto dalla fede e fa un percorso di preghiera, chi è spinto dal benessere fisico e si gode la salita, chi è spinto dal bisogno di "staccare" e va a guardare il mondo dall'alto. Il borgo di Santa Maria del Monte, però, esiste da prima che esistesse la via delle cappelle e chi voleva salirvi aveva a disposizione solo un'altra strada: sarebbe partito dal borgo di Velate e con la compagnia del vicino torrente Vellone sarebbe passato dal Monte San Francesco, prima di puntare alla meta.
Si può ancora scegliere questo percorso ma non molti conoscono il sentiero che parte dall'acquedotto di Velate e prosegue per una salita non molto lunga ma in costante pendenza, regalando in cima al San Francesco un luogo impregnato di storia e di storie: un'area archeologica nel bosco.
L'ingresso nella parte alta dell'area archeologica
Accedendo all'area dalla parte alta si passa tra due cumuli di pietre e pare di varcare una soglia che porta nel passato, conducendo attraverso varie epoche.
I ruderi di una torre fanno partire dall'epoca tardo romana: probabilmente la torre faceva parte del sistema di controllo dell'impero, come le vicine torri di Santa Maria del Monte, Velate e Masnago.
Poi i longobardi: il monte San Francesco (in passato monte di Velate) dovrebbe essere stato denominato "in pertica" in riferimento ad un insediamento longobardo, presso cui era usanza innalzare delle "pertiche" in memoria di chi era morto in battaglie lontane e facendo sormontare il palo da una colomba, rivolta verso il luogo in cui il guerriero era caduto.
Lungo la storia di questo luogo troviamo infine un insediamento francescano, che dall'epoca medioevale ci porta fino al 1612 quando, dopo alcuni decenni di tentennamenti, venne dato l'ordine definitivo di abbandonare il luogo. Voci di dubbia moralità, degrado, fatti di furti ed omicidi, l'avvio della nuova (più attraente e "comoda"), via delle cappelle... tra documenti e sussurri, declino e novità, pare proprio che il destino di questo luogo dovesse essere quello dell'abbandono.
Uno scorcio dell'area archeologica
Io sono una piccola curiosa ma pur non sapendomi addentrare nel profondo della storia ora, nonostante il Campo dei Fiori e Santa Maria del Monte attirino l'attenzione, la prima cosa che cerco quando lo sguardo volge da quelle parti è il Monte San Francesco: ci sono storie più ricche e celebrate, luoghi meglio conservati e paesaggi più ampi da ammirare ma il gusto di conoscere un piccolo luogo che molti ignorano, per me, è insuperabile.
Se però questa manciata di parole e fotografie incuriosiranno qualcuno e questo monte diventerà un po' meno sconosciuto, sarò comunque felice!
Il Campo dei Fiori visto dal Monte San Francesco
Arrivederci al prossimo post,
Anna Bernasconi 
(blog personale annabernasconi.blogspot.com)

Nota:
si arriva all'area archeologica anche più rapidamente, dal sentiero che si dirama in discesa lungo la strada asfaltata per l'Osservatorio Astronomico del Campo dei Fiori. Consiglio però il percorso che ho descritto nel mio racconto, lasciandosi coinvolgere dal silenzio della salita, dai dettagli del bosco e cogliendo l'occasione per visitare anche il borgo di velate Velate, comprese la torre (oggi bene del FAI) e la sottostante chiesa di San Cassiano (occasionalmente aperta), che conserva una statua della Madonna forse originaria del monastero del monte San Francesco.
Bibliografia:
-per chi volesse approfondire consiglio "Monte San Francesco Sopra Velate", di Andrea Gianugi, acquistabile anche in versione e-book.
-per i curiosi frettolosi si trova sul web la piccola guida "Il Monte San Francesco" realizzata per la serie "Le Meraviglie di Varese" da alcuni volontari del Servizio Civile Nazionale.

Interconnector e il ramo su cui siamo seduti

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I Viaggiatori Ignoranti nascono dall'amore per un territorio, quello dell'Ossola. Un territorio che racchiude bellezze artistiche, naturali e una ricchezza culturale spesso non sospettata eppure viva, carsicamente viva, potremmo dire, che richiede la curiosità dell'esploratore per essere scoperta.  
Accade oggi che questo territorio (non diversamente da molte altre parti del Paese, purtroppo) sia minacciato da un progetto che rischia di deturpare spazi di alta montagna integri e di grande valore naturalistico, paesaggistico e turistico. Parliamo del famigerato Interconnector Svizzera-Italia "All'Acqua-Pallanzeno-Baggio", che prevede la costruzione di un nuovo elettrodotto da 380 kV, presentato nel 2014 dalla Società TERNA Spa (l'azienda italiana per la trasmissione in esclusiva dell'energia elettrica).
In particolare, si tratta di un doppio elettrodotto che, dal Passo San Giacomo in Valle Formazza scenderebbe a Pallanzeno, dove verrebbe costruita una grande centrale di conversione - occupando una superficie di 115,000 metri quadrati peraltro in area con vincolo idrogeologico a rischio esondazione - per proseguire il percorso sino a Baggio di Milano/Settimo Milanese, dove verrà costruita un'altra grande centrale di conversione nel Parco agricolo Sud Milano. Vogliamo dare qualche numero? Il percorso dell'elettrodotto sarà lungo 160 Km, con tralicci alti tra i 40 e i 60 metri dove il fascio di fili elettrici in altissima tensione sarà composto da un numero di cavi di corrente fino a 12 (doppia terna su due linee) più 1 di guardia. Verranno posizionati quasi 400 tralicci tra Formazza e Pallanzeno, per la costruzione e il controllo futuro dei quali saranno necessarie le solite infrastrutture al contorno quali strade di accesso, gettate di cemento, passaggi in elicottero e quant'altro.


Dall'immagine scattata verso il passo San Giacomo è possibile vedere l'enorme differenza di dimensioni tra i vecchi tralicci italiani del 1954 a 220 kV (davanti) e quelli nuovi svizzeri a 380 kV (dietro). Non solo: sapete perché i fili dei nuovi tralicci viaggiano così in alto? Perché a causa dell'altissima tensione (380Kv), a una distanza di quattro metri dai fili si muore fulminati e forse basta questo "piccolo dettaglio" per dare un'idea dell'impatto ambientale di un'opera come questa. La zona del lago Kastel, dei laghi del Boden, dell'Alpe Ghighel, della Cravariola, di Matogno, della Val Agarina, sono le aree interessate da questo progetto, aree dal grande valore paesaggistico - appartenenti peraltro in gran parte alla Rete Natura 2000 - ma non antropizzate e, proprio per questo, paradossalmente considerate adatte alla realizzazione di questo tipo di opera.

Ora, perché accade tutto questo? A che cosa serve Interconnector? Qual è l'obiettivo di Terna? In teoria il tutto è pensato per importare energia dalla Svizzera, Paese che, in realtà, ha deciso di rinunciare all'energia nucleare a partire dal 2019, con la dismissione successiva delle sue cinque centrali: La centrale nucleare di Beznau I nel 2019, quella di Beznau II e Mühleberg nel 2022, Gösgen nel 2029 e Leibstadt nel 2034. Queste centrali sono quelle che ancora oggi producono quel surplus di corrente elettrica che fa gola al mercato energetico, in quanto svenduto con percentuali di sconto che oscillano tra il 25 e il 30%. Il progetto Interconnector Svizzera-Italia 380 kV di Terna SpA nasce proprio con questo obiettivo: importare energia a minor costo per favorire i grandi consumatori, le industrie così dette energivore. Il tutto a un prezzo di favore (per loro), perché sta di fatto che siamo noi contribuenti a dare un cospicuo contributo alla realizzazione di queste opere, semplicemente pagando la bolletta elettrica. 
Ma andiamo con ordine: in teoria, dovrebbero essere le stesse aziende energivore ad accollarsi l’investimento di questi elettrodotti, come afferma l’articolo 32 della legge 99/2009, che prevede la possibilità di realizzare un potenziamento dei collegamenti con i Paesi confinanti attraverso interconnessioni elettriche finanziate da privati, le Interconnector, per l’appunto. In realtà, però, non accade così perché noi contribuenti stiamo già pagando una notevole quota parte di questa spesa, se si pensa che l’ordine dell’importo oscilla tra i 2,5 e i 3 miliardi di euro in sei anni (ovvero 400-500 milioni di euro all’anno).” 
Il contributo che viene destinato al progetto Interconnector è visibile sulla bolletta alla voce “dispacciamento”, una voce complessa e controversa – a proposito della quale non entreremo nei dettagli in questa sede - che, normalmente, comprende i costi necessari a far sì che la giusta quantità di energia arrivi sempre dove c’è bisogno, evitando che possano verificarsi black out e interruzioni del servizio. 
A proposito della quota “dispacciamento” destinata agli Interconnector, una fonte interna di Terna ha recentemente rilasciato la seguente dichiarazione al portale Qualenergia.it“il costo degli interconnector, circa 500 milioni di euro annui, sono sconti sull’elettricità che già anticipiamo ai privati che stanno finanziando nuove connessioni elettriche con l’estero”. 
La concessione dell’elettrodotto ai privati avrà una durata di vent’anni, al termine dei quali dovrà essere ceduto nuovamente a Terna, a un valore che non dovrà essere superiore a quello di costruzione o di primo acquisto. Ora, oltre al fatto che non è chiaro che cosa potrebbe succedere qualora le imprese coinvolte dovessero rivelarsi insolventi, c’è un altro fatto di non poco conto da considerare. La stessa Terna, infatti, ammette che il nostro Paese è in overcapacity, e cioè che in Italia ci sono quasi 25 GW di potenza elettrica in eccesso, pari a circa il 50% del fabbisogno del Paese. Il punto è che i consumi energetici, essenzialmente a causa della crisi economica, sono in calo dal 2008 e questa tendenza non si è ancora arrestata. 
Come spesso accade, la legge che favorisce questo tipo di infrastrutture è nata “in tempi non sospetti” e quindi prima del crollo dei consumi a cui ancora oggi assistiamo, ma a questo punto ci si ritrova uno scenario completamente diverso che non permette di giustificarla. Se in futuro non troppo lontano questi cavi non fossero più necessari, avremmo l’ennesima cattedrale nel deserto? 
Ma è di pochi giorni fa, inoltre, la notizia che Terna ha richiesto una sospensione di 10 mesi del processo di valutazione di Impatto ambientale. Una sospensione che sembra essersi resa necessaria per completare gli studi in materia per l’appunto ambientale che devono essere forniti al ministero. Una buona notizia, senza dubbio, che può dare un po’ di respiro a chi nel frattempo, e per fortuna, dice ad alta voce il suo no. Il comitato Salviamo il Paesaggio Valdossola sta infatti organizzando una serie di incontri per sensibilizzare l’opinione pubblica sull’argomento. Un incontro è in programma a Villadossola venerdì 11 marzo all’ex Cinema, organizzato dall'Associazione “Dire, Fare, Cambiare”. Altri ne seguiranno, con un calendario che sarà reso noto. 
Chi scrive spera che siano sempre di più le persone che avranno voglia di dire no. No a un modello di crescita superato, no alle grandi opere che non fanno bene a nessuno, no a un intervento dall’utilità quanto meno dubbia, ma dall’impatto ambientale certo, con conseguenze pesantissime su aree incontaminate che dovrebbero essere la nostra ricchezza. No, infine, alla distruzione cieca di un territorio che – non dimentichiamolo – è e rimane il ramo su cui siamo seduti, l’unico, peraltro. 

Per restare sempre aggiornati su Interconnector seguite la pagina Facebook dedicata

Simonetta Radice

Si ringraziano Sonia Vella e Filippo Pirazzi per il materiale e le esaurienti spiegazioni.

Binario 21

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Come ho spesso avuto modo di dire, Milano ha ritmi serrati e incalzanti, gli abitanti camminano distratti a testa bassa assorti da mille preoccupazioni, mentre la città nasconde luoghi di cui molti ignorano l’esistenza. 
Avevo in mente da molto tempo di visitare il tristemente famoso binario 21, un tempo utilizzato per il carico e lo scarico dei pacchi postali e delle lettere poi smistate dal palazzo delle poste, che imponente affianca la stazione in Via Ferrante Aporti.
La memoria deve correre agli anni della guerra quando fu testimone delle deportazioni di ebrei nei campi di sterminio nazisti.

Il luogo non è particolarmente pubblicizzato e dall'esterno sembra essere una parte della stazione un po’ più pulita, ma una volta dentro si ripercorrono i peggiori momenti della storia più recente. 
All'ingresso si viene accolti da un’enorme scritta, una sola parola: INDIFFERENZA, che ricorda il sentimento di molte persone nei confronti di ciò che stava accadendo.
Nelle sale contigue, invece, insieme alle tappe principali che hanno funestato la storia Europea sono raccolti racconti e testimonianze di decine di persone in fuga o imprigionate nei campi di concentramento e che difficilmente hanno rivisto casa. 
Più indietro i binari dell’epoca sui quali sono stati lasciati alcuni convogli originali utilizzati per il trasporto delle persone verso i campi di concentramento. 
Sul muro, dietro ai convogli, sono proiettati i nomi delle oltre 700 persone che partirono da quel binario: in bianco le vittime e in giallo i sopravvissuti poco più di una ventina. 
I nomi non sono statici ma vengono messi in evidenza a rotazione, per restituire dignità a queste persone.
Una visita molto toccante che non riesco a raccontare con le mie parole, lascio allora spazio a quanto ho letto su una delle molteplici targhe a imperitura memoria di questa strage. 
È il 30 gennaio 1944 mattina. Milano è gelida e deserta. 
Nella totale indifferenza 605 esseri umani sono spinti sui camion che li aspettano nei cortili di San Vittore, il carcere nei cui raggi - il IV e il V - hanno soggiornato per settimane. 
Da lì sono condotti alla Stazione Centrale, attraverso il sottopassaggio di via Ferrante Aporti, fino a un binario fantasma nascosto, sul quale sono fermi ad aspettarli i vagoni speciali: carri bestiame dove vengono stipati con furia, fischi, latrati di cani e urla di altri esseri umani, italiani e tedeschi, che ritengono giusto compiere il proprio dovere con la violenza e la fretta necessarie per comporre il convoglio RSHA destinato al campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau.
È urgente alimentare la macchina della morte perché gli ebrei vanno cancellati dalla faccia dell’Europa indipendentemente dagli altri obiettivi di guerra.
L’operazione è già stata collaudata il 6 dicembre 1943, e sarà ripetuta altre volte, per un totale di 15 trasporti. 
Solamente i primi due compiranno il tragitto Milano-Auschwitz in un’unica tratta, gli altri faranno scalo in stazione o campi di concentramento intermedi prima dell’avvio definitivo alla “soluzione finale”.
Nessuno degli aguzzini si ribella su quel binario, anche se fra quei 605 ci sono tanti bambini, persino un neonato. 
Ci sono anziani, donne e uomini stremati e spaventati, famiglie intere, madri e padri che cercano di proteggere i propri figli che non piangono più per non straziare ulteriormente i propri genitori.
Quelle 605 persone salite sul convoglio, il 30 gennaio 1944 non furono incarcerate e condannati a morte per gravi crimini di guerra, ma solo perché ritenute di “razza” inferiore, di “razza ebraica”.
Era gente comune, come voi, che oggi state viaggiando nelle loro storie, nella Storia degli anni 1938-45 e nelle vostre coscienze di donne e uomini liberi.
A loro, oltre ciò che avevano addosso, erano rimaste le poche cose sopravvissute ai tentativi di fuga, ai sequestri, alla guerra e, forse, la segreta speranza che ciò che stavano vivendo fosse solo un terribile incubo. 
Speranza che subito e dolorosamente abbandonarono su quel binario fantasma della Stazione Centrale di Milano, la città in cui molti di loro erano nati e cresciuti! 
Prima di iniziare a viaggiare nel tempo provate a considerare quella libertà negata. Voi oggi siete liberi di studiare, di lavorare, di ascoltare la radio, di parlare al telefono, di innamorarvi di chi vi pare, di sognare, di vivere una vita normale insieme alla vostra famiglia.
A quelle 605 persone E alle altre 7000 circa deportate dall’Italia, tutte queste ovvie libertà furono negate con le Leggi speciali per la Difesa della Razza, approvate all’unanimità dal Parlamento e sottoscritte oltre che da Mussolini anche dal re, già nel 1938.
A partire dall’autunno del 1943, con l’invasione nazista dell’Italia Centro-Settentrionale e la nascita della Repubblica di Salò, fu tolta loro anche la libertà di esistere.
Da quell’indicibile esperienza riemerso in pochissimi. Soli, sopravvissuti, tornarono e non trovarono più i genitori, i nonni, i figli nemmeno le loro case. Gli “altri” non erano neppure disposti ad ascoltare le loro storie, troppo scomode e dolorose per gente che, dopo le privazioni della guerra, aveva voglia di ricominciare una vita normale.
La mostra del Binario 21 della Stazione Centrale di Milano è pertanto dedicata a chi è partito e tornato nel silenzio, ma soprattutto a chi non è mai tornato. 
È dedicata anche a Milano. Da quel binario dimenticato della sua grande Stazione Centrale potrebbe ripartire un treno diverso: dipende anche da ciascuno di noi che questa mostra rappresenti solo l’inizio del suo viaggio e la nascita di un luogo della memoria per una Milano più degna, più vera, più umana.

Marco Boldini

Un faraone ribelle di nome Mosè

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San Pietro in Vincoli, Roma. Statua di Michelangelo
Alcune visioni tornano sempre, ti tormentano per giorni, settimane e mesi.
La scultura che Michelangelo ha dedicato a Mosè, presente all’interno della chiesa di San Pietro in Vincoli di Roma, appartiene a quella rarissima schiera d’enigmi e visioni che non abbandonano mai il nostro essere. 
Le corna si rifacevano al semplice errore di traduzione?
Potevano commettere errori simili?
San Gerolamo tradusse il testo ebraico della Bibbia nella vulgata. Tale versione rimase ufficiale per molti secoli. La frase che Gerolamo tradusse dal libro dell’esodo, ignorabat quod cornuta esset facies sua in altre parole ignorava che la sua faccia fosse cornuta, sembra essere la base, fonte d’ispirazione, per molti artisti.
Ritorno a Roma, almeno con il pensiero.
La statua trova fondamento nell’episodio biblico dell’esodo. A Mosè fu affidata la missione di condurre il popolo eletto fuori dei confini dell’Egitto, luogo nel quale vivevano in schiavitù, per guidarli verso la terra promessa dove Mosè avrebbe fondato una nazione basata sul monoteismo. Mosè ed il suo popolo iniziarono un lungo viaggio dall’Egitto verso ovest, in direzione dell’attuale Israele. Attraversarono il deserto del Sinai per accamparsi alle pendici del Monte dove al prescelto apparve Dio. Mosè ridiscese il Monte con in mano le tavole della Legge, fondamento della morale Giudaico – Cristiana.
Questo passaggio biblico è da tutti conosciuto, le interpretazioni si sprecano per il passaggio successivo: quando il prescelto si avvicina all’accampamento si rende conto che i suoi uomini sono ritornati al culto politeista e, preso dalla rabbia, lancia violentemente le Tavole della Legge, rompendole al suolo.
Supposizioni ed idee si alternano nella mente.
Il faraone Amenofi IV o Ekhnaton presso il Museo del Cairo
All’improvviso un vivido ricordo di nome Amenofi IV, che chiamò se stesso Ekhnaton.
Al nome di Mosè è legata l’idea del monoteismo tuttavia non fu il primo ad affermare la rivoluzione monoteistica, bensì il faraone Ekhnaton, che regnò in Egitto nel XIV secolo.
Incredibile concatenazione d’ipotesi ed idee.
Di Mosè non sappiamo se sia realmente vissuto, ma la memoria del suo nome ha accompagnato per secoli la civiltà giudeo–cristiana. Di Ekhnaton sappiamo con esattezza quando e come è vissuto, ma subito dopo la morte gli oppositori ne condannarono la memoria con ferocia tale che solo recentemente gli egittologi sono riusciti a ricostruire le sue gesta.
Uomo della memoria. Uomo della storia.
Devo approfondire gli eventuali legami, ove essi esistono.
Amenofi IV fu faraone egiziano della XVIII dinastia (tra il 1370 ed il 1340 circa prima dell’avvento di Cristo). Dai primi anni del regno cercò di contrastare lo strapotere dei sacerdoti del dio Amon introducendo il culto dell’antico dio Aton. Nel sesto anno del regno il faraone modificò il proprio nome in Ekhnaton – colui che è utile ad Aton – ed abbandonò la città di Tebe, fondando la nuova capitale Akhetaton – l’orizzonte di Aton – o El Amana. Nel nuovo regno abolì il politeismo ordinando che fosse adorato il solo dio Aton.
Il suo regno finì in modo oscuro.
Il faraone Ekhnaton e la famiglia mentre porgono doni al dio Aton, Museo del Cairo
Poco dopo la sua morte, si presume nel 1338 avanti la venuta di Cristo, il suo nome fu cancellato dagli elenchi dei Re, furono abbattuti i suoi monumenti, distrutte le sue raffigurazioni e le sue epigrafi.
Fu eliminata qualsiasi traccia del suo passaggio nel mondo.
Per millenni si perse il ricordo di Amenofi IV o Ekhnaton.
Fu riscoperto nel XIX secolo.
Mosè rappresenta il caso opposto.
Non si sono mai trovare tracce della sua esistenza terrena. Egli crebbe e si realizzò come figura del ricordo, accogliendo in se tutte le tradizioni che riguardavano la legislazione ed il monoteismo.
Nel momento della riscoperta di Ekhnaton apparve chiaro che, il faraone, aveva fatto qualcosa di simile a quanto il ricordo aveva attribuito a Mosè: aveva demolito le immagini del politeismo egizio ed aveva istituito il culto monoteistico del nuovo dio Aton.
Freud percorse un cammino di conoscenza dell’uomo Mosè: ne fece un seguace della religione monoteistica del Dio Aton, senza mai identificarlo con Ekhnaton.
L’equiparazione diretta del faraone senza ricordo e del Mosè senza storia fu spesso proposta. [1]
In questa ricerca possiamo affermare che era Ekhnaton il Mosè egizio?
“Solo la fantascienza può tranquillamente rispondere in modo affermativo a simili domande”.[2]
E’ possibile trovare un fondamento storico alla relazione tra monoteismo egizio e Mosè?
La rivoluzione di Ekhnaton fu non soltanto il primo, ma anche il più radicale manifestarsi di una contro-religione nella storia dell’umanità. I templi furono chiusi e le immagini sacre bruciate. La caduta degli Dei deve essere stato uno shock per una società convinta che il benessere del paese dipendesse dallo svolgimento dei riti nei luoghi sacri del paese.
La storia ci ricorda che Ekhnaton, conosciuto come il faraone ribelle, fondò una nuova capitale a sud del Cairo. La città prese il nome d’Amarna. I seguaci del faraone sono un’esigua minoranza del popolo, che resta fedele al culto politeista.
Chi seguì Ekhnaton? Pochi egizi, alcune razze africane e la quasi totalità degli Hyksos, discendenti di tribù semite che alcuni secoli prima avevano invaso l’Egitto dominandolo per due dinastie. Lo storico Giuseppe Flavio vide in questi dominatori stranieri gli antenati d’Israele. [3]
Diciassette anni di governo e poi Ekhnaton scomparve nel nulla.
Ekhnaton e la moglie Nefertiti, museo di Berlino
Il politeismo egizio si accanisce verso di lui con quella che si potrebbe chiamare damnatio memoriae: tutti i simboli del suo passaggio sulla terra scompaiono, distrutti dalla restaurazione degli antichi culti.
L’uomo della memoria ed il faraone della storia.
Un tassello ulteriore nella ricostruzione ci viene da Strabone, geografo e storico greco. Secondo questa ricostruzione un sacerdote egizio, di nome Mosè, decide di abbandonare il paese perché insoddisfatto della religione egizia ed emigra in Giudea con un folto stuolo di simpatizzanti. Mosè rifiuta la tradizione egizia che rappresenta gli dei in forma d’animali. La sua dottrina consiste nel riconoscere che “Dio è quell’essere unico che abbraccia noi tutti e la terra e il mare, che noi chiamiamo cielo e terra e natura delle cose”.[4]
Secondo lo storico greco non vi è sovrapposizione tra Mosè ed il faraone ribelle, ma racconto di un uomo, sacerdote egizio, che decide di portare con se, in una sorta d’Esodo, un gruppo di persone per creare una nuova religione.
Potrebbe esserci un’altra ipotesi a suffragare l’identificazione tra i due personaggi: se un’insurrezione popolare costrinse il faraone ribelle ad abbandonare l’Egitto per stabilirsi in Palestina, non sarebbe rispettata la memoria dell’Esodo?
Esistono documenti che comprovano quest’ipotesi?
Tutankhamon
Per chiudere con le domande, se la maledizione - Tutankhamon [5]non fosse tale?
Dato che le superstizioni appartengono ad altri e non allo scrivente, nelle prossime settimane parleremo dello scandalo – Tutankhamon.
Chi in Egitto trova Dio risolve il grande enigma.

Fabio Casalini


Bibliografia
Jan Assmann, Mosè l’egizio. Adelphi edizioni, Milano. 2000

Messod e Roger Sabbah. I Segreti dell'Esodo. L'origine Egizia degli Ebrei. Marco Tropea Editore 2005
Philippe Aziz, Mosè et Akhenaton. Les énigmes de l’univers. Laffront, Paris. 1980

Sigmund Freud, L'uomo Mosè e la religione monoteistica. Torino, Bollati Boringhieri, 2002

La prima fotografia è stata scattata da Fabio Casalini.
Tutte le altre immagini derivano dalle pagine di Wikipedia.



[1] Philippe Aziz, Mosè et Akhenaton. Les énigmes de l’univers. Laffront, Paris. 1980
[2] Jan Assmann, Mosè l’egizio. Adelphi edizioni, Milano. 2000
[3] Jan Assmann, Mosè l’egizio. Adelphi edizioni, Milano. 2000
[4] Strabone, Geographica, XVI.
[5]Con il termine Maledizione di Tutankhamon viene indicata una presunta maledizione che avrebbe colpito inaspettatamente tutti coloro che parteciparono alla ricerca ed alla scoperta, da parte dell'archeologo Howard Carter, della tomba del faraone come castigo della violazione del luogo di sepoltura del sovrano.

Il santo che perse la testa

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Storia di un legame inscindibile con il territorio e la sua gente
Tra Val Marchirolo e Valganna, intorno all’anno 1047
Sembra placida la notte, non un rumore che rompe il silenzio. Eppure in questo accampamento tutti vigilano. Il nobile vescovo, mio zio, è stato avvertito del pericolo che incombe, dei rischi che comportano questo viaggio e la sosta in queste valli selvagge. 
Le terre incolte e montuose dell’alto Seprio sono il covo ideale per i briganti, terreno perfetto per scorribande; una strada che incessantemente vede passare viaggiatori e pellegrini di ogni sorta non può che essere un richiamo irrefrenabile. Cercano pellegrini come noi, in questa nostra discesa verso Roma. Mio zio, uomo del Nord, desiderava ardentemente intraprendere questo viaggio verso la città eterna per rendere omaggio alla tomba di San Pietro e recare in dono preziosi tesori per il Santo Padre. I rischi sono tanti, la fatica divora le membra, i delinquenti si aggirano a ogni angolo di strada, ma questo pio voto va esaudito a ogni costo. Io e il mio compagno Imerio vigileremo la comitiva di pellegrini, proteggeremo i nostri tesori e difenderemo il vescovo mio zio, che già ora starà stazionando non lontano da San Vittore. La stanchezza ci sfinisce, i lunghi giorni di cammino iniziano a pesare, ma non possiamo permetterci di cedere proprio ora: siamo la retroguardia della comitiva del nobile vescovo e il nostro compito è vegliare.
Ecco, all’improvviso il silenzio della notte è squarciato da scalpiccio di cavalli, urla, parole sacrileghe. I briganti… Ci hanno sorpresi, fuggono con i nostri tesori destinati a Roma. Non c’è tempo da perdere, lo leggo nello sguardo del fedele amico Imerio e, senza dire una sola parola, saliamo sui cavalli e ci lanciamo all’inseguimento. Com’è difficile correre nella notte quando non una sola luce ti guida, quando i percorsi sono pieni di insidie, dove ogni masso, ogni ramo, ogni corso d’acqua rappresenta un ostacolo. Non ci diamo per vinti, la folle corsa prosegue tra boschi e paludi, ma alla fine riusciamo a braccare il gruppo di briganti, là dove le acque stagnanti cedono il posto al terreno impervio, dove le viscere della terra si riversano continuamente in superficie sotto forma di copiose sorgenti. Le risate sfacciate e le bestemmie di quella masnada sembrano confondersi con lo scroscio cantilenante del fiume. Ormai siamo faccia a faccia. Ma non farò come loro, non userò la violenza. In nome di Nostro Signore chiederò di restituire il maltolto. La risata inopportuna di uno di loro, che chiamano “il Rosso” mi colpisce come uno schiaffo, graffianti sono le sue parole: “E tu saresti disposto a perdere la testa per il tuo Signore?”
Una forza dentro di me mi fa rispondere senza esitazioni: “Sì, sono pronto anche a perdere la testa”.
Un attimo che sembra eterno, mentre la mia ancor breve vita mi scorre davanti agli occhi, vedo un pugnale conficcato con violenza nel petto del mio fedele amico Imerio. Non riesco nemmeno a gridare il suo nome, qualcosa di freddo e allo stesso tempo bruciante mi colpisce al collo, vacillo, l’acqua del fiume mi accoglie, sono avvolto da un velo rosso sangue… Il mio sangue? Poi il silenzio.
Ganna, intorno al 1095

Attone, Ingizone, Arderico, tre canonici provenienti da Milano giungono nell’inospitale fondovalle, invaso da brughiere e paludi. Hanno un compito importante, scritto nero su bianco in una bolla arcivescovile vergata da Arnolfo III: fondare una comunità monastica intorno alla chiesa di San Michele di Ganna. Per gli abitanti del posto riveste un grande significato: tempo addietro quel luogo è stato testimone di un fatto prodigioso. Le voci parlano di un pellegrino di nome Gemolo, nipote di un vescovo del Nord Europa, decapitato selvaggiamente da un gruppo di briganti nel tentativo di salvare i beni che lo zio intendeva portare come offerta a Roma. Il giovane scelse di morire martire, in nome di Nostro Signore e il Signore operò il miracolo: Gemolo raccolse la testa e, in sella al suo cavallo, andò incontro allo zio vescovo. L’incontro avvenne ai piedi del monte Mondonico, che sovrasta Ganna. Giusto il tempo di una benedizione, e Gemolo spirò, ma ricevette degna sepoltura in quel luogo. Da quel momento i prodigi si moltiplicarono, tanto che il vescovo decise di costruire sul luogo della sepoltura di Gemolo una piccola chiesa dedicata a San Michele…
Ganna, 2016

Sul ciglio della strada che conduce a Ganna, in una piccola radura tra i boschi, si trova una piccola cappella, munita di portico sorretto da due massicce colonne poligonali. Sul retro, una nicchia ospita un mosaico di recente fattura, che raffigura un uomo a cavallo nell’atto di ricollocarsi la testa, appena mozzata, sul collo. È qui il primo ricordo tangibile del martirio di San Gemolo e sembra che il fatto sanguinoso si sia compiuto proprio nei paraggi, dove ora si trova la sorgente dei sassi rossi. Ancora oggi, tra le acque cristalline, rilucono sassi screziati di un vivo colore rosso. Si racconta infatti che sia il sangue di Gemolo, che con il suo martirio rese sacre queste acque. Gemolo è il santo dell’acqua: a ribadire il legame con questo elemento fu la scoperta, durante il XIV secolo, di una nuova sorgente proprio mentre si gettavano le fondamenta della cappellina a lui dedicata. Ancora oggi, accostando l’orecchio alle finestrelle, è possibile udire il gorgoglio incessante dell’acqua che scaturisce da sotto l’altare. Pare inoltre che in passato, durante i periodi di siccità, la gente di Ganna si recasse in pellegrinaggio alla sorgente per raccogliere di quest’acqua e spargerla sui campi, invocando la pioggia.
Oltre la cappella trecentesca e la sorgente dei sassi rossi, ha inizio il percorso del sangue, la strada che Gemolo intraprese con il capo mozzato per andare incontro alla zio vescovo, e che porta direttamente alla badia.
Sono passati più di mille anni dalla prima menzione del luogo di culto, nella bolla arcivescovile di Arnolfo III. Con il tempo la paupercula ecclesia si è ingrandita, fino a trasformarsi in complesso monastico e ad assumere l’aspetto attuale. Il periodo di splendore si protrasse per tutto il Medioevo. Ganna entrò nell’orbita dell’abbazia di Fruttuaria ed estese i suoi beni e la sua influenza in buona parte del varesotto e in alcune aree del Canton Ticino. Il declino iniziò alla fine del Quattrocento, con la trasformazione della badia in commenda. Nel 1556, i monaci furono allontanati, tutti i beni ceduti all’Ospedale maggiore di Milano e la badia fu affidata al clero secolare.
La Valganna deve molto alla presenza della comunità benedettina: furono infatti i monaci a modellare il paesaggio, a bonificare le paludi e a rendere queste terre più vivibili. La badia ancora oggi si specchia nelle acque del rio Margorabbia, con i suoi volumi degni di una fortezza. Pare infatti che in origine il complesso fosse fortificato e munito di torri, delle quali resta traccia nel campanile, un manufatto di ottima fattura, datato intorno al 1150. Varcando il portone di ingresso ci si rende subito conto della particolare organizzazione degli spazi: una cinta più ampia a cinque lati racchiude a sua volta gli edifici claustrali veri e propri, che si sviluppano intorno a un chiostro, anch’esso pentagonale. Tante ipotesi sono nate intorno alla struttura più unica che rara del chiostro, senza tralasciare questioni esoteriche legate al numero cinque e alla figura del pentacolo. Tuttavia sembra che la motivazione fosse di tipo pratico: era necessario seguire la conformazione irregolare del terreno. Infatti l’aspetto odierno del chiostro è il risultato di due interventi avvenuti in epoche diverse: i tre lati adiacenti la chiesa mostrano eleganti arcate gotiche, sorrette da pilastri a sezione esagonale in mattoni, riconducibili al XIV secolo. I due restanti lati, caratterizzati da archi a tutto sesto e robusti pilastri, sono un’aggiunta posteriore, probabilmente del XVII secolo, forse un rifacimento a seguito di un crollo.
La chiesa abbaziale è la parte che più di tutte ha subito alterazioni. I vari interventi l’hanno portata all’odierna struttura a tre navate scandite da pilastri. A prima vista potrebbe sembrare una chiesa anche un po' troppo anonima, di sicuro pesantemente rimaneggiata, ma subito si è come attratti magneticamente dalla prima campata della navata destra. Infatti qui si trovano le testimonianze storicamente più degne di nota. Sulla parete di fondo, campeggia una bella Madonna della Misericordia quattrocentesca, abbigliata con vesti candide ornate di ricami dorati. Due angeli le posano la corona sul capo e reggono cartigli nastriformi sui quali, in caratteri gotici, sono scritte formule che inneggiano alla regalità di Maria. Fedele alla tradizionale iconografia, la vergine copre con il suo manto una schiera di devoti e fedeli: uomini alla sua destra, donne alla sua sinistra. Nonostante l’affresco sia mutilo per l’apertura di una nicchia, appare subito evidente la buona conservazione (non fu mai coperto dallo scialbo) e la qualità della fattura, leggibile sui volti dei personaggi e sui dettagli delle vesti. Sulla volta della campata, parzialmente leggibile a causa dello scialbo, è raffigurato l’orifiamma contenente il trigramma ihs, testimonianza della grande eco che ebbero nel varesotto le prediche di San Bernardino da Siena. 
Accompagnano l’orifiamma alcune figure clipeate: nei tondi più grandi si trovano i dottori della chiesa (riconoscibile San Girolamo) e nei tondi più piccoli probabilmente gli evangelisti. Altre figure ornano i piedritti e l’intradosso dell’arco che porta alla seconda campata: si tratta di quattro sante, quasi a grandezza naturale. Quattro figure enigmatiche, che con lo sguardo sembrano seguire il visitatore, realizzate tutte dalla stessa mano, probabilmente all’inizio del XVI secolo. Sui piedritti, l’una di fronte all’altra, si trovano le martiri Agata e Apollonia (la figura più compromessa e parzialmente asportata): reggono lo strumento del martirio, lo stesso per entrambe, la tenaglia. L’intradosso invece vede raffigurate altre due sante, martirizzate per decapitazione: Santa Giuliana, che schiaccia il demonio sotto i piedi, e una rara Santa Dorotea, che reca una cesta colma di fiori. Quattro emblemi del femminile, quattro guardiane a custodire questa intima grotta sorvegliata dalla Madonna della Misericordia. Sante che hanno versato il sangue con il loro martirio, quasi a voler sottolineare questo legame di sangue con San Gemolo. San Gemolo, il santo delle acque telluriche, da sempre legate al principio femminile. Un legame che sembra rafforzarsi se si considerano i giorni dedicati ai santi qui ricordati: San Gemolo 4 febbraio, Sant’Agata 5 febbraio, Santa Dorotea 6 febbraio, Sant’Apollonia 9 febbraio e Santa Giuliana 16 febbraio. Coincidenza, casualità? Purtroppo non abbiamo gli elementi sufficienti per comprovarlo…
Forse la chiesa ha tanto altro da svelare, celato sotto gli intonachi di epoca tardorinascimentale. Come, per esempio, il bel volto del Cristo Re, nella seconda campata della navata sinistra, risalente al Trecento. Nella terza e ultima campata verso l’altare gli spazi sembrano chiudersi, farsi ancora più raccolti. Da alcuni rilievi eseguiti svariati decenni fa, è stato ipotizzato che questo potesse essere il perimetro della chiesa primitiva, San Michele, poi ampliata nel corso del XII secolo e ricononsacrata a San Gemolo. Secoli dopo, il cardinale Federico Borromeo dovette occuparsi per primo della ricognizione delle spoglie di San Gemolo. Infatti, nel 1612, durante l’arretramento della navata e lo smantellamento del vecchio altare, furono rinvenute numerose ossa umane, alcune delle quali recavano un cartiglio con il nome del martire cui erano appartenute. Furono trovati anche i resti di tre diversi individui, privi di nome, che il cardinale ordinò di murare in un’urna di pietra accanto all’altare. Tuttavia, l’autenticazione delle reliquie arrivò solo nel 1937 per volere del cardinale Schuster. Era la prima volta che si impiegavano metodi scientifici per riconoscere le ossa di un martire. Dall’esame emerse che due dei tre individui avevano oltre 60 anni, mentre il terzo poteva avere un’età di 25-28 anni e le lesioni erano compatibili con quanto narrato dalla tradizione. Era lui, San Gemolo? La risposta della commissione fu affermativa, il corpo fu ricomposto e riportato solennemente a Ganna nell’agosto 1941. Da allora riposa sotto l’altare maggiore e veglia, come da secoli, sulla sua badia e su Ganna.
Un patrono unico e speciale per un luogo ricco di suggestioni, che merita una visita, anche solo per l’eccezionale contesto ambientale e paesaggistico. Un luogo che, ci si augura, non smetterà mai di stupire.

Claudia Migliari

Nota: questo testo non ha alcuna pretesa scientifica, ma vuole porsi come una semplice narrazione di un luogo, da sempre legato a eventi al confine tra storia e leggenda. I luoghi di Gemolo ne sono la testimonianza tangibile. Sull’antica strada che dalla basilica di San Vittore di Arcisate porta a Ganna, tra il monte Crocino e il monte Monarco, si trova la località detta Passo del Vescovo, dove si narra si accampò il vescovo zio di Gemolo durante quella sanguinosa notte.

Foto di Claudia Migliari e Luca Borgia

Bibliografia essenziale
Comolli Benigno, La Badia di San Gemolo in Ganna, in «Rivista della Società Storica Varesina», Varese 1960
Comolli Benigno, San Gemolo nella tradizione millenaria, in «La Badia di S. Gemolo e la Valganna», Varese 1966
Comolli Roberto, Zanzi Luigi (a cura di), Tracce di storia dell’Abbazia di S. Gemolo in Valganna, Nicolini Editore, Gavirate 1999
Dallaj Arnalda, Orazione e pittura tra propaganda e devozione al tempo di Sisto IV: il caso della Madonna della Misercordia di Ganna, in «Revue Mabillon», 1997
FrecchiamiMario, La Cappella di San Gemolo ed il suo restauro, in «Rivista della Società Storica Varesina», Varese 1960



Le marocchinate: stupri di massa e violenze inaudite

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« Adesso lui mi stava sopra; e io mi dibattevo con le mani e con le gambe; e lui sempre mi teneva fissa la testa a terra contro il pavimento, tirandomi i capelli con una mano; e intanto sentivo che con l'altra andava alla veste e me la tirava su verso la pancia e poi andava tra le gambe; e tutto a un tratto gridai di nuovo, ma di dolore, perché lui mi aveva acchiappato per il pelo con la stessa forza con la quale mi tirava i capelli per tenermi ferma la testa.» [1] 
Ho deciso di introdurre l’articolo con le parole di Moravia, tratte dal libro La Ciociara, poiché le ritengo educative per analizzare i fatti che seguiranno. 
Una nuova pagina di storia negata, dimenticata dai libri che i nostri figli sfogliano e studiano a scuola.
Avanziamo rapidamente e tutto dimentichiamo.
Lasciamo dietro di noi migliaia di martiri senza nome ed eleviamo agli altari personaggi alquanto dubbi con un passato non sempre limpido.
Siamo un paese senza memoria.
Le marocchinate: con questo termine s’identificano tutte le violenze sessuali e fisiche perpetrate dalle truppe marocchine, al seguito del contingente di liberazione alleato, su migliaia di persone durante la campagna d’Italia della seconda guerra mondiale.
Il 14 maggio del 1944 i goumiers del corpo di spedizione francese attraversano i Monti Aurunci, considerati inviolabili sino a quel momento, aggirando le linee difensive tedesche nella Valle del Liri. Con quest’operazione consentono al corpo britannico di sfondare la Linea Gustav e di avanzare sino alla successiva linea di difesa tedesca, la Adolf Hitler.
Il termine goumier indicava un soldato di nazionalità marocchina incorporato nell’esercito francese nel periodo compreso tra il 1900 ed il 1956. I goumiers non erano organizzati in divisioni regolari ma in goums, cioè gruppi composti da circa una settantina di uomini legati tra loro da vincoli di parentela. La caratteristica principale di queste truppe era l’addestramento nei combattimenti montani. Combattere in montagna e sopravvivere in condizioni difficili era naturale per questi soldati vissuti sui monti impervi e duri dell’Africa settentrionale.
I goumiers, come detto in precedenza, sfondarono la Linea Gustav. Occorre specificare la situazione: la Gustav fu una linea difensiva approntata in Italia su disposizione di Adolf Hitler nel 1943. Tale linea aveva il compito di dividere in due il paese. La linea cedette nel maggio del 1944 costringendo i tedeschi sulla linea successiva, la Adolf Hitler. La seconda linea era posta a circa 10 km dalla precedente ed aveva il compito di contenere eventuali cedimenti della linea Gustav. La Linea Hitler cedette alla fine di quel terribile maggio del 1944. 
Ritorniamo al 14 maggio del 1944.
Per incentivare i combattenti allo sfondamento della Gustav il generale Alphonse Juin promise ai goumiers 50 ore di libertà. [2] Secondo alcune fonti il generale Juin pronunciò il seguente discorso, che apparve su dei volantini tradotti in francese ed in arabo: «Soldati! Questa volta non è solo la libertà delle vostre terre che vi offro se vincerete questa battaglia. Alle spalle del nemico vi sono donne, case, c'è un vino tra i migliori del mondo, c'è dell'oro. Tutto ciò sarà vostro se vincerete. Dovrete uccidere i tedeschi fino all’ultimo uomo e passare ad ogni costo. Quello che vi ho detto e promesso mantengo. Per cinquanta ore sarete i padroni assoluti di ciò che troverete al di là del nemico. Nessuno vi punirà per ciò che farete, nessuno vi chiederà conto di ciò che prenderete.» [3]-[4]
In quelle 50 ore accadde ogni misfatto che l’essere umano sia in grado di compiere: i marocchini saccheggiarono paesi e borghi, perpetrarono violenze fisiche e sessuali sulla popolazione inerme. Tra i paesi colpiti vi fu il comune d’Esperia. Il sindaco affermò che oltre 700 donne furono stuprate ed alcune di loro morirono in seguito alle violenze riportate durante i forzati atti sessuali. 
Molte di queste donne subirono lo stupro alla presenza dei mariti, o dei genitori quando si trattava di bambine. Molti uomini furono uccisi perché tentarono con ogni mezzo di difendere le proprie donne, o bambine quando si trattava di padri di famiglia. Il parroco del paese nel disperato tentativo di difendere le donne fu catturato, legato ad un palo e sodomizzato per due giorni sino al sopraggiungere della morte, probabilmente tanto sperata in quei dolorosi momenti.
Le violenze dei soldati marocchini non si esaurirono ad Esperia, e sicuramente non si arrestarono alle fine delle 50 ore di libertà – se mai sono esistite le 50 ore. «Tutte le donne di Patrica, Pofi, Isoletta, Supino, e Morolo sono state violentate. A Lenola il 21 maggio hanno stuprato cinquanta donne, e siccome non ce n’erano abbastanza per tutti hanno violentato anche i bambini e i vecchi. I Marocchini di solito aggrediscono le donne in due – uno ha un rapporto normale, mentre l’altro la sodomizza[5]
Riporto un’altra testimonianza: «I soldati marocchini che avevano bussato alla porta e che non venne aperta, abbattuta la porta stessa colpivano la Rocca con il calcio del moschetto alla testa facendola cadere a terra priva di sensi, quindi veniva trasportata di peso a circa 30 metri dalla casa e violentata mentre il padre da altri militari veniva trascinato, malmenato e legato a un albero. Gli astanti terrorizzati non potettero arrecare nessun aiuto alla ragazza, e al genitore, poiché un soldato rimase di guardia con il moschetto puntato sugli stessi
Su questi fatti esiste anche una nota dei Carabinieri, del 25 giugno 1944, a ricordo delle bestialità delle truppe marocchine: «infuriarono contro quelle popolazioni terrorizzandole. Numerosissime donne, ragazze e bambine (...) vennero violentate, spesso ripetutamente, da soldati in preda a sfrenata esaltazione sessuale e sadica, che molte volte costrinsero con la forza i genitori e i mariti ad assistere a tale scempio. Sempre ad opera dei soldati marocchini vennero rapinati innumerevoli cittadini di tutti i loro averi e del bestiame. Numerose abitazioni vennero saccheggiate e spesso devastate e incendiate
Non posso proporre tutte le testimonianze, alcune non posso tralasciarle: « incontrarono per strada un ragazzino di 14 anni Anastasio Gigli. I gourmiers chiesero con gesti e un francese "Italianizzato" ad Anastasio dove potevano trovare una fontana d'acqua; appena Anastasio si voltò per indicare la strada, i Marocchini lo immobilizzarono velocemente. Non sappiamo se Anastasio è stato violentato, non abbiamo nessuna prova o testimonianza, ma senza dubbio i momenti successivi alla "cattura" devono essere stati terribili. La sorella d’Anastasio non vedendolo rientrare iniziò subito le ricerche, alcuni testimoni riferirono di aver visto dei marocchini dirigersi verso all'ospedale di Priverno (7 km da Roccagorga) con una persona avvolta in un lenzuolo bianco inzuppato di sangue e trascinato come un sacco di patate. In quel lenzuolo bianco era avvolto Anastasio, oramai senza più vita. I medici riferirono di una ferita mortale da arma da taglio (baionetta) all'addome[6]
Vi propongo un’ultima, dolorosa, testimonianza: «Tre soldati marocchini hanno completato il loro turno d’esercitazione e si avviano verso la baracca della mensa. Parlano tra loro, Lorenzo esce allo scoperto e li saluta in arabo. I tre restano sorpresi, poi, sorridendo, si avvicinano al bambino ed uno di essi lo carezza sui fianchi e sulle cosce. Lorenzo allora comprende il suo fatale errore ed inizia a correre urlando: “Mario restanascosto, dopo scappa via ed avverti mia madre”. I tre non capiscono le parole di Lorenzo, ma lo inseguono e si allontanano da dove è nascosto Mario che attraverso il foro del recinto riesce a uscire e mettersi in salvo. Arriva a casa di Lorenzo, ma la porta è chiusa, Fedora non è ancora tornata. Si siede sul primo gradino ed aspetta piangendo. Trascorre un’ora. Un contadino di Cardito trova Lorenzo seminudo, ricoperto di sangue, abbandonato in un viottolo di campagna, non lontano dal campo dei marocchini. Lo porta in Ospedale. Il referto riporta: stato di choc, ferite lacero contuse sul viso, sulle gambe e sulla schiena, lacerazioni nella zona anale da penetrazioni multiple, lacerazioni delle corde vocali da penetrazione orale, i denti completamente rotti per evitare morsi difensivi. Da qual giorno Lorenzo non disse più una parola.»[7]
Torniamo al volantino che permise tutto questo: l’originale non è mai stato trovato, anche se sappiamo che ai soldati marocchini fu concesso il diritto di preda
Un dubbio ritrovato negli scritti mi ha colpito: se il volantino non fosse mai esistito? Se fosse stato inventato per far ricadere la colpa sul Generale Juin e circoscrivere le violenze dei marocchini – con algerini, tunisini e senegalesi al seguito – a quelle 50 ore?
Sappiamo perfettamente che questo non corrisponde al vero.
Le violenze iniziarono in Sicilia subito dopo lo sbarco del 1943 e proseguirono nel Lazio ed in Toscana sino allo spostamento della guarnigione marocchina in Provenza. Gli stessi soldati furono impiegati nell’aprile del 1945 in Germania, dove avvennero eventi analoghi con violenze su donne e bambine.
Per quanto riguarda la Sicilia vi propongo un brano tratto dal blog delle vittime delle marocchinate: «Mentre i combattimenti continuavano a impegnare la prima linea, a Capizzi invece si verificava una singolare guerra privata tra marocchini e capitini. I goumiers erano facilmente riconoscibili dal loro vestiario, indossavano infatti un ampio camicione, il cosiddetto barracano, e portavano i capelli intrecciati e unti. [..] I capitini dopo un primo momento di sgomento iniziarono a reagire: alcuni goumiers vennero bastonati, ad altri venne invece mostrata una corda per intimorirli, temevano infatti la morte per impiccagione che, secondo le loro credenze, avrebbe impedito alla loro anima di giungere in paradiso. Molti vennero impiccati o uccisi a colpi di accetta. In contrada Salice due goumiers furono impiccati e lasciati a penzolare su due alberi[8]
Vi sono testimonianze molto forti – personalmente le ritengo incredibili – sulla scelleratezza del comando militare alleato: «A Pico gli americani arrivarono mentre i goumiers stavano violentando in piazza donne e bambini. I soldati cercarono di intervenire ma gli ufficiali li bloccarono dicendo che non erano li a fare la guerra ai marocchini ma ai tedeschi
In altre circostanze i soldati alleati – in questo caso del contingente canadese – riuscirono a soccorrere le donne ed i bambini prede della fame sessuale delle truppe marocchine.
Il 12 giugno del 1944 Pio XII sollecitò Charles de Gaulle a prendere provvedimenti. Questi – in pratica – scaricò la colpa sul generale del contingente francese. La Chiesa, tramite il cardinale francese Tisserant, rinnovò i solleciti. Il generale Juin rispose che avevano fucilato 15 soldati marocchini accusati degli stupri.
Una stima dello stupro di massa è stata avanzata dal presidente dell’associazione nazionale delle vittime delle marocchinate, Emiliano Ciotti: «Dalle numerose documentazioni raccolte oggi possiamo affermare che ci furono un minimo di 20.000 casi accertati di violenze, numero che comunque non rispecchia la verità; diversi referti medici dell'epoca riferirono che un terzo delle donne violentate, sia per vergogna o pudore, preferì non denunciare. Facendo una valutazione complessiva delle violenze commesse dal "Corpo di Spedizione Francese", che iniziò le proprie attività in Sicilia e le terminò alle porte di Firenze, possiamo affermare con certezza che ci fu un minimo di 60.000 donne stuprate, e ben 18.000 violenze carnali. I soldati magrebini mediamente stupravano in gruppi da 2 (due) o 3 (tre), ma abbiamo raccolto testimonianze di donne violentate anche da 100, 200 e 300 magrebini »
Il nostro paese non ha memoria.
Siamo un popolo che non ha il coraggio di ricordare.
Nei libri di scuola tutto questo non appare, come dimenticati – volutamente – sono gli eventi relativi alle torture dell'Inquisizione, alle Pasque Piemontesi, al Sacro Macello, alla strage dei bimbi della scuola di Milano ed altri eventi dolorosi che non rispettano il politically correct.
Non dobbiamo offendere i liberatori. 
Non possiamo parlare male degli alleati, qualunque essi siano.
Noi siamo tenuti a ricordare sempre, a ricordare tutto.


Fabio Casalini

Bibliografia
Alberto Moravia, La ciociara. Edizioni Bompiani 1962
Arrigo Petacco, La nostra guerra. Mondadori, 1996
Beatrice Tortolici, Violenze e dintorni. Armando editore, 2005
Fabrizio Carloni, Il corpo di spedizione francese in Italia, 1943-44. Mursia 2006
Gigi di Fiore, Controstoria della Liberazione: le stragi e i crimini dimenticati degli alleati nell’Italia del Sud. BUR edizioni, 2012
Luciano Garibaldi, l’assalto alle ciociare. Tratto dal periodico Noi, 1994.
Tommaso Baris, Montecassino 1944: scatenate i marocchini. Tratto dal periodico Millenovecento numero 14 del dicembre 2003.
Stefania Cavallo, Le marocchinate. Edizioni Sensibili alle foglie, 2015
Vasco Ferretti, Kesselring. Mursia, 2009

Webografia
www.instoria.it/home/marocchinate.htm
www.vittimemarocchinate.blogspot.com
.
Le fotografie sono tratte da wikipedia e da www.vittimemarocchinate.blogspot.com.



[1] Alberto Moravia, La ciociara.
[2] Vasco Ferretti, Kesselring, Mursia 2009
[3] Beatrice Tortrici, Violenze e dintorni. Armando editore. 2005
[4] Presente al seguente indirizzo: http://www.instoria.it/home/marocchinate.htm
[5] Norman Lewis, Napoli 1944
[6]Testimonianza tratta dal blog http://vittimemarocchinate.blogspot.it/
[7]Testimonianza tratta dal blog http://vittimemarocchinate.blogspot.it/
[8]Testimonianza tratta dal blog http://vittimemarocchinate.blogspot.it/

Grenoble, alla fine di ogni strada si vede apparire una montagna

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Alla fine di ogni strada si vede apparire una montagna – Stendhal
Sviluppata su un tratto pianeggiate alla confluenza dei fiumi Drac e Isere la città di Grenoble, un affascinante connubio tra tradizione e modernità, rappresenta il cuore pulsante della regione francese Rhone-des-Alpes.
La fondazione della città di Grenoble risale a oltre 2000 anni fa, si stima intorno al 43 a.C. sotto il nome di Cularo a quell’ epoca era poco più di un villaggio abitato dalla tribù guerriera celtica degli Allobrogi. In seguito passò sotto il dominio dell’Impero Romano cambiando il nome in Gratianopolis in omaggio all’Imperatore Graziano diventando un importante snodo di comunicazioni.
Nel XII secolo passò ai conti di Albon che estesero il loro titolo di "delfini" a tutto il territorio degli attuali dipartimenti d'Isère, Hautes-Alpes e di parte del dipartimento di Drôme che va sotto il nome di Delfinato, denominazione che non ha valore amministrativo o geografico, ma soltanto storico. 
Città natale di Marie-Henri Beyle (meglio noto come Stendhal) che vi nacque nel 1783, Grenoble offre uno dei panorami artistici e architettonici di maggior rilievo della Francia. Innumerevoli sono le ricche collezioni custodite nei vari musei cittadini che si alternano a giardini e parchi nei quali poter fare una rilassante passeggiata o trascorrere alcune ore in tranquillità.
Il centro storico ruota attorno alla pedonale Place Saint-André, impreziosita dalle magnifiche facciate gotiche e rinascimentali dell'antico palazzo del Parlamento del Delfinato, è uno dei luoghi di ritrovo per cittadini e turisti nei numerosi caffè che con il bel tempo offrono anche eleganti “dehors”. 
La città vecchia è un susseguirsi di animate piazze collegate tra di loro da caratteristiche stradine e silenziosi viottoli sui quali affacciano antiche dimore e caratteristici negozi dove il tempo sembra essersi fermato. 
L’intreccio di questi vicoli suggerisce talvolta l’ardire di perdersi lasciandosi guidare dall’istinto o semplicemente con lo sguardo curioso alla ricerca di un gargoyle, statue in pietra, abbaini in stile parigino ….. insomma non è raro che questa città riservi sorprese ad ogni angolo di strada: basta saper cercare.
Se avete tempo vale la pena una visita a Place aux Herbes che ospita tutte le mattine il mercato cittadino ricco di colori e profumi, frequentato da persone di ogni classe sociale a piedi o in bicicletta che scelgono i preziosi frutti della terra: una cartolina di un tempo che fu ormai quasi perduto.
Il poco tempo a diposizione mi ha questa volta obbligato a una scelta ed ho pensato di mostrare ai lettori del nostro blog una panoramica della città visitando il Forte della Bastiglia, situato su una collina a 475 metri d'altezza.
La fortificazione fu costruita nella prima metà del XIX secolo per volere del Generale Haxo per prevenire un possibile attacco proveniente dal Ducato di Savoia proprio dietro al massiccio della Chartreuse.
Il forte tuttavia non svolse mai la funzione per la quale era stato inizialmente progettato conoscendo comunque un periodo di guerra dovuto ai conflitti mondiali della prima metà del 900. Lavori di restauro l’hanno riconsegnato alla città e oltre ad apprezzare un buon piatto presso i ristoranti ivi ubicati si può far visita al Museo delle truppe di Montagna ed alcune sale che ospitano sovente mostre ed eventi culturali.
E’ possibile inoltre percorrere un sentiero nei pressi del forte che impegna una quindicina di minuti che include un percorso scavato all’interno della montagna con una scala nella roccia che permette di superare un dislivello di una ventina di metri.
Per i più arditi e avventurosi, appena sopra ai Jardins des Dauphins, è possibile affrontare una Via Ferrata tra le più particolari al mondo perché si snoda, contrariamente alle altre, in un percorso “urbano” rendendola – se possibile – ancora più speciale.
Per raggiungere la Bastiglia è possibile percorrere sentieri e strade che coprono i quasi 500 metri di dislivello ma, a costo di risultare pigri, vale la pena utilizzare la teleferica che parte da uno degli argini del fiume Isere.
La teleferica costruita nel 1934 è diventata ben presto il simbolo della città e da allora si è stimato che quasi 15 milioni di persone siano state trasportate all’interno delle sue caratteristiche bolle trasparenti che in pochi minuti portano sul piazzale principale del forte.
Il panorama dalla Terrasse des Géologues è mozzafiato domina tutta la città ed è possibile riconoscere, anche grazie all’aiuto di tavole illustrate, la catena alpina che contorna la città. La vista spazia dal massiccio del Vercors, passando per la Chartreuse e Belledonne, e nei giorni particolarmente limpidi, è possibile scorgere il Monte Bianco nonostante gli oltre 100 Km di distanza.

Marco Boldini





Daniele Crespi, fulgore e meteora al tempo della peste

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Daniele Crespi, fulgore e meteora: ultimo grande protagonista di una generazione d'artisti controcorrente. Nel Ducato di Milano caduto sotto il dominio spagnolo, agli inizi del Seicento la pittura aveva preso una strada tutta sua: rifiutato il realismo di Caravaggio e ripudiato il realismo carraccesco, i "tre moschettieri" del Seicento Lombardo, Cerano, Procaccini e Morazzone, inventarono un nuovo stile pittorico senza precedenti e lo resero icona:
Capricci spirituali a punta di pennello,
schermidori di sacrestia.
Languidezze e livori. Fiori, muscoli
e pestilenze.
Fossette di grazia e ferite di crudeltà
(R. Longhi, 1926)


Questo brano del famoso critico d'arte piemontese del Secolo Breve ben riassume lo stile che si diffuse a macchia d'olio non solo in Lombardia e Canton Ticino, ma anche nel Piemonte e nella Liguria della prima metà del XVII secolo. Allora il giovanissimo Daniele Crespi, figlio d'arte e membro di una famiglia di pittori di Busto Arsizio che diede pennelli importanti, tra cui lo stesso Cerano da Romagnano Sesia, chiuse la grande stagione col botto. La peste manzoniana era alle porte quando il giovane, in via di maturazione, decise  di smorzare l'esagerata tensione iperrealista dei suoi maestri per passare oltre.
Nel 28 novembre 1617 un tale De Rossi, ignoto committente milanese, versò gli ultimi 521 scudi dei 2000 già pagati a Guglielmo Caccia detto il Moncalvo, pittore di media caratura proveniente da Casale Monferrato, per il completamento degli affreschi della cupola della grande basilica ambrosiana di S. Vittore al Corpo: una decorazione di ottanta riquadri ordinati in cinque cerchi  rappresentante un'ascensione celeste di serafini, angeli musicanti e sibille. Non sussiste più alcun dubbio sul fatto che queste ultime vadano attribuite al pennello di Daniele Crespi: il ruolo centrale del pittore nell'impresa decorativa del tempio è segnalato da un’abbondante documentazione seicentesca. Allora Daniele non era allievo, ma già collaboratore del Moncalvo, all'età di 19 anni!
L'anno successivo, il Crespi lavorò nella quarta cappella a sinistra del tempio, alle Storie di Sant'Antonio Abate: qui, come in altre cappelle di chiese ambrosiane della Controriforma, la concezione dello spazio va a delineare un’elaborata macchina teatrale composta da un ricco apparato decorativo a stucco, affreschi e dorature capaci di creare un insieme illusionistico del tutto autonomo, tale da accogliervi al meglio una triade di tele a tema.
Al centro campeggia “Sant’Antonio Abate assiste alla glorificazione dell’anima di San Paolo Eremita”, affiancato sui lati dall'estatico rapimento in cielo del santo salvato dagli angeli e dalla visitazione, con  Antonio confortato da Gesù dopo le tentazioni.
L’opera centrale raffigura la scena miracolosa in cui Sant’Antonio Abate, in muto colloquio con due figure angeliche trionfalmente sospese in volo, vive un’esperienza d’estasi visionaria. I due messaggeri alati sono colti nell'atto di portare in cielo il simulacro dell’anima dell'amico San Paolo Eremita: i resti mortali di quest’ultimo, segnato dall'avanzato stato di putrefazione, giacciono nell'ombra.
Il personaggio di San Paolo Eremita, dal punto di vista storico, è avvolto da un alone di mistero: tradizionalmente considerato primo tra gli eremiti cristiani, nel III sec. dopo Cristo abbandonò la città per il deserto della Tebaide al fine di scampare alle persecuzioni ordinate dall’imperatore Decio. Come da tradizione agiografica, la solitudine del deserto conquistò l’uomo di fede al punto da convincerlo a restare tra dune e scorpioni anche a pericolo scampato: più di sessant'anni. La sua più grande aspirazione, quella di vivere nella semplicità contemplativa, sarebbe stata coronata da una morte appartata. Ciò nonostante, San Gerolamo annotò sul suo conto un libro ricco di avventure tanto entusiasmanti quanto poco attendibili. L’ultima notizia del “santo silente”, già molto anziano, é tramandata dalla leggendaria visita di sant’Antonio Abate presso il suo eremo: una scena rara, rappresentata proprio dalla tela di Daniele Crespi. Sentendosi prossimo alla morte, Paolo Eremita fu avvolto in un letto di foglie di palma che Antonio aveva ricevuto in dono dal vescovo Atanasio e sepolto presso una fossa scavata da una coppia di leoni.
Osserviamo la tela del Crespi: capolavoro in cui convivono ancora le tre nature del giovane artista, in fase di sperimentazione. L'ampio settore inferiore, nettamente definito da un fondale scuro, accoglie il corpo di Paolo eremita adagiato sul giaciglio. Il viso e le mani del santo, il naso camuso, il labbro inferiore sporgente e le carni sfatte e giallognole emergono appena sotto un’impietosa luce giallognola; il destino dei mortali, ritratto in tutta la sua bruttura, é un regno di toni esacerbati e stravolti, tipici del primo Seicento lombardo: una tendenza fortemente segnata dall’opera del piemontese Cerano e del varesotto  Morazzone, paladini di una pittura fatta di  contrasti stridenti, bagliori improvvisi e visioni raccapriccianti.
Eppure, le tinte fosche dei maestri “pestanti” parrebbero già traghettare il giovane, sul registro superiore della tela, verso i lidi più calmi e contemplativi della futura pittura milanese. 
Eretto come una statua sopra la salma inerte, Sant’Antonio Abate, parzialmente illuminato dalla luce miracolosa proveniente dall'alto, osserva La glorificazione in cielo dell'amico. La sua immagine é  potentemente affermata dall’ombra sfuggente del fedele leone e dal tipico emblema del “Tau”, appuntato sul collo della tonaca. Agli occhi dei fedeli del tempo, la scena alludeva al passaggio di testimone tra i due santi: dal vagabondaggio eremitico tipico degli inizi del cristianesimo, non più consentito, alla nascita di un primo vero ordine gestito non a caso dall’abate Antonio, fondatore del monachesimo: narrazione di un episodio lontano, riletta alla luce della didattica controriformata che si prefiggeva di estirpare bizzarrie pittoriche fuori tema tali da confondere il fedele, a favore di narrazioni chiare e trionfanti.
Ex tenebris lux!
Ed ecco contrapporsi, nella parte superiore del dipinto, la scena della rivelazione sacra: l'ascensione vorticosa degli angeli dalle ali multicolori é esteticamente sensuale e luminosa, d'impronta tipicamente emiliana: eredità del maestro bolognese Giulio Cesare Procaccini. Recenti studi hanno proprio permesso di ricomporre l’intenso e febbrile sperimentalismo degli esordi di Daniele, giocato sulla contrapposizione tra lo stile dei suoi tre maestri: quello elegante e caldo del bolognese e quello cupo e sprezzato dei due lombardi. In quest’ottica, la pala in San Vittore costituisce un testo di capitale importanza.
Questi, gli ingredienti attraverso i quali il giovanissimo Daniele Crespi raggiunge anticipatamente la conquista di una personale cifra stilistica, all'avanscoperta di territori, ancora inesplorati, di quello stile poi definito “Barocco”.
Capace perfino di "addomesticare" il tenebrismo del Caravaggio, nella celebre, cupa e introspettiva Cena di San Carlo Borromeo eseguita per i canonici di Maria della Passione il giovane lombardo realizza altissimi brani di sobria ritrattistica e natura morta.

Affrancatosi definitivamente dai maestri, nel 1620 il Crespi, in rapporto di sintonia programmatica con le direttive fornite dalla pittura del cardinal Federico Borromeo, attraverso la fondazione dell’Accademia Ambrosiana giungerà a maturazione con l'esecuzione del ciclo affrescato presso la certosa milanese di Garegnano: luogo di memorie petrarchesche e bucoliche, affossato nel Secolo breve dall'espansione urbana e dall'imboccatura autostradale Milano-Laghi.


Poco dopo aver rilevato la prestigiosa bottega di Camillo Procaccini, fin da subito Daniele fu richiestissimo al punto da inaugurare al cantiere della Certosa di Pavia nuovi cicli pittorici: le Storie di San Bruno, avvolte in cieli azzurri e rosati, sono di un’esplosione barocca inattesa.
1630: data fatidica. L'epidemia di peste bubbonica bussa alle porte di Milano. Sono i tenebrosi anni, di manzoniana memoria, dei monatti, del lazzaretto e della Colonna Infame. La breve e illusoria parabola artistica di Daniele si spegne: forse gettato su un carro da qualche bravaccio dalla caviglia sonante, in compagnia dei corpi infetti degli appestati e portato alla fossa comune, a causa della morte improvvisa "l'enfant prodige" del Seicento lombardo lasciò incompiuta la sua opera di maggiore impegno all'età di 28 anni. 
Il ciclo pavese è l'ultima testimonianza di un grande e sfortunato talento che, come un bucaneve, sbocciando anzi tempo trionfò sulla morte a colpi di pennellate dalle tinte chiare, vaporose e serene: sommo testamento di un artista che partendo dalla tenebra lasció ai posteri un'impronta di speranza salvifica e con essa il rinnovamento della pittura in Lombardia e fonte d'ispirazione per spagnoli celebri...

...ma se, come Tiziano o Michelangelo, Daniele Crespi fosse vissuto per altri quarant'anni, cosa ci saremmo dovuti aspettare da lui?


Marco Corrias (alias Marc Pevèn) 


Bibliografia
W. Neilson, Daniele Crespi, 1996, pp. 47-50.
F. Frangi, Un vertice giovanile di Daniele Crespi, in Itinerari d'arte in Lombardia dal XIII al XX secolo,1998, pp. 217 - 25.
Autori vari, Pittura a Milano dal Seicento al Neoclassicismo, 1999, pp. 226-7
A. Spiriti, Daniele Crespi, un grande pittore del ‘600 lombardo, 2006, pp. 36 e 202-3.
F. Frangi, Daniele Crespi, la giovinezza ritrovata, 2012, pp. 16-46.

Lanciando dadi

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William Shakespeare
“Guaah!” Emise l’ultimo conato, alzò la testa, e pulendosi gli angoli della bocca, disse: “Grazie per esservi fermato”. Poi fissò il coetaneo: “Ieri pomeriggio al Theatre?”
“Sì”.
“Aspettate. Vi chiamate …”
“Il mio nome è Shakespeare. William Shakespeare. E voi siete Christopher Marlowe da Canterbury”.
“A differenza di me, oltre all’aspetto, avete anche la memoria di un ventenne. Un momento. Mi sembra di ricordare che siete della contea di Warwick e che sareste ripartito stamani”.
“Lo avrei fatto, ma oggi niente corriere per Stratford. Il cocchiere ha deciso di festeggiare la regina nel vostro stesso modo” disse Shakespeare indicando il vomito.
“Per fortuna, in questo paese di cattolici traditori, qualche vero inglese c’è ancora” replicò Marlowe.
Christopher Marlowe
“Non fraintendetemi. Il fatto è che rischio di dormire per strada. Voi dove siete alloggiato?”
“Non lo sono”. Marlowe raccolse l’acqua di una pozzanghera, si sciacquò il volto, scrollò la testa e disse: “Se continuiamo a restare qui a parlare nessuno verrà a offrirci un letto. Quanti soldi avete?”
“Quelli per la corriera”.
“Basteranno. Seguitemi e, con po’ di fortuna – disse Marlowe agitando un paio di dadi -, stanotte dormiremo tra guanciali morbidi e chiappe sode”. Fischiettando s’incamminò verso la taverna di Pistol. Shakespeare lo seguì. Era la vigilia del cinquantesimo compleanno di Sua Maestà Elisabetta d’Inghilterra e il sole era già alto sulla City.
“Sette!” urlò Shakespeare traendo i dadi. Tre e quattro: sette. “Siiii!”
“Sette. Vince ancora il messere - disse Marlowe raccogliendo i dadi -. Qualcun altro vuole tentare la sorte”.
“Io”. Una voce provenne dal fondo della taverna.
“Prego, lasciate passare il messere”, esclamò Marlowe.
L’uomo raggiunse il tavolo da gioco, fissò Marlowe, poi, dopo essersi accarezzato la barba, con un ghigno estrasse alcune monete dalla borsa e le gettò sul tavolo. 
“A voi”, disse Marlowe consegnando i dadi al nuovo giocatore.
L’uomo premette i dadi contro i palmi, poi, ci alitò sopra. “Sei!” Urlò lanciando i dadi. Due e uno: tre.
“Mi spiace, siete stato sfortunato. Ora però tocca al messere baciato dalla dea”. Furono le parole di Marlowe mentre raccoglieva i dadi e li porgeva a Shakespeare.
“Sette!” Gridò il giovane di Stratford, poi trasse.
“E’ impossibile che esca ancora sette - disse a denti stretti l’uomo -. Sette volte sette non si è mai visto”.
I dadi completarono il loro moto. Tre e quattro: sette.
Prima che Marlowe potesse raccogliere i dadi, l’uomo gli bloccò il polso, raccolse i dadi e li tirò. Tre e quattro: sette. Alzò lo sguardo in cerca di quello di Marlowe, trovò il suo pugno.
“Via, William!” disse Marlowe, poi rovesciò il tavolo contro gli avventori della taverna e si tuffò fuori dalla finestra. Shakespeare lo seguì. Rotolarono entrambi per alcuni metri sulla strada, si rialzarono e cominciarono a correre.
“Ma che diavolo è successo?” disse Shakespeare.
“La fortuna va aiutata – rispose Marlowe -. Ci vediamo” e si infilò in un vicolo laterale. 
Shakespeare era rimasto solo sulla strada principale. I truffati gli erano dietro. Si gettò sotto un carro, rotolò, si rialzò, incespicò nel mantello, riprese la corsa.
Si voltò a controllare i propri inseguitori, erano rimasti bloccati dal carro. Decise di svoltare in una via laterale. Nero.
Shakespeare riaprì gli occhi, faceva fatica a respirare - l’aria era ammorbata dal fetore di cavoli marci -, gli era quasi impossibile deglutire e gli doleva la nuca.
“Ha dormito bene, messere”, gli disse l’uomo che lo scrutava dall’alto della buca in cui era finito. La sagoma dello sconosciuto si stagliava controluce: il sole era ancora alto.
“Chi siete?” domandò Shakespeare.
“Il vostro benefattore. Se non era per me vi avrebbero appeso a una forca sul molo del porto”.
“Forse mi avrebbe fatto meno male. Ora tiratemi fuori”.
“Prima datemi i vostri soldi”.
“Ma io non ne ho. Li ha presi tutti Marlowe, il mio compare. Controllate pure nella mia borsa”. Shakespeare cercò la sua sacca sotto il mantello.
“Dove la mia borsa!” urlò.
“L’ho già controllata. Avete ragione non c’era niente”.
“Dove l’avete messa?”
“L’avevo buttata là in un angolo. Ma ora non c’è più”.
“Non c’è più?”.
“Mi stavo riposando, poi ho aperto gli occhi e non c’era”.
“E i fogli che c’erano dentro”.
“Ah! Quella carta straccia. Ha fatto la stessa fine”.
Shakespeare si gettò per terra tenendosi la testa tra le mani. Imprecava e singhiozzava.
“Fate bene a piangere perché tra poco è l’ora in cui i porci mangiano. Ed è da tanto che non assaggiano carne”.
Shakespeare alzò la testa e si accorse che la buca in cui si trovava era una porcilaia. Solo una staccionata lo divideva da almeno venti maiali, e l’uomo si accingeva a sollevarla.
“Aspettate, vi darò il denaro”. 
“Fatemelo vedere”.
Shakespeare infilò una mano sotto il mantello, poi l’estrasse e con il pugno chiuso si avvicinò al bordo della buca. L’uomo protese il palmo aperto, Shakespeare gli afferrò il polso e lo tirò verso di sé nella fossa. L’aguzzino era a terra, Shakespeare gli era sopra e con tutta la sua forza lo colpiva sul cranio. Stringeva in pugno una pietra e gridava con il volto solcato di lacrime: “Bastardo … la mia opera … Bastardo”.
L’uomo era da tempo spirato quando la foga del giovane si arrestò. Shakespeare alzò la testa, non era solo. Uno sguardo lo fissava. Gli occhi di un ragazzo erano catturati dalle sue mani insanguinate. 
“Dammi una mano a uscire”, disse Shakespeare. I porci grugnivano. “Dammi una mano!” I porci grugnivano. Il ragazzo restava ritto ai bordi della buca. Shakespeare conficcò le dita nella parete. La terra gli si sbriciolava tra le mani. I calzari scivolavano sulle foglie putride. Il ragazzo lo fissava, i porci grugnivano. Shakespeare prese una rincorsa e si gettò all’assalto della parete. Il tentativo fu vano. I porci grugnivano. Il ragazzo gli pose un bastone. Quando Shakespeare fu fuori dalla buca, sputò per terra, gettò un’occhiata al ragazzo: “Hai visto una borsa?” Il ragazzo scosse il capo. Shakespeare s’incamminò verso il Tamigi. I porci non grugnivano più, il ragazzo aveva aperto la staccionata.
Nel frattempo Marlowe, sfuggito agli inseguitori, aveva trovato riparo in un bordello. “Bastano, Madame?”, chiese l’uomo di Canterbury gettando quattro monete d’argento sul tavolo.
“Certo, messere”, rispose Madame, poi chiamò: “Susan!”
La prostituta arrivò. Madame le scostò la camicia. Marlowe lanciò uno sguardo al seno scoperto.
“E’ di suo gradimento?”
“Sì”.
Susan fece strada a Marlowe. Si arrestò di fronte a un divano. L’indice della donna scivolò dalla mandibola di Marlowe al collo, sino al petto. Lui le disse: “Voltati”.
Una grande folla si accalcava lungo i moli del Tamigi nel primo pomeriggio del 6 settembre 1583 del calendario gregoriano. Forestieri venuti per festeggiare la regina, mercanti londinesi, gentiluomini e guardie si mischiavano vociando.
William Shakespeare era là in mezzo, assassino e senza sapere dove passare la notte. Camminava nella calca, e tra i volti sconosciuti vide quello di uno dei giocatori della taverna. Si voltò di scattò, inciampò malamente nel bastone di un gentiluomo.
“Mi scusi, sir” disse Shakespeare rialzandosi e scuotendosi la polvere dal mantello. L’uomo di Pistol era nel frattempo passato oltre.
“Spero non vi siate fatto nulla – disse il gentiluomo, poi aggiunse -. La distrazione è dei giovani e dei forestieri. E voi mi sembrate appartenere a entrambe le categorie”.
“Sono della contea di Warwick, sir”.
Il gentiluomo aggrottò le sopracciglia. “Lo dite veramente. Perché anch’io sono di quelle terre”.
“Non mi permetterei di mentirvi. Mi chiamo William Shakespeare e vengo da Stratford sull’Avon”.
Le sopracciglia del gentiluomo da aggrottate divennero inarcate.
“Quel William Shakespeare che scrive sonetti e li spedisce a modesti poeti londinesi”.
“Sir, mi stupite. E’ vero io scrivo sonetti, ed è vero anche che l’invio a poeti, ma non modesti. Io chiedo il parere a nobili di spirito come sir Fulke Greville”. Il gentiluomo scoppiò in una risata: “Troppo buono, mio giovane amico”.
“Ma?”
“Sì, sono Fulke Greville”. Shakespeare rimase muto. Greville continuò: “Ho letto i vostri sonetti, e devo dire li ho apprezzati molto. Se vorrete seguirmi a casa mia potremo parlarne con calma”.
“Vi ringrazio, è che …”
“Dovete tornare a Stratford?”
“No, anzi. Non ci sono corriere sino a domani, e non so dove passare la notte. Sono stato derubato. Ho perso i soldi e tutti i miei manoscritti. Sir Greville, vi giuro, avevo scritto un’opera degna di essere rappresentata al Theatre! Iniziava così: “Non mi piacciono gli uomini, ma sono così divertenti: disse Dio”.
“Calmatevi. State diventando blasfemo. Vi offro ospitalità sino a domani. Ora andremo a casa mia, vi darete una ripulita, e questa sera spero vogliate accompagnarmi a una riunione del circolo di Sidney”.
“Sir Philip Sidney?”
“Certo, e risparmiate la meraviglia perché questa sera ci sarà anche un ospite italiano. Un maestro della memoria che ha promesso di mostrarci cose stupefacenti”.
“Mi sembra incredibile. Mezz’ora fa rischiavo la vita e ora …”.
“Venite” disse Greville, e i due iniziarono a muoversi tra la folla in direzione di Holborn.
Cristopher Marlowe aveva finito di appagare la sua voglia e giaceva sul divano vicino a Susan.
“Mary …. Mmmh … Mary!” Era la voce di un giovane seduto sul divano a fianco. Il capo rivolto all’indietro supplicava la donna che con la lingua seguiva il profilo del suo basso ventre.
“Quando sarò famoso - biascicò - non mi dimenticherò della tua arte. Tu ricordati il mio nome: Horatio Wright”.
Un rutto, un singhiozzo, poi continuò: “La vedi questa - disse sventolando una lettera - è il mio lasciapassare per il successo”. 
Sospirò, fece una pausa, poi disse di slancio: “Stasera cenerò a casa Sidney, domani mi attende il Theatre”.
Alzò la testa, ma gli ricadde in avanti. Le palpebre si erano chiuse.
Marlowe chiamò Mary e, rivolgendosi a lei e a Susan, disse: “Il triplo della vostra paga se tratterrete quell’uomo qui sino all’alba e mi farete avere quella lettera”.
Le due si fissarono negli occhi. Poi Mary disse: “Va bene”.
I vespri erano suonati da poco più di un’ora. Greville e Shakespeare stavano salendo le scale di casa Sidney.
“Mi fido di voi – disse il primo -. Questo incontro non dev’essere reso pubblico. Come sapete molti seguaci di De la Ramée aborrono la tradizione ermetica. E molti di loro dettano legge a Canterbury e in altre città del regno”.
“Ma anche voi, se non erro, condividete quelle idee”.
“Sì, e anche Sidney è vicino alle loro tesi. Ma come poeti non possiamo tollerare che le immagini continuino a essere distrutte. La dialettica non deve far dimenticare la forza dell’immaginazione”.
I due entrarono in una grande sala. Almeno una ventina di uomini, radunati a gruppi di quattro o cinque, conversavano tra loro. Uno di essi si voltò e andò incontro ai nuovi arrivati.
“Greville, amico mio, vedo che non siete solo?”
“Sir Sidney, permettete che vi presenti William Shakespeare da Stratford sull’Avon”.
Il giovane s’inchinò: “I miei ossequi, sir”
“Dunque siete della stessa contea?” chiese Sidney a Greville.
“Anche se fosse scozzese ve lo presenterei lo stesso. E’ un vero talento, mi ha inviato dei sonetti molto interessanti”.
“Allora il futuro riserva grandi cose per le arti inglesi, perché anch’io ho trovato una giovane promessa”. Si voltò.
“Messer Wright!” pronunciò Sidney ad alta voce in direzione del fondo della sala. “Messer Wright!” ripeté. Poi, dopo alcuni istanti, un uomo, che s’intratteneva in un angolo con altri quattro, si voltò. Sorrise e si diresse verso i tre. Era Cristhoper Marlowe.
“Messer Horatio Wright vi presento messer …”
“Shakespeare. – lo interruppe Marlowe -. Ci siamo conosciuti ieri sera al Theatre. Vi ricordate?”
“Sì, mi ricordo c’era anche un tale di Canterbury. Un poco di buono”, replicò Shakespeare.
“Ricordo vagamente, ma credo non sia onorevole parlare di uomini assenti”.
Sidney li interruppe: “Io e Greville vi lasciamo discorrere e andiamo a bere un bicchiere di sidro”.
Marlowe e Shakespeare restarono soli.
“I miei soldi, bastardo”.
“La metà adesso, l’altra dopo se stai al gioco”.
“Va bene, ma vedi di non mettermi ancora nei guai”.
Mentre Marlowe consegnava a Shakespeare parte del maltolto, Greville e Sidney si riempivano il calice.
“Dobbiamo fidarci di questi giovani?” disse Greville.
“Dobbiamo. Se non coltiveremo in loro la potenza evocativa delle immagini, si prospetta una lunga notte per la poesia inglese”.
“Non vorrei ci scambiassero per papisti”.
“Non ti preoccupare l’unico che si sta esponendo troppo è Dicson, spero solo non diventi un segretario troppo imbarazzante”.
“A proposito dov’è?”
“E’ andato con Gwinne e Florio a prendere il nostro ospite”.
Quando il sole era al tramonto una carrozza si fermò di fronte alla casa di sir Philip Sidney. Scesero quattro uomini, uno di essi trasportava un sacco. Era moro, riccio e portava una barba appena accennata. Il suo nome era Giordano Bruno.
Giordano Bruno
“Messer Bruno. Finalmente. Benvenuto nella mia dimora” disse Sidney.
“Tanchi, Maester” rispose Bruno. “Vi chiedo scusa, ma mi esprimerò in latino – disse nella lingua di Cicerone -. Il mio breve soggiorno nella vostra isola non mi ha ancora permesso di apprenderne l’idioma”.
“Non vi preoccupate – rispose Sidney -. Passo a presentarvi i miei gentili ospiti”.
I convenevoli avvennero mentre gli occhi nella sala fissavano il misterioso sacco che Bruno aveva appoggiato sul tavolo al suo arrivo. Era al centro della sala, ben illuminato dai ceri di casa Sidney.
Finite le presentazioni, l’ospite disse: “Allora qual è la strabiliante sorpresa che mi avevate promesso”.
“Questa, maester” ed estrasse dal sacco un prisma esagonale. Era di legno, non più di una spanna per lato, poco meno di un braccio d’altezza. Non presentava nessuna incisione sulla superficie.
Bruno, compiuta l’operazione, si voltò. Tra gli astanti bocche socchiuse e rapidi movimenti d’occhi indirizzati verso gli altri ospiti.
“E’ inutile che cerchiate aiuto. Nessuno vi può biasimare perché non sapete cosa sia”. Detto questo, Bruno appoggiò una mano sulla parte superiore del prisma. Sfiorò una piccola leva e due ante si aprirono. Uno scatto rapido e silenzioso.
Un teatro in miniatura si presentava alla vista degli ospiti di Sidney. Sul palco era raffigurato lo zodiaco con incisi i dodici segni, sul fondale tre file di quattro finestre chiuse da ante. Sopra ognuna di esse un simbolo zodiacale.
“Ho chiamato questo oggetto icodromo. Poiché al suo interno le immagini compiono un percorso senza fine. O meglio, come vedrete, siamo noi che possiamo disporne la fine”.
Tutti gli ospiti si sedettero attorno a Bruno e all’icodromo.
“Immaginate di essere posti tra due specchi – disse il Nolano -. Guardando in uno, voi vedete la vostra immagine riflessa nell’altro. Non una volta, ma innumerevoli. Ebbene io vi dico che se gli specchi non fossero imperfetti, se le nostre capacità di calcolo non fossero limitate, la nostra immagine apparirebbe infinite volte”. Dopo una breve pausa riprese: “Io credo che dentro l’icodromo si ripeta un simile prodigio”.
“Beh! Cosa aspettate – disse Sidney -. Se quello che dite è vero mostratecelo”.
“Per farlo ho bisogno che qualcuno di voi mi presti un oggetto che io non ho mai indossato prima. Voi, per esempio – disse indicando un gentiluomo seduto innanzi -, porgetemi il vostro cappello”.
Bruno si mise il copricapo di velluto.
“Come potete immaginare la mia figura non è mai apparsa con questo singolare copricapo”.
Si voltò verso il tavolo. Abbassò il capo all’altezza dell’icodromo. La sua mano destra si arrestò sopra lo zodiaco. Il suo indice scese a premerlo. La finestra del Leone si aprì per un istante, per poi richiudersi.
“Ebbene - disse Sidney -. Io non ho visto niente”.
“Venite, venite pure, maester”, disse Bruno mentre restituiva il cappello.
“Mettetevi come mi son messo io, guardate attentamente la finestra che si è aperta e richiusa e poi premete sullo zodiaco il simbolo del Leone”.
Sidney premette. La finestra s’aprì, l’uomo guardò. Il tempo di schioccar le dita e l’anta si era richiusa.
“Non è possibile - disse rialzandosi - che diavoleria è mai questa”. Bruno sorrise.
“Lì dentro ho visto voi con il cappello!” disse Sidney indicando il Nolano.
“Vi prego di riprovare”.
Il padrone di casa ripeté l’azione. L’anta si riaprì, e Sidney vide la sua faccia esterrefatta.
“Adesso ho visto il mio volto”.
“Il vostro volto di qualche istante fa” lo corresse Bruno.
“Voi dite che la mia immagine è rimasta lì dentro mentre parlavo con voi?”
“Ne discuteremo dopo. Immagino che i vostri ospiti siano curiosi quanto voi di vedere”.
“Certo” risposero Greville e Dicson, e si diressero verso l’icodromo.
Gli uomini del Circolo sfilarono innanzi al singolare oggetto. Abbassavano il capo, fissavano l’anta, Bruno premeva il Leone, ed essi vedevano il volto di chi li aveva preceduti. Una vivida immagine proiettata dall’interno della finestra.
Quando tutti ebbero visto, Greville disse: “Messer Bruno, da dove viene questo affascinante oggetto?”.
“L’ho ricevuto dal re di Francia, mi ha detto che suo nonno Francesco lo mostrò al divino Camillo. Credo che per il suo teatro della memoria Camillo si sia ispirato all’icodromo”.
“E’ un’invenzione francese?” chiese Dicson.
“Enrico mi ha raccontato che si trova a Parigi dai tempi delle Crociate. Portato da qualche cavaliere di ritorno dalla Terrasanta. Ma la sua origine è ignota. Potrebbe essere frutto di un ingegnere dell’antica Grecia o dell’Impero di Roma. Io credo sia opera dello stesso Trismegisto e della sapienza egizia”.
“Come fate a essere sicuro che sia così antico? – replicò un gentiluomo -. Potrebbe essere un inganno dei francesi. Potrebbero averne costruiti centinaia per sconvolgere le nostre menti”.
“Ah! L’unica cosa francese che può far perdere la mente a un inglese è la sottana di una parigina” disse Sidney sorridendo.
“Vi assicuro – rispose Bruno - che non vi è altro oggetto uguale a questo sul suolo di Francia. Poiché nessun ingegnere sarebbe in grado di riprodurlo”. Bruno prese fiato, poi continuò: “In quanto alla sua età, posso testimoniare di aver visto con questi occhi, nella stessa finestra che voi avete osservato, una scena che risale a secoli or sono”.
“Cosa avete visto?” Lo incalzò Sidney.
“Uomini ignudi bagnarsi alle terme di Roma come non sono più da un millennio”.
“E nelle altre finestre non avete guardato?” chiese Greville.
“No. Solo in quella dell’Ariete, dove ho visto Camillo”. “Avete visto Camillo?” disse Dicson.
“La sua immagine. Credo che Camillo sia stato l’unico a scoprire l’apertura dell’icodromo. Sino ad allora era stato considerato come un oggetto maledetto. Si dice che i crociati che lo portarono in Europa morirono tutti in circostanze misteriose”.
“È pericoloso?” Domandò uno degli ospiti.
“No. È solo una superstizione che ha permesso di conservare sino a oggi immagini del passato”.
“Ma Camillo avrà aperto tutte le finestre?” disse Greville.
“Da uomo saggio qual era capì che si trattava di una ricchezza da tramandare agli uomini del futuro. Ché un giorno forse avrebbero potuto far rivivere quelle immagini. La sua raccomandazione al re fu: Non aprite le finestre”.
“Voi però le avete aperte?”
“Vi ripeto. Solo quella dell’Ariete e del Leone. Sono stato sopraffatto dalla mia curiosità, solo dopo ho capito che Camillo aveva ragione”.
Lo interruppe l’uomo che gli aveva prestato il cappello: “Scusatemi. Cerco di vedere se ho capito. Premendo uno dei simboli dello zodiaco si apre la finestra corrispondente ed esce l’immagine dell’ultima cosa apparsa di fronte alla finestra quando fu aperta. In quel momento entra nella finestra l’immagine di colui che osserva e lì vi resta finché qualcuno non preme di nuovo il simbolo zodiacale”.
“Sì. Gli esperimenti che ho condotto hanno sempre dimostrato questo comportamento”.
“Potrebbe essere un ausilio per la memoria. Potremo un giorno rivedere immagini che avevamo dimenticato” ipotizzò Greville.
“Maestro, è incredibile! Con questo ammutoliremo i dottori di Canterbury” disse Dicson.
“Mio caro discepolo, voi sapete quanto io tenga a smascherare le loro calunnie sull’arte della memoria. Ma l’icodromo può non limitarsi a questo, può mutare il pensiero della fisica e di altre scienze di natura. Anche i teologi dovranno rivedere certe loro affermazioni. Non so ancora quale parte reciti l’astrologia, ma vi assicuro, messeri, che questa non è opera del demonio”.
Seguirono alcuni secondi di silenzio, poi Sidney disse: “Credo che abbiamo molte domande da porre al nostro ospite italiano. Personalmente sono sconvolto. Vi chiedo perciò di iniziare la discussione dopo esserci rinfrescati la gola”. Si alzò e si diresse verso un angolo della stanza dove si trovavano bevande e cibo, fu immediatamente seguito da tutti gli ospiti.
Ben presto gli uomini del circolo di Sidney furono attorno a Bruno. Seduto in un angolo il Nolano rispondeva loro: “Quella di memoria è un’arte evocativa, e come tale è arte ermetica, arte magica”.
“Ma questa è idolatria. Come possiamo conciliare la fede in Dio con quella nella scienza”, lo incalzò uno degli ospiti.
“E come hanno fatto Alberto e Tommaso?”
“E’ dunque frutto di magia l’icodromo?”
“E’ senz’altro il prodotto di una sapienza prima e antica. Se l’icodromo riesce a conservare la nostra immagine, vuol dire che essa non è solo forma delle cose, ma atto. Sostanza prodotta dal fabbro del mondo. Quello che Averroé chiama intelletto universale e che io credo animi dal di dentro la materia e la natura”.
“E’ vero, quello che abbiamo visto stasera conforta le vostre tesi filosofiche. Ma voi sapete che sono un’eresia?” replicò uno degli uomini del Circolo.
In quell’istante Marlowe si avvicinò a Shakespeare. Il giovane di Stratford cercava di capire i discorsi di Bruno dalle ultime file.
“Se davvero quello che dice Bruno sulle altre finestre è vero, vogliamo perderci l’occasione di guardare il passato” gli bisbigliò Marlowe in un orecchio.
Il coetaneo si voltò. “Ma ha raccomandato di non toccarlo, e io oggi non ho più voglia di scappare”.
“Non se ne accorgerà nessuno. Hanno tutti gli occhi addosso a Bruno. Ci copriremo le spalle a vicenda”.
Shakespeare non rispose.
“Vorrà dire che guarderò da solo”.
“No, un momento. Ci sto”.
“Pari o dispari per chi va per primo”.
“Pari”.
Le mani si strinsero a pugno. Poi scattarono in basso. Uno e uno: pari.
Alla luce delle candele Shakespeare si diresse verso l’icodromo. Fissò lo zodiaco, fissò lo finestre. Concentrò il suo sguardo sull’ultima apertura in basso a sinistra. Il suo indice sfiorò il simbolo dei Pesci. La finestra si aprì, e vide. Vide un corpo, un corpo insanguinato trasportato in processione, e un crocchio di uomini in tunica attorno al corpo, e vicino al corpo un uomo possente ricoperto da una corazza scolpita nel cuoio di un toro. E l’uomo proteso nell’arringare la folla. L’immagine era già scomparsa quando mormorò: “Friends, Romans, countrymen, lend me your ears. The evil that man do … Ahi!”
“Tocca a me” disse Marlowe dopo avere assestato un calcio negli stinchi del compare.
“Io ho aperto quella dei Pesci” disse Shakespeare allontanandosi. Marlowe scelse invece la finestra più grande. Quella di casa Sidney. Prese l’icodromo e si buttò fuori.
“L’icodromo! Ha rubato l’icodromo!” Disse Shakespeare catapultandosi alla finestra. Intravide l’ombra di Marlowe proiettarsi sul sottostante carro di fieno. Poi nulla. Attorno il buio e il suono dei passi di uomo in corsa. “Seguitemi!” disse Shakespeare a uno degli ospiti di Sidney. L’uomo, di poco più vecchio, non si lasciò pregare e saltò con il giovane di Stratford dalla finestra.
“Voi andate di là” ordinò Shakespeare una volta a terra, e i due si divisero nella notte.
“Fermo là”, intimò Shakespeare.
“Calmatevi sono io. Thomas Kyd”
“Trovato niente?”
“Neanche l’ombra di quel bastardo”
“Continuiamo a cercare sino al prossimo rintocco, poi ci vediamo da Sidney”.
“Il primo che lo trova chiama l’altro”.
“Aspettate. Mi sono perso”. Ma Kyd era già lontano.
Il silenzio ricadde attorno al giovane di Stratford. Inspirò l’aria umida della notte. Non fece in tempo a espirarla. “Grrrrrr!” Un mastino gli si era parato innanzi. Shakespeare lo fissò negli occhi. Il cane accettò la sfida e spiccò il balzo. Il giovane si voltò per fuggire, ma inciampò e cadde a terra. Il molosso lo superò di slancio rovinando contro una catasta di legno. Una pioggia di ciocchi e piccoli tronchi lo sommerse. Oltre il cumulo si stagliò nella penombra l’immagine di Cristopher Marlowe.
“Non puoi scappare, brutto porco. Ridammi l’icodromo e ti lascio andare. Altrimenti chiamo Kyd e ti spacchiamo la faccia”.
“Un momento, William. Cosa guadagni se riporti l’icodromo? Pacche sulle spalle e qualche sterlina. Io invece ti offro di aprire tutte le finestre dell’icodromo”.
“No!”
“Pensaci. A te le immagini, a me l’icodromo”.
“Nooo… No!”
“Pensavo che ti fosse piaciuto quello che avevi visto da Sidney?”.
Shakespeare non rispose. “Ascolta: William Shakespeare, colui che vide il passato. L’unico al mondo. L’idea non ti alletta”.
“Va bene. Mi hai convinto, ma voglio anche i soldi che mi devi”.
“Tutto bene, Shakespeare?” Disse Kyd di ritorno dalla perlustrazione.
“Sì, anzi no. Non ho visto nessuno”.
“Prima mi era sembrato di sentire dei rumori”
“Ah, sì. La bestia – disse Shakespeare indicando la catasta di legno -. Mi ha aggredito, ma ha avuto la peggio”.
“Io non ho avuto miglior sorte. Sono finito in una pozza”. Disse Kyd mostrando l’abito infangato.
William Shakespeare e Thomas Kyd tornarono a casa Sidney dopo un’ora di ricerche.
“L’avete trovato?” chiese Sidney appena li vide entrare.
“Niente” rispose Kyd.
“Vatti a fidare dei giovani – gridò imprecando il padrone di casa -. A proposito, voi – disse indicando Shakespeare – sembravate conoscerlo bene, quel cane”.
“Vi giuro l’avevo incontrato ieri sera al Theatre. Mi ricordavo a mala pena il suo nome. E non sono nemmeno sicuro che fosse veramente il suo. Pensavo che voi lo conosceste da tempo”.
“Ah! La colpa è mia perché sono un mecenate e concedo ospitalità a chi ha talento?”.
“Sir, vi prego. Il giovane non intendeva offendervi. Si è solo difeso dalle vostre insinuazioni, ma vi garantisco che gli uomini della contea di Warwick sono uomini d’onore”, disse Greville.
Shakespeare annuì con la testa.
“Scusatemi entrambi, e anche voi - disse rivolto agli altri ospiti -. Spero solo che Bruno non mi ritenga responsabile”.
“Ma dov’è andato?” disse Kyd.
“E’ uscito infuriato subito dopo il furto. A quest’ora sarà all’ambasciata. Ci ha pensato Dicson ad accompagnarlo”.
Seguirono attimi di silenzio, poi Fulke Greville prese il mantello e disse: “Buonanotte, sir. Non preoccupatevi. Il Nolano è un uomo impulsivo. Gli passerà, non ce l’ha con voi, ma con se stesso”. Detto questo si congedò e assieme a Shakespeare fece ritorno a casa.
Il giorno seguente, 7 settembre 1583, era ancora mattina quando William Shakespeare salì sulla corriera per Stratford. Mentre Londra era all’apice dei festeggiamenti, egli sedeva sul predellino accanto al cocchiere che aveva smaltito la sbornia.
“Se fossi stato re ieri vi avrei attaccato alla forca, oggi invece vi ricoprirei d’oro”, disse Shakespeare mentre s’inoltravano nella campagna.
“Mi basterebbe che mi ricopriste di sidro” rispose il cocchiere.
Furono le uniche frasi che si scambiarono durante il viaggio. Si salutarono all’osteria di Stratford facendo un brindisi alla regina.
Cristopher Marlowe aveva giocato tutta la notte a dadi nella taverna del porto. Non aveva avuto “aiuti” dalla fortuna ed era rimasto senza nemmeno un soldo. Alle luci dell’alba decise di giocarsi l’icodromo.
“Trenta sterline per questo” disse indicando l’oggetto portato da Bruno.
“E cosa me ne faccio di un vecchio pezzo di legno” disse l’uomo che accettava le scommesse.
“Questo è più antico della Torre di Londra” replicò Marlowe.
L’uomo sorrise: “Non più di dieci, e solo perché mi hai già fatto guadagnare la giornata”.
“Va bene”.
Marlowe strinse i dadi, li agitò, li portò alla bocca, poi con uno scatto li lasciò cadere. “Sette!” urlò. I dadi rotolavano. Si arrestò il primo: tre. Il secondo ruotava avvitandosi su stesso, poi il moto vorticoso proiettò il baricentro fuori dalla base e inesorabilmente cadde. Cinque.
Marlowe si alzò, girò le spalle al tavolo e uscì dalla taverna. Scese sulla riva del fiume, risalì per qualche centinaio di metri il corso d’acqua, poi si sedette sulla banchina di un molo a fissare la sua immagine riflessa nell’acqua. Una donna incappucciata, ritta in piedi, scrutava la corrente a pochi metri da lui. La giovane si voltò verso Marlowe ed egli, senza girare il capo, disse: “Milady, dite a sir Raleigh che la regina e la Chiesa d’Inghilterra non hanno più nulla da temere da Bruno. L’oggetto giace sul fondo del fiume”. In quel momento l’immagine di Marlowe scomparve dallo specchio d’acqua. Una barca di carta aveva sciolto il riflesso in cerchi concentrici.
“La carta non è fatta per le parole” disse fra sé il ragazzo che curava i porci. Sulla riva piegava l’ultimo foglio di un’opera perduta.

Andrea Dallapina

Annus Mirabilis

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Anno Domini 1630, Annus horribilis, mese di ottobre.
Sono un sopravvissuto, l'unico  che, in questo borgo antico e senza tempo arroccato ai piedi del monte Carza, non ha trovato la morte nell'epidemia di peste che ha colpito il ducato di Lombardia e l'Europa intera. Per la sua particolare virulenza qualcuno ha chiamato questo contagio "calamitas calamitatum"[1], calamità di tutte le calamità. Quello che mi appresto a compiere tra poche ore è il sacrilegio che ne consegue.
Signore perdonami ed abbi misericordia della mia anima! Mi è stato imposto dal magistrato di Cannobio un atto di sanità pubblica, ma per me, che ho vissuto e respirato ogni immagine raffigurata in questa chiesa per oltre trent'anni, quello che porterò a compimento domani sarà un oltraggio alla Vergine Maria, a San Gottardo e a San Bartolomeo e a tutti i Santi che in ogni tempo Ti furono graditi. Domani inizierò, infatti, a cancellare con la malta gli splendidi cicli di affreschi che adornano le pareti di questa chiesa, per disinfettare la casa di Dio dal morbo pestifero. Domani calerà un sipario spoglio e grigio su questa chiesa. Chissà se un giorno qualcuno riporterà mai questi dipinti al loro antico splendore?[2]
La piccola chiesa di San Gottardo al Carmine, si erge nella piccola frazione del Sasso Carmine, legata alla Pieve di Cannobio, e raggiungibile solo a piedi (attraverso una mulattiera che, dalla strada costiera che conduce a Cannobio, si snoda all'altezza di Carmine Inferiore e risale la montagna).
La mia chiesa è un vero e proprio scrigno di tesori artistici di grande pregio, datati tra il secolo decimo quinto e decimo sesto.   La chiesa fu costruita su uno sperone di roccia che si lancia dall'alto verso il Lago Maggiore.
Su al Carmine Superiore il tempo pare si sia fermato; si respira un'atmosfera incantata e la vista che si gode da quassù è impareggiabile, sulla sponda dirimpetto al lago sorge il paesino di Maccagno, dove nacqui cinquantacinque estati fa e dove, da quarant'anni, non ho più fatto ritorno. Se fossi morto anch'io durante il contagio non mi sarebbe dispiaciuto venire seppellito su questa bella terrazza a lago che si affaccia sulla terra natia.
Moltissimi viandanti, pellegrini, mercanti, nobili, ecclesiastici, villici, uomini, donne, e bambini hanno cercato rifugio tra le pareti della mia chiesa, pregiato gioiello trecentesco, pensando e sperando di mettersi in salvo dal flagello della peste. Nonostante le gride che proibivano di lasciare la città e minacciavano le solite pene severissime, come la confisca delle case e di tutti i patrimoni, furono molti i nobili che fuggirono da Milano per venirsi a rifugiare nei loro possedimenti in campagna, anche quassù al Sasso Carmine, minuscolo avamposto sul lago Maggiore.Tuttavia, l'infezione, portata dalla discesa dei Lanzichenecchi in Italia, e che dal mese di novembre dello scorso anno semina morte e disperazione tra la popolazione già provata dalla carestia, è arrivata anche qui, in questo aspro lembo di terra a picco sul lago, al confine con la Svizzera.
Un sarto milanese che, in fuga verso Locarno e la salvezza, chiese asilo qui a San Gottardo lo scorso luglio, mi raccontò che il continuo aumento dei decessi e l'infuriare senza tregua del morbo spinse i decurioni[3]a chiedere al cardinal Federico Borromeo l'autorizzazione a svolgere una solenne processione per le strade, in cui fosse esposto il corpo venerato di San Carlo e si invocasse così il soccorso divino per porre rimedio alla terribile calamità. Il prelato sulle prime rifiutò, temendo che la cosa non sortisse l'effetto desiderato e la rabbia popolare si rivolgesse contro il santo, tuttavia alla fine cedette alle reiterate insistenze e la processione venne stabilita per il giorno 11 giugno, partendo all'alba dal duomo cittadino. La processione si tenne con un concorso incredibile di popolo e attraversò tutti i quartieri della città, esponendo la reliquia di San Carlo e facendo delle fermate presso tutte le croci che erano state benedette e poste dal santo alla fine della peste del 1576, mentre moltissimi Milanesi osservavano dalle case e persino dai tetti il procedere del lungo corteo. Fin dal giorno seguente, tuttavia, i decessi per il morbo crebbero in maniera vistosa e ciò evidentemente per il propagarsi più rapido del contagio nella processione medesima, attraverso il moltiplicarsi dei contatti fra le persone radunate in strada.
Troppi sono stati anche qui i morti, tra coloro che hanno cercato rifugio nella chiesetta di San Gottardo, seppelliti nel piccolo cimitero che si affaccia sul Verbano. Oggi, dopo quasi dieci mesi, riesco a guardare la distesa blu del lago senza provare angoscia, ma finalmente un senso di pace e di rinascita. La peste è finita! Ho sepolto con le miei mani stanche e provate, l'ultimo malato circa  tre settimane fa. Si trattava di un bambino del Carmine Inferiore, avrà avuto sette o otto anni, il piccolo Pietro. Era arrivato qui con la sua mamma l'8 settembre, lo ricordo bene perché era il giorno della Natività della Beata Vergine, ma quest'anno non ci sono nascite da festeggiare, solo morti. La donna, giovane, ancorché provata dalla fame e dai recenti lutti che avevano colpito la sua numerosa famiglia, sembrava in buona salute, non aveva febbre e non presentava pustole sul suo corpo. Tuttavia, mi sovvengo che restai alquanto stupito dal fatto che nonostante la salita a passo spedito lungo la mulattiera che dal paesino sul lago conduce in una ventina di minuti circa a quest'altura, ed il peso dei pochi averi che si era trascinata dietro insieme al figlioletto, era qui giunta con un notevole abbassamento della temperatura corporea, difficoltà respiratorie e grave debolezza. Qualche giorno dopo apparve la tosse ed i primi starnuti, dopo una settimana le punte delle dita e le labbra erano diventate bluastre... non c'erano dubbi, si trattava certamente di peste polmonare. Sperai e pregai l'Altissimo affinché la sua creatura venisse risparmiata dal contagio, ma il piccolo non si era mai allontanato dalle sottane della madre e stipati in questa chiesa, senza intimità alcuna, si accalcavano ancora troppi appestati, sporchi, puzzolenti, coperti dai bubboni, dalle pulci e dai loro stessi escrementi. Quella del piccolo Pietro, come quella di tutti d'altronde, è stata una morte purtroppo annunciata. Dopo un'incubazione di circa dodici giorni, infatti, anche per il bimbo sopraggiunse la febbre alta, la nausea, il vomito ed il delirio. Nonostante la frescura e l'oscurità all'interno della chiesa, il piccolo lamentava un forte dolore agli occhi, causato dalla sensibilità alla luce, ho dovuto bendarglieli con un cencio strappato alla sua camicia. Infine si sono formati i bubboni, sotto le ascelle, sull'inguine... si sono infiammati e gonfiati... delirio, sonno, attimi di lucidità e urla disumane. Non si può sentire un bambino, la cui madre era spirata solo pochi giorni prima,  urlare dal dolore, no, è troppo straziante! A volte accade il miracolo, specie nei soggetti giovani, la febbre cessa dopo circa due settimane e i bubboni espellono pus sgonfiandosi, il paziente seppur debilitato guarisce dal morbo e l'unico ricordo che resta della peste sono le cicatrici. Purtroppo per Pietro il miracolo non si è verificato, le mie preghiere sono state vane, le invocazioni a San Rocco, San Gottardo e San Bartolomeo inutili. Non è servita a nulla neanche l'impiastro di  cera d' olio d'oliva con  foglie di aneto,  di lauro, salvia e rosmarino pestate e bollite con un poco d'aceto. Gli spalmai io stesso l'unguento sulle narici, le tempie, i polsi e le piante dei piedi, dopo avergli dato da mangiare cipolle, aglio e avergli fatto bere aceto.
Avrei voluto fare di più, poter prestare maggior aiuto e conforto a lui e ad ognuna delle anime che mi fu affidata, ma sono solo Don Faustino, un vecchio prete di campagna, pastore di uomini del Sasso Carmine, dimenticato dal Vescovo di Milano e dal parroco di Cannobio.
Ma ora basta versare lacrime, è tempo di ammirare per l'ultima volta queste immagini mirabili e raccogliere i pensieri ed i ricordi per poter tramandare ai posteri negli annali parrocchiali la descrizione di questa chiesa cosi come è stata tramandata a me dal mio predecessore, cosi come migliaia di anime l'hanno potuta vedere, assistendo alla mensa del Signore, per trecento anni, perché domani sarà cancellata per sempre alla memoria collettiva.
Il nome del borgo medievale del Carmine deriva probabilmente dal latino “CULMEN”, termine che si riferisce alla sommità di un monte. I suoi abitanti, almeno prima di questa maledetta piaga, si chiamavano “Carminitt”. Lo storico contemporaneo locale, tale Giovanni Francesco del Sasso Carmine ne pone l'anno di fondazione tra l'anno 950 e l'anno mille come casaforte[4], edificato da una famiglia  di notabili Cannobiesi, aveva lo scopo di difendere la via d'accesso di Cannobio e dare rifugio alle popolazioni circostanti in caso di pericolo. La borgata allora era densamente popolata, il Carmine Inferiore era anch'esso molto sviluppato grazie alla posizione lungolago, alla stazione di posta e all'osteria. Ora la peste ha trasformato il Sasso Carmine in un borgo fantasma, dove oltre a me sono rimaste quattro galline rachitiche ed un paio di pecore terrorizzate che non producono più latte.
La chiesa, di cui sono il custode, fu tenacemente voluta dai “Carmenitt” che chiesero ed ottennero dai duchi di Milano nel 1332 di non essere più obbligati a recarsi a Cannobio per seguire le celebrazioni sacre (dal Carmine Superiore infatti ci vogliono circa 90 minuti a piedi per raggiungere Cannobio!) e per seppellire i propri defunti. Questa seconda funzione si è rivelata, ahimè, tragicamente fondamentale in questo annus horribilis, anno terribile, durante la pestilenza. Il piccolo cimitero del Carmine Superiore è divenuto, infatti, l'estrema dimora per numerosi “Carmenitt” e per i viandanti che in chiesa avevano cercato riparo dall'epidemia.
Ora, senza alcun riguardo per i suoi pregevoli affreschi, le pareti interne della Chiesa di San Gottardo saranno ricoperte interamente di calce per precauzione contro il diffondersi del contagio.
Sono solo un povero prete, un curato di campagna, con un'infarinatura di latino, storia, matematica, geografia ed astronomia... ma l'arte e l'architettura mi appassionano fin da fanciullo e spero di poter lasciare un contributo attendibile a ricordo degli affreschi che decorano la chiesina di San Gottardo al Carmine Superiore.
Innanzitutto bisognerebbe specificare che la chiesa fu costruita in due tempi: una prima fase dal 1332 al 1401 (come indicava una dedica in latino sul portale maggiore ora non più leggibile), a cui risale l'ingresso laterale ed il campanile romanico ed una seconda fase conclusasi nel 1431 (ampliamento della terza campata con scene martirio San Bartolomeo e  apertura di una finestrella in corrispondenza dell'altare per rendere più luminoso l'interno). L'edificio si rivelò ben presto, infatti, insufficiente ad accogliere un numero di fedeli in continua crescita.
La Chiesa di San Gottardo fu consacrata dal Cardinale Carlo Borromeo soltanto nel 1574. Per la pieve di Cannobio fu una giornata memorabile e ancora oggi, a distanza di quasi sessant'anni, è ricordata dai vecchi con emozione e partecipazione.
La chiesa, dedicata a Dio e alla Vergine, è intitolata al Vescovo di Sassonia, San Gottardo, che la tradizione vuole si trovasse a ristorarsi in questi luoghi nell'XI secolo durante un suo viaggio verso Roma.
Fin dagli anni della sua costituzione dovette essere molto viva nella mente dei committenti e dei costruttori l'idea di decorare con dipinti il rigoroso interno. Le stesse superfici murarie con rade finestre ben si prestavano ad essere affrescate. Infatti non soltanto i tre spazi interni (il coro rettilineo, l'aula unica per i fedeli e la campata di ampliamento risultano affrescate in epoca ancora medievale, ma le immagini sono uscite dalla chiesa per distendersi sulle superfici esterne, occupando in particolare il fianco meridionale, unico accessibile di un edificio con facciata adiabasica[5]e la testata orientale quasi a strapiombo sul lago.
Gli affreschi esterni sono dunque visibili sia sul luogo che da lontano (specie quelli dipinti sul muro del coro) come veri manifesti tanto della devozione quanto della cultura dei committenti.
Sulla fiancata meridionale, da sinistra a destra, si riconoscono una zampa di cavallo forse appartenente ad un San Giorgio o ad un San Martino cancellato dal tempo. Un San Cristoforo assai malconcio, un san Gottardo tra due angeli, tagliato dall'apertura della sottostante finestra aperta nel 1579 una santa Apollonia riconoscibile per le tenaglie ed i denti strappati, simboli del suo martirio, ed un ennesimo San Gottardo.
Sulla facciata verso il lago invece ecco una sbiadita Madonna col bambino, affresco tardo quattrocentesco.
Sopra la porta maggiore, si staglia la monumentale figura di San Gottardo benedicente, seduto solennemente in trono attorniato da piccole figure di fedeli di diverse categorie sociali; il frescante, ne sono convinto, aveva preso a modello proprio gli abitanti del borgo...a distanza di secoli i loro discendenti conservano infatti gli stessi tratti somatici! Un'antica frammentaria iscrizione in latino ci avverte che fece eseguire il dipinto un eminente Signor Pietro de Saxo Carmine nel 1438; sull'autore dell'affresco invece nessun accenno.
L'Adorazione dei Magi, probabilmente del 1429-31, è coerente allo schema consueto del Trecento: Il primo dei Magi si inginocchia davanti a Maria con in braccio il Bambino, il secondo e il terzo si accostano in successione e sembrano dialogare tra loro con i gesti e gli sguardi. Tuttavia l'attenzione minuziosa delle decorazioni sulle vesti e sugli sfondi, il tono fiabesco dato dalle corone medievali rimandano ad un gusto tardogotico. Questo affresco è stato attribuito alla bottega del  Maestro della Madonna di Re che operò nell'alto novarese dal 1380 al 1420 circa.
Rientriamo ora in chiesa, presto... sta scendendo la sera e posso godere un'ultima volta di queste immagini mirabili alla fioca, malinconica luce autunnale.
L'edificio a pianta rettangolare è caratterizzato da due campate centrali coperte da volte a crociera impostate su arcate a tutto sesto o a sesto leggermente ribassato in conci lapidei. Sul lato in corrispondenza della campata centrale di apre una cappella con pianta rettangolare e volta a botte.
L'abside principale è a scarsella[6]con volta a vela.  Nel catino absidale appare un Cristo Benedicente che copre un affresco ben più antico e di cui ormai da più di duecento anni si è persa ogni traccia.
Sulla volta è raffigurato l'affresco più antico della Chiesa risalente al 1300: il Cristo in Maestà (circoscritto entro un profilo a mandorla) circondato dai quattro evangelisti. Si ipotizza che questi primi affreschi del Carmine siano di mano del Maestro diCorzoneso.[7]
Verso il 1380c.a. gli abitanti del Carmine sentirono l'esigenza di arricchire la chiesa con un nuovo ciclo decorativo, il più importante della fine del 300 novarese. Vennero inoltre riaffrescati in parte i dipinti già esistenti. Sulle pareti del presbiterio, si staglia l'Annunciazione,molto elegante, raffinata e ricca di dettagli: la Vergine è inginocchiata davanti ad un leggio, inserita all'interno di in un edificio rinascimentale ricco di marmi. Dell'Arcangelo Gabriele colpiscono la raffinatezza delle vesti e l'attenzione alla resa dei capelli. 
Nell'Annunciazione le figure sono ancora classicamente atteggiate, ma il dipinto è ravvivato da un ricco decorativismo non solo sugli abiti ma nella ricchezza dei particolari che ornano l'elaborato leggio e la dimora stessa di Maria con i preziosi marmi.
Dietro l'altare è visibile l'affresco di una Crocifissione(Cristo in Croce tra la Vergine e San Giovanni con ai lati San Bartolomeo a sinistra e San Gottardo a destra, di grandi dimensioni). Anche il tema severo della Crocifissione non rinuncia all'eleganza di un prato fiorito e possiamo osservare infatti la sontuosità del piviale[8]di San Gottardo, il mantello di San Bartolomeo elegantemente siglato con le sue iniziali.  Il gusto è palesemente quello miniaturistico tardogotico d'oltralpe.
Questo secondo pittore novarese, negli ultimi decenni del '300 riprende gli schemi presenti negli oratori del novarese ma aggiunge una nuova sensibilità ed una grande ricchezza decorativa.
La Chiesa del Carmine, come accennavo prima di immergermi nella descrizione dei suoi affreschi,  è giunta, a compimento nel 1401 al tempo del canepario[9]Andriolo, che ne fu il committente. In questa ultima fase, i Carminittsono ancor più motivati a completare la decorazione interna su tutta la navata. Il nuovo maestro pittore si sposta da modelli giotteschi a modelli tardogotici. Il soggetto è volto a celebrare il Santo Vescovo Gottardo a cui la piccola chiesa è intitolata e resterà noto come maestro di San Gottardo. Ma chi fu San Gottardo Vescovo?
Gottardo di Hildesheim (Reichersdorf 960 - Hildesheim 1038) fu un vescovo benedettino. Nacque nel 960 nella diocesi di Passavia, tra Baviera e Austria. Viaggiò molto in Germania, Austria, Svizzera, Italia e Francia. Si dice che in 15 anni di vescovado consacrò più di 30 chiese. Fu molto amato sia dal popolo, per la sua cura pastorale e per l'apertura di scuole di scrittura e di pittura, che dal clero, per la sua osservanza della disciplina religiosa e per le sue conferenze bibliche. Fu nominato santo da Papa Innocenzo II il 29 ottobre 1131. San Gottardo è molto  venerato nella regione alpina tanto da dare il suo nome ad uno dei valichi più importanti, il passo del San Gottardo appunto, già citato a metà del XIII secolo nel Annales Stradenses, guida per pellegrini che dal nord Europa volevano raggiungere Roma o la Terrasanta. Sulle principali vie di traffico, infatti, Gottardo divenne nei secoli il patrono preferito dei commercianti e ciò spiega perché nelle Alpi siano sorte un po' dovunque chiese e cappelle in suo onore[10]. L'intercessione di San Gottardo è implorata contro la febbre, le malattie dei fanciulli, le doglie del parto, l'idropisia[11]. In Italia il santo è invocato specialmente per alleviare i dolori di gotta ed altre malattie artritiche e reumatiche. Il nome germanico Godard o Gotheard è infatti storpiato, come spesso accade purtroppo in italiano, con la sommaria traduzione popolare di "gotta".[12]
Sulla volta intermedia, dunque, un ciclo di affreschi illustra 12 scene della vita di San Gottardo  rappresentato con mitra e pastorale per confermare il suo ministero episcopale in Germania (predicazione, consacrazione e guarigioni miracolose).
Le soluzioni più innovative del maestro di san Gottardo sono evidenti soprattutto negli spicchi della volta, su cui il santo è rappresentato in atto di predicare e di benedire la folla. Spiccano sulla parete la straordinaria ricchezza e luminosità dei colori. Sono qui rappresentate le due anime del tardogotico: da una parte l'eleganza cortese con la preziosità delle vesti, la sinuosità dei panneggi, la brillantezza delle tinte pastello, dall'altra il gusto per l'affollamento delle scene e la ricchezza di particolari realistici, per lo studio delle espressioni fino alla caricatura in cui qualcuno, come il sottoscritto, ha voluto vedere gli abitanti del borgo[13]. La narrazione delle Storie di San Gottardo è integrata da un ricco corredo di iscrizioni dipinte su ampi cartigli (alcuni ora illeggibili), a conferma del forte didascalismo. I cartigli sono importantissimi supporti didattici sia per me, modesto curato di campagna, in quanto mi aiutano a non perdere le fila della predicazione, narrazione che avviene mostrando ai fedeli le immagini affrescate, sia per quella prestigiosa nobiltà acculturata, in grado di scrivere e leggere in latino, si degnava nei giorni di festa comandata di affollare i banchi di famiglia, mischiandosi con i devoti del borgo.
Oltre a San Gottardo a cui è dedicata la chiesa, sono presenti al suo interno affreschi dedicati a San Bartolomeo, che fu uno dei dodici apostoli. Il vero nome era probabilmente Natanaele[14]. Nato a Cana in Galilea, fu condotto da Filippo a Cristo presso il Giordano e, chiamato a seguirlo, si unì ai Discepoli. Dopo la morte di Gesù fu missionario in varie regioni del Medio Oriente, spingendosi pare fino in Armenia, India, Mesopotamia ed Azerbaigian. Morì in Siria tra il 60 ed il 68 d. C. La tradizione vuole che fu ucciso, scuoiato della pelle da parte del re dei Medi. A causa del supplizio a cui sarebbe stato condannato, si vede spesso Bartolomeo raffigurato mentre viene scuoiato, o con la pelle drappeggiata intorno al corpo, oppure con un coltello in mano[15]. San Bartolomeo è protettore degli artigiani che operano con coltelli o arnesi da taglio: macellai, calzolai, cuoiai, pellicciai, sarti, conciatori, rilegatori; come molti artigiani di questa riva del Verbano. E' invocato dai fedeli per proteggersi da diverse malattie cutanee (es. herpes, pellagra ecc.). San Bartolomeo viene festeggiato il 24 agosto. Quest'anno, tuttavia, le celebrazioni per la commemorazione del santo qui al Carmine Superiore sono state soppresse. La peste era al culmine della sua virulenza, della sua furia assassina.
Sappiamo con certezza, grazie alla citata iscrizione sopra la prima porta a sinistra nell'entrare in chiesa, che nel 1431 si era effettuato un ampliamento con una nuova campata verso monte, il pavimento un po' più rialzato per l'accidentalità del terreno. Nelle volte della porzione aggiunta le storie di San Bartolomeo rappresentano uno dei cicli più completi sulla vita del santo Apostolo[16].
Infine, all'interno presso l'altare maggiore è posto un trittico antico che ritrae al centro la Madonna col Bambino, Angeli Musicanti e due Donatori; i santi Gottardo e Bartolomeo (negli scomparti minori), il Crocifisso tra i dolenti (nella lunetta) ed i simboli degli Evangelisti (nella predella) . Il trittico, dipinto verso il 1490 è firmato da Giovanni Battista de Prioris e da  Galdino da Varese.
Un altro trittico del 1529 opera di Battista da Legnano, si trova sull'altare laterale; rappresenta la Vergine in adorazione del Bambino(nello scomparto centrale) ed i Santi Rocco e Bartolomeo (in quelli laterali). [17]
San Rocco, è uno dei santi maggiormente invocato in questa terra di Lombardia, che si staglia tra il blu del lago e l'asprezza delle sue alte vette, governata dalla dinastia dei Borromeo e sotto l'egida del Ducato di Milano. San Rocco, appestato, che mostra le piaghe da cui miracolosamente guarisce, non ha, tuttavia, aiutato il mio gregge a salvarsi da questo terribile morbo che ha colpito il Carmine Superiore in questo anno del Signore 1630.
Il Diavolo che ricorre spesso nel ciclo di affreschi all'interno della chiesa, ha dominato, ha falciato vite innocenti, come quella del piccolo Pietro. Il Bene, espresso nelle mirabili vite dei Santi con la loro fervida predicazione ed i loro miracoli, nulla hanno potuto contro il Male rappresentato dalla virulenza dell'epidemia di peste che ci ha colpiti.
Mi torna alla memoria, in questa triste ora, l'orrore dei volti agonizzanti di coloro che, cercando rifugio tra queste mura, nei loro ultimi momenti di vita rivolgendo lo sguardo alle pareti affrescate, si trovavano di fronte al Demonio, che incombeva su di loro cosi come i demoni della loro coscienza e dei loro peccati, prima di rimettere l'anima a Dio.
Forse è un bene, realizzo ora, eliminare con la calce ogni traccia del Demonio rappresentata in questa chiesa e andare avanti, lasciare le pareti immacolate, candide così che la vita possa di nuovo prevalere sulla morte.

Questo racconto di fantasia nasce dalla volontà di raccontare la virulenza della Peste di manzoniana memoria del 1630 che duramente colpì anche le popolazioni del lago Maggiore, e che realmente vide protagonista la piccola chiesa di San Gottardo al Carmine Superiore in cui molti cercarono rifugio dal morbo. La chiesa è un gioiello d'arte medievale e luogo del cuore, ove la meraviglia dell'iconografia esce dagli affreschi per immergersi a strapiombo nel blu del lago.

Carola Mangialardo

Bibliografia
- AA.VV., Fondazione Novalia, La Chiesa di San Gottardo a Carmine Superiore, BetaGamma editrice, 2003.
- Geraldine Brooks, Annus mirabilis, Neri Pozza editore, 2003.
- Daniel Defoe, A Journal of the plague year, Oxford University Press, 1998.
- George Kaftal, Iconography of the Saints in the Italian Painting, edizioni Le Lettere, 1986.
- Alessandro Manzoni, I  Promessi Sposi, Loescher, 1993.
- Alessandro Manzoni, Storia della Colonna Infame, Fabbri Editori, Milano, 1995.
- La Peste del 1630, Archivio Storico della Città di Torino.

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[1] La peste aveva spopolato Milano e aveva mietuto migliaia di vittime anche nei territori circostanti, per quanto i documenti dell'epoca rendano molto difficile fare delle stime precise dei morti: a differenza delle precedenti epidemie, inoltre, quella del 1630 fu particolarmente virulenta e colpì tanto le popolazioni rurali quanto i ceti imprenditoriali e artigiani, causando una grave crisi economica. 
[2] I preziosi cicli di affreschi, furono riportati all'antico splendore dai restauri avvenuti nel 1932-33 dal professor Mario Albertella e dal 1997 al 2002. 
[3] Magistrati di Milano che si occupavano di amministrare la città. 
[4] Un'antica residenza signorile fortificata in periodo medievale, utilizzata dal signore "rurale" per conservare i prodotti agricoli ed impedirne i furti. Aveva altresì una valenza difensiva. 
[5] Edificio caratterizzato dall'assenza di un portale in facciata, sostituito da un'entrata laterale. 
[6] La scarsella è un'abside di piccole dimensioni, a pianta rettangolare o quadrata, che sporge all'esterno della struttura principale. 
[7] Piccolo paese del Canton Ticino al centro della valle di Blenio. 
[8] cappa, paramento liturgico 
[9] Tesoriere 
[10] La prima cappella consacrata sul valico dedicata a san Gottardo fu edificata nel 1230. 
[11] Accumulo di liquido sieroso. 
[12] In realtà il significato preciso del nome Gottardo deriva dal tedesco Goth=Dio e Hart=forte, cioè “il forte di Dio”, colui che ha la protezione di Dio. 
[13] Grazie alle divulgazioni dei “tacuina sanitas” , attraverso modelli arabi di nozioni scientifiche e mediche. 
[14] Dono di Dio (v. vangelo di Giovanni).Il nome Bartolomeo deriva dall'aramaico “bar”=figlio e “talmai”=agricoltore. 
[15] Si dice che Natanaele fosse altresì un assiduo lettore della Bibbia e meditasse spesso sotto un fico prima dell'incontro con Gesù – v. scultura di Marco d'Agrate nel Duomo di Milano. 
[16] Secondo il grande studioso di iconografia George Kaftal. 
[17] Entrambi i trittici corredati di elaborate carpenterie in legno intagliato e dorato e sono stati oggetto recente di restauro (1980-1981). Sono stati trasferiti per volontà della Sovrintendenza dei Beni Culturali per motivi di sicurezza e per esigenze di cantiere durante l'ultimo restauro degli affreschi nella Chiesa Parrocchiale di San Vittore a Cannobio.

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Cicerone narrava che la gratitudine è la più grande delle virtù, ma anche la madre di tutte le altre. Nella speranza di riuscire ad essere una persona virtuosa, che collabora con molti altri ragazzi dotati di virtù, voglio ringraziare ognuno di voi per il primo grande obiettivo raggiunto: quello delle 500,000 pagine lette. 
Ho aperto il blog nel luglio del 2013.
Da allora quasi 700 articoli che raccontano il territorio.
Quale territorio?
Siamo partiti da casa nostra, il Verbano-Cusio-Ossola, nell’alto Piemonte.
Scelta difficile e complessa: il paesaggio e la natura incontaminata sono noti anche lontano da queste terre, ma le storie, le eresie, le cacce alle streghe e l’arte locale, quelle no, pochi le conoscevano.
Perché spendere tempo in ricerche e visite di chiese ed oratori sempre chiusi?
Mi appello a Cesare Pavese: “ Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”.
Le prime ricerche ci portano ad affermare: Ossola terra sacra da sempre.
Pitture rupestri, megalitismo, massi coppellati e scivoli della fertilità ornano i pendii delle nostre montagne. Il tempo passa, nuove religioni si affermano. Il cristianesimo, presente sin dagli albori, costruisce i suoi templi sopra le sacre rocce utilizzate dagli antichi. Si crea un connubio particolare, sia da studiare sia da ammirare.
Compare un nostro articolo sulla rivista Italia Misteriosa che permette di raccontare la Balma dei Cervi, complesso di pitture rupestri, rintracciabili in valle Antigorio, ad un pubblico numeroso.
Crescono il numero dei lettori e dei ragazzi che partecipano al progetto.
Nuovi territori da raccontare e storie da ricordare.
Nuove tragedie da proporre.
Il resoconto della caccia alle streghe si allarga da Baceno a Triora, dalla Valcamonica alla Francia.
L’arte locale diviene nazionale.
Da Giacomo da Cardone, pittore eretico di Montecrestese, a Bernardino Luini, dalla famiglia Cagnola, operante tra il novarese e l’Ossola, a Daniele Crespi ed il barocco lombardo.
Dall’alto Piemonte ci spostiamo nel Canavese e poi nel torinese.
Da Varese puntiamo Milano.
All’improvviso il ritorno alla vita dei bimbi nati-morti: un anno di ricerche e la pubblicazione del primo libro, Mai vivi - Mai morti, a firma di partecipanti al progetto.
Problematico inizio del 2016 con la fuoriuscita di tre autori-fotografi del blog, tra cui il co-autore del libro.
Questo non ferma il torrente che diviene fiume.
Da gennaio ad oggi siamo passati da circa 1000 pagine quotidiane a 2000.
Un raddoppio in tre mesi è impressionante.
La pagina facebook conta oltre 16.000 persone che ci seguono o hanno la possibilità di farlo.
In tutto questo voglio ricordare le oltre 40 serate o eventi organizzati sul territorio.
Ora?
Nulla cambierà, continueremo a scrivere e fotografare.
Continueremo a raccontare.
Cercheremo storie dimenticate dal tempo e dagli uomini.
Siamo volontari culturali, nessuno di noi percepisce il minimo contributo economico per la sua partecipazione al progetto perché – ancora a Cesare Pavese chiedo soccorso – “l’ignorante non si conosce mica dal lavoro che fa ma da come lo fa”.
Visto il numero crescente di persone che leggono e commentano siamo ignoranti ben attrezzati.
E’ la ferma volontà di non dimenticare da dove veniamo.
In conclusione il nome del blog: Viaggiatori Ignoranti.
Sul viaggio non vi sono dubbi: piccolo o grande è sempre una bellissima esperienza.
Ignoranti? Victor Hugo diceva: “L’unico pericolo sociale è l’ignoranza”.
Scrivere per informare questo il nostro compito.
Grazie di cuore a tutti.
Ci ritroveremo per festeggiare il nostro primo milione.


Fabio Casalini

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