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Channel: I Viaggiatori Ignoranti
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Qualcuno si è sporcato le mani di sangue

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Priebke Erich morì a Roma il giorno 11 dell’ottobre del 2013.
Ritengo di essere uno tra i tanti a pensare che a Norimberga poche corde penzolarono quel 16 d’ottobre del 1946.
I giorni successivi alla morte la nostra indignazione toccò i massimi livelli quando il suo legale, Paolo Giachini, annunciò l’esistenza di un video-testamento, politico ed umano secondo il capitano delle SS, in cui rivendicava con orgoglio il suo passato nazista. 
Ricostruiamo la vergognosa vicenda che riguarda Erich Priebke.
Nato a Hennigsdorf, cittadina tedesca a nord di Berlino, Priebke fu cresciuto da uno zio a causa della prematura dipartita dei suoi genitori. Nel 1933 aderisce al partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi e, nel 1936, entra a far parte della Gestapo.[1]
Grazie alla sua conoscenza della lingua italiana nel 1941 fu inquadrato come interprete presso l’ambasciata tedesca a Roma. Nel 1942 divenne capo della sezione Gestapo di stanza a Brescia e, nel 1943, fece rientro a Roma con il grado di capitano delle SS sotto il diretto comando di Herbert Kappler. [2][3]
Per tutto il periodo della seconda guerra mondiale Priebke rimase in Italia per partecipare al coordinamento delle strategie che il Terzo Reich avrebbe dovuto adottare nella Penisola. Dopo l’armistizio dell'otto settembre 1943 la Wehrmacht assunse il controllo di Roma. [4]
Il tempo non lo possiamo fermare, dobbiamo avanzare per comprendere.
23 marzo 1944: 17 partigiani dei gruppi di azione patriottica (GAP), guidati da Rosario Bentivegna, fecero esplodere una bomba in Via Rasella a Roma durante il passaggio di una colonna di militari tedeschi. La bomba, collocata in un carretto da spazzini, esplose uccidendo, sul colpo, 33 soldati dell’Undicesima Compagnia del Reggimento di Polizia Bozen. L’unità militare squartata dall’ordigno era composta per la maggior parte da militari di lingua tedesca provenienti dal Sud Tirolo. [5]
Il bilancio finale dell’attentato fu di 42 militari deceduti e di alcuni feriti tra i civili presenti al momento dell’esplosione.
La rappresaglia non poteva attendere.
La stessa sera del 23 marzo il colonnello Herbert Kappler ed il comandante della Wehrmacht, Kurt Malzer, proposero un’azione di rappresaglia consistente nella fucilazione di 10 italiani ogni militare ucciso nell’esplosione. Il suggerimento dei due ufficiali consisteva nell’eliminazione dei detenuti in attesa della condanna a morte presso le carceri gestite dai Servizi Segreti.
Il coinvolgimento di Hitler nella vicenda è ancora oggi di complessa analisi: da una parte si racconta che appresa la notizia volesse ordinare la distruzione totale di Roma, dall’altra che perse presto interesse per la vicenda romana delegando ai suoi comandanti la decisione sulla rivalsa nei confronti degli autori dell’attentato. Qualunque fosse la decisione di Hitler, il Maresciallo Kesselring la interpretò come un appoggio incondizionato alla proposta di rappresaglia. [6]
Il 24 marzo 1944 i militari della Polizia di Sicurezza agli ordini del capitano delle SS Erich Priebke e del capitano Karl Hass, radunarono 335 civili italiani nei pressi di una serie di grotte alla periferia di Roma, sulla Via Ardeatina.
Le fosse Ardeatine furono scelte per eseguire, in segreto, la rappresaglia e per occultare i cadaveri delle vittime.
I condannati giunsero intorno alle 15 del 24 marzo e furono condotti a gruppi di cinque nelle grotte, dove furono trucidati con colpi alla nuca. Alla fine del massacro l’entrata della cava fu fatta esplodere.
Priebke racconta: «Sì, alle Fosse Ardeatine ho ucciso. Ho sparato, era un ordine. Una, due tre volte. Insomma, non ricordo, che importanza ha? Ero un ufficiale, mica un contabile. Non c’interessava nemmeno tanto la vendetta, a Via Rasella i militari morti erano del Tirolo, più italiani che tedeschi. Ma Kappler fu inflessibile, costrinse anche il cuciniere a sparare. Fucilammo cinque uomini in più. Uno sbaglio, ma tanto erano tutti terroristi, non era un gran danno.» [7]
Priebke e Hass dopo aver ricevuto l’ordine di selezionare personalmente le vittime tra i prigionieri condannati a morte, si accorsero che il numero non arrivava ai 330 necessari per rispettare le direttive della rappresaglia. Inclusero prigionieri arrestati per motivi politici, persone che avevano preso parte ad azioni della Resistenza, 57 prigionieri ebrei e civili che passavano per caso nelle vie di Roma. Le persone selezionate furono condotte all’interno della cava con le mani legate dietro alla schiena: gli ufficiali obbligarono i prigionieri a disporsi in file da cinque ed inginocchiarsi, uccidendoli uno ad uno con un colpo alla nuca. Priebke e Hass si accorsero che le persone selezionate erano 335 e non 330, ma per non compromettere la segretezza della strage li uccisero tutti. Alla fine dell’eccidio i comandanti ordinarono ai militari di chiudere l’entrata delle fosse Ardeatine per farla saltare con l’esplosivo. 
Alla fine della guerra le autorità alleate processarono i responsabili, quelli che riuscirono a trovare, dell’eccidio delle Fosse Ardeatine.
1945: un tribunale inglese processò i generali Von Mackensen e Malzer condannandoli a morte. Il ricorso in appello si concluse con la riduzione della pena. Nel 1952 Von Mackensen fu liberato mentre Malzer morì in prigione.
1947: un tribunale inglese condannò a morte il maresciallo Kesselring. Nel 1952 lo stesso gerarca nazista ottenne la grazia.
1948: un tribunale italiano condannò Kappler all’ergastolo per il ruolo svolto nell’eccidio. Nel 1977, grazie all’aiuto della moglie, il gerarca nazista fuggì in Germania. Le autorità dello stato tedesco si rifiutarono di concedere l’estradizione per le condizioni di salute: l’anno seguente morì a causa di un cancro.
Sino a questo punto le informazioni sono quelle largamente conosciute, o almeno dovrebbero appartenere alla memoria collettiva.
Dall’elenco manca Erich Priebke.
Nel caso in cui la vostra rabbia fosse un torrente, ora potrebbe straripare.
Come riuscì ad eludere la giustizia alleata?
Quali persone lo aiutarono a trovare riparo nei paesi che si erano resi disponibili ad accogliere i gerarchi nazisti dopo la fine della guerra?
Chi di voi ha letto il precedente articolo, Biglietto per il Cile dove analizzavo la fuga di Walter Rauff, potrebbe immaginarlo: i sacerdoti della chiesa cattolica.
Ripercorriamo con attenzione i fatti: il 13 maggio del 1945 Priebke fu catturato e reso prigioniero a Bolzano insieme con altri ufficiali della compagnia guidata da Karl Wolff, comandante delle SS in Italia. Fu trasferito nel carcere di massima sicurezza di Ancona, luogo dove erano detenuti gli ufficiali indiziati di crimini di guerra. Nei mesi successivi conobbe dapprima il carcere di Afragola poi quello di Rimini. Il 31 dicembre del 1946 fuggì dal campo di Rimini, sfruttando le festività di fine anno, per riparare nel vescovado di Rimini.
Priebke racconta: «Eravamo detenuti in un campo inglese a Rimini. Prigionieri in 220, prima di lì ero stato detenuto ad Afragola e ad Ancona. Il 31 dicembre del 1946 abbiamo approfittato della fine dell'anno. Gli inglesi bevevano, facevano festa, e noi tedeschi siamo scappati in cinque: due ufficiali e tre sottufficiali. Erano le due di notte, faceva freddo. Ci siamo diretti verso il palazzo del vescovo, abbiamo bussato, ci hanno risposto che il vescovo non c'era, era in visita da qualche parte. Ci hanno indicato un convento. Non era una fuga comune, nel senso che ognuno di noi si considerava sciolto. Ci siamo divisi alla stazione di Bologna.» [8]
Data la situazione Priebke decise di riparare a Vipiteno, in Alto Adige, dove l’attendeva la moglie con i due figli. In questo luogo grazie all’assistenza di due preti cattolici, Joahnn Corradini e Franz Pobitzer, e al vicario generale della diocesi di Bressanone, Alois Pompanin, riuscì a ricevere il battesimo per divenire cattolico: indispensabile per l’aiuto offerto dai preti e loro superiori alla fuga in Argentina.
Priebke racconta: «Alla stazione ognuno è andato per conto suo [...] io verso il nord, a Vipiteno, dove c'era mia moglie con i figli [...] Ho pensato a tornare in Germania, ma a Berlino non avevo più famiglia, vivevamo nella parte est, dei parenti lontani non avevo più notizia. Mio padre è morto nella prima guerra, mio fratello anche, io ero stufo della guerra e non avevo qualcuno da cui ritornare. Volevo solo mettere in salvo me e la famiglia. L'aiuto venne da un padre francescano, no, non ricordo il nome. Ci disse: per la Germania non posso fare niente, ma se vi accontentate dell'Argentina posso aiutarvi. Dissi di sì».
Alois Pompanin, vicario generale della Diocesi di Bressanone, riuscì ad aiutare diversi gerarchi nazisti grazie alle conoscenze all’interno del comune di Termeno e nella Croce Rossa Internazionale. Tra i gerarchi aiutati a fuggire in Sud America anche Adolf Eichmann. [9]
Erich Priebke, grazie a documenti falsi ricevuti in seguito alla collaborazione tra appartenenti al clero ed al comune di Termeno, divenne un direttore d’albergo lettone di nome Otto Pape.
Il 13 settembre del 1948 fu ribattezzato dal parroco Johann Corradini su disposizione del vescovo di Bressanone Geisler, condizione necessaria per ricevere l’appoggio del Vaticano alla fuga nei paesi del Sud America che si erano resi disponibili ad accogliere i gerarchi nazisti.[10]
Il registro dei battesimi riporta: «Con riguardo all’accoglimento nella Chiesa cattolica del signor Priebke Erich, lo stesso viene battezzato per una seconda volta dal parroco Johann Corradini sub conditione.»[11]
Stabilitosi in Argentina, prima a Rio de La Plata ed in seguito a San Carlos de Bariloche, modificò nuovamente il nome in Erico Priebke.
In questo luogo ai piedi delle grandi montagne rimase per 50 anni, aprendo dapprima un negozio di alimentari ed in seguito divenne direttore della scuola Primo Capraro.
Al danno della fuga coperta dal Vaticano si aggiunge la beffa del saperlo direttore di una scuola.
Priebke non si limitò alla fuga in Argentina, tornò in Europa in diverse occasioni: nel 1978 in Germania per assistere al funerale di Kappler e nel 1980 per una vacanza nel Sud Italia.
Finalmente nel 1994 la troupe dell’emittente americana ABC riesce ad ottenere l’indirizzo dell’ex comandante dell’eccidio delle fosse Ardeatine a San Carlos de Bariloche.
La mattina del 6 maggio 1994 la troupe lo coglie all’uscita dalla scuola da lui presieduta.
Signor Priebke, Sam Donaldson della televisione americana. È lei Erich Priebke?
Il tedesco fuggito in Argentina con l’ausilio della Chiesa Cattolica risponde tranquillamente: “Si”.
L’estradizione, i processi, la morte, il funerale e il luogo di sepoltura sono storia recente.

Fabio Casalini

Bibliografia
- Emanuela Audisio, articolo per la Repubblica del 12 ottobre 2013: Priebke muore a 100 anni e lascia un testamento shock
- Emanuela Audisio, articolo per la Repubblica del 10 maggio del 1994: il Vaticano mi aiutò a fuggire in Argentina
- Robert Katz, Dossier Priebke: anatomia di un processo, Milano, Rizzoli, 1996
- Gerald Steinacher, La Via Segreta dei Nazisti. Come l'Italia e il Vaticano salvarono i criminali di guerra, Milano, Rizzoli, 2010.
- Alessandro Tortato, articolo per il Corriere del Veneto del 11 giugno 2010: il prete cortinese che fece fuggire Eichmann e Priebke



Fotografie
1- Renato Guttuso, Fosse Ardeatine, 1950, Collezione Luciano Lenti , Valenza (AL)
2- Articolo della Repubblica: il Vaticano mi aiutò a fuggire
3- Il registro dei battesimi con l'annotazione dell'avvenuto battesimo di Erich Priebke
4- Articolo della Repubblica: la vergogna Priebke




[1]La Geheime Staatspolizei (Polizia segreta di stato), abbreviata in Gestapo, era la polizia segreta della Germania Nazista.
[2]Le SS, abbreviazione di Schutz-staffeln o squadre di protezione, erano un’organizzazione paramilitare d’élite del partito nazista tedesco.
[3]Kappler fu un ufficiale tedesco delle SS, comandante della Gestapo a Roma. Morì a Soltau, città della Bassa Sassonia tedesca, nel 1978.
[4]Wehrmacht o forza di difesa è il nome assunto dalle forze armate tedesche durante la seconda guerra mondiale.
[5]Luoghi che sino al 1919 erano appartenuti all’Austria ma che, in seguito al trattato di St. Germain del 1919, passarono sotto il controllo dell’Italia sino al 1943, anno in cui furono occupati dalle forze naziste.
[6] Il Maresciallo Albert Kesselring era comandante in capo dell’Esercito tedesco schierato a Sud.
[7]Emanuela Audisio, articolo per la Repubblica del 12 ottobre 2013: Priebke muore a 100 anni e lascia un testamento shock
[8]Emanuela Audisio, articolo per la Repubblica del 10 maggio del 1994: il Vaticano mi aiutò a fuggire in Argentina
[9]Otto Adolf Eichmann è stato un funzionario tedesco considerato tra i maggiori responsabili operativi dello sterminio degli ebrei nella Germania nazista
[10]Alessandro Tortato, articolo per il Corriere del Veneto del 11 giugno 2010: il prete cortinese che fece fuggire Eichmann e Priebke
[11] Alessandro Tortato, articolo per il Corriere del Veneto del 11 giugno 2010: il prete cortinese che fece fuggire Eichmann e Priebke

L'abbazia di Viboldone

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L’abbazia di Viboldone fu fondata nella 1176 e completata dall’ordine degli Umiliati nel 1348. L’ordine degli Umiliati fu uno dei molti movimenti spirituali sorti in contrasto ai costumi rilassati e alla ricchezza, diffusa ed ostentata dal clero, promuovendo un ritorno alla vita austera.
Gli Umiliati tentarono di stabilire un nuovo stile di vita per tutti, proponendo modelli restrittivi rispetto alla quotidianità diffusa al tempo. Promossero diverse leggi che avevano lo scopo di proibire le spese di lusso per l’abbigliamento e le leggi suntuarie che furono adottate in tutte le città-stato italiane a partire dal XIV secolo.
La casa più importante fu l’abbazia di Viboldone, nell’immediata periferia di Milano. Verso la metà del XIII secolo, il moltiplicarsi dell’orientamento mendicante indirizzò il Papa verso posizioni restrittive. Risalgono a quel tempo le limitazioni sancite agli Umiliati per quanto concerne la predicazione, uno dei capisaldi della nascita del movimento. 
La fine del movimento era scritta.
Nel XVI secolo la Controriforma tentò di scoraggiare movimenti religiosi come gli Umiliati che, secondo coloro che vollero la risposta alla Riforma, potevano scivolare facilmente nell’eresia. Gli Umiliati furono accusati di calvinismo. L’ordine entrò in contrasto con quel sant’uomo del Carlo Borromeo: le sue posizioni portarono Gerolamo Donato, detto il Farina, ad armarsi d’archibugio ed archibugietto e tentare alla vita del cardinale venuto da Arona. Sappiamo che il colpo fallì, ma il solo tentativo comportò una dura reazione. L’ordine fu soppresso il 7 febbraio del 1571 con una bolla di Pio V. Ricordo che il Farina, i prevosti Girolamo e Lorenzo da Caravaggio, rei confessi sotto dura tortura, furono condannati a morte.
Dopo l’avvenuta soppressione dell’ordine degli Umiliati, l’abbazia passò ai Benedettini Olivetani, successivamente soppressi dal governo austriaco e costretti ad abbandonare l’abbazia.
Il tempo corre.
Giungiamo al 1940 quando Ildefonso Schuster, arcivescovo di Milano dal 1929 al 1954, offrì l’abbazia ad una comunità di religiose separatasi dalla congregazione delle Benedettine di Priscilla. Il monastero delle benedettine fu eretto il 1 maggio 1945. Le monache si dedicarono alla produzione di confetture.
Vorrei ricordare alcuni frammenti della vita d’Ildefonso Schuster: dopo la caduta della Repubblica sociale Italiana, promosse un incontro in arcivescovado tra Mussolini e i rappresentanti partigiani, nel tentativo di evitare altri spargimenti di sangue. Propose altresì a Mussolini di fermarsi in arcivescovado sotto la sua protezione, per poi consegnarsi agli alleati. Il 29 aprile del 1945, dopo la fucilazione di Mussolini e degli altri gerarchi fascisti, informo il comitato di liberazione nazionale che egli stesso avrebbe dato la benedizione alle salme “perché si deve aver rispetto di qualsiasi cadavere”. Dobbiamo ricordare che l’anno precedente, il 10 agosto del 1944, dopo la fucilazione di 15 partigiani per mano dei tedeschi, l’arcivescovo scrisse all’ambasciatore tedesco chiedendo la rimozione dei cadaveri, altrimenti sarebbe andato lui stesso a trasportare i corpi.
L’attrazione principale dell’abbazia è rappresentata dai magnifici affreschi presenti al suo interno.
La decorazione pittorica ci fu restituita alla fine del XIX secolo, dopo centinaia d’anni di copertura da una mano di scialbo. Gli affreschi testimoniano la ricchezza raggiunta dall’ordine Umiliato nel Trecento.
L’inizio della decorazione si attesta al 1349, data leggibile nella fascia sottostante l’affresco del tiburio, Madonna in maestà e santi. Ai lati della Madonna sono visibili san Bernardo da Chiaravalle, Sant’Ambrogio, san Giovanni Battista e l’arcangelo Michele. Sulla parete che fronteggia la Maestà e santi si attesta un grandioso Giudizio Universale. Al centro si trova la figura di Cristo avvolto nella mandorla, verso di lui convergono due schiere di beati e dannati dalle pareti laterali. Sopra stanno schiere d’angeli in abbigliamento militare. L’affresco è attribuito a Giusto de’ Menabuoi: di probabile formazione giottesca, fu pittore alla corte dei Da Carrara. Trascorse la gioventù in Toscana, formandosi probabilmente nella cerchia di Maso di Banco. Dal 1348 la sua attività si svolse in Lombardia e a Padova.
Tornando al giudizio universale, siamo lentamente ma inesorabilmente attratti dalla composizione alla nostra sinistra: in quel luogo troviamo i dannati, trascinati da un fiume di fuoco verso uno stagno di fuoco. Al centro una figura mostruosa inghiotte ed evacua i dannati: dalle orecchie escono serpenti che afferrano corpi d’uomini e donne. Intorno alla figura mostruosa troviamo la rappresentazione dei peccati.
Il caos s’impadronisce della scena.
La paura attanagliava i sensi.
La bibbia per tutti doveva svolgere questa funzione.
La rappresentazione del giudizio universale copre la bellezza del restante apparato decorativo dell’abbazia. Nella prima campata possiamo trovare una crocifissione e storie della vita di Cristo, di maestranze probabilmente lombarde. Il ciclo della storia di Cristo inizia con l’annunciazione e termina con la Pentecoste. In tutto sono 14 eventi che accompagnano il nostro guardare.
Nella seconda campata troviamo i simboli dei quattro evangelisti in quello che comunemente è chiamato tetramorfo. Nell’intradosso dell’arco ritroviamo rappresentati i profeti. Questi affreschi sono databili tra il 1370 e il 1380.
L’ultimo affresco su cui si vorrebbe soffermare l’attenzione è una Madonna con bimbo in trono tra santi di Michelino da Besozzo, databile alla fine del Trecento.
In conclusione un ricordo dell’apporto dei Benedettini Olivetani: nel 1697, nella seconda campata, fu raffigurato un San Carlo Borromeo mentre guarisce una donna con una semplice benedizione. Gli Olivetani erano devoti e stimavano il cardinale, forse anche per il dono ricevuto?
Il luogo simbolo dell’ordine degli Umiliati, soppressi per volere del Sant’Uomo, deve portare la sua effige a perenne ricordo di quel sopruso.

Fabio Casalini


Bibliografia
Giuseppe Bardone, L'Abbazia di Viboldone, Piazza Scala, 2015.
Lunari, M., Appunti per una storiografia sugli Umiliati tra Quattro e Cinquecento in Sulle tracce degli Umiliati, a cura di M. P. Alberzoni, A. Ambrosioni, A. Lucioni, Milano, Vita e pensiero, 1997
Oreste Clizio, Gerolamo Donato detto il Farina l'uomo che sparò a san Carlo. Edizioni La Baronata, la Cooperativa Tipolitografica Editrice 1998

Ove giunse sera?

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Ove giunse sera?
Miserabil sconfitta del dì!
o quiete fatal di cauta vita, 
di normal moto armonioso di tempo,
ove giace maledetta la follia? 
L'amabile impulso del rischio?
La vergine ignuda libertà?
Così palpabile da guastarne l'essenza
nel bacio dolente di labbra d'orizzonte.
Ove dormiente si posa lacrimosa la gioia d'animo?
Se severo penetra il giorno col suo dettato doveroso,
inumano al gagliardo spirito Romantico
selvaggio e nobile
della venerabile giovinezza!
Ove irraggia la speranza curiosa della scoperta?
Dell'eterno mutar della forma.
Dell'essenza
della vita.
Fui quindi sfiorato dall'oro sacro della Poesia,
Senza divenir in essa un canto,
ma un irrequieta creatura,
che conobbe la sua scia.


Simone De Bernardin

Mentre è ancor assenza

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Dissolvi cupidigia, 
Mortal l’abbraccio implode 
Or sol nel sopirar del sogno
Ove acuta giunse in canto la tua venuta, 
nell’ora tenera della notte 
mentre ancor non mi appartengo 
mentre ancor non vivo 
e a te immobile
somiglio 
mentre ancor mi stringi 
e al risveglio mi costringi 
mentre ancor l’essenza odo 
mentre ancor è di nuovo il giorno 
mentre ancor è vita
mentre è ancor il tempo 
mentre è ancor assenza. 

Simone De Bernardin


Memento puerorum. Il ricordo del bimbo morto nell'arte

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Nel corso del XV e del XVI secolo, in alcune grandi famiglie della Germania e delle Fiandre, s’instaura il concetto di mantenere la memoria dei bambini nati morti. Nasce l’usanza di offrire pale d’altare alle chiese, rappresentando i piccoli morti all'interno della scena.
Nella maggioranza dei casi al centro della raffigurazione vi è una scena sacra, la natività o la resurrezione, ed ai lati la famiglia. Sulla sinistra sono riportati il padre con i figli maschi, sulla destra la moglie con le figlie femmine e nella parte anteriore del dipinto il piccolo morto.
Una dei primi dipinti attestati è l’Allegoria della Redenzione, in cui Lucas Cranach il giovane, nel 1557, ritrae una sconosciuta famiglia luterana. Negli anni immediatamente seguenti, 1559, un ignoto pittore ritrae la famiglia di Leonhard Badehorn, giurista e borgomastro di Lipsia, dove l’importante esponente della Riforma è ritratto insieme ai figli morti e vivi.
Un secondo dipinto, sempre attribuito a Lucas Cranach, è un memoriale di Michael Meyenburg, umanista e borgomastro di Nordhauesen, che morì nel 1556. Nella raffigurazione si nota in primo piano il defunto con le due mogli ed i figli nati da entrambi i matrimoni, sia quelli vivi sia quelli morti.
Lucas Cranach il giovane erede dell’opera del padre. Cranach il vecchio è uno dei rarissimi artisti ad aver raffigurato il limbo in un suo dipinto. Il quadro si trova oggi al museo Hallwyl di Stoccolma.La rappresentazione del committente all’interno di una scena sacra non è nuova; l’innovazione è data dalla presenza dei bimbi morti, anche quelli scomparsi precocemente. I dipinti più umili, giunti sino a noi, sono gli ex voto: raffigurazioni popolari, ed ingenue, offerte come ringraziamento al santuario.[1] 
All’interno della scena possono comparire le famiglie al completo. I bimbi morti sono i protagonisti della scena, poiché sono presenti nella parte anteriore.
Gli ex voto sono un importante documento storico, in quanto testimoniano una situazione in un dato momento. Sono una fonte molto importante di comprensione del passato e del pensiero delle persone che lo hanno vissuto. Non sfugge al lettore la discutibilità della nostra capacità di comprensione. Dovremmo partire dal concetto che l’ex voto è un fenomeno del comportamento umano nei rapporti con il divino. Rappresentano il concetto di un popolo, in un determinato momento storico, nell’avvicinarsi alla religione. Questi silenziosi testimoni del nostro passato sono sempre esistiti, in tutte le religioni. Presso le popolazioni greche e romane i voti erano pubblici e, spesso, riguardavano l’intera collettività. I voti privati erano principalmente rivolti alle malattie. Per quanto concerne il Cristianesimo si hanno notizie di ex voto, presenti nella zona del Golgota, a partire dal VI secolo. Nei decenni successivi appariranno anche presso la grotta di Betlemme. Nel Medioevo appare sotto forma di candela o cero. E’ solo nel periodo della Controriforma che assume la connotazione discussa in questo testo. In breve tempo, le tavolette votive, scendono di valore, passando dalla raffigurazione delle classi agiate e quelle umili. Il ringraziamento votivo si trasferisce dalle città alle campagne ed assume il connotato d’arte povera, come oggi si conosce. Le testimonianze giunte sino a noi, a riguardo del rito del Répit, si basano sul concetto semplice di ritorno alla vita. Nel nostro peregrinare per santuari, siamo dovuti giungere in un museo per trovarne in serie.
All'interno della collezione di tavolette votive, del Museo del Paesaggio della città di Verbania, sono visibili gli ex voto prelevati dai santuari della Madonna del Boden e della Madonna della Guardia, entrambi situati nel paese di Ornavasso, provincia del Verbano – Cusio – Ossola.
Interessante la scritta riportata su uno di questi dipinti: 1757 a 7 maggio. Un fanciullo morto figlio di Pietro Antonio Tambornino del Forno per intercessione della S.S.U. dato segni di nuova vita sino a ricevere l’acqua del S. Battesimo.
Un altro ex voto riporta la data del 1752. Su entrambi troviamo la scritta G R, per grazia ricevuta. Il miracolo è avvenuto, poiché l’officiante battezza il piccolo nato morto. Per indicare i segni del ritorno alla vita, è stato utilizzato lo stratagemma dello sgorgare del sangue dal corpo del bambino.
Torniamo alla ricerca d’immagini nel corso della storia.
Nel 1638 un anonimo pittore olandese raffigurò una famiglia di Enkhuizen: il padre e la madre sono seduti dietro ai loro undici figli. Gli unici sopravvissuti sono in piedi ai lati dei genitori. Nella parte anteriore sono presenti tre culle di vimini, ognuna carica di bambini morti. Ogni culla riporta tre bambini. Tra i nove bimbi morti solo tre hanno gli occhi aperti. Gli altri sei, che presentano occhi chiusi, sono nati morti.
E’ una scena d’estremo realismo che trasmette la convinzione, da parte dei genitori, di voler ricordare tutti i propri figli. Una seconda motivazione d’interesse è data dalla tranquillità della scena. I genitori sono a conoscenza che troveranno i piccoli dopo la morte.
Con il passare del tempo s’instaura l’idea che i piccoli morti siano angeli, così, nel 1652, il pittore Jan Mijtens ritrae la famiglia Van de Kerckhoven con i propri figli: i dieci vivi sono sorridenti ai lati dei genitori, i cinque bimbi morti diventano angeli che volano nel cielo sulle teste dei propri familiari.
Il dipinto è oggi al The Hague Historical Museum de L’Aja.
Nei paesi del Nord, Belgio e Paesi Bassi, non è raro trovare dipinti con i soli bimbi morti. Nei musei di queste nazioni è possibile trovare un grande numero di tali opere, comprese tra i secoli XVI e XVII.
Nel 1633, ad Amsterdam, il pittore Gerard ter Borch ritrae la sua piccola bimba, Cathrina morta a soli due mesi, che giace all’interno della bara.
L’artista olandese, specializzato in scene di genere e ritratti, avrà 13 figli da tre matrimoni diversi. Una delle figlie, Gesina, diventerà un’importante artista dell’acquarello e del disegno ad inchiostro.
Nei paesi mediterranei i ritratti dei bambini nati morti sembra meno comune, tranne che nella penisola iberica.
Nel 1603 il pittore di corte, Pantoja de la Cruz, ritrae la piccola Infanta Maria, secondogenita del Re Filippo III, morta all’età di un mese. La piccola è rappresentata ad occhi chiusi, che giace in una bara di velluto, circondata da una ghirlanda di fiori.
Nei secoli successivi questa pratica diminuisce drasticamente.
Uno degli ultimi dipinti si può ritrovare in Spagna. Il 12 luglio 1850 il primogenito della regina Isabella II, Fernando, muore dopo aver vissuto un’ora. Il bimbo è rappresentato non più in una bara ma sopra un letto cerimoniale.
Dal 1840 la tecnologia trasforma la rappresentazione del mondo.
L’avvento della fotografia, in alcune situazioni, permette il mantenimento del ricordo per l’eternità.
La memoria non è lasciata al pennello di qualche artista, ma alla cruda rappresentazione della realtà.
La memoria del defunto, sul letto di morte, assume un nuovo aspetto.
Contemporaneamente nasce una nuova professione, quella del fotografo di defunti.
Nelle città e nei villaggi, fotografi esperti e non, sono chiamati al capezzale della persona per rappresentarlo nell’ultimo momento..
I soggetti maggiormente raffigurati?
I bimbi nati morti o morti poco dopo il parto.
Ritengo sia semplice comprenderne il motivo: quell’immagine sarà la sola che la famiglia potrà avere del piccolo.
Potrebbe essere un rito anche in merito a questi accadimenti: nella maggior parte dei casi il bimbo era lavato e vestito in morbide vesti, spesso era lo stesso abito del battesimo a rappresentarlo per l’eternità.
I bimbi, nella maggioranza dei casi, hanno gli occhi chiusi.
Non mancano struggenti rappresentazioni ad occhi aperti tra le braccia dei genitori.
La domanda che mi sono posto è relativa al fatto che si differenziasse tra nati morti e morti dopo la nascita.
In queste fotografie, presumo, che gli occhi aperti volessero trasmettere l’illusione della vita.
La pratica di fotografare i bimbi morti è durata sino al 1950.
Oggi appare macabra.
Un inutile dolore.
Una sofferenza infinita.
Fissare la fotografia del proprio bimbo, morto appena nato, poteva elaborare il lutto?
La risposta risiede nel cuore d’ogni genitore che ha dovuto affrontare quest’immensa sofferenza.
Viviamo in una società fortunata, poiché la mortalità infantile è diminuita drasticamente con il passare dei secoli.
Il declino delle morti infantili si attesta dal XIX secolo, anche se dal 1750 si nota una diminuzione del tasso dei nati morti.
Tra i motivi, che hanno permesso tale miglioramento delle attese di vita, vi è il vaccino contro il vaiolo.
Facile la comprensione del perché il rito del Rèpit sia diminuito con riferimento al miglioramento delle condizioni igienico sanitarie.
Nel corso degli ultimi secoli abbiamo assistito ad un cambiamento generale della società. Alcuni studiosi si sono spinti ad affermare che questa situazione equivalga ad una rivoluzione silenziosa.[2]
Oggi la morte di un bambino è ritenuta scandalosa ed inaccettabile.
Difficile riuscire a comprendere il perché di quest’accadimento.
La storia dei riti dimenticati, che sfuggono alla nostra comprensione, possono in qualche modo alleviare il dolore dei genitori che oggi affrontano tale problematica?
Il ritorno alla vita dei bimbi nati morti è considerato, da sempre, un sistema per elaborare il lutto.
Possiamo pensare che conoscere, studiare o semplicemente leggere di questo rito possa permettere ai genitori di migliorare la comprensione della loro perdita?

Fabio Casalini

Bibliografia: interamente tratto dal libro Mai Vivi, Mai Morti - edito da Giuliano Ladolfi Editore nel 2015 - a firma di Fabio Casalini e Francesco Teruggi.

Fotografie:
1- Allegoria della Redenzione - Lucas Cranach il giovane - 1557
2- Ex Voto - Museo del Paesaggio - Verbania
3- Ex Voto - Museo del Paesaggio - Verbania
4- Ritratto della famiglia Van de Kerckhoven - Jan Mijtens - 1652





[1]Letteralmente tradotto come « a seguito di un voto ».  Tra le diverse tipologie prevalgono quelli anatomici, che rappresentano l’organo malato, oggetti riferibili alla malattia, strumenti medici, attrezzi ortopedici. Nelle tavolette dipinte veniva raffigurato l’evento a cui si riferiva il miracolo.
[2] Marie-France Morel.

Solstizio d'estate

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Risplende la notte,
intrisa di magia.
Si leva da sotto il profilo dell'anima,
per ricongiungersi con la luce della luna,
e divenire profonda espressione di etereo amore.

Chiara Lagostina

Napoleone. L'estrema ora dell'uomo della provvidenza divina

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ISOLA DI SANT'ELENA                                                              
Vomita.
Il ventre gonfio dolente sfigura la sua persona.
La barba è incolta.
Il viso moribondo si tinge di pallor, nulla può più rimebrar la sua ambrata pelle, ereditata dal tepor della sua eterna amata Corsica.
Il nero sgorga ancor dalla sua bocca, sente il sapor della terra, dell'abbandono, del vile tradimento, della sua grandezza resa ora miserabile e schernita dai nemici .

Dio mio Dio, mio Dio, mio Dio

Sussurra.
Chiude gli occhi, perde coscienza.
Giungono gli incubi.
Gli ripetono la data e l'anno.
Una manciata di mesi e avrà cinquantadue anni.
Rinviene, si posa una mano tremante sullo stomaco e mormora

Qui ho un dolore acuto, che quando si fa sentire sembra una rasoiata. Mio padre è morto di questa malattia a soli trentacinque anni. -

Il dottore lo rasserena...

Sarà quel che Dio vorrà, non ho timor a incontrarlo.-

Affermò a mio stupor su quello scoglio, ove il promontorio si getta nel immense acque dell'oceano, queste parole << Io lo sento, questo Dio, lo vedo, ne ho bisogno, credo in lui, questo mistero è sotto i miei occhi, e io non posso negarlo, né tanto meno spiegarlo. In tutto questo non c'è niente di umano. Più tento di avvicinarmi, di esaminarlo da vicino, più il mistero mi trascende, e rimane di una grandezza soverchiante; e più medito, più il mistero diventa inafferrabile>>.

Si paragona a Cristo nel suo calvario e nell'abbandono di chi lo ebbe elogiato nella comodità della sua gloria.
Vomita, dei boli neri.
Dorme.
Si sveglia fradicio di sudore, gli occhi spalancati,

Una cometa...- grida indicando con il braccio tremante il cielo - Fu il segno che annunciò la morte di Cesare.-

Afferma di aver sognato la sua cara Josèphine, come un angelo giunto in quello strazio di solitudine per consolarlo, il suo forse unico vero grande amore.

-La mia fine è vicina, devo dettare il mio testamento; muoio nella religione apostolica romana .-

Vomita steso riverso nel letto imbrattando le candide lenzuola.

-In realtà muoio teista, credendo in un Dio rimuneratore e principio di tutte le cose, ma dichiaro di morire nella religione cattolica, poiché credo che ciò convenga alla morale pubblica. Desidero che le mie ceneri riposino sulle rive della Senna, in mezzo al popolo francese che ho tanto amato, conservo i più teneri sentimenti sino all'ultimo momento per la mia cara moglie Maria Luisa, la prego di vigilare per proteggere mio figlio, che esso non si presti mai a divenir strumento nelle mani dei triumviri che opprimono i popoli d'Europa. -

Un dolore al ventre sinistro lo costringe a piegarsi nel letto, indica con la mano il busto dell'imperatore romano vicino al caminetto, l'umidità e le nebbie di quel luogo ricoprono la sua persona, l'uomo più potente della terra è ora lasciato alla morte più miserabile, lontano dalla sua famiglia, e da quei vigliacchi traditori, che governano le nazioni.

Gli perdono! Perdono il tradimento di Marmont, Augereau, Talleyrande la Fayette, che i posteri francesi possano perdonarli. -

Detta le sue volontà, divide i suoi beni come un plotone dell'esercito, con meticolosa precisione e spartizione tra familiari, amici.

Mio figlio ! - Esclama,

Devo ancor dettare quello che dovranno dire a mio figlio, scrivi te ne prego, che esso non cerchi di vendicar la mia morte, il ricordo di ciò che ho fatto non lo abbandoni mai, deve rimanere francese fino alle punta delle dita, che legga spesso e mediti la storia, l'unica vera filosofia risiede lì, io sono stato obbligato a dominare con la violenza l'Europa, l'ho salvata dalla rivoluzione che periva, ho impiantato in essa nuove idee di libertà. Oggi bisogna convincerla con le parole. Le monarchie crollano. -

- Sono sfinito, che vile morte, lontano da chi amo, non potevano uccidermi subito? Mi ero consegnato al popolo britannico, al suo focolare, contro ogni diritto mi si pose in ceppi, l'Inghilterra persuase i sovrani, così che il mondo assistette allo spettacolo inaudito di quattro grandi potenze che si lanciano addosso ad un solo uomo. Come mi avete trattato su questo scoglio? Con freddo calcolo mi avete lentamente assassinato, il governatore miserabile era lo sgherro dei vostri ministri. Io muoio come la superba repubblica di Venezia, lego l'obbrobrio e la vergogna della mia morte alla famiglia regnante d'Inghilterra. -

Sprofonda sui cuscini umidi, come l'aria pesante di quel clima.
Vomita.
Vomita ancor fino allo strazio, il dolore lo annienta.
Sussurra ancora a fatica le sue volontà.

Esigo la vostra promessa che nessun medico inglese mi metterà le mani addosso dopo la mia morte. Desidero che venga sezionato il mio corpo, per capirne il suo guasto. Il mio cuore, imbevetelo nell'alcol e portatelo a Parma, a chi è appartenuto davvero, alla mia cara Maria Luisa, ditele come sono morto, come ho vissuto in questi ultimi anni, ditele che l'ho sempre teneramente amata. -

Quando sarò morto, tornerete al cuor delle vostre famiglie, in Europa, rivedrete le vostre madri, i vostri amici, io troverò i miei prodi negli Champ-Elysèes, parlerò delle nostre battaglie con Annibale, Cesare, Scipione; Sarà bello! A meno che non metta paura, quaggiù vedere tanti guerrieri insieme.-

Sorride, malinconicamente.
Piange.
Crolla in un sonno pesante.
Fatica con il respiro.
Riceve l'estrema unzione.
Giungono le ultime manciate del suo tempo terreno.
E' la notte tra il quattro e cinque maggio 1821.
Si sveglia e grida con furia,

-Chi indietreggia? Mostrati!-

Giungono gli incubi legati alla sua dura fanciullezza, e alla sua tremenda solitudine.
Rimane con gli le palpebre spalancate, sullo sfondo spiragli di luce che la luna mostra dalla sua finestra.
S'inarca come un vascello pronto ad inabissare, la voce roca e severa dice le sue ultime parole

-France, Tète d'armèe.-

Spira..

07,49 Sabato 5 maggio 1821.


Simone De Bernardin

Abbazia di San Vittore alle Chiuse

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L’abbazia di San Vittore alle Chiuse si trova nella frazione San Vittore Terme, all’interno del comune di Genga in provincia d’Ancona. L’edificio sorge in posizione isolata alla confluenza di due fiumi, il Sentino e l’Esino, poco lontano sorgono le note grotte di Frasassi: tanta bellezza in uno spazio ridotto. 
L'abbazia sorse come chiesa del convento benedettino, la cui esistenza risale a poco dopo l’anno Mille: l’edificazione dell’abbazia dovrebbe risalire al periodo compreso tra il 1060 ed il 1080.
Incuriosisce la dedicazione a San Vittore affiancato dal termine alle Chiuse: il monastero benedettino fu citato la prima volta in un documento del 1007 come Monasterium de Victorianum. In questo caso il termine victorianum potrebbe essere legato alla geografia del luogo, e non al santo con cui oggi è conosciuto il luogo sacro. Originariamente l’abbazia era dedicata a San Benedetto da Norcia, solo in seguito furono affiancati San Vittore, Maria, San Biagio e San Nicola. 
Ci muoviamo nelle ipotesi: la dedicazione a San Vittore fu adottata, probabilmente, per assonanza con il termine victorianum. Con il passare del tempo le altre dedicazioni decaddero e rimase solo San Vittore affiancato dal termine de clausa,ossia alle chiuse. Non vi è certezza, nemmeno in questo caso, ma il termine alle chiuse dovrebbe relazionarsi al fatto che l’abbazia sorge a cavallo di un valico dell’Appennino.
Prima di avanzare nella storia di San Vittore alle Chiuse ritengo necessario ricordare la figura di San Benedetto: Benedetto, fratello di santa Scolastica, nacque verso il 480 nella città umbra di Norcia. Il padre Eutropio, figlio di Giustiniano Probo, era Console e Capitano Generale dei Romani nella regione di Norcia, mentre la madre era Abbondanza Claudia de' Reguardati di Norcia; quando ella morì, secondo la tradizione, i due fratelli furono affidati alla nutrice Cirilla.
A 12 anni fu mandato con la sorella a Roma a compiere i suoi studi ma, come racconta papa Gregorio I nel secondo libro dei Dialoghi, sconvolto dalla vita dissoluta della città «ritrasse il piede che aveva appena posto sulla soglia del mondo per non precipitare anche lui totalmente nell'immane precipizio. Disprezzò quindi gli studi letterari, abbandonò la casa e i beni paterni e cercò l'abito della vita monastica perché desiderava di piacere soltanto a Dio».
All'età di 17 anni, insieme con la sua nutrice Cirilla, si ritirò nella valle dell'Aniene presso Eufide dove, secondo la leggenda, avrebbe compiuto il primo miracolo, riparando un vaglio rotto dalla stessa nutrice. Lasciò poi la nutrice e si avviò verso la valle di Subiaco. A Subiaco incontrò Romano, monaco di un vicino monastero retto da un abate di nome Adeodato, che gli indicò una grotta impervia del Monte Taleo, dove Benedetto visse l’esperienza eremitica per circa tre anni, fino alla Pasqua dell'anno 500. Conclusa la vita eremitica accettò di fare da guida ad altri monaci in un ritiro cenobitico presso Vicovaro, ma, dopo che alcuni di loro tentarono di ucciderlo con una coppa di vino avvelenato, tornò a Subiaco. Qui rimase per quasi trent'anni, predicando la "Parola del Signore" e accogliendo discepoli sempre più numerosi, fino a creare una vasta comunità di tredici monasteri, ognuno con dodici monaci e un proprio abate, tutti sotto la sua guida spirituale. 
Negli anni tra il 525 ed il 529, a seguito di un altro tentativo d’avvelenamento con un pezzo di pane avvelenato, Benedetto decise di abbandonare Subiaco per salvare i propri monaci. Si diresse verso Cassino dove, sopra un'altura, fondò il monastero di Montecassino, edificato sopra i resti di templi pagani e con oratori in onore di San Giovanni Battista e di San Martino di Tours, che era stato iniziatore in Gallia della vita monastica. Nel monte di Montecassino, Benedetto compose la sua Regola verso il 540. Prendendo spunto da regole precedenti, in particolare quelle di San Giovanni Cassiano e San Basilio, ma anche San Pacomio e San Cesario. A Montecassino, Benedetto visse fino alla morte, ricevendo l'omaggio dei fedeli in pellegrinaggio. Benedetto morì il 21 marzo 547, dopo 6 giorni di febbre fortissima e quaranta giorni circa dopo la scomparsa di sua sorella Scolastica, con la quale ebbe comune sepoltura.
Torniamo nelle marche, esattamente a Genga, per raccontare l’abbazia di San Vittore alle Chiuse. Il convento benedettino, durante il XIII secolo, raggiunse un grande prestigio, arrivando ad esercitare la giurisdizione su 42 chiese e su vasti territori. Poco alla volta questo splendore diminuì, arrivando a decadere durante il XV secolo, periodo nel quale il convento entrò nell’influenza del potente comune di Fabriano. Questo fatto segnò la fine dell’abbazia: nel 1406 fu soppressa ed annessa al monastero dedicato a Santa Caterina presso Fabriano.
La chiesa presenta una pianta a croce greca iscritta in un perimetro quasi quadrato, con quattro colonne che dividono la chiesa in nove campate coperte da volte a crociera a parte quella centrale sulla quale s’imposta una cupola con tiburio ottagonale, poggiante sulle colonne, tramite archi. Sono presenti cinque absidi semicircolari lungo il perimetro: una su ciascun fianco e tre sul lato absidale ad oriente. La facciata è caratterizzata da una bassa torre cilindrica e da un alto torrione quadrangolare, che probabilmente ha sostituito l'altra torre cilindrica in epoca successiva. Le due torri contribuiscono a dare alla chiesa un aspetto di fortezza.
Raccomando una visita poco dopo l’alba, quando il sorgente sole illumina l’abbazia ed il cielo sembra fornire una magnifica cornice ad un quadro d’altri tempi.

Fabio Casalini


Bibliografia
R. Sassi, Le carte del monastero di San Vittore delle Chiuse sul Sentino, Milano 1962.

G. M. Claudi, San Vittore delle Chiuse, Roma 1982

Hildegard Sahler, San Claudio al Chienti e le chiese romaniche a croce greca iscritta nelle Marche, 2006.

Tancredi Grossi, San Benedetto e la sua opera verso la Chiesa e la Società, Torino, Società Subalpina Editrice, 1943.

Padre Pio: finanza, miracoli, politica e truffe

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Natale 2015. Tra i regali, una piccola confezione attira il mio sguardo. Il mittente lo conosco da molto tempo. Al giungere del piccolo dono la curiosità si mescola alla sorpresa. In tanti anni non si era mai instaurata l’usanza dello scambio doni. Finite le operazioni dei miei figli apro il pacchetto. Il contenuto l’avevo compreso dalla forma, il tema ancora ambiguo ma di grande interesse per il sottoscritto. 
All’interno del libro vi erano due richiami che non potevano sfuggire al mio cercare.
Il primo, sottolineato con evidenziatore, riporta due lettere firmate il cui testo riporto integralmente:
Carissima Maria, Gesù ti conforti sempre e ti benedica. Vengo a chiederti un favore. Ho bisogno di avere da 200 a 300 grammi di acido fenico puro per sterilizzare. Ti prego di spedirmela la domenica e farmela mandare dalle sorelle Fiorentino. Perdona il disturbo”.
Il testo della seconda: “Avrei bisogno di un 4 grammi di veratrina. Ti sarei molto grato se me la procurassi, e me la mandassi con sollecitudine”.
Acido fenico e veratrina. Conosco poco.
Iniziano le ricerche.
L’acido fenico fu scoperto nel 1834 da F. Runge. Nel 1841 A. Laurent lo denominò idrato di fenile o acido fenico. Nel 1865 fu usato come antisettico su una ferita dal medico scozzese Lister. Da quel momento il fenolo fu usato nella disinfezione delle sale operatorie e degli attrezzi chirurgici. 
La richiesta di quel biglietto si riferiva alla disinfezione delle siringhe usate per i giovani chierici. Vorrei aggiungere che l’acido fenico utilizzato puro, come da biglietto firmato, è velenoso per l’organismo umano. Il suo utilizzo può provocare bruciature ed ustioni sul corpo. 
La veratrina deriva da una liliacea della cordigliera del Messico. Nel caso in cui la veratrina fosse posta sulla pelle potrebbe provocare bruciore e talvolta vescicazione.
A questo punto ritengo che l’argomento di queste ricerche sia stato compreso da tutti: le stigmate di Padre Pio, ora San Pio.
Inganno o Santità?
Non aggiungerò quasi nulla di mio, mi limiterò a riportare quello che non è noto al grande pubblico. Ogni persona è libera di credere al soprannaturale. Io credo esclusivamente alle prove documentali. Il caso vuole che si possono trovare in gran quantità all’interno di questa vicenda controversa.
Scendo rapidamente nel testo per trovare il secondo appunto dell’amico. Il riferimento è preciso e circostanziato: “...L’accaduto – cioè la scoperta per mezzo di filmini, si vera sunt quae refentur, dei suoi rapporti intimi e scorretti con le femmine che costituiscono la sua guardia pretoriana sin qui infrangibile intorno alla sua persona – fa pensare ad un vastissimo disastro di anime, diabolicamente preparato, a discredito della S. Chiesa nel mondo, e qui in Italia specialmente. Nella calma del mio spirito, io umilmente persisto a ritenere che il Signore faciat cum tentazione provandum, e dall’immenso inganno verrà un insegnamento a chiarezza e a salute di molti. [..] Motivo di tranquillità spirituale per me, e grazia e privilegio inestimabile è il sentirsi personalmente puro da questa contaminazione che da ben quaranta anni ha intaccato centinaia di migliaia di anime istupidite e sconvolte in proporzioni inverosimili”.
Lo scritto in questione fu annotato nel giugno del 1960 sul diario di Papa Giovanni XXIII. La frase è solo il finale di una lunga riflessione di Giuseppe Angelo Roncalli, il papa venuto da Sotto il Monte e ricordato con l'appellativo di Papa Buono.
Due richiami forti alla mia persona.
Inizio una ricerca sulla storia di Francesco Forgione, per tutti Padre Pio, oggi San Pio.
Devo tornare indietro nel tempo per iniziare a comprendere.
Da dove partire?
Penso che il momento cruciale si possa trovare nell’apparizione delle stigmate.
Le stigmate apparvero il 7 settembre del 1910.
Durarono pochi giorni e scomparvero all’occhio umano.
Le ferite ritornarono il 20 settembre del 1915.
Scomparvero nuovamente.
Si giunge all’agosto del 1918.
Padre Pio afferma d’avere visioni su di un personaggio che lo trafigge con una lancia lasciando aperta la ferita.
Poco dopo, in seguito ad una nuova visione, afferma che avrebbe ricevuto le stigmate.
Il fatto desta scalpore.
Crea attenzione.
Le stigmate giungono.
La popolarità del frate, contestualmente anche di San Giovanni Rotondo, non trovano orizzonti finiti.
Il 15 e 16 maggio del 1919 un medico dell’ospedale civile di Barletta studia le ferite concludendo che: “Le lesioni che presenta alle mani sono ricoperte da una membrana di colore rosso bruno, senza alcun punto sanguinante, niente edema e niente reazione infiammatoria nei tessuti circostanti. Ho la certezza che quelle ferite non sono superficiali”.
Il 26 luglio del 1919 giunge a San Giovanni Rotondo il professor Amico Bignami, ordinario di patologia medica presso l’Università di Roma. Il professore non arriva in Puglia per una visita privata, è inviato direttamente dal Sant’Uffizio, allarmato dal crescente clamore che circola intorno alla figura di Francesco Forgione. Le conclusioni finali del professor Bignami non si discostano molto dalle precedenti. Afferma che le ferite potevano essere cominciate come prodotto patologico, ma che erano state completate, forse, con un mezzo chimico, come la tintura di iodio. 
La tintura di iodio vecchia, per l’acido iodidrico che vi si sviluppa, diventa irritante e caustica. In questa situazione s’inseriscono le lettere firmate da Padre Pio indirizzate al farmacista per la richiesta d’acido fenico e veratrina. Si giunge al 1920. Il cardinale Merry Del Val incarica padre Agostino Gemelli di eseguire un esame clinico delle ferite del frate di Pietralcina. Padre Gemelli è una figura importante del Novecento italiano, non fosse altro per essere il fondatore dell’università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.
Agostino Gemelli è medico, psicologo e religioso.
L’incontro tra i due è burrascoso.
Teso.
Padre Pio non voleva incontrare il medico.
Il rapporto di Gemelli è particolare poiché in una prima lettera al sant’Uffizio asserisce che Padre Pio era un uomo di vita encomiabile, che però non gli pareva un mistico.
In una seconda lettera cambia repentinamente opinione e scrive. “Padre Pio è uno psicopatico ignorante, indulge in automutilazione e che si procura artificialmente le stigmate allo scopo di sfruttare la credulità della gente”.
Automutilazione, argomento interessante. 
Mutilazione ed autoflagellazione, pratiche presenti da sempre nel Cristianesimo basti pensare ad Ignazio di Loyola oppure a Josemaria Escrivà, fondatore del discusso Opus Dei.
Un passaggio ritengo importante in questo contesto: "Se ad un bambino viene imposto di non masturbarsi con minacce e terrore ha davanti a se due scelte, o farlo di nascosto mettendo in atto delle strategie per non venire scoperto o fustigarsi, imporsi privazioni, mortificazioni al fine di far proprio l'ammonimento. Nel primo caso diventerà un uomo nel senso che avrà imparato che la sua persona è importante e che deve essere protetta con delle strategie difensive, nel secondo caso diventerà un malato di morte il cui scopo sarà quello di imporre la propria malattia agli altri. In questo Francesco Forgione divenne abilissimo.  [..] La perversione sessuale arrivò al punto tale che a nove anni la madre lo sorprese a flagellarsi, cioè a reprimere le sue pulsioni sessuali. Si giustificò con la madre affermando che stava imitando il supplizio ricevuto da Gesù". 
L’esame clinico non fu mai effettuato da padre Gemelli, perciò dobbiamo appellarci al senso di responsabilità di questa persona, alquanto controversa, che però ha creato una delle migliori Università italiane. 
I giudizi di Agostino Gemelli condizionano il Sant’Uffizio e la vita del francescano residente a San Giovanni Rotondo. Il 31 maggio del 1923 giunge il decreto in cui si pronuncia la condanna esplicita: il Sant’Uffizio dichiara il non constat de supernaturalitate circa i fatti legati alla vicenda di Padre Pio. Il Vaticano squalifica il frate a persona normale, senza alcun rapporto con il soprannaturale. Nella stessa condanna s’invitano i fedeli a non credere agli eventi ed a non recarsi a San Giovanni Rotondo.
Queste iniziali ricerche a quali conclusioni mi conducono?
La prima riguarda la visione di Papa Giovanni XXIII: scrive in modo esplicito, ad oltre 40 anni dal manifestarsi degli eventi, che ci si trova di fronte ad un grande inganno perpetrato da Padre Pio ai poveri ed indifesi fedeli.
La seconda concerne le parole utilizzate da Padre Gemelli, fondatore dell’Università Cattolica di Milano, che appella Padre Pio come ignorante e psicopatico.
La domanda sorge spontanea, per quale motivo lo hanno santificato se un Papa, ritenuto uno dei più buoni della cristianità, riteneva che avesse distrutto la moralità di centinaia di migliaia di povere anime?
Torniamo al 31 maggio del 1923, giorno dell’emissione del decreto non constat de supernaturalitate da parte del Vaticano. Il decreto retrocedeva Padre Pio a persona normale senza alcun rapporto con il soprannaturale. 
La notizia, come potevamo prevedere, ebbe grande rilievo sui quotidiani nazionali ed esteri in seguito alla pubblicazione del decreto sull’Osservatore Romano del 5 luglio 1923.
Il dicembre dell’anno successivo il dottor Giorgio Festa chiese al Vaticano il permesso di visitare nuovamente Padre Pio. Il permesso fu negato dalle autorità ecclesiastiche.
Le indagini sul frate da Pietralcina si conclusero nel maggio del 1931. Il Vaticano invitò i fedeli a non considerare soprannaturali le manifestazioni di Padre Pio. Al frate fu vietata la celebrazione della messa e l’esercizio della confessione.
Le proteste dei fedeli e dei frati del convento furono vibranti e vigorose.
Il Vaticano, inizialmente, non mutò opinione.
Dal maggio del 1931 al luglio del 1933 la vicenda si tinge di giallo.
Al fine di comprendere i fatti intercorsi in quei due anni devo presentare un personaggio chiave di tutta la vicenda relativa a Padre Pio: si tratta di Emanuele Brunatto.
Brunatto appare nella vicenda di Padre Pio negli ultimi anni del secondo decennio del secolo scorso. Avventuriero d’origini napoletane lesse delle manifestazioni soprannaturali di Padre Pio sul Mattino di Napoli. Inizialmente decise di proseguire l’attività, legata al campo dell’alta moda, che da poco aveva iniziato. A causa di cattive gestioni e gelosie tra le sarte, che si occupavano della nascita degli abiti, la società fallì. Al Brunatto ritornò prepotente l’idea di recarsi a San Giovanni Rotondo per conoscere di persona Padre Pio. Giunto in Puglia conosce il frate da Pietralcina e, secondo alcuni, si converte immediatamente mentre, secondo altri scrittori, stringe sodalizio con Padre Pio. Inizialmente si stabilisce in una fattoria nei pressi del convento. Poco tempo dopo si trasferisce all’interno del convento stesso, e precisamente nella cella numero 6. Ricordo che la cella di Padre Pio era la numero 5.
Emanuele Brunatto assiste, ancora da spettatore, alle vicende inquisitoriali - essendo relative all’operato del Sant’Uffizio è lecito nominarle in questo modo – che vedono implicato Padre Pio. Nei mesi successivi decise di passare all’azione, raccogliendo materiale inedito, probabilmente relativo a comportamenti non limpidi, su alcune persone del clero pugliese. I soggetti colpiti dalle azioni di Brunatto sono: l’arcivescovo di Mafredonia, Pasquale Gagliardi, l’arciprete di San Giovanni Rotondo, Giuseppe Prencipe ed un canonico del paese, Domenico Palladino.
Quali i motivi alla base del dossier segreto?
I tre erano ritenuti gli artefici della persecuzione nei confronti di Padre Pio. L’arcivescovo di Manfredonia nel corso di una riunione concistoriale dichiarò: “Padre Pio è indemoniato.Ve lo dico io, è un indemoniato, e i frati di San Giovanni Rotondo sono una banda di truffatori. L’ho visto io, proprio con i miei occhi, il padre Pio mentre si profumava e si incipriava. Lo giuro sulla mia croce pastorale”
Le tensioni tra Vaticano ed il convento di San Giovanni Rotondo non cessano.
Emanuele Brunatto perse la pazienza e nel 1927, dopo aver lasciato il convento di Padre Pio per pressioni superiori, pubblica a Lipsia, con l’aiuto del sindaco di San Giovanni Rotondo, il libro Lettere alla Chiesa firmandosi con lo pseudonimo di Felice de Rossi. La pubblicazione è un attacco frontale al clero della Puglia e del Foggiano nel particolare. Il libro contiene tutto il materiale raccolto, in segreto, sulla vita dell’arcivescovo di Manfredonia e l’arciprete di San Giovanni Rotondo. Il Vaticano si trova in una situazione complessa: da una parte il materiale pericoloso che potrebbe creare uno scandalo, dall’altra le lunghe ombre di un ricatto da parte di Brunatto per eliminare le restrizioni cui era soggetto Padre Pio.
Il Vaticano accettò il ricatto pur di non far circolare il materiale compromettente ma… si dimenticò di levare le restrizioni al frate di Pietralcina.
Il Brunatto rincarò la dose decidendo di pubblicare un secondo libro, Gli Anticristi della chiesa cattolica, dove attaccò tutta la cristianità, Papa incluso.
All’improvviso il 14 luglio del 1933 si concluse la segregazione di Padre Pio.
Dal 1931 al 1933 la vicenda del frate con le stigmate assunse il colore del giallo per sfumare nel grigio dell’assoluzione…
Papa Pio XI affermerà che è la prima volta che il Sant’Uffizio si rimangia i suoi decreti.
Avanziamo nel tempo.
Il miracolo di guarigione di un potente fece ottenere a Padre Pio una quota azionaria della Zarlatti, azienda che stava sviluppando un brevetto per una locomotiva alimentata a vapore ed aria compressa. Il frate non potendo sfruttare la quota azionaria, per il voto di povertà, si fece rappresentare dal Emanuele Brunatto, il signore della cella numero 6 e dei dossier segreti contro la curia romana.
Il tempo corre veloce, come la fama del piccolo frate venuto dalla Campania.
Il 9 gennaio del 1940 Padre Pio manifesta l’intento di costruire un ospedale, denominato casa sollievo della sofferenza.
Il 3 giugno del 1941 Emanuele Brunatto invia da Parigi, dove nel frattempo si era trasferito, una lettera d’accredito di ben 350.000.000 £. Il denaro transita nella filiale di Firenze del Credito Italiano. Il denaro servirà per l’inizio dei lavori dell’ospedale voluto da Padre Pio.
I soldi sono molti, anche le domande che nascono sulla loro formazione.
Nel 1943 un secondo, lauto, contributo giunge per i lavori dell’ospedale: il denaro giunge dall’UNRRA, associazione legata all’ONU, a seguito della conversione del fidanzato di una giornalista inglese. L’uomo, guarda caso, era consigliere delegato dell’UNRRA. L’ammontare del contributo si aggira tra i 250.000.000 ed i 400.000.000 milioni. La differenza potrebbe essersi persa durante il trasferimento del denaro…
Alla fine della seconda guerra mondiale Emanuele Brunatto fonda l’associazione Per la difesa delle opere e della persona di Padre Pio da Pietralcina.
I segreti ed i misteri legati al sodalizio tra queste due persone non si esauriscono mai.
Padre Pio, come tutta la curia romana e la cristianità, fu implicato in uno scandalo che scosse l’opinione pubblica durante i meravigliosi anni cinquanta. Addentriamoci nei meandri del caso Giuffrè. Giambattista Giuffrè era un banchiere d’Imola. Per conto d’alcuni enti ecclesiastici iniziò ad occuparsi della ricostruzione di conventi e chiese danneggiate durante i bombardamenti della seconda guerra mondiale. Giuffrè amministrò i soldi delle parrocchie e degli istituti religiosi che a lui si rivolgevano, offrendo in cambio tassi d’interesse che potevano giungere a cifre incredibili: si andava dal 70% al 100% di guadagno annuo.
Quale garanzia offriva Gianbattista Giuffrè ai suoi investitori?
La sua profonda e conosciuta amicizia con ambienti religiosi influenti.
La presenza di Giuffrè nella vita religiosa del paese gli valse il soprannome di Banchiere di Dio.
Raccolse ingenti somme di denaro restituendo, almeno inizialmente, gli elevati interessi promessi con la nuova raccolta da ignari investitori. Giuffrè non investiva il denaro raccolto, ma lo utilizzava per corrispondere gli interessi, secondo il classico meccanismo dello Schema Ponzi
Il problema si presentò quando alcuni investitori iniziarono a sospettare di Giuffrè e chiesero il rimborso del capitale iniziale. Il banchiere di Dio non riuscì nell’impresa di rimborsare quanto aveva ottenuto a scopo d’investimento. Tra i più colpiti ricordiamo i frati cappuccini – in onore ed in memoria del voto di povertà di san Francesco – ed altri enti religiosi di centrale importanza. Essendo colpita buona parte della cristianità il Vaticano riuscì a far passare – almeno inizialmente – sotto silenzio l’accaduto.
Non tutti i quotidiani ed i settimanali si allontanarono dall’accaduto. 
L’Espresso del 9 aprile 1961 accusava Padre Pio e Gianbattista Giuffrè di essere i mandati della truffa. 
Lo scandalo sconvolse non solo il paese ma anche l’animo gentile e contadino di Papa Giovanni XXIII che decise di inviare il fidato Monsignor Maccari a San Giovanni Rotondo, per indagare sui frati e sulle voci che giungevano dalla Puglia sull’operato di Padre Pio. Monsignor Maccari cosa trovò al suo arrivo nel convento pugliese? Per comprendere la preoccupazione del Vaticano e della persona di Giovanni XXIII, dobbiamo tornare al 1960. Giovanni XXIII fu informato da monsignor Parente, assessore del Sant’Uffizio, del contenuto d’alcune bobine registrate nel convento e nel confessionale di San Giovanni Rotondo. Il Papa da mesi prendeva informazioni su tre donne, i cui nomi tornavano spesso nella vita di Padre Pio.
Carlo Maccari, inquisitore poi promosso Vescovo d’Ancona, raccolse le accuse contro Padre Pio in un dossier di oltre 200 pagine.
Prima di proseguire nel resoconto cronologico ritengo interessante proporvi uno stralcio dell’intervista a Maccari apparsa sull’Europeo del 16 agosto 1991: «Vi erano tre pie donne che comandavano Padre Pio al punto da renderlo schiavo. Erano loro che smistavano i confessandi. Padre Pio parlava a voce alta e non abbassava la tendina del confessionale. Loro sentivano tutto, sapevano chi era assolto e chi no, andavano in giro a dirlo. Addio segreto confessionale. Queste anime buone si facevano largo ad ombrellate per entrare in chiesa, dicevano che era loro diritto. E poi il traffico delle reliquie, tutte quelle pezzuole intrise di sangue di gallina…».
Monsignor Maccari fece una relazione su tutto ciò che aveva visto in quel convento. Gran parte dei 125 frati aveva un’automobile ed il tenore di vita dei seguaci di Francesco d’Assisi era spropositato. Gruppi di donne sostavano nel convento anche la notte. Vi era un commercio di bende sporche di sangue, che come sappiamo dall’intervista era di gallina, al prezzo di 70.000 euro attuali.
Vorrei tornare all’intervista rilasciata da Carlo Maccari per analizzare un aspetto poco noto: «Andavo spesso a Roma a prendere istruzioni. Mi accompagnavano in macchina alla stazione di Foggia. In molti sapevano i miei orari. Un giorno che ritorno alle prime luci dell’alba accadde un incidente inspiegabile: dietro ad una curva due fucilate colpiscono un’automobile come la mia, targata Roma. Al mio posto è stato ferito un povero bambino malato che andava da Padre Pio».
L’inquisitore ammette pubblicamente di aver rischiato di morire nello svolgimento del proprio incarico. Ricorda molto da vicino la vicenda di Pietro da Verona, ma questa è un’altra storia.
Carlo Maccari era convinto che volessero ammazzarlo.
Il resoconto dell’indagine, e la reazione di Giovanni XXIII, le conosciamo grazie allo scrittore Sergio Luzzatto. Il Papa annota il 25 giugno del 1960 su quattro foglietti, rimasti inediti sino al 2007, le seguenti frasi: « Stamane da mgr Parente, informazioni gravissime circa P.P. e quanto lo concerne a S. Giovanni Rotondo. L’informatore aveva la faccia e il cuore distrutto. ». « Con la grazia del Signore io mi sento calmo e quasi indifferente come innanzi a una dolorosa e vastissima infatuazione religiosa il cui fenomeno preoccupante si avvia a una soluzione provvidenziale. Mi dispiace di P.P. che ha pur un’anima da salvare, e per cui prego intensamente ». « L’accaduto —cioè la scoperta per mezzo di filmine, si vera sunt quae referentur [se sono vere le cose riferite], dei suoi rapporti intimi e scorretti con le femmine che costituiscono la sua guardia pretoriana sin qui infrangibile intorno alla sua persona — fa pensare ad un vastissimo disastro di anime, diabolicamente preparato, a discredito della S. Chiesa nel mondo, e qui in Italia specialmente. Nella calma del mio spirito, io umilmente persisto a ritenere che il Signore faciat cum tentatione provandum, e dall’immenso inganno verrà un insegnamento a chiarezza e a salute di molti ». « Motivo di tranquillità spirituale per me, e grazia e privilegio inestimabile è il sentirmi personalmente puro da questa contaminazione che da ben 40 anni circa ha intaccato centinaia di migliaia di anime istupidite e sconvolte in proporzioni inverosimili ».
Seguirono giornate, settimane e mesi confusi. Iniziarono le proteste popolari guidate dal sindaco di San Giovanni Rotondo, Morcaldi, contro i divieti a Padre Pio. Il Vaticano fu irremovibile nel suo atteggiamento. Anni burrascosi nel rapporto tra Santa Sede e convento di San Giovanni Rotondo. Nel 1962 Emanuele Brunatto tornò a Roma dove incontrò il segretario di Stato, cardinale Ottaviani. In quel periodo Brunatto stava preparando un dossier segreto contro il Vaticano.
Il 3 giugno del 1963 Papa Giovanni XXIII muore. Il 30 luglio del 1964 il nuovo Papa, Paolo VI, comunicò ufficialmente che a Padre Pio era restituita ogni libertà nel suo ministero. Concesse anche l’indulto per continuare a celebrare, anche pubblicamente, la messa secondo il rito di Pio V.
Quale il prezzo per la completa libertà di Padre Pio?
In contemporanea alla restituzione dei diritti al frate di Pietralcina molteplici attività finanziarie gestite dal cappuccino con le stigmate passarono alla Santa Sede.
Guarino – nel libro Beato impostore – scrive che Paolo VI era un pontefice molto pragmatico e disinvolto, basti pensare a Marcinkus e Sindona. Padre Pio stava per compiere 80 anni. Era opportuno chiudere la contesa tra la santa Sede, da una parte, ed il convento di San Giovanni Rotondo, dall’altra, predisponendosi a raccogliere i frutti materiali dell’operato del frate. Lo IOR redasse due testamenti, che padre Pio firmò a maggio del 1964, ed una dichiarazione pubblica in cui il frate smentiva le varie notizie di stampa sul suo essere segregato. 
Non posso concludere la vicenda legata a Padre Pio senza ricordare l’uscita di scena di Emanuele Brunatto, il fedele custode di Padre Pio.
Dopo la vicenda dei magnetofoni nella cella e nel confessionale del frate pubblicò “Il libro bianco”. Correva il giugno del 1963. Brunatto sosteneva l’assoluta estraneità di Padre Pio dalle vicende che lo vedevano implicato. Secondo Emanuele Brunatto l’intento di questa campagna, contro il cappuccino, era di accaparrarsi i soldi che le opere del frate facevano giungere a San Giovanni Rotondo.
La sera del 9 febbraio 1965, Emanuele Brunatto, telefona ad un vecchio amico di Roma pregandolo di andarlo a trovare nel suo appartamento di Via Nazionale. All’amico chiede di prendere in consegna una grande quantità di materiale – tra cui documenti e bobine – e di celarlo in un luogo sicuro. L’interlocutore chiede una notte di tempo per recuperare un’automobile, che dovrà servire per il trasporto dell’ingente quantità di documentazione.
La mattina del 10 febbraio 1965 Emanuele Brunatto è trovato morto nel suo appartamento dalla donna delle pulizie.
La versione ufficiale della polizia afferma che Brunatto è stato stroncato da infarto. Altri sostengono una tesi diversa. Alcuni amici, tra cui un importante imprenditore veneto, parlano di avvelenamento da stricnina.
I documenti? Spariti.
Nessuna notizia su quotidiani nazionali e locali.
In una notte Emanuele Brunatto cessa di esistere, non solo di vivere.
Padre Pio muore nel 1968.
Nei giorni precedenti le stigmate spariscono.
Con molta probabilità per teologi e fedeli la sparizione delle stigmate è da considerarsi un miracolo ancora più grande della loro apparizione.
Il 21 gennaio del 1990 Padre Pio è dichiarato venerabile.
Il 2 maggio del 1999 Padre Pio è beatificato, poco prima del grande Giubileo voluto dal papa venuto dalla Polonia.
Un passaggio interessante, avvenuto durante la causa di beatificazione, attiene alle dichiarazioni di uno dei postulatori alla causa di Padre Pio, Gerardo di Flumeri che, con riferimento alle accuse di lussuria mosse nei confronti del cappuccino, disse: « Le pie donne sue penitenti erano tutte anziane, tutte virtuose e anche tutte prive di qualsiasi attrazione fisica. Eppure tutte furono inquisite da monsignor Maccari con la domanda brutale: avete fatto l’amore con lui? E quante volte? Ci fu una che disse di aver peccato. Padre Pio lo seppe eppure continuò a confessare con quella sventurata. Là tra tanta gente alle volte capitavano anche i matti».
Interessante l’analisi di queste parole.
Con riferimento alle donne, se non fossero state anziane, virtuose e poco attraenti?
Secondo aspetto: qualunque persona non la pensava come volevano a San Giovanni Rotondo era da considerare sventurato e matto?
Il 16 gennaio del 2002 Padre Pio diviene San Pio.
Tra i miracoli riconosciuti per la causa di santificazione: le stigmate, la bilocazione, la profezia e la scrutazione nei cuori dei fedeli.
Il 24 aprile del 2008 il cadavere fu estratto dalla tomba per darlo in visione ai fedeli.
L’evento ha dato una nuova spinta agli affari degli oltre 140 hotel ed affittacamere sorti nei pressi del convento, molti dei quali in deroga al piano urbanistico nell’anno santo del giubileo.
A fianco della salma furono posti distributori automatici di medaglie e ceri.
Il 19 aprile del 2010 la salma di Padre Pio è stata trasferita nella cripta all’interno della chiesa dedicata al santo. Il luogo di riposo è decorato con mosaici ed il soffitto ricoperto di foglia d’oro, ricavato dalla fusione degli ex voto che i fedeli negli anni hanno portato a San Giovanni Rotondo. Tutto questo sfarzo ricordando San Francesco d’Assisi ed il voto di povertà, cui tutti i francescani sono tenuti.
Nel mese di febbraio del 2016 il corpo di San Pio è stato esposto in Vaticano per la gioia di migliaia di fedeli che sono accorsi a fotografare, strofinare sciarpe e fazzoletti, pregare sul feretro che si faceva largo nelle strade di Roma.
Roma medievale.
Roma città eterna.
Alla fine la chiesa vince sempre.
Come concludere questa lunga narrazione sulle vicende del frate con le stigmate? Risalendo al tempo in cui tutto ebbe inizio. Negli anni precedenti il 1920 Padre Pio fu trasferito, dopo aver ottenuto il congedo di un anno dall’esercito che lo reclamava in vista della guerra, nel convento di Foggia. Le visioni e le lotte con il diavolo erano talmente vigorose da spaventare il responsabile del luogo sacro che decise di scrivere al vescovo di Ariano Irpino, il quale commentò « il Medioevo è finito da un pezzo, e voi credete ancora a queste panzane?».


Fabio Casalini


Bibliografia

Allegri Renzo, I miracoli di Padre Pio. Mondadori. 1993

Bergadano Elena, Padre Pio il profumo dell'amore. Edizioni Paoline. 2013

Gemelli Agostino, Contro Padre Pio. Mimesis edizioni. 2010

Guarino Francesco, Padre Pio il santo tra noi. Edizioni il pellegrino di Padre Pio. 2014

Guarino Mario, Beato Impostore, Kaos edizioni. 1999

Renzetti Roberto, San Francesco e i crimini dei francescani. Tempesta Editore. 2013

La borsa di Mussolini

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Benito Mussolini fu ucciso il 28 aprile del 1945 a Giulino di Mezzegra, frazione di Tramezzina in provincia di Como, a colpi d’arma da fuoco. Il capo del fascismo si trovava in stato d’arresto dopo la cattura, avvenuta a Dongo il giorno precedente grazie ai partigiani della 52aBrigata Garibaldi comandata da Pier Luigi Bellini delle Stelle.
Negli anni successivi, esattamente nel marzo del 1947, il comandante partigiano Walter Audisio si assumerà l’onere e l’onore di essere stato l’unico autore dell’uccisione di Mussolini.
L’unico dato importante della sua morte è che gli alleati lo volevano vivo, per processarlo come avrebbero fatto a Norimberga con i nazisti. Le forze partigiane invece questo processo non lo volevano, e non solo per furore di giustizia o di vendetta: sapevano che Mussolini avrebbe spiegato al mondo quanto e come gli italiani avevano creduto in lui, quanto erano stati suoi complici e suoi adoratori”.[1]
Questi sono fatti conosciuti e noti alla maggioranza delle persone.
Alcune delle tante verità che Churchill ha ritenuto opportuno di nascondere, erano certamente custodite nella famosa borsa che Mussolini si portava appresso quando fu catturato a Dongo dai partigiani”.[2]
La sera del 25 aprile quando Mussolini decise di fuggire da Milano, ormai sconfitto e rassegnato, non immaginava di trovare sulla sua strada il mitra di Walter Audisio. Probabilmente pensava ad un’onorevole fuga verso la Valtellina sino al sopraggiungere degli alleati, cui si sarebbe concesso.
Poteva immaginare la cattura e il processo da parte degli alleati?
Un processo che riteneva giusto e dove avrebbe potuto citare testimoni spiegando la sua azione politica durante i 22 anni di potere?
Dobbiamo tornare alla borsa di Mussolini: dopo il sequestro a Dongo, operato dal comandante Pedro – Pier Luigi Bellini delle Stelle – la borsa fu prelevata dal capitano Malcom Smith del Field Security Service britannico. Il capitano portò il reperto al comandante in capo delle forze alleate in Italia, il maresciallo Harold Alexander.
Possiamo pensare, e presumere, che il contenuto della borsa fu esaminato e scremato dagli inglesi durante la consultazione avvenuta a Villa Apraxin?
Gli inglesi non erano i soli a reclamare il contenuto, poiché gli americani volevano fortemente analizzarlo. La borsa passò dalle mani britanniche a quelle americane, che portarono il tutto a Washington per la consultazione.
Nel 1949 la borsa fece ritorno in Italia e depositata presso l’archivio di Stato, “[..] dove rimase per lungo tempo dimenticata. Il suo ritrovamento lo si deve all’archivista Gaetano Contini, ma anche si a chi scrive questo libro che collaborò alle ricerche”.[3]
Prima di conoscere il contenuto rinvenuto dall’archivista e da Arrigo Petacco facciamo un passo indietro: cosa conteneva al momento del sequestro?
Secondo l’inventario del comandante Pedro vi erano 160 sterline d’oro, assegni per un valore di circa 700,000 mila Lire, alcuni fascicoli con le seguenti intestazioni: varie, Umberto di Savoia, Processo di Verona e carteggio tra Mussolini e Hitler. Non vi è nessun riferimento ad un potenziale carteggio tra il Duce e Churchill.
Dei quattro fascicoli menzionati dal comandante Pedro, uno solo è mancante: quello d’Umberto di Savoia, che pare contenesse rapporti delicati sulla presunta omosessualità del principe.”[4]
Tra i documenti non citati dal comandante Pedro, ma rinvenuti da Arrigo Petacco, vi sono telegrammi d’importanti industriali che sollecitavano Mussolini ad entrare in guerra, poiché i tedeschi stavano vincendo senza gli italiani.
Questi telegrammi, insieme ai documenti riportanti la firma del Re, dovevano provare nella mente del Duce che tutti gli atti compiuti avevano sempre ottenuto l’assenso del sovrano e che fu incoraggiato a prendere la decisione di entrare in guerra.
Un documento interessante è il verbale del primo incontro con Papa Pio XI, avvenuto in Vaticano il giorno 11 febbraio 1932.
“Le prime battute sembrano imbarazzate. Il santo Padre mi porge la mano, m’invita a sedere e dice: le porgiamo in benvenuto in questa casa che, essendo la casa del Padre, è la casa di tutti. Ci rallegriamo per la validità della legge sui culti che permette di controllare il fenomeno protestante, e anche per la promessa fatta dal governo di costruire almeno 4000 nuove chiese. Sono lieto che si sia ristabilita la compatibilità tra il partito fascista e l’Azione cattolica, se mai le difficoltà fossero dovute partire dalla parte cattolica. Ma io non vedo, nel complesso delle dottrine fasciste, tendenti all’affermazione dei principi d’ordine, autorità e disciplina, niente che sia contrario alle concezioni cattoliche”. [5]
La linea di difesa, escogitata da Mussolini, poteva spiegare la presenza all’interno della borsa della relazione che lo stesso Mussolini fece al Gran Consiglio il 4 febbraio del 1939. La delibera del Consiglio fu approvata dal Re. In conformità a questa documentazione, si potrebbe pensare che la decisione di partecipare al conflitto discendeva non da una sua intuizione ma dalla delibera del Consiglio. Ricordo che il Gran Consiglio del fascismo, fondato nel 1922, fu il massimo organo del partito nazionale fascista e svolgeva le funzioni d’organo costituzionale del Regno d’Italia. Le sue sedute si tenevano, solitamente, a Palazzo Venezia in Roma ed avvenivano a porte chiuse.[6]
Un’altra verità che Churchill ha – forse – ritenuto opportuno nascondere, si cela in una lettera che ho trovato frugando fra ciò che era rimasto nel fascicolo che conteneva il carteggio tra Mussolini e Hitler”.[7]
Secondo quanto riportato da Petacco si tratta di una minuta autografa della lettera che Mussolini aveva inviato a Hitler il 3 gennaio del 1940.
La domanda sorge spontanee: perché la portava con sé?
Questo documento lo avrebbe utilizzato a sua discolpa durante l’eventuale processo che, certamente, le forze alleate avrebbero intentato contro di lui?
Prima di analizzare il contenuto dovremmo ricordare la situazione al 3 gennaio del 1940: l’Italia fascista era ancora non belligerante mentre l’Europa era sconvolta dalle guerre, la prima che stava languendo lungo la linea Maginot e la seconda – combattuta – in Carelia tra la Finlandia e l’Unione Sovietica. Nella lettera vi sono chiari riferimenti al secondo evento dove, incredibilmente, la grande Armata Rossa stava soffrendo le forze finniche. I finlandesi divisi in fanti-sciatori, conosciuti come Sissit, avevano immobilizzato tra i ghiacci i soldati sovietici. Dato il languire della guerra sulla linea Maginot, tutta la stampa internazionale si era spostata tra la neve e i laghi della Finlandia: anche quelli italiani cui Mussolini aveva lasciato – incredibilmente – libertà di stampa.
Vorrei spiegare il perché ho utilizzato il termine incredibilmente.
Dobbiamo ricordare che l’Italia era alleata della Germania e questa a sua volta aveva stretto accordi con Stalin. Mussolini avrebbe dovuto parteggiare per i sovietici, in una logica d’alleanze incrociate.
Così non fu, e potremmo definire tifo da stadio quello espresso da Mussolini nella lettera: “L’Italia fascista ammira questa piccola e valorosa nazione che si batte per la propria indipendenza. Si è parlato d’ingenti aiuti dati dall’Italia. Esagerato. Si tratta di appena 26 obsoleti aerei da caccia e d’alcuni piloti istruttori: nient’altro. Tuttavia, non posso negare che migliaia d’italiani continuano a offrirsi volontari per correre in aiuto degli eroici finlandesi: ma l’arruolamento non sarà permesso”.[8]
Non aveva digerito il patto tra Hitler e Stalin.
Non lo digerirà mai.
Analizza, scrivendo a Hitler, i termini dell’accordo e la situazione sovietica.
La lettera si conclude, sempre riferendosi a Stalin e all’Unione Sovietica in questo modo. “Fino a quattro mesi fa la Russia era il pericolo numero uno, non può essere diventata l’amico numero uno. Solo dopo il giorno in cui avremo demolito e vinto il bolscevismo potrà essere la volta delle grandi democrazie le quali non potranno sopravvivere a lungo alla loro crisi demografica, politica e morale.”[9]
Mussolini analizza anche la questione della Polonia occupata e degli ebrei: “Un popolo che è stato ignominiosamente tradito dalla sua classe dirigente, ma che si è battuto con coraggio, merita il trattamento dei vinti, ma non quello degli schiavi. La creazione di una modesta Polonia liberata dagli ebrei non può costituire un pericolo per il grande Reich. Ma questo fatto sarebbe importante per voi negli sviluppi della vostra guerra che a molti in Occidente appare senza senso.”[10]
Tra gli storici che hanno analizzato i documenti da ricordare l’idea di Denis Mack Smith, gran conoscitore della storia italiana, che definisce strana la lettera di cui stiamo argomentando.
La missiva inviata a Hitler non ebbe mai una risposta.
Sarebbe potuta andare diversamente?
Certamente gli alleati avrebbero voluto vivo Mussolini per processarlo a Norimberga.
La storia si conclude con Mussolini e Claretta Petacci appesi ad una tettoia di un distributore di benzina. Il capo partigiano Ferruccio Parri, che fu anche presidente del Governo, utilizzò il termine Macelleria Messicana per definire i macabri fatti di Piazzale Loreto.


Fabio Casalini


Bibliografia

Enzo Biagi, La terribile fine di un tiranno in La Seconda Guerra Mondiale. Gruppo editoriale Fabbri 1983.

Giordano Bruno Guerri, Fascisti. Gli italiani di Mussolini. Il regime degli italiani. Arnoldo Mondadori editore, 1995

Arrigo Petacco, La storia ci ha mentito. Arnoldo Mondadori editore, 2014

Fotografie

- Benito Mussolini
- Pier Luigi Bellini delle Stelle
- Pio XI


[1] Giordano Bruno Guerri, Fascisti. Gli italiani di Mussolini. Il regime degli italiani. Arnoldo Mondadori editore, 1995
[2] Arrigo Petacco. La storia ci ha mentito. Arnoldo Mondadori editore, 2014
[3] Arrigo Petacco. La storia ci ha mentito. Arnoldo Mondadori editore, 2014
[4] Arrigo Petacco. La storia ci ha mentito. Arnoldo Mondadori editore, 2014
[5] Verbale dell’incontro tra Mussolini e Pio XI, avvenuto in Vaticano il giorno 11 febbraio 1932. Riportato in La storia ci ha mentito di Arrigo Petacco.
[6] Gran consiglio del fascismo in Treccani.it – Enciclopedie on line. Istituto dell’Enciclopedia italiana.
[7] Arrigo Petacco. La storia ci ha mentito. Arnoldo Mondadori editore, 2014
[8 - 9 - 10] Arrigo Petacco. La storia ci ha mentito. Arnoldo Mondadori editore, 2014

Il santuario di Notre-Dame-des-Neiges a Machaby

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Il santuario di Notre-Dame-des-Neiges sorge in località Machaby, a 696 m sopra il livello del mare, nel comune di Arnad. L’edificio fa parte degli antichi santuari valdostani posti in località isolate e meta di processioni devozionali.
E’ un santuario a Répit. Quale il significato? 
La morte di un neonato è un fenomeno biologico che comporta forti, ed importanti, implicazioni sociali e culturali per tutte le popolazioni. La diffusione del Cristianesimo, in Europa Occidentale, ha contribuito a rendere omogenee le pratiche funebri. L’avvento della nuova religione comporta una radicale modifica delle credenze sino allora esistenti in Europa. Il diffondersi del sacramento del battesimo crea un problema in relazione ai bimbi nati morti. Nascendo morto non riceve il battesimo, motivo per il quale non può accedere al mondo dei giusti. Il Santo Battesimo è il fondamento di tutta la vita cristiana, è la porta che apre l’accesso agli altri sacramenti. Mediante il Battesimo, il cristiano, è liberato dal peccato e rigenerato come figlio di Dio, diventa membra di Cristo; è incorporato nella chiesa e reso partecipe della sua missione[1].  Il Battesimo può definirsi il sacramento della rigenerazione cristiana mediante l’acqua e la parola.[2] 
I genitori potevano, a fatica, accettare la morte prematura del figlio, ma non la sua esclusione dalla comunità cristiana. Da cosa deriva questa paura? Possiamo ritenere che alla base di questa, complessa, paura della morte vi sia l’idea che solo nella Chiesa vi è salvezza e solo con il battesimo si entra nella chiesa. Questo terrore era accentuato dal fatto che il bimbo, non battezzato, non poteva essere sepolto in terra consacrata.[3] 
Il pensiero che si diffonde, nelle menti dei genitori, attiene al fatto che i bambini nati morti, o mai nati, erano condannati all’inferno poiché non battezzati. La tristezza nel cuore dei genitori era infinita. Non vi era sollievo a questo dolore. Soffrivano per la perdita dell’amore della propria vita e, consapevolmente, ritenevano di non poter trovare il proprio piccolo nell’aldilà. Sant’Agostino narra che una donna, disperata per la morte del figlio prima del battesimo, prega con altissima devozione le spoglie del protomartire Stefano affinché possa farlo tornare in vita. Il miracolo della resurrezione avviene, ma solo per il tempo necessario alla somministrazione del battesimo. Il miracolo è avvenuto? Non lo possiamo sapere. Comprendiamo come sia una manifestazione, lampante, della necessità di ricevere il battesimo. Il fatto, avvenuto o meno, farà la storia ed andrà molto oltre le attese che Sant’Agostino si era posto. Quest’accadimento sarà utilizzato dagli scrittori del secolo XVII, il periodo di maggiore ricorso al Répit, per trovare una giustificazione storica allo svolgimento del rito.[4] 
Torniamo al Santuario di Machaby. In un vallone profondo, abbandonata la strada che sale da Arnad, si deve prendere una strada sterrata – antica mulattiera Pavià du Bioley – che conduce al santuario dedicato alla Madonna delle Nevi.
La documentazione trovata è la seguente: « Si sa per certo che il santuario esisteva già nel 1503, ma era di dimensioni molto ridotte rispetto a quelle attuali. Nel 1687 l’edificio fu ricostruito mantenendo intatto il vecchio presbiterio; nel 1689 vennero aggiunte le navate laterali e la sacrestia. L'architrave della porta d'ingresso è datato 1687 ed il portico 1735; il campanile fu costruito nel 1723. Il presbiterio presenta una volta a cupola affrescato dai pittori Artari e sorretta da tamburo ottagonale. L'edificio è a tre navate suddivise da colonne in pietra e da due pilastri in prossimità dell'altare maggiore. Le pareti interne sono ricoperte da ex voto, tra cui un gran numero di stampelle. L'altare maggiore, con quattro colonne lisce a base tortile e architrave ad arco spezzato, risale al XVII secolo. Nella nicchia centrale era posta la statua in legno scolpito e dipinto della Madonna, ora conservata nella chiesa parrocchiale di Arnad. Nelle navate laterali si trovano due altari databili al XVIII secolo. Degno di nota è il pulpito in pietra sorretto da colonnine, forse del XVII secolo. In un corpo separato, dietro il santuario, sono affrescati, all'interno delle nicchie, i Misteri del Rosario. Nel piazzale antistante vi sono una croce in pietra e le statue litiche di San Grato e di San Girolamo. In prossimità del sagrato si trovano due grandi edifici costruiti nel XIX secolo per ospitare i pellegrini. »
Il 5 di agosto, di ogni anno, si celebra la festa della Madonna delle Nevi. Un'antica leggenda vuole che il Santuario sia stato costruito sul luogo in cui fu rinvenuta la statua lignea della Madonna: secondo tale leggenda, i pastori che l'avevano trovata in un cespuglio la sistemarono subito nell'oratorio del villaggio sovrastante; ma, miracolosamente, il giorno dopo, la statua era di nuovo nel medesimo cespuglio, come ad indicare il luogo prescelto per il sacro edificio.
Ho la certezza che si tratti di un santuario del ritorno alla vita?
Mi affido alle parole del professor Pierpaolo Careggio: nei suoi studi sulla pratica del ritorno alla vita ha analizzato il caso del santuario mariano di Machaby. In diverse conferenze ha ribadito l’esistenza del rito nel santuario di Notre-Dame-des-Neiges.
Purtroppo non ho avuto modo di vederlo all’interno, e le fotografie esistenti sono scarse e di bassa qualità. Posso tranquillamente affermare che la posizione e il cammino per arrivare al Santuario rappresentano due validi motivi per la classificazione; le parole del professor Careggio levano ogni ulteriore dubbio.

Fabio Casalini




[1] Concilio di Firenze, decretum pro Armenis
[2] Catechismo Romano. Edizioni P. Rodriguez (Città del Vaticano). 1989
[3] Fabio Casalini e Francesco Teruggi. Mai Vivi, Mai Morti. Giuliano Ladolfi Editore, 2015
[4] Fabio Casalini e Francesco Teruggi. Mai Vivi, Mai Morti. Giuliano Ladolfi Editore, 2015

Il caso Wilma Montesi

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Italia 1953.  
Dopo la crisi politica, con il fallimento dell'ultimo governo di Alcide De Gasperi, l’ottavo (che non ottiene la fiducia), il 17 agosto il presidente della Repubblica Einaudi incarica Giuseppe Pella di formare un governo provvisorio, denominato governo d'affari o governo amministrativo, con il solo compito  di arrivare all'approvazione della legge di bilancio. 
Pella si dimette il 12 gennaio 1954. Dopo di lui è la volta di Amintore Fanfani, che dura poco più di un mese, per lasciare il posto a Mario Scelba. Ministro degli esteri e uomo di punta della DC era Attilio Piccioni, padre del meno famoso Piero. Ma come si intreccia la politica del tempo con il caso Montesi?La mattina dell'11 aprile un giovane manovale, tale Fortunato Bettini, stava andando a lavorare in un villino in costruzione quando notò sulla riva del mare qualcosa che sembrava una persona addormentata; si avvicinò e trovò invece il cadavere di una giovane donna bruna, che giaceva a pancia in giù, parallela al mare, e veniva di tanto in tanto lambita dalle onde che si infrangevano sulla spiaggia; il capo appoggiato sul braccio sinistro e reclinato verso destra. Niente scarpe, niente calze, niente gonna ma soltanto sottoveste e mutandine, un golfino di lana gialla e la giacca non infilata ma appoggiata sulle spalle.
Il corpo è quello di Wilma Montesi, una bella ragazza romana, sullo stile di Anna Magnani, figlia di un falegname, trovata morta sulla spiaggia di Torvaianica, a sud di Ostia.
Wilma ha 21 anni, una sorella ed un fratello, un padre falegname, una madre casalinga autoritaria ed invadente, un fidanzato agente di polizia, trasferito da qualche settimana a Potenza. Una vita normale, una famiglia normale.
Ma come e perché Wilma era uscita di casa quel pomeriggio per andare a morire a 16 km a sud di Ostia Lido? E come poteva essere arrivata a quel posto sulla spiaggia che non era collegata alla città da alcun mezzo pubblico? Chi l’aveva portata, anzi abbandonata lì, dato che Wilma non aveva la patente di guida?
E cosa era andata a fare su quella spiaggia?
Da qui partono le indagini sul caso Montesi.
Il 9 aprile Wilma doveva andare al cinema con la madre e la sorella a vedere un film, «La Carrozza d'oro» con Anna Magnani, a cui la ragazza si ispirava come molte giovani del suoi tempo. Cambiò idea, senza un apparente motivo. Fatto molto strano.
Preferì rimanere a casa. Improvvisamente dopo poco più di mezz’ora, decise di uscire, lasciando sul comodino della sua stanza una catenina ed un braccialetto d'oro da cui non si separava mai, regalo fatto dal suo fidanzato, Angelo Giuliani, prima di partire per Potenza. Questo comportamento apparve subito abbastanza strano, perché Wilma non usciva mai senza indossare questi gioielli. 
Ancora più strano sembrò il fatto che la ragazza fosse uscita così all'improvviso per andare tanto lontano e senza avvertire la famiglia di avere cambiato programma.
In un primo momento la famiglia Montesi non mostra grande preoccupazione per l’uscita di Wilma, anche se il suo comportamento era in contrasto con quanto aveva detto alla madre. All’ora di cena non rientra, ma neppure questo desta allarme. Soltanto alle 22.30, dopo aver compiuto un rapido giro di telefonate agli ospedali della zona, per verificare se la ragazza fosse stata vittima di un incidente, il padre si reca al Commissariato di Polizia più vicino per denunciare la scomparsa di sua figlia.
Solo la portiera del palazzo in cui abitavano i Montesi ricordava di aver visto uscire Wilma verso le 17.00 e con gli stessi indumenti che la ragazza indossava quando fu ritrovata senza vita sulla spiaggia.
La Polizia avrebbe voluto chiudere il caso velocemente archiviandolo come morte accidentale: secondo la Squadra Mobile, Wilma Montesi sarebbe annegata per disgrazia mentre stava bagnandosi i piedi nell'acqua di mare per guarire da un fastidioso eczema ai talloni. 
L’opinione pubblica si ribellò decisamente. In breve i giornalisti contribuirono a creare il caso portando alla luce due fatti molto sospetti: per prima cosa la dichiarazione del fidanzato arrivato da Potenza all’obitorio che urlando disse… "Me l'hanno ammazzata".
E poi il referto del medico condotto di Pratica di Mare, Agostino di Giorgio, che chiamato poco dopo il rinvenimento del cadavere scrisse in una relazione che "il decesso fosse avvenuto circa 18 ore prima del rinvenimento del cadavere". A dire il vero il dottor Di Giorgio non era un medico legale, ma un’esperienza l'aveva; pertanto se non era in errore, Wilma Montesi era morta intorno alle 14.30 del pomeriggio precedente, cioè del 10 aprile. Allora dove era stata la ragazza delle 17.00 del 9 aprile alle 14-14,30 del 10 aprile?
Le indagini si complicano. Polizia e Carabinieri sembrano non voler collaborare.
Il commissario che ha raccolto la denuncia del Sig. Montesi decide di dichiarare ufficialmente la morte di Wilma come un suicidio. I Carabinieri propendono per la morte accidentale.
Nessuna delle due tesi è suffragata da fatti.
IL 16 aprile, solo 5 giorni dopo, fu annunciato ufficialmente che per gli inquirenti il caso doveva considerarsi chiuso.
Il Messaggero di Roma spiegò nel dettaglio come La Squadra Mobile e il Procuratore della Repubblica fossero giunti senza dubbio alla conclusione che la tesi del pediluvio finito in tragedia fosse il solo plausibile: "Il fatto che - scriveva il giornale romano - la ragazza uscendo di casa avesse avuto cura di lasciare un braccialetto d'oro, gli orecchini e la fotografia del fidanzato, Angelo Giuliani, fece pensare che Wilma non avesse avuto più intenzione di tornare in famiglia. Ma attraverso un minuzioso esame delle abitudini della giovane, eseguito dal dottor Magliozzi e dal dottor Morlacchi della Squadra Mobile, è stato
possibile accertare che Wilma aveva portato con sé le chiavi dell'appartamento. Ciò sta a dimostrare che, se non avesse avuto intenzione di tornare indietro, oltre alla fotografia e al resto, avrebbe lasciato in casa anche le chiavi. Del resto, la professoressa Rosa Passarelli (testimone che vide Wilma Montesi il 9 aprile sul treno che da Roma va a Ostia)…. ha dichiarato che Wilma appariva tranquilla e che nulla lasciava pensare che avesse serie preoccupazioni o che addirittura, meditasse propositi suicidi……Wilma Montesi, dunque, è
morta per una disgrazia... L'autopsia, oltre a svelare le cause della morte e la integrità della ragazza, ha confermato ai funzionar! inquirenti che Wilma era affetta da una irritazione ai piedi. La Procura della Repubblica, ieri sera, ha rilasciato il nulla osta per i funerali della povera ragazza che avranno luogo oggi alle 14,30 partendo dall'Obitorio. Accertato che la causa della morte della ragazza è dovuta a disgrazia, l'Autorità ecclesiastica ha concesso l'autorizzazione al trasporto della salma in chiesa per la cerimonia religiosa".
La famiglia era soddisfatta, la reputazione di Wilma salva, gli inquirenti anche, avevano chiuso un caso apparentemente complicato in modo veloce e indolore. L’ opinione pubblica invece non sembrò accettare di buon grado le molte lacune della tesi impostata sulla «disgrazia».
L'ipotesi che la ragazza fosse andata da sola sino ad Ostia per curarsi i piedi, immergendoli nell'acqua del mare e senza avvertire nessuno dei suoi parenti si presentava assolutamente inaccettabile. Ma ancora più strana era l’ipotesi che la ragazza, colta da malore e svenuta, fosse stata trascinata dalla corrente verso sud per riemergere sulla riva a Torvaianica dopo 36-40 ore in acqua senza, mostrare alcuna «sofferenza» al punto da far dire a chi la trovò sulla spiaggia che «sembrava addormentata».
Ed è proprio da questa descrizione dei testimoni che nacquero i primi grandi sospetti.
Il giorno del funerale accorsero molte persone, molti curiosi. Wilma Montesi fu composta nella bara con il suo abito da sposa. Sotto una epigrafe in cui era avvalorata la tesi del pediluvio finito in tragedia: CREATURA DI RARA BELLEZZA IL MARE DI OSTIA TI RAPÌ PER RIPORTARTI SULLA SPIAGGIA DI TOR VAIANICA SEMBRAVA CHE DORMISSI NEL SONNO DEL SIGNORE BELLA COME UN ANGELO. LA TUA MAMMA, IL TUO PAPA, TUA SORELLA E TUO FRATELLO TI SONO VICINI NEL LORO GRANDE AMORE NEL LORO IMMENSO DOLORE.
Ma qualcosa sta cambiando, il caso non è chiuso. Ancora una volta alle pagine de Il Messaggero vengono affidate le perplessità degli uomini della strada.
Ad aumentare i dubbi sullo svolgimento dei fatti tre punti fondamentali: primo, l’ufficiale di stato civile era incerto sulla data e ora del decesso, tanto da scrivere nel registro: «morta il 9 o il 10 aprile 1953»; secondo, secondo alcuni esperti, nei giorni in cui si presumeva avvenuto il fatto, non erano state registrate correnti marine tali da essere in grado di trasportare Il corpo  per un così lungo tratto; terzo, il corpo di Wilma non mostrava evidenti segni di decomposizione e macerazione, giustificabili dalla prolungata permanenza in mare.
Il 24 aprile la Procura della Repubblica riapre ufficialmente il caso, chiedendo la collaborazione di chiunque avesse visto o sentito qualcosa. Cominciarono a circola voci sempre più insistenti sul fatto che il questore Saverio Polito e il Procuratore della Repubblica Angelo Sigurani avessero avuto molta fretta di chiedere le indagini per salvare il probabile responsabile dell’omicidio. Il «salvato» doveva rimanere senza identità, perché, girava voce, fosse senza dubbio «potente» ed in quell'epoca i «potenti» erano soprattutto i democristiani. L’ipotesi più plausibile era quella che vedeva Wilma coinvolta in una «festicciola» andata un po’ oltre; forse a quella festa era presente della droga; forse Wilma s'era sentita male e il suo o i suoi amici, presi dal panico, l'avevano abbandonata sulla riva del mare, magari credendola morta, e lì era annegata. Per paura dello scandalo, accidentalmente, avevano causato la morte della ragazza. A questo punto andava stabilito chi potesse avere così paura dello scandalo: un «potente» oppure il «figlio di un potente”. In realtà il dramma sarebbe iniziato a Roma, per poi concludersi in quella zona desolata, lontano da occhi indiscreti. Ma anche in questo caso siamo nel campo delle ipotesi. Ora mancavano prove ed indizi. Dalle analisi sul corpo di Wilma non risultavano tracce di sostante stupefacenti. 
E quindi?
All'inizio di maggio un settimanale satirico-politico Il merlo giallo di Alberto Giannini, che pubblicò una vignetta che alludeva senza alcun dubbio al caso Montesi: un uccello in volo con un reggicalze nel becco ed una didascalia: “E sparì come un Piccione viaggiatore.”
Da Piccione a Piccioni il passo è breve. Attilio Piccioni, vecchio esponente di spicco della DC, uomo integerrimo, almeno in pubblico, vicepresidente del Consiglio con De Gasperi durante le elezioni del 1948, che vedono la DC sbaragliare gli avversari comunisti e socialisti del «Fronte del Popolo», era furi dai giochi. Chi suscitò grande interesse fu uno dei suoi figli, Piero, conosciuto con lo pseudonimo di Piero Morgan come uno dei più importanti esperti ed interpreti di musica jazz e come compositore di musica per le colonne sonore di film.
Piero Piccioni viene visto dai più come un motivo per movimentare le elezioni imminenti, per screditare la Dc e che una volta passato giugno il caso Montesi sarebbe stato nuovamente archiviato come incidente.
Ma non fu così. A ottobre un periodico, Attualità, con direttore Silvano Muto, di soli 24 anni, esce con questo titolo: “Verità sulla morte di Wilma Montesi".
Silvano Muto non fece altro che raccogliere tutte le voci che erano state messi in giro sino ad allora, tramutandole in certezza assoluta: Wilma frequentava un ambiente in cui circolava la droga, durante un «festino», che sembra si sia svolto in zona di Capocotta, ai margini della tenuta presidenziale ex reale di Castel Porziano, si è sentita male ed è stata abbandonata sulla spiaggia. Nonostante la sua giovane età Silvano Muto non fa i nomi dei presunti responsabili, ma li indica genericamente con due consonanti: il signor X è l'organizzatore, ricco, affabile, abile nel coltivare le amicizie; il signor Y è un giovanotto dell’alta società. Entrambi, di fronte al malore della bella Wilma, pensano di salvarsi dallo scandalo facendo scomparire il corpo della ragazza, credendola già morta.
Il Procuratore della Repubblica, Angelo Sigurani, convoca subito Silvano Muto e gli chiede di spiegare come abbia potuto accertare i fatti che sostiene. Non ricevendo spiegazioni convincenti, lo rilascia con l'imputazione di «avere diffuso notizie false e tendenziose atte a turbare l'ordine pubblico». Il caso Montesi viene nuovamente archiviato.
Il processo a Silvano Muto inizia il 28 gennaio 1954. A questo punto Muto fa il nome di una testimone, Adriana Bisaccia, che avrebbe confermato il festino nella tenuta di Capocotta, la partecipazione della Montesi e di coloro che, a suo dire, “erano da considerarsi i responsabili della tragedia della ragazza", cioè una signora e tre uomini. I nomi non erano mai stati fatti dalla Bisaccia per paura delle ripercussioni. Ma le sorprese non sono finite. Per la prima volta viene nominata Anna Maria Moneta Caglio, 23 anni, milanese, figlia di un notaio, nipote di un «Premio Nobel», alta, bella, molto intraprendente.
Era venuta a Roma con il proposito di «sfondare» nel mondo cinematografico, ma in realtà aveva imbastito una relazione con Ugo Montagna, ricco uomo siciliano, maturo e spericolato negli affari, grande cultore delle amicizie che contano.
Fu la Caglio a contattare Silvano Muto e a confermargli i legami di Wilma con un giro di «convegni equivoci». Lei a sua volta lo aveva saputo dal Marchese Montagna, che confidenzialmente le aveva detto che Wilma si intratteneva con «persone di rango elevato». Ma questo doveva rimanere un segreto.
La testimonianza delle due donne diventa fondamentale, ma sembra che nessuna delle due abbia intenzione di dire la verità. Hanno paura? O Hanno inventato tutto? La Caglio, dopo la rottura con Montagna, si fa avanti con un memoriale, che comincia a girare.
Una copia arriva al settimanale l’Europeo, l’altra viene consegnata a uno zio parroco di Lomazzo, in provincia di Como. Dopo qualche settimana, finì nelle mani di un gesuita, padre Alessandro Dall'Olio, che ne fece due copie, una per il Vaticano, una per il ministro dell'Interno Amintore Fanfani.
Le due donne testimoniano, e la ricostruzione dei fatti che ne segue e la seguente: Wilma Montesi viene invitata da un gruppo di amici ad una festa, le offrono della droga, si sente male, gli amici, ritenendola morta, la abbandonano sulla spiaggia, agonizzante, dove annega; i responsabili sono Piero Piccioni ed Ugo Montagna che convince il capo della Polizia ad intervenire per evitare che sia coinvolto nello scandalo il figlio del vicepresidente del Consiglio e ministro degli Esteri. Ma dove sta la prova che Wilma conosca e frequenti effettivamente il Piccioni e il Montagna? E dove era avvenuta questa famosa festa?
La Caglio sembrava abbastanza certa delle accuse fatte ai due uomini e della complicità del Procuratore della Repubblica nel cercare di insabbiare i fatti. Descrive Montagna come un uomo potente, avvezzo alle droghe e alla dissolutezza, con amici potenti e influenti, tra cui Giampiero Piccioni, l’archiatra pontificio Riccardo Galeazzi Lisi, medico personale di Pio XII, il prefetto Gaetano Mastrobuono.
La reazione di Montagna non si fa aspettare: una denuncia per calunnia ed una querela per diffamazione. Il processo viene sospeso due giorni, al rientro in aula i legali di Muto portano un esperto che avvalora la tesi dell’omicidio. Si riaccende la polemica. Montagna chiede di testimoniare in merito alla scarsa attendibilità della Caglio, portando prove scritte, numerose lettere scritte dalla Caglio, in cui si parla dei costumi dissoluti del Montagna.
Il processo va avanti senza grossi colpi di scena, sono nominati diversi personaggi più o meno coinvolti, tra cui la stessa Adriana Bisaccia, che alla fine dice di sapere poco o nulla. Ma numerosi sono gli amici che testimoniano che in realtà la Bisaccia sa e conosce bene il Montagna.
Una svolta determinante a tutta la vicenda arrivò da Aldemira Marri che ospitò per un paio di anni a Roma Anna Maria Moneta Caglio. Si presentò ai giudici e raccontò che la ragazza le aveva affidato quattro lettere scritte il 30 ottobre 1953, il 28 novembre, il 1° ed il 28 dicembre. Nella prima, la Caglio scriveva: "Ore 16,30. Esco e vado a Capocotta con Ugo Montagna. Mi dice che mi porta a Capocotta e staremo lì tutta la notte. Come finirò?". La Mirra parla anche del testamento che la Caglio le avrebbe dato e che lei le aveva poi rispedito per raccomandata, in cui la Caglio, tra le altre cose, scriveva: “…sapendo di che natura sono tanto Ugo Montagna quanto Piero Piccioni, figlio dell'onorevole, temo di poter scomparire senza lasciare traccia di me stessa. Ho saputo che il capobanda del traffico degli stupefacenti è Ugo Montagna con annessa scomparsa di molte donne. Egli è il cervello di questa organizzazione mentre Piero Piccioni è l'assassino.”
Il testamento viene rintracciato in un ufficio postale, la Caglio deve confermarne la maternità.
Colpo di scena: il tribunale decide che gli è impossibile andare avanti. IL Pubblico Ministero ritiene necessaria una nuova indagine. 
L’opinione pubblica porta in trionfo la Caglio.
Il 22 marzo 1954, solo quattro giorni dopo, l'indagine sulla morte di Wilma Montesi riprende e, questa volta, viene affidata alla sezione istruttoria presso la Corte d'Appello. Se ne assume la responsabilità diretta lo stesso Presidente, Raffaele Sepe.  
La cosa più importante da stabilire e come e dove è morta Wilma Montesi. Vengono convocati a questo scopo tre illustri medici legali, Domenico Maccaggi, Giorgio Canuto ed Attilio Ascarelli, titolari di cattedre universitarie. Dopo due mesi di analisi e ricerche, i tre medici erano in disaccordo sull’orario della morte, ma tutti e tre convenivano che la causa della morte fosse asfissia per annegamento, in quanto la Montesi, probabilmente, fu portata «incosciente» sulla sponda ed abbandonata con il solo capo immerso nell'acqua. Una morte lenta. Esprimevano molti dubbi sulla possibilità che Wilma potesse essere annegata ad Ostia e trascinata dalle correnti sino a Torvaianica.  
L’unica cosa a cui i tre professori non seppero dare risposta era se Wilma Montesi fosse stata drogata o no al momento della morte.
Proliferano i mitomani di ogni genere, si fanno nomi sempre più illustri, altisonanti. Piste false, per creare scompiglio.
Alla fine dell’estate Attilio Piccioni viene avvertito, in via del tutto confidenziale, che sarebbe opportuno
rassegnare subito le dimissioni dall'incarico che ricopre. Arrestare il figlio del Ministro degli Esteri avrebbe reso più clamoroso lo scandalo ed avrebbe messo, forse, in imbarazzo tutto il governo.
La mattina del 21 settembre 1954 il Presidente della sezione istruttoria firma i mandati di cattura dietro esplicita richiesta del sostituto procuratore generale, Marcello Scardia. I mandati sono due: uno per Piero Piccioni, arrestato in mattinata e uno per Ugo Montagna, che si costituisce a Regina Coeli. Per l'ex questore Saverio Polito viene emesso mandato di cattura, in rispetto della sua età.
Lo scandalo tocca ora la politica. I democristiani si riuniscono in tutta fretta: Togliatti si incontra con Nenni.
Nove giorni dopo un colpo di scena. Viene fatto il nome di Giuseppe Montesi, zio della ragazza, giovane scapolo. Ad insinuare il sospetto i colleghi di lavoro. Giuseppe Montesi reagisce con una denuncia per diffamazione.  Raffaele Sepe pensa a una manovra per salvare un colpevole, Piero Piccioni, che per quel giorno ha un alibi: il 9 aprile 1953 ha la tonsillite, provata da un certificato medico rilasciato dal direttore di una clinica universitaria romana. Ma la data era stata corretta in modo da attestare che la malattia coincideva con il giorno della scomparsa di Wilma Montesi.
La mattina del 21 gennaio 1957 inizia il processo contro Piccioni, Montagna e Polito. Si svolge a Venezia.
Il primo sotto processo è Piccioni, poi tocca a Montagna. Alla decima udienza, vengono sentiti i medici legali: quelli che sostengono la tesi della disgrazia e quelli che sostengono che Wilma Montesi sia morta per colpa di qualcuno. È scontro. Anna Maria Moneta Caglio testimoniò alla fine di febbraio: Confermò tutto quello che aveva detto in passato. I testimoni si susseguono, non mancano i colpi di scena.
Il 27 maggio 1957, alle 23 e 30 circa, dopo oltre sette ore di riunione in camera di consiglio, il tribunale decide che Piero Piccioni, Ugo Montagna e l'ex questore di Roma, Saverio Polito debbano essere assolti «per non avere commesso il fatto».
Quattro mesi, fu aperto il libro nel quale i magistrati avevano spiegato le ragioni che avevano portato a questa conclusione, con molti dubbi e due certezze soltanto: che Wilma Montesi era morta per colpa di qualcuno, a Torvaianica, del quale nessuno aveva potuto individuare l’identità.  Piero Piccioni era estraneo a questa morte e come lui, Ugo Montagna e l'ex questore Saverio Polito.
Anna Maria Moneta Caglio fu condannata a Roma per calunnia nei confronti di Piccioni e Montagna a due anni e mezzo: ma la pena, confermata anche dalla Cassazione, le venne condonata nell'ottobre 1966.
La morte di Wilma Montesi fu il primo caso di cronaca nera a raggiungere fama nazionale nella giovane Repubblica Italiana. 
I giornali si lanciarono sugli eventi, divisi per appartenenza politica, attratti dalle relazioni tra politica e delitto.
La guerra, conclusa pochi anni prima, sembrò improvvisamente lontana.
Un nuovo mondo stava iniziando.

Rosella Reali

Bibliografia
Pier Mario Fasanotti, Valeria Gandus, La ragazza del pediluvio, in Mambo italiano 1945-1960. Tre lustri di fatti e misfatti, Marco Tropea Editore, 2000,

Carlo Lucarelli, Il caso Wilma Montesi, in Nuovi misteri d'Italia. I casi di Blu notte, Torino, Einaudi, 2004

Silvio Lanaro, Storia dell'Italia repubblicana. L'economia, la politica, la cultura, la società dal dopoguerra agli anni '90, Venezia, Marsilio Editori, 1992,

La ricerca archeologica in Ossola

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Grazie alla sua posizione strategica, la coltivazione della vite e lo sfruttamento delle risorse minerarie, l’Ossola fu, da sempre, un territorio in cui l’insediamento umano è sempre stato fitto. Con la politica espansiva voluta dall’imperatore Augusto a partire dal I sec. a. C., il territorio passerà dal controllo dei Leponzi, antica popolazione di origine celtica disseminata nei territori che corrispondono all’odierno Ticino, all’alto Vallese, alla Val d’Ossola e a una parte della Lombardia occidentale, sotto il dominio di Roma. 
L’interesse per il mondo antico in Ossola iniziò nel 1600 con lo studio delle testimonianze epigrafiche e solo nel 1800 con le prime presenze archeologiche. Sarà Enrico Bianchetti nel 1800 ad effettuare il primo scavo archeologico sistematico riguardante le Necropoli di Ornavasso databili tra il II sec.a.C. e la prima età imperiale.
Personalità di spicco del panorama culturale e politico piemontese, Enrico Bianchetti nasce nel 1834 a Domodossola e, dopo una serie di spostamenti nel territorio piemontese, torna nella sua casa a Ornavasso che lui stesso aveva trasformato in biblioteca e laboratori odi restauro.
Nel 1890, presso la massicciata della ferrovia Novara – Domodossola, venne ritrovata un’area archeologica caratterizzata da due necropoli celtiche del II e I secolo a.C. e questo fece nascere in lui una forte passione per il mondo archeologico.
Le necropoli di Ornavasso erano caratterizzate da due unità separate, quella in località “ San Bernardo”, chiamata così per la presenza di un oratorio intitolato proprio a quel Santo, e quella in località “ In Persona”.
Il Sepolcreto San Bernardo occupava un’area di circa 1700mq e accoglieva i resti e i corredi di una comunità di Leponzi (II –I sec. a. C), mentre la seconda area, posta a 200metri da San Bernardo, aveva una maggiore estensione, 2000mq, ospitava circa 165 tombe e apparteneva, con molta probabilità, alla stessa comunità ormai romanizzata ( I a.C. – I d. C.).
Si tratta, prevalentemente, di tombe ad inumazione, ad eccezione di due piccole tombe ad incinerazione e poche altre a cremazione diretta. La disposizione del posto era basata sul ceto del defunto.
Gli oggetti recuperati dai corredi furono più di 1700, insieme ad oltre 300 monete, e consistevano in armi, come spade e lance, utensili di ferro, oggetti ornamentali ( fibule, bracciali e anelli), bronzi (vasi ansati, brocche, e altri recipienti) e fittili ( vasi, scodelle, vassoi bicchieri e tazze) mentre delle monete è stato possibile stabilire l’età, nonostante il cattivo stato di conservazione: la più antica corrisponde al 234 a.C e la più recente è stata datata al 81/80 a.C. comprendendo, quindi, un arco temporale di 314 anni circa.
La Soprintendenza Archeologica del Piemonte condusse due campagne di scavo negli anni Quaranta e Cinquanta e furono eseguiti studi sulla cronologia e sui materiali, i risultati di tali studi sono, in realtà, problemi tutt’ora aperti.
Questi studi, nel corso del tempo, si sono orientati sulla base di due prospettive: una in prevalenza cronologica e l’altra tesa ad identificare l’organizzazione interna della comunità alla quale appartengono le due necropoli. 
Come già affermato da Enrico Bianchietti nei primi scavi, l’attribuzione delle necropoli al mondo gallico sarà, poi, ripresa da diversi studiosi negli anni ’50.
Queste necropoli vedono la presenza di armi, tra le quali spade lunghe, piuttosto preziose e costose a causa del non facile rifornimento e questo mette in stretto rapporto le necropoli con la probabile presenza stabile di militari e funzionari che vivevano a stretto contatto con la popolazione locale. 
Studiando le sepolture si osservò la deposizione delle armi, a destra del cadavere con l’impugnatura all’altezza della spalla: è un tipo di sepoltura dedicato ai militari caduti in combattimento e in almeno 5 casi presenti ad Ornavasso, si conosce il nome del defunto.
Nei corredi sono presenti, infatti, i nomi graffiti sul vasellame corrispondente, probabilmente, al proprietario dell’oggetto e quindi al defunto. Si tratti di nomi non latini ma celtici e, anche a romanizzazione compiuta, i nomi continuano ad essere di origine celtica, cambia solo il modo di scriverli: prima in alfabeto etrusco, poi in latino.
Una curiosa tomba infantile spicca tra le altre, in tutta la necropoli non esistono corredi simili a quello del bambino, il quale appare vestito con un costume diverso da quello locale ma molto vicino a quello della popolazione proveniente dalla Valle del Rodano. Nel corredo spiccano anche vasi a trottola e piatti molto simili a quelli locali, questo indica che fosse ben inserito nella comunità locale.
Il piccolo defunto, secondo gli studiosi, appare come precursore dei coloni di stirpe walser che si insedieranno nel medioevo in Ossola.
L’elemento ornamentale più diffuso è una fibula definita come tipo“Ornavasso”,composta da un arco semicircolare, tale fibula era adatta a fissare un mantello di tessuto pesante sulla spalla sinistra. Questa antica foggia si conservò oltre l’epoca della conquista romana, a testimonianza di un forte attaccamento alle tradizioni locali.
E’ difficile ipotizzare una ricostruzione del vestiario a causa di elementi particolarmente scarsi, da sottolineare, però, la presenza di calzature in cuoio anche prima dell’arrivo dei Romani, mentre le caligae, i calzari chiodati dei legionari romani, si diffondono solo dopo il I sec. a.C. e sono presenti nelle tombe di entrambe le necropoli.
Notevole è la presenza di vasellame ceramico e metallico oltre alla presenza di monete, elemento che non ha un significato analogo al quello del mondo romani. Per i romani, la presenza di monete all’interno delle tombe indicava il pagamento di un pedaggio alle divinità dei morti per il viaggio ultraterreno, mentre in questo caso appare come un’affermazione del prestigio sociale.
Gli oggetti provenienti dalle necropoli sono tutt’ora conservati e visibile presso il Museo del Paesaggio di Verbania.
I Sepolcreti, scoperti nel 1891 furono un valido aiuto per lo studio, da parte di archeologi, di una sequenza cronologica. A San Bernardo, infatti, le monete presenti riportavano il nome del magistrato, grazie al quale era possibile risalire all’anno di coniazione.
Si tratta di esemplari rari nelle sepolture dell’Italia Settentrionale e queste necropoli furono punto di riferimento per datare oggetti di larga diffusione, come armi, utensili, in ambito celtico ma anche in quello etrusco – italico.
I problemi in realtà erano più complessi di quanto apparivano, poiché non si aveva piena coscienza dei problemi legati alla circolazione delle monete che poteva prolungarsi nel tempo, e di conseguenza i dati devono essere utilizzati con prudenza.
Permangono comunque problemi come gli studi di analisi sociologici non completi e ricerche sul sepolcreto In Persona non portate a compimento. Si spera, quindi, che le indagini possano essere ampliate, completate e i vari risultati comparati.

Ilaria Lissandrelli 

La strage di Alessandria: quale verità?

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Maggio del 1974, carcere d’Alessandria.
Il nono giorno del mese delle rose, tre detenuti sequestrano un medico, un’assistente sociale, sei insegnanti e sei agenti. Polizia e carabinieri circondano l’edificio.
I sequestratori chiedono di poter lasciare il carcere su un furgone e di trovare semafori verdi sino a Spinetta.
In serata il governo consente una soluzione di forza di polizia e carabinieri: si contano le prime vittime. Il giorno seguente, il 10 maggio, vi è l’assalto diretto dal generale Alberto Dalla Chiesa, che porta all’uccisione di due detenuti e tre ostaggi.
Il procuratore delle Repubblica, Reviglio della Veneria, commenta: “Un’azione meravigliosa, condotta magistralmente dai carabinieri”.
Normalmente l’accadimento è ricordato con queste, magre, parole.
Essendo molto curioso ho cercato a fondo e, come sempre, cercando s’impara a conoscere la storia.
Inizialmente non si collegano gli eventi, non si crede che accadimenti tanto distanti possano trovare una giusta posizione temporale.
Quale evento caratterizzava il maggio del 1974?
Alessandria fu scossa dalla rivolta del carcere di Piazza Don Soria pochi giorni prima delle votazioni per il referendum, con il quale il popolo italiano doveva decidere circa la legge sul divorzio. Ma il 1974 non era solo referendum sul divorzio, la cui affluenza sfiorò l'88% ed il NO vinse con quasi il 60%, ma anche introduzione della legge sul finanziamento pubblico dei partiti e stragi di connotato diverso rispetto a quella di cui scrivo.
Il clima politico e sociale era infuocato.
Esistono potenziali collegamenti tra gli eventi?
La risposta è affermativa, e non giunge per mano di colui che scrive ma per bocca di colui che fu chiamato a mediare tra i sequestratori e le forze dell’ordine.
«Correte c’è una rivolta in carcere». 
Nel 1974 ad Alessandria non ci si poteva sbagliare: esisteva solo quel carcere in città, quello di Piazza Don Soria.
Nel carcere si tengono le lezioni per conseguire il diploma di geometra. Alle lezioni si presentano tre detenuti: Concu, Levrero e Di Bona. Il carcere, a quel tempo, aveva una scuola d’eccellenza: medie, corsi per geometri e possibilità di dare esami universitari. Vi erano laboratori di falegnameria, dove si creavano poltrone.
Risulta dai documenti che i detenuti «hanno due borse, cosa normale in altre condizioni e non tale da richiedere controlli». 
All’interno delle borse non si trovano libri ma pistole.
I tre vogliono evadere e per realizzare il loro intento prendono in ostaggio chiunque si inserisca sul proprio cammino: sequestrano gli insegnanti della scuola, gli agenti di custodia e il medico, dottor Gandolfi. Si rinchiudono nell’infermeria, probabilmente nell’attesa degli eventi.
Passano pochi minuti, forse un’ora, e si presentano le forze dell’ordine e magistrati.
Inizia una prima trattativa.
Il procuratore Reviglio della Venaria incontrò i detenuti il tempo sufficiente per prendere in consegna le condizioni dettate dai sequestratori.
In una recente intervista a Don Maurilio, ultimo mediatore dell’evento, racconta gli accadimenti: «Le trattative il giovedì le condussero i giornalisti Marchiaro, Camagna e Zerbino, poi ci fu il primo blitz con la morte del dottor Gandolfi e il ferimento, poi mortale, del professor Campi. A quel punto i tre rivoltosi (Concu, Di Bona e Levrero; ndr) non si fidano più non tanto dei mediatori, quanto di quelli che li mandano. Allora uno degli ostaggi, don Mario Martinengo che insegnava in carcere, fa il mio nome. Il cappellano don Remigio Cavanna dice: “E’ qui fuori vado a chiamarlo”. Io infatti ero in piazza». 
La volontà, ferma, di raccontare mi ha portato oltre il tempo della sera, momento del primo tentativo d’irruzione da parte delle forze dell’ordine.
Erano le 19,30 di quel 9 maggio.
Da poco il procuratore aveva ricevuto le condizioni dei rivoltosi, più organizzati di quello che si presumeva, e le aveva riportate, con molta probabilità, ai comandanti delle forze dell’ordine. Tra questi il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.
Magistrati e generali rappresentavano lo Stato: si possono accettare condizioni?
Lo stato può scendere a patti con rivoltosi che hanno preso ostaggi?
Probabilmente no.
I carabinieri, preceduti dal lancio di lacrimogeni, entrano in azione.
Il risultato?
Muore il dottor Gandolfi, mentre il dottor Campi, ferito, spirerà nei giorni seguenti.
All’esterno del carcere le versioni si accavallano: chi ha sparato i colpi mortali?
Alcune testimonianze raccontano i fatti: «In quella prima sparatoria restano feriti anche poliziotti e carabinieri. «C’erano anche quelli con i cani: dopo i colpi contro la porta un addestratore ha mandato avanti un pastore tedesco, che quando ha capito che sparavano è tornato indietro e lo ha morsicato»
Nel frattempo una forte rappresentanza politica si è presentata nei pressi del luogo degli eventi: tra questi il sindaco, il suo vice, un consigliere regionale del PCI, Luciano Raschio, e il senatore Vignolo. Lo stato è presente. Non manca la Chiesa, nella figura di don Maurilio Guasco, protagonista di molte parole di quest’articolo. La via della forza sembra passare in secondo piano rispetto alla diplomazia; le trattative sembrano poter ricominciare.
Don Maurilio sembra essere il prescelto per curare le trattative: si presenterà solo all’incontro?
«No, i rivoltosi ne volevano due, forse per usarci come scudi. Lì c’era anche un consigliere regionale del Pci, Luciano Raschio, che si offre: “Sono stato partigiano”. Andiamo, registriamo le loro richieste - un pullmino per farci salire i 19 ostaggi, semafori verdi fino a Spinetta, eccetera - e torniamo a riferire. Il generale Carlo Alberto della Chiesa mi dice: “Prenda tempo”. Come faccio? “Si aggiusti”. Così torno dentro». 
La trattativa sembra proseguire, sempre dalla voce di Don Maurilio: «Certo, mi dettagliano le richieste e io torno di nuovo a riferire. Della Chiesa mi dice: “Va bene, va bene” e se ne va. Non m’interpelleranno più. Ho visto in piazza uno dei motociclisti che dovevano scortarci: stava nascondendo una pistola nel gambale. Ma come, gli dissi, hanno chiesto che foste disarmati. “Padre, lei vuole che io scorti gente come quella senza neanche un’arma?” Ma intanto gli altri preparavano già il blitz».
Lo Stato aveva deciso di reagire con forza, come la sera precedente, senza prendere in considerazione la linea morbida.
Sono le 17 del 10 maggio quando parte l’assalto alle carceri.
Assalto?
«Non ci fu nessun assalto. In base alle testimonianze che ho raccolto ostaggi e rivoltosi erano ormai ristretti in una stanzetta. La porta era aperta, da fuori gettarono all’interno bombe lacrimogene pensando di snidarli col fumo. Invece Concu chiuse la porta e Di Bona fece quel che aveva promesso. Sparò per uccidere, a quattro ostaggi: l’assistente sociale Vassallo Giarola, le due guardie carcerarie e l’ingegner Vincenzo Rossi, ferito ad una gamba. L’ultimo colpo lo lasciò per sé».
Sotto il fuoco delle armi rimarranno: l’assistente sociale Graziella Vassallo Giarola, il brigadiere Gennaro Cantiello e l’appuntato Sebastiano Gaeta. Due rivoltosi perderanno la vita, Concu e Di Bona.
Il terzo sequestratore?
«Concu uscì con le mani in alto e la pistola in pugno - ma poi si scoprì che era un ferrovecchio inutilizzabile - e fu crivellato di colpi: morirà in ospedale. Levrero, che aveva solo un coltello, si rifugiò in uno sgabuzzino: stava per fare la fine di Concu, ma il colonnello Musti dei carabinieri bloccò i suoi uomini e gli salvò la vita». 
Lo Stato ha deciso di intervenire, di chiudere la partita in poche ore.
Il voto si avvicina, la forza deve prevalere sulla debolezza.
Negli istanti seguenti l’assalto – o presunto tale - cosa accadde?
Ancora Don Maurilio interviene in nostro soccorso.
 «Ma che cosa avete fatto, sono morti tutti!»
L’interlocutore del prete è Giuseppe Montesano, capo della Criminalpol di Torino.
«Hanno sbagliato giorno. Padre e lei credeva davvero che li avremmo fatti uscire a due giorni dal referendum? Lei è coraggioso, ma anche molto ingenuo».
Le ultime parole di questo dialogo lasciano aperte molte domande, e forse alcune scomode verità:
«Mi sta dicendo che per quattro voti in più avete fatto morire tutta quella gente?»
Don Maurilio raccontò queste verità a qualcuno?
«Scrissi una lettera a Repubblica, la spedii. Il giorno dopo aprendo i giornali appresi che il generale Carlo Alberto Della Chiesa era stato nominato comandante in capo dell’antiterrorismo. Poi divenne l’uomo che aveva sgominato le BR, infine il martire della lotta alla mafia. Quella lettera non fu mai pubblicata».
Tre sequestratori, sette vittime.
Si potevano evitare?
Devo riformulare: le cinque vittime innocenti si potevano evitare?

Fabio Casalini



Bibliografia
- Alessandria, 9 maggio 1974: la strage dimenticata. Articolo di Angelo Marenzana
- L’altra verità sulla strage del carcere. La Stampa del 12 maggio 2014. Articolo di Piero Bottino
- La tensione era nell’aria da giorni e le armi non sono piovute dal cielo. La Stampa del 12 maggio 2014. Articolo di Selma Chiosso
- Se ci ascoltavano finiva senza morti. La Stampa del 12 maggio 2014. Articolo di Leonardo Salerno.

I catari di Monforte d'Alba

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Dopo l’anno mille sorsero sette religiose che avevano a cuore la riforma della chiesa, a cui si univano masse contadine che cercavano di sfuggire alla tirannia dei signorotti feudali. La crisi della chiesa era provocata nella decadenza morale della gerarchia ecclesiastica dovuta ad una vita opulenta contraria alla povertà predicata da Cristo.
Le dispute di Sant'Agostino contro i manichei e pelagiani sono i primi segnali delle forti divisioni all’ interno della chiesa del tempo. Fra queste vi fu l’ eresia dei Catari sorta per infiltrazione in Occidente dei bogomili (dall'antico bulgaro bogumil, "caro a Dio"), una setta presente in Tracia e in Bulgaria fin dal X secolo. Trova un terreno favorevole in Europa tra XI e XIII secolo per il fermento sociale e religioso che accompagna l'ascesa delle nuove classi urbane: dapprima a Colonia e in Renania dei cui gruppi ereticali parla la lettera di Evervino di Steinfeld a San Bernardo (1144); poi nella Francia settentrionale (Borgogna e Champagne) e nelle Fiandre; nella Francia meridionale (Provenza), dove prese vita il movimento degli albigesi (dalla città di Albi); quindi in Dalmazia e in Italia settentrionale, dove si chiamarono patarini perché ritenuti continuatori della patarìa milanese (Il significato e l'etimologia della parola sono ancora oscuri) movimento sorto in seno alla chiesa milanese medievale. Le origini del movimento della pataria sono da ricondurre ad alcuni esponenti del basso clero milanese, che coinvolsero diversi settori della popolazione nella lotta contro la simonia, e in generale, contro la ricchezza e la corruzione morale delle alte cariche ecclesiastiche, in particolare degli arcivescovi di Milano. Alla fine dell'XI secolo con l'inizio delle Crociate le tensioni tra Roma e Milano si ricomposero, la Pataria perse vigore e unità, e ciò che ne rimase finì per diventare un movimento ereticale critico nei confronti della gerarchia ecclesiastica in generale. Nel 1167 gli eretici provenzali e italiani tennero un vero e proprio concilio a Saint-Félix-de-Caraman, presso Tolosa, in cui si posero le basi per la Chiesa Catara. Ormai si consideravano l'unica e vera Chiesa di Cristo, in contrasto con quella di Roma, che ne era invece la falsificazione e il tradimento.
I catari, cioè i puri (dal greco katharòs), affermavano, al pari dei manichei, una concezione dualistica della realtà. Secondo i loro miti cosmogonici, all'origine dell'universo stavano due princìpi coeterni e antitetici: Dio e Satana, spirito e materia. Di conseguenza la salvezza dell'uomo era possibile solo a patto della separazione dell'anima dal corpo, che poteva essere conquistata attraverso la sofferenza fisica e la morte, senza alcuna mediazione né del clero né dei sacramenti. Da questa teologia scaturiva una durissima serie di precetti: ascetismo, verginità, astinenza dalla carne, povertà, condanna del matrimonio e della procreazione. Il radicale spiritualismo e il desiderio di liberarsi dai lacci corporali potevano anche sfociare nel ricorso alla morte volontaria l'endura. una pratica consistente in un digiuno caratterizzato dall'astinenza totale dal cibo e dall'acqua. Tale digiuno rappresentava una forma estrema di negazione di sé e di separazione dal mondo materiale, che per la concezione catara era dominato dal male.
Era convinzione diffusa che questo sacrificio finale avrebbe assicurato la riunificazione dell'anima con il dio del bene.
Si dividevano in due classi fondamentali: i "perfetti" e i "credenti". I primi sottoposti al rito dell'imposizione delle mani, il cosiddetto consolamentum che era il sacramento battesimale dei Catari. A differenza dei cristiani, il Battesimo usato dalla maggior parte dei Catari non richiedeva la presenza dell' acqua, ma solamente le parole del rito, l'imposizione delle mani e il porre il libro del Vangelo attribuito a San Giovanni sopra il capo del battezzato. Secondo i Catari, esso consisteva nello stesso tempo nel battesimo dello Spirito Santo, nel ricevimento di tutti i doni spirituali, nell'attribuzione del potere di legare e di sciogliere, nell'assoluzione per tutti i peccati commessi, nella rigenerazione battesimale erano simili ai sacerdoti e avevano l'obbligo di rispettare integralmente le severe norme etiche; gli altri fedeli, pur non aspirando allo stato di perfezione dei "perfetti", dovevano comunque sforzarsi di imitarli.
La religiosità profondamente drammatica dei catari, il coraggio con cui affrontarono le persecuzioni, l'esemplarità della loro condotta confrontata con l'opulenza e la corruzione di tanti prelati, esercitarono un fascino intenso sulle coscienze del tempo, tanto da ottenere l'appoggio non solo delle classi popolari, ma anche di alcuni feudatari. Contro ogni eresia oppose sempre con intransigenza la chiesa romana, attivando prima teologi, come San Bernardo di Chiaravalle , poi predicatori come San Domenico da Guzman. La controffensiva papale sfociò, nel 1209, nella crociata promossa da papa Innocenzo III contro i Catari francesi denominati Albigesi, ( dalla regione di Albi) che si concluse dopo lunghe ed efferate campagne di sterminio degli eretici provenzali e con l'annessione della Francia meridionale al Regno capetingio (pace di Parigi, 1229). Federico II a sua volta combatté i catari nel settentrione italiano, dove si erano rifugiati molti albigesi, e nel 1224 emanò una disposizione legislativa che introduceva la pena di morte per eresia, convinto, come confermavano le Costituzioni di Melfi (1231), che le idee dualistiche comportassero anche una negazione dell'autorità regia.
La storia che raccontiamo si svolge fra l’anno 1027- 1028 perciò è antecedente ai grandi fatti sopra raccontati e quasi ne anticipa le conseguenze. Il movimento cataro appena sorto stava a poco a poco investendo parti del Piemonte e Monforte dotata di un poderoso castello era divenuto il centro eretico di tutto il territorio. Si è sempre creduto che fosse stato l’ arcivescovo di Milano Ariberto d’ Intimiano sovraintendente delle aree dell’ Astigiano e dell’ Albese ad inviare espressamente una spedizione punitiva contro i Catari a Monforte. Ma le teoria non è completamente esatta. Nel libro IV delle Historie Rodolfo il Glabro informa del fatto che Alrico e suo fratello Olderico Manfredi II rispettivamente uno vescovo e l’ altro marchese di Torino e di una parte del Piemonte combatterono l’ eresia. Il marchese Olderico II era grande amico dei frati benedettini. Tra i suoi meriti, quello di aver fatto restaurare l'antica chiesa di Santa Maria Maggiore di Susa e il monastero della Novalesa fortificato i borghi di Exilles e Bardonecchia, e aver fondato un importante monastero a Susa. Costruì anche il Duomo di Pinerolo.
Questa notizia è importante perché aiuta a comprendere l’ importanza dei frati benedettini in quel tempo su di un territorio vasto e tormentato. Alla morte di Oddone III e di Enrico II si estingue la dinastia di Sassonia (1024) Il potere passa a Corrado II detto il Salico della casa di Franconia. Tra il 1026 e 1027 Corrado il Salico scende in Italia per essere incoronato imperatore dal papa a Roma. A Milano viene incoronato re d’ Italia da Antimiano poi si reca a Asti e poi si dirige a Alba da dove parte un antica strada romana la via Magistra Langarum che il cui tragitto va verso la Liguria per congiungersi dopo Millesimo (Millesimo Km da Roma) alla via Aurelia. Questo percorso di Langa è un antico tracciato romano che l’ attraversa in cresta in direzione sud e sicuro dagli agguati. Pur desolato dopo secoli di abbandono l’ aiuto benedettino e la copertura dell’ esercito di Olderico che lo precede possono farlo attraversare in piena sicurezza. Vi è un unico intoppo poiché in un punto strategico si erge un castello controllato da un gruppo eretico nemico. Sono i Catari di Monforte anticlericali e che non riconoscono neppure l’autorità imperiale. In un tale frangente ecco per il vescovo Arlico e Olderico II l’ occasione propizia per ingraziarsi in un sol colpo il Papa e l’ Imperatore e il vescovo di Milano Ariberto d’ Intimiano. Ariberto d’Intimiano, arcivescovo di Milano e vicario per l’Italia dell’imperatore, si era recato a Torino per una visita conoscitiva, e aveva scoperto l’esistenza di un gruppo di eretici nella zona di Monforte. Auspicando una soluzione diplomatica del problema, aveva convocato a Torino il loro capo Gerardo di Monforte per un interrogatorio. Dall'interrogatorio fra il vescovo-conte che detiene il potere politico amministrativo e Gerardo che si dimostra inamovibile e preparato su ogni questione dottrinaria, era emersa in maniera lampante l’eresia dei catari. Il vescovo Arlico ed il marchese Olderico II precedono l’esercito imperiale sulla strada quella che da Paternum (Perno) porta a Monforte e con improvviso attacco sapendo che nella peggiore delle ipotesi avrebbero avuto l’ appoggio dell’ esercito imperiale che li segue riescono ad espugnare il castello facendo molti prigionieri che vengono arrestati e condotti a Milano. 
Fra gli arrestati figura anche una contessa di nome Berta che aveva aderito sin dall'inizio all'eresia. L’imperatore può proseguire tranquillo il suo viaggio verso Roma e il Marchese Olderico II trascina quelle genti a Milano presso l’ arcivescovo Ariberto d’Intimiano che ha podestà e giurisdizione verso quelle terre. Trascorrono molti mesi dopo la cattura nella speranza che questi mutino idea ed abiurino la loro fede. Caparbi nella parte finale del processo davanti alle autorità civili e religiose della città messi nella condizione di scegliere pochi abiurano e parecchi di loro preferiscono morire sul rogo. Per sacerdoti e autorità religiose hanno tentato senza successo di ricondurli sulla retta via. La scelta spetta ai singoli che possono salvarsi abiurando la loro religione oppure persistere nell'eresia e immolarsi nel fuoco. Dopo un attimo di meditazione collettiva pochi riabbracciano la fede cattolica, molti si lanciano fra le fiamme venendo ridotti in cenere. Dunque la zona di Milano sono stati imprigionati gli eretici prende il nome dal loro paese di provenienza, dando il nome al futuro Corso Monforte, che a sua volta l'avrebbe passato alla relativa porta. Come già ricordato questo duro attacco inquisitoriale precedette, con pochissimi altri sporadici casi, di quasi due secoli quella che sarà una vera guerra di religione, la cosiddetta Crociata contro gli Albigesi, o Catari, iniziata da Innocenzo III° nel XIII° secolo. Rappresenta però questo uno dei misteri insoluti della storia: il cattolicesimo dell'epoca non era ancora divenuto repressivo e la deportazione degli eretici a Milano, affinché questi ritrattassero le loro dottrine, è l'indice di un approccio ancora non del tutto "inquisitoriale" all'eresia, e del tentativo di stabilire con gli eretici un dialogo che fosse strumento per il loro recupero: molto interessante è quanto riportato da Landolfo Seniore dei dialoghi tra i presunti Catari e l'arcivescovo di Milano. La difficoltà storica sta nel comprendere le ragioni che condussero alla condanna a morte degli abitanti di Monforte, precorrendo di circa due secoli quelle che saranno le nefandezze compiute contro i Catari. Il racconto sembra comunque ricalcare ciò che avvenne a Béziers nel 1209 per opera di Simone IV de Monfort, ( anche senza legami i nomi nella storia molte volte si ripetono in situazioni simili) signore francese che non sapendo come distinguere gli assediati catari da quelli cattolici pronunciò la terribile frase: “Caedite eos! Novit enim Dominus qui sunt eius.” "Uccideteli tutti, Dio riconoscerà i suoi" L’arrivo dei catari a Monforte è databile intorno al 1020, tanto che i roghi di Milano sono, insieme a quelli di Orleans, i primi a venire appiccati in Europa. Correva l’ anno 1028 con l’ abiuro i pochi lasciati liberi tornano alle loro terre. Ripresero la vita come prima ed alle cose pur mutate si adattarono. Anche se una ulteriore recrudescenza monfortese dell’eresia catara venne successivamente sedata dal vescovo di Asti Alrico.
Cosi Mons-fortis ritorno feudo sereno e tranquillo e fedele alla diocesi di Asti. Per un breve periodo nulla è più dato di sapere però riemergono qualche notizie. Per credo attaccamento alla chiesa e riconoscenza il nuovo feudatario del castello di Monforte erige la chiesa Santa Maria de Castro citata in un documento del 1223 Nel 1500 il vetusto castello fu smantellato e ricostruito sulla più ampia e bassa spianata rispetto alla rocca, non più come fortificazione ma come lussuosa dimora gentilizia di campagna. Ora e’ di proprietà dei Marchesi Scarampi del Cairo. Collegata alla nuova dimora piu tardi viene edificata la splendida chiesetta dedicata a Santa Elisabetta tuttora esistente. E’ la chiesa della Confraternita delle Umiliate. In un documento del 1688 Carlo Francesco del Carretto di Monforte offre denaro, opera e materiali per concorrere alla costruzione dell'Oratorio attiguo al castello palazzo, riservandosi un ingresso particolare. Alla fine del 1600 sorge anche l oratorio di Sant Agostino e di San Bonifacio la chiesa della Confraternita dei Disciplinanti Bianchi. La chiesa di Santa Maria de Castro viene demolita nel secondo decennio del 1900. con la costruzione della nuova parrocchiale nella parte bassa del paese.
Unico muto testimone rimasto è il campanile, che ha subìto molti rimaneggiamenti nel corso dei secoli, era in origine la torre quadrangolare di vedetta del vecchio castello dei primi signori di Monforte, inglobata nella facciata della chiesa costruita successivamente. La parte terminale, cuspidata, presenta le caratteristiche tipiche del gotico. Durante i lavori di restauro è emersa, alla base, un’ampia nicchia con decorazioni barocche che fungeva da fonte battesimale. Dalla piazza si accede al sottopasso recante la data del 1622 su cui poggiava la navata detta “dei manichei” dell’antica chiesa di Santa Maria de Castro.

Sic transit gloria mundi

Corsero nella città le armate dei cattolici agitando spade affilate, e fu allora che cominciarono il massacro e lo spaventoso macello. Uomini e donne, baroni, dame, bimbi in fasce vennero tutti spogliati e depredati e passati a fil di spada. Il terreno era coperto di sangue, cervella, frammenti di carne, tronchi senza arti, braccia e gambe mozzate, corpi squartati o sfondati, fegati e cuori tagliati a pezzi o spiaccicati. Era come se fossero piovuti dal cielo. Il sangue scorreva dappertutto per le strade, nei campi, sulla riva del fiume. 
Dalla Canzone della Crociata Albigese (massacro di Marmande 1219)

Luciano Querio


Bibliografia
Langa & Roero. Edizioni Europee Aurelio Maria Gaetini
L’ Eresia. Arnoldo Mondadori Editore Marcello Craveri
Dizionario del Medioevo. Laterza Alessandro Barbero Chiara Frugoni

Franca Viola: la donna che si oppose al passato

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Articolo 544 del codice penale: il matrimonio riparatore estingue tutti i reati commessi in precedenza, anche il rapimento, anche lo stupro.
Articolo 587 del codice penale: il delitto per cause d’onore stabilisce fortissime attenuanti per chi uccide il coniuge, una figlia o una sorella o le persone che hanno avuto rapporti carnali con loro per vendicare l’onore della famiglia. 
Il nome Franca Viola a molti non dice nulla, ma il suo gesto coraggioso ha segnato una tappa fondamentale nella storia dell’emancipazione della donna italiana.
È il 1965.
L’Italia è in fermento per il boom economico, le città e le loro periferie crescono, le fabbriche aumentano la produzione, la gente si sposta da Sud a Nord. Al governo per la prima volta il PSI, affiancato dalla DC. Le donne guardano al futuro, lavorano, vogliono prendere decisioni, emanciparsi.
26 dicembre, Alcamo, provincia di Trapani. Alle 9.00 del mattino due auto con a bordo 12 giovani del paese, imboccano via Arancio a tutta velocità. Per strada nessuno, è un giorno di festa.
Uno dei giovani scende da una giulietta, estrae da sotto la giacca una pistola e spara in aria.
È un avvertimento.
I giovani sfondano a calci il portone di una casa al n° 41, uno di loro, forse il capo, lo stesso che ha sparato, entra di corsa seguito dagli altri, sale le scale e si trova di fronte una donna, un bambino e una ragazza.
Il giovane afferra la giovane con forza, la strattona, la bacia, la picchia, la trascina fuori.
Lei si oppone, lotta, scalcia, urla, piange. La madre e il fratellino cercano di aiutarla, ma gli uomini sono molti, sono forti. Franca Viola, questo è il suo nome, ha solo 17 anni, è minuta, ma è anche bella, la più bella di Alcamo. Nella lotta Franca sbatte la testa al muro, sviene, viene caricata in auto con il fratellino attaccato alle vesti. La vuole proteggere, la vuole salvare. Ha solo 8 anni.
Nessuno apre le finestre, nessuno interviene.
Chi ha rapito Franca? Chi è il giovane con la pistola?
Ad Alcamo lo conoscono tutti, è Filippo Melodia, 25 anni, sempre elegante, sempre con la pistola sotto la giacca aperta. È il nipote di Vincenzo Rimi, boss del Mandamento, un personaggio di spicco di Cosa Nostra, “uomo d’onore”.
Due anni prima Filippo e Franca sono stati fidanzati per alcuni mesi. A Bernardo Viola, papà della giovane, quell’unione non piaceva e non ne faceva mistero con nessuno, neppure con Filippo. Bernardo è un contadino di Alcamo, un uomo semplice, un lavoratore, un uomo onesto che non si piega di fronte alla prepotenza.
Poi tutto è finito quando Filippo aveva comincia a frequentare amici vicino a Cosa Nostra e i carabinieri lo mettono sotto sorveglianza.
Filippo la prende male, molto male. Dopo varie insistenze se ne va in Germania a lavorare.
Franca invece la prende bene, infondo quel ragazzo non fa per lei che sogna di studiare, di lavorare come segretaria a Palermo, di decidere da sola.
La notizia del rapimento si sparge. IL 27 dicembre il Giornale di Sicilia riporta la seguente notizia:
“Irrompono sparando per rapire una ragazza.”
Ma siamo di fronte a un rapimento a una fuitina?
Nella Sicilia degli anni ’60 la fuitina non sarebbe una sorpresa. Ma cos’è?
È un’antica consuetudine in cui due giovani che si vogliono sposare e non hanno i mezzi o il consenso della famiglia, fuggono insieme per una notte o inscenano un finto rapimento, se la ragazza è molto sorvegliata dalla famiglia. Tutto si deve sapere, perché deve essere chiaro che durante la notte passata fuori un rapporto sessuale c’è stato, perciò la ragazza è disonorata.
Unica soluzione per salvare l’onore è la paciata: le famiglie dei due giovani si riuniscono, prendono accordi, si decide per il matrimonio, magari all’alba in gran segreto. L’onore è salvo.
Nel caso di Franca Viola nessuno pensa alla fuitina, né la famiglia, né i carabinieri, troppa violenza.
Ci sono anche dei precedenti che fanno capire i cattivi rapporti tra il giovane e la famiglia Viola. Tornato dalla Germania nei primi mesi del 1965, Filippo cerca di piegare Franca e Bernardo: la loro casa colonica brucia misteriosamente una notte di maggio, in luglio 500 viti sul loro podere vengono tagliate e in ottobre un gregge di pecore sconfina e devasta il raccolto del Sig. Bernardo.
Ma i Viola non cedono.
A novembre l’ultimo tentativo: per strada, davanti a tutti, Filippo affronta la famiglia di Franca, apre la giacca, mostra la pistola senza dire una parola. Messaggio chiaro.
Ma torniamo agli eventi.
Franca è via da due giorni.
Il Giornale di Sicilia titola: “Il drammatico ratto di Alcamo.” Filippo viene identificato, i suoi complici arrestati.
Il 28 dicembre il fratellino di Franca torna a casa; con il suo aiuto viene trovato il casolare dove sono stati rinchiusi. La polizia ci va, ma Franca non c’è. L’hanno spostata. È chiusa in una stanza da letto, solo Filippo la va a vedere: entra, la insulta, la picchia, la umilia, la tiene senza mangiare.
Franca è sfinita, terrorizzata, rassegnata.
Il quarto giorno Filippo la violenta, due, forse tre volte, senza che lei possa fare o dire nulla. «… non avevo la forza di oppormi…nonostante il mio stato si congiunse carnalmente con me, due, tre volte. Ero debole, digiuna dalla sera di Natale…». Il 01 gennaio Filippo carica in macchinala ragazza, dopo averla fatta pettinare e sistemare. Dove la porta? Ad Alcamo. Si fermano davanti casa di uno zio di Franca, dentro la famiglia di lei riunita con uno zio di lui. Franca capisce. La paciata, il matrimonio riparatore.
IL matrimonio mette a posto tutto, art. 544 del codice penale. Franca non è libera, vorrebbe tornare a casa dai suoi genitori, ma non si può. Deve stare dalla sorella di Filippo, in attesa che le famiglie si accordino.
Non c’è altra soluzione. O ferse una c’è.
Il delitto d’onore lava la vergona, art. 587 del codice penale. Ma il Sig. Bernardo è un brav’uomo, non è certo il tipo.
Il 02 gennaio la polizia arresta Filippo, fino al matrimonio deve restare in carcere. Ma lui non ci sta, scappa, si nasconde, poi viene preso e carcerato. Ora Franca è libera e lei e suo padre fanno una cosa che non tutti avrebbero fatto nella Sicilia degli anni ’60.  Scelgono la legge.
«Cosa vuoi fare Franca?»
«Non voglio sposarlo.»
«Va bene, tu metti una mano, io ne metto cento.»
Nell’Italia dove tradizione, consuetudine e legge vogliono la donna sottomessa all’uomo, Franca dice no. «Io non mi sposerò, non mi piego a violenze e pregiudizi.»
Il 9 dicembre 1966 inizia il processo a Filippo Melodia e ai suoi compari, presso la Corte d’Assise di Trapani. Diciassette sono i capi di imputazione, fra cui ratto a scopo di matrimonio, stupro e violenza aggravata. La famiglia Viola si costituisce parte civile. Dopo pochi giorni, a causa delle minacce ricevute, finiscono sotto scorta di ventuno agenti di polizia. Il processo è durissimo, soprattutto per Franca: «Io non ho colpa per quello che mi hanno fatto e non sono disposta ad espiare per tutta la vita una pena che non merito… L’onore lo perde chi fa certe cose, non chi le subisce…»
Il 14 dicembre Indro Montanelli scrive sul corriere della sera: “Franca Viola non ha detto di no solo a Filippo Melodia, ma a tutto un sistema di rapporti basato sulla sopraffazione del maschio sulla femmina.”
Oronzo Reale, ministro della giustizia studia un disegno di legge per abrogare gli art. 544 e 587. La discussione sarà molto lunga. Verranno abrogati 13 anni dopo, nel 1981.
Il 17 dicembre 1967arriva la condanna a 11 anni di reclusione. Filippo ricorre in appello a Palermo, dove viene condannato a 13 anni. IL 30 maggio 1969 la Cassazione lo condanna in via definitiva a 11 anni. Uscito dal carcere nel 1978 a Filippo è fatto divieto di soggiornare nell’Italia meridionale, perché considerato il nuovo capo mafia della Sicilia occidentale. Il 12 aprile dello stesso anno davanti a un ristorante della periferia di Modena viene ucciso da un colpo di lupara.  E Franca?
Si è sposata il 4 dicembre 1968 con un giovane ragioniere di Alcamo, che non ha avuto paura di sposare una ragazza disonorata. Oggi Franca vive a Monreale, con il marito e due figli.
L’ 8 marzo 2014 il Presidente Napolitano ha insignito Franca Viola con il titolo di Grande Ufficiale: «Il suo coraggioso gesto di rifiuto ha segnato una tappa fondamentale nella storia dell’emancipazione della donna italiana.»
A chi le chiede dove ha trovato il coraggio, Franca risponde: «…. Ho solo dato ascolto al mio cuore.»


Rosella Reali

A tutte quelle donne che non hanno la forza di reagire a chi non le lascia volare

Bibliografia
·       Niente ci fudi Beatrice Monroy – edizione La Meridiana – 2012
La Repubblica.it di Concita di Gregorio – 27 dicembre 2015

Amore e peccato nel Medioevo

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Il Medioevo è quell’età intermedia che la coscienza umanistica del Rinascimento individua tra il momento della propria comparsa, e affermazione, e la fine del mondo antico. 
Possiamo identificare l’inizio nel 476 e la fine con lo sbarco di Colombo nelle Americhe nel 1492. 
In questo periodo di mezzo il corpo umano era considerato sotto due punti di vista: da una parte il culto per il corpo di Cristo, dall’altro il tentativo di limitare e mortificare i desideri della carne.
La chiesa riuscì in quest’intento?
Quali gli strumenti utilizzati per limitare il desiderio amoroso?
Siamo alla fine del XII secolo quando Stefano di Fougeres elenca i difetti principali delle donne.
La prima accusa dell’uomo di chiesa al genere femminile è quella di deviare il corso delle cose. Le donne si oppongono alle intenzioni divine attraverso delle pratiche che si tramandano, in segreto, da secoli.  La domanda sorge spontanea, come fanno a modificare il corso delle cose?
Quali sono queste pratiche così dannose alla civiltà occidentale?
La risposta potrebbe far sorridere l’essere umano del XXI secolo: i cosmetici – in parte ma non solo. La cosmesi modifica l’aspetto e. grazie al ricorso a queste pratiche, le donne imbrogliano l’uomo offendendo Dio che ha plasmato l’essere umano con le proprie mani. Sorridiamo meno di fronte alle pratiche atte a procurare l’aborto della ragazza che non era stata capace di evitare la gravidanza. L’ultimo aspetto della prima accusa, lanciata da Stefano di Fougeres, attiene all’insieme di pratiche che servivano a dominare gli uomini: pratiche che potremmo far rientrare sotto il nome di sortilegi.
La seconda accusa riguarda l’ostilità delle mogli nei confronti dei mariti, padri o figli maggiori. Stefano sostiene che le donne sono perfide e vendicative.
L’ultima accusa mossa dal cappellano d’Enrico Plantageneto concerne la leccheria, oggi traducibile in lussuria: di fronte al marito reprimono il proprio ardore, in compenso corrono dietro a corteggiatori occasionali.
I peccati non si esaurivano in questa, fredda, classificazione: la donna contravveniva agli obblighi nei confronti del marito; lei deve amare, servire e consigliare l’uomo cui è stata affidata.
Possiamo vedere la donna come ad un vassallo dell’uomo?
In cambio cosa otteneva?
La protezione che il principe manifesta nei confronti dei propri sudditi.
Lasciamo Stefano di Fougeres alle sue elucubrazioni ed avanziamo nella linea del tempo, sapendo che dovremmo nuovamente indietreggiare per comprendere. La donna e l’amore dovevano incrociare i propri destini, non possiamo comprendere il peccato senza introdurre l’amore. L’amore non era ancora cortese come molti immaginano. Un racconto del XII secolo può aiutarci ad entrare nel tempo: il canonico Gervasio di Tilbury faceva una passeggiata tra le vigne della regione francese della Champagne quando incontrò una ragazza di suo gusto. Le parlo d’amore lascivo. La donna rifiutò le cortesie del canonico pronunciando le seguenti parole “se perdessi la verginità sarei dannata”. Gervasio, sbigottito, non comprendeva il motivo del rifiuto. Era certamente una donna eretica, non poteva essere normale. La denunciò e la fece arrestare. La donna subì il giusto processo. Il rogo purificatore, la pena imposta per tale rifiuto.
Questa visione del mondo femminile, presente nel XII secolo ma che non si estinguerà prima del XVII, dove trova fondamento?
Con molta probabilità dalla decisione di Eva di disobbedire agli ordini e cogliere quella mela.
Comodo incolpare l’ipotetica donna per mantenere le ferree gerarchie?
Quale era l’idea fondamentale dell’uomo medievale sulla donna?
La donna era un essere inferiore: la visione passò dall’essere necessaria ad essere la porta dell’inferno. La figura femminile giungerà, nelle pagine del Malleus Maleficarum, ad accoppiarsi con il demonio: quel libro permise a decine di migliaia di uomini di staccare il cervello e non dover ragionare; era tutto scritto, dovevano solo seguire le indicazioni.
Considerare la caccia alle streghe un fenomeno medievale è un grave errore: le sere furono rischiarate dai roghi delle donne nel periodo del Rinascimento, che non aveva bisogno di luce poiché era illuminato da se stesso.
Nel Medioevo ancora le streghe non imperavano, ma la donna peccava nel momento stesso in cui vedeva la luce: la bambina era male accolta, peggio alimentata e ancora peggio vestita nei confronti dei fratelli.
La colpa della donna risale ad Eva e al dialogo tra lei ed il serpente. Quei frutti dovevano essere gustosi e prelibati per incitare la donna a peccare.
La Genesi è stata analizzata da illustri personaggi e pensatori della storia. Sant’Agostino presume che la donna sia fatta a somiglianza dell’uomo: conduce il vescovo d’Ippona a pensare la donna come l’aiutante dell’uomo: la figura maschile dirige la femmina obbedisce. Il venerabile Beda presume che il serpente abbia ingannato la donna, e non l’uomo “perché la nostra ragione non può essere sottomessa se non c’è il piacere, il piacere carnale”. Il peccato si attua in tre tempi: “ il serpente consiglia il piacere alla parte femminile, il corpo obbedisce e la ragione acconsente”. 
Secondo Rabano Mauro “Eva non avrebbe toccato l’albero se non lo avesse prima contemplato. E’ stata condannata a morte dagli occhi”. Possiamo immaginare che il peccato inizi nel guardare, perché si guarda per avere. Rabano, monaco come Beda, pensava che Eva fu tentata dalla vanagloria ma soprattutto dal desiderio di godere. Guardare e toccare per godere. 
Prima della classificazione proposta all’inizio di quest’articolo, di Stefano, Roberto ritiene che “la donna è sempre occupata a fantasticare con il corpo e lo sguardo. Vaga incuriosita nel giardino alla ricerca del piacere”. 
Avanzando nella storia giungiamo ad Abelardo: “ l’uomo è immagine di Dio, la donna non esprime che la sua somiglianza. L’uomo è più vicino a Dio e quindi più vicino alla sua perfezione: egli detiene il potere sulla donna come su tutte le creature”.
Le donne peccavano guardando, immaginando, vagando e toccando.
In che periodo l’amore si staccò dal peccato?
E’ banale collocare nel XII secolo, presso l’alta nobiltà francese, la scoperta dell’amore, almeno quel modo d’amare che distingue la nostra cultura da tutte le altre culture”.
Molte canzoni che celebrano la dama, e certi racconti che narrano le avventure di un amante e della sua amata, furono composte nel XII secolo nel linguaggio delle corti.
Le canzoni ed i racconti piacquero all’uomo del medioevo?
Se fosse accaduto il contrario non sarebbero giunte sino a noi: la risposta è affermativa.
Per piacere dovevano rappresentare la società del tempo, i personaggi non potevano essere estranei alla vita quotidiana. La maggior parte di queste rappresentazioni si basava su tre personaggi: la dama, l’amante e il marito. La dama era il centro, il fulcro della vicenda.
Un particolare incuriosisce: i creatori della letteratura cavalleresca furono uomini di chiesa. Nella casa dei principi, questi personaggi, servivano Dio confessando e cantando l’ufficio nella cappella dell’edificio.
Siamo nel periodo della Rinascenza del XII secolo: i creatori di racconti non ruppero i legami con la scuola dalla quale provenivano, ma aderirono ad idee nuove dal punto di vista religioso. In questo periodo nacquero nuove idee sull’uomo e sul rapporto che esso aveva con la natura.
I cappellani, oltre a svolgere l’ufficio religioso, avevano un secondo grande compito: cercare di mantenere tranquilla la cavalleria. Uomini rudi e forti tornavano dalle battaglie raccontando aneddoti di quello che era, da poco, accaduto.
Avranno esagerato le forme e le sostanze: quell’esagerazione ha prodotto l’amor cortese?
I cantori del XII secolo, come detto in precedenza, non si discostarono dalla scuola dalla quale provenivano. Questi poeti presero a prestito dall’amore puro, l’amor di Dio di Bernardo di Chiaravalle, la veemenza e la gratuità.
Per mantenere in tranquillità i cavalieri, ma anche le dame, riuscirono ad inserire l’amore carnale all’interno dei loro lavori.
Questi scrittori – cappellani sono riusciti in un piccolo prodigio, nel momento in cui i moralisti volevano, fortemente, escludere il sesso dal matrimonio.
Il sesso non era il centro del rapporto, era qualcosa che doveva esserci, ma non rappresentava il fulcro: il desiderio non era, solo, quello di vedere e toccare sotto le vesti. I romanzieri cercarono di giustificare l’amore fisico esaltando l’amor purus di Bernardo.
Il non abbandonarsi al solo piacere della carne lo possiamo ritrovare in Chrétien de Troyes.
Stando insieme in un solo letto,
l’uno e l’altra si abbracciano e si baciano,
e non vi è nulla che li diletti altrettanto.
L’amor cortese come insieme d’amore puro e materiale.
A tutto questo si contrappone il cinismo dello storico medievalista Jacques Le Goff, in un'intervista rilasciata alla Repubblica. Quando gli si chiede se l’amor cortese sia mai esistito nella realtà e non sia stato al contrario invece solamente un “genere letterario” risponde nel seguente modo: "Io credo che l’amor cortese sia puramente immaginario. Esiste soltanto nella letteratura. Ciò non significa che l’amore reale sia sempre stato brutale, che ci sia sempre stata una violenta dominazione dell’uomo sulla donna. Ma l’amore in cui la donna diventa il signore e il cavaliere il suo servo, non c’è mai stato”.
Torniamo al tempo degli eventi.
Il vescovo Hugues di Lincoln interrogato da una moglie insoddisfatta risponde: “Vuoi che tuo marito ritrovi il suo ardore? Dovrò farne un prete. Appena un uomo è prete, brucia”.
Il sesso era considerato un atto naturale?
Guillaume de Conches nel XII secolo asseriva che “solo gli ipocriti lo ignorano”.
Un libro uscito negli ultimi anni ha cercato di analizzare il sesso nel medioevo: Sexualités au moyen age di Jacques Rossiaud.
La posizione sessuale considerata lecita era quella del missionario, poiché adatta alla procreazione.
San Pier Damiani, nel 1049, stende una lista d’atti contro natura “che rientrano sotto la definizione di una parola potente: sodomia”.
Pier Damiani fa rientrare diversi comportamenti nella sodomia: la masturbazione solitaria e reciproca, la fornicazione tra le cosce e da dietro.
Con il trascorrere del tempo diverse altre posizioni furono accettate, tranne il cavallo erotico che era considerato pericoloso: probabilmente perché la donna sedeva sopra l’uomo?
Superando le posizioni considerate lecite, quante volte era lecito congiungersi?
Stando alle raccomandazioni diffuse, non si dovevano superare i due amplessi a settimana.
Esistevano manuali erotici?
Si dovrò attendere il XV secolo per il primo manuale sessuale europeo: Speculum al foderi ossia lo specchio del coito.
La prostituzione?
Era considerata come un male necessario. Tommaso d’Aquino, il bue muto, asseriva: “il sesso con le prostitute è da vedersi come le condotte fognarie di una casa: non belle a vedersi ma se non ci fossero, l’intera casa sarebbe inondata dai liquami”.


Fabio Casalini

Bibliografia
Duby Georges. I peccati delle donne nel Medioevo. Edizioni Laterza. 2008
Rossiaud Jacques. Les sexualités au moyen age. Edition Jean-Paul Gisserot. 2012
Paolo Cammarosano. Storia dell'Italia medievale dal VI al XI secolo. Edizioni Laterza
La Repubblica. Intervista a Jacques Le Goff: l'amore carnale nel medioevo. 

Il santuario della Madonna del Boden a Ornavasso

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Gregorio di Nissa ha scritto un’opera che parla in modo specifico della sorte dei bimbi che muoiono senza aver ricevuto il battesimo, quindi con la sola colpa del peccato originale.[1]
Gregorio si pone una serie d’interrogativi. Non trova risposte, anzi afferma: la sorte di questi bambini è un mistero, qualcosa di molto più ampio di quanto può essere compreso dalla mente umana.[2] 
Una seconda domanda, cui non trova risposta, è la seguente: che cosa accadrà a coloro la cui vita si conclude in tenera età, e che non hanno compiuto né il bene né il male? Sono meritevoli di un premio?[3]
La risposta che non trova porta ad affermare con il cuore quello che la mente non riesce a disegnare: la morte prematura dei bambini appena nati, non costituisce motivo per presupporre che essi soffriranno tormenti o che saranno nel medesimo stato di coloro che in questa vita sono stati purificati grazie a tutte le virtù.
In conclusione si affida alla misericordia divina: [..] poiché Colui che ha fatto bene tutte le cose, con sapienza, sa trarre il bene dal male.
La morte di un neonato è un fenomeno biologico che comporta forti, ed importanti, implicazioni sociali e culturali per tutte le popolazioni. La diffusione del Cristianesimo, in Europa Occidentale, ha contribuito a rendere omogenee le pratiche funebri.
L’avvento della nuova religione comporta una radicale modifica delle credenze sino allora esistenti in Europa. Il diffondersi del sacramento del battesimo crea un problema in relazione ai bimbi nati morti. Nascendo morto non riceve il battesimo, motivo per il quale non può accedere al mondo dei giusti. Il Battesimo può definirsi il sacramento della rigenerazione cristiana mediante l’acqua e la parola.[4]
I genitori potevano, a fatica, accettare la morte prematura del figlio, ma non la sua esclusione dalla comunità cristiana. Per tutto il Medioevo Sant’Agostino è stato un riferimento, preciso, per i teologi che si sono indirizzati ad analizzare il problema dei bimbi morti con il solo peccato originale come colpa. La dottrina potrebbe essere riassunta nelle parole di Ugo di San Vittore: “i bambini che muoiono senza il Battesimo non possono essere salvati perché, da una parte, non hanno ricevuto il sacramento, e dall’altra, non possono fare un atto di fede personale in sostituzione del sacramento”.[5]
Per evitare una seconda perdita nascono pratiche alternative alla ricerca del battesimo ad ogni costo.
L’anima del bimbo non battezzato, per i genitori, non poteva vagare nel buio per l’eternità.
La pratica del battesimo ad ogni costo prevede un luogo nel quale effettuare il rito del ritorno, momentaneo, alla vita del bimbo nato morto, solo per il tempo necessario ad ottenere il sacramento.
Ho parlato abbondantemente dell’esistenza di questi santuari, disseminati in tutto l’arco alpino: tra questi assume particolare importanza il santuario dedicato alla Madonna del Boden ad Ornavasso.
Il comune d’Ornavasso, Urnafasch nella versione walser, si trova nella provincia del Verbano Cusio Ossola. Intorno al XIV secolo sulle montagne sopra l’abitato s’insediarono alcuni gruppi coloni walser, provenienti dalla zona del Sempione. Alla fine del secolo XIV Ornavasso era divenuto un’isola linguistica tedesca, ed i coloni avevano appreso l’estrazione del marmo. In una di queste aree d’iniziale colonizzazione walser, Boden, si edificò una cappella che, con il trascorrere del tempo, divenne un piccolo oratorio. Verso la metà del XVII secolo, l’oratorio fu ampliato: si aggiunsero il coro, due cappelle, la sacrestia e il portico. Per comprendere l’importanza dell’edificio sacro dobbiamo tornare indietro nel tempo: anno 1528.
A quell’epoca esisteva una madonna dipinta sul muro, probabilmente l’originaria cappella, venerata dagli abitanti della zona. La leggenda racconta che la notte del sette settembre una pastorella d’Ornavasso, dopo aver pascolato il gregge, si addormentò: al risveglio la notte era scesa e con lei il buio. La ragazza, destata dal riposo, non trova le pecore. Iniziò un’affannosa ricerca che la condusse a cadere in un dirupo molto profondo. La ragazza, non sapendo come uscire da questa situazione, si rivolge alla Madonna in cerca di un aiuto. Le preghiere della ragazza furono esaudite ed una luce proveniente dalla cappella del Boden la guidò, attraverso il bosco e i dirupi, alla cappella stessa. In quel luogo si erano raccolte tutte le pecore. La ragazza colma d’entusiasmo ringraziò la Madonna ed iniziò il percorso, sempre guidata da quella luce, per tornare alla propria abitazione. In paese la notizia della scomparsa era di dominio pubblico: motivo alla base delle ricerche degli abitanti. Un gruppo di ornavassesi vide tornare la ragazza avvolta da una luce vivissima.
Il giorno 8 di settembre del 1530 s’iniziò a celebrare la festa della Madonna del Boden o dei Miracoli.
La cappella divenuta oratorio, diverrà un santuario: non uno dei tanti esistenti sia in Ossola sia nel paese tutto, ma un santuario del ritorno alla vita dei bimbi nati morti. Un santuario a Répit.
Troviamo certezza a quest’affermazione?
La risposta la possiamo trovare a Verbania: all’interno della collezione d’ex voto, nel Museo del Paesaggio, diverse tavolette ci riportano al miracolo del momentaneo ritorno alla vita dei bimbi nati morti.  Una di queste riporta la seguente dicitura:
1757 a 7 maggio
Un fanciullo morto figlio di Pietro Antonio Tamborino del Forno
Per intercessione della S.S.U. ha dato segni di nuova vita
Sino a ricevere l’acqua del S. Battesimo.
Qualora volessimo spostare l’attenzione sui documenti, esistono le annotazioni di una visita del vescovo, Marco Aurelio Balbis Bertone, ad Ornavasso. Il caso vuole che, la visita, sia di poco posteriore alla data della tavoletta del bimbo del Tamborino: correva l’anno 1759 e il segretario episcopale registrava che: “In quel luogo i bimbi che nascevano privi di vita erano portati al santuario della Madonna del Boden per tornare temporaneamente alla vita al fine di ottenere il battesimo.
Successivamente il vescovo espresse feroci critiche nei confronti della pratica del ritorno alla vita dei bimbi nati morti.
Le critiche sono da far risalire al fatto che pochi anni prima, 1755, Papa Lambertini aveva vietato il ricorso al rito tramite la bolla De Synodo Diocesana.
Ornavasso prevede un secondo santuario del ritorno alla vita, la Madonna della Guardia, che verrà analizzata prossimamente.

Fabio Casalini

Bibliografia
- Mai Vivi, Mai Morti. Fabio Casalini e Francesco Teruggi. Giuliano Ladolfi editore. Dicembre 2015




[1] Gregorio di Nissa: De infantibus premature abreptis libellum.
[2] Gregorio di Nissa: De infantibus premature abreptis libellum.
[3] Gregorio di Nissa: De infantibus premature abreptis libellum.
[4] Catechismo Romano. Edizioni P. Rodriguez (Città del Vaticano). 1989.
[5] Ugo di San Vittore, Summa Sententiarum.

Il prete che rese invincibile una valle

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Le grandi montagne hanno il valore degli uomini che le salgono, altrimenti non sarebbero altro che un cumulo di sassi
(Walter Bonatti)

Quale può essere considerato il più antico mezzo di locomozione umana?
La ruota?
Le prime ruote erano semplici dischi in legno con un foro nel mezzo per l’asse, come quelle rappresentate nello Stendardo di Ur del 2500 a.c. 
Negli affreschi egizi vi sono ruote a raggi ed altri esempi sono presenti in Siberia nella cultura Andronovo del 2000 a.c.
Prima della ruota, forse, gli uomini si spostavano su attrezzi di legno scivolando sulla neve.
Non esiste un momento preciso nella storia nel quale possiamo identificare la nascita dello sci. Alcuni ritrovamenti nei paesi scandinavi potrebbero far risalire la linea del tempo sino al 2500 a.c.
Esiste un’incisione rupestre, forse del XX secolo a.c., che ritrae una figura umana con ai piedi un paio di sci.

Tempus fugit

Rincorriamo il tempo e la storia, nella speranza di imparare per il domani.
Approdiamo in Norvegia alla metà dell’Ottocento: un abitante della contea di Telemark rivoluzionò lo sci inventando lo stile chiamato, dal luogo d’origine, telemark. La nuova moda si trasformò velocemente in una disciplina sportiva. Nel 1860 il re di Norvegia organizzò una competizione ufficiale mettendo in palio la coppa Holmenkollen.
I Monti sono maestri muti e fanno discepoli silenziosi
(Johann Wolfgang von Goethe)
La diffusione in Italia si avrà dalla fine del XIX secolo. Correva il 1886 quando Edoardo Martinori riportò, dalla Lapponia, un paio di sci utilizzati per una traversata.
Bisogna attendere il 21 dicembre del 1901 per vedere la nascita dello Ski Club Torino, per mano dell’ingegnere svizzero Adolfo Kind. Il 16 marzo del 1902 prese il via la prima gara di velocità in discesa. Un aneddoto curioso legato a Kind: l’ingegnere svizzero, insieme con un gruppo d’amici, iniziò a recarsi abitualmente nelle montagne sopra Giaveno, nelle vicinanze di Torino. I montanari che per primi videro l’uomo, rosso in viso e con la barba lunga, scivolare sulla neve, lo accolsero al grido di: il diavolo, il diavolo.
Negli anni scorsi ho conosciuto la storia di un prete di cui vorrei parlarvi in queste pagine: don Rocco Beltrami.
Dalla Norvegia siamo giunti alle montagne sopra Torino, ora risaliamo il Piemonte per indossare gli sci e raggiungere l’Ossola.
Poco dopo l’alba del secolo scorso, si racconta che una domenica, nel cuore dell’inverno, arrivarono in Val Formazza tre sciatori svizzeri. Questi pionieri risalirono la Val Bedretto, partiti dal paese d’Airolo, ed arrivarono in Formazza attraverso il passo di san Giacomo. Era il 1909 ed un falegname formazzino, Guido Matli, vedendo la facilità con cui si poteva solcare il manto nevoso decise di acquistarne un paio. In conformità a quel modello ne fabbricò altri in legno con uno zoccolo al centro e delle cinghie per tenere fermo il piede. Due anni dopo Don Rocco Beltrami, che ne frattempo si era appassionato vivamente al nuovo strumento di locomozione, il falegname Matli, Antonio Della Vedova ed un’altra sessantina di soci skiatori fondarono lo Ski Club Formazza.
Don Beltrami intuì che lo sci avrebbe modificato la storia della valle e dei suoi abitanti, rendendo vicini coloro che prima erano quasi irraggiungibili. La storia con la S maiuscola non si ricorda di lui, la storia locale molto ha dato, per fortuna, e molto continuerà a ricordare.
Con buone probabilità anticipò alcune salite di scialpinismo del leggendario Marcel Kurz. E’ nota la salita all’Arbola con un gruppo di parrocchiani al seguito.
Queste persone avrebbero utilizzato in seguito quegli strani attrezzi a scopo sportivo nelle file dello Ski club Formazza, e dominarono la scena nazionale per molto tempo.
Il primo grande successo sportivo arrivò nel 1915 a Courmayeur, dove si organizzò la prima adunata nazionale degli skiatori valligiani. La squadra della Formazza si impose con oltre 15 minuti di vantaggio su quella di Bardonecchia.
Negli anni venti nacque la leggenda della “Valle Invincibile”.
Gli skiatori della Valle Formazza tra il 1920 ed il 1932 vinsero per ben sette volte il trofeo “Valligiani”, la gara a squadre di sci di fondo più importante dell’epoca.
Don Rocco Beltrami permeò la storia della valle a fondo, ben oltre le imprese sportive. Un giornale del tempo lo ricorda così: E’ veramente ammirabile ed encomiabile lo spirito patriottico del Parroco di questo paese – Don Rocco Beltrami – che in questo momento solenne per l’avvenire dell’italia, sa anche dal pergamo con elevate parole infondere ai formazzini il sentimento del dovere di solidarietà con il nostro Governo auspicando con fervore alla vittoria delle nostre armi. Egli diede prova in ogni circostanza di viva fede per la patria nostra e se i suoi superiori non avessero disposto diversamente egli si sarebbe come già nella guerra Libica arruolato fra le schiere dell’esercito italiano. E’ necessario, specie nei paesi di confine scuotere le fibra dei nostri buoni montanari perché nessuno manchi al proprio dovere nell’ora del cimento ed augoriamoci che tutti i suoi colleghi della Valle siano con lui compatti nell’istruire i loro fedeli. 
[firmato un Valligiano]

Fabio Casalini

Bibliografia
Crosa Lenz Paolo e Sormani Piero. Un secolo di neve, i cento anni dello sci Club Formazza. Tararà edizioni. 2011
Boccardi Renzo. Dalla Frua al Sempione. Club Alpino Italiano. 1912
De Petri Umberto. Cronache di Formazza: dal 1867 al 1963. Mnamon. 2015

Mastro Titta, er boja de Roma

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«Il 28 marzo 1797, mazzolai e squartai in Valentano Marco Rossi, che aveva ucciso suo zio e suo cugino per vendicarsi della non equa ripartizione fatta di una comune eredità»


Inizia la storia di Giovanni Battista Bugatti, detto Mastro Titta, in arte er boja de Roma. La fredda biografia ci riporta la nascita in quel di Senigallia nel 1779 e la morte a Roma nel 1869.
Tra la nascita e la morte si rese protagonista della morte di 514 persone: il 17 agosto 1864 il suo datore di lavoro, Pio IX, gli concesse la pensione con un vitalizio mensile di 30 scudi.Calcolando che in vita il suo stipendio si aggirava sui 15 scudi mensili, più alloggio e sussidio mensile di 5 scudi, e che la morte arrivò 5 anni dopo il pensionamento, possiamo affermare con tranquillità che le casse dello stato Pontificio non piansero per le sue prestazioni e il suo vitalizio. Occorre ricordare che ad ogni esecuzione riceveva un pagamento simbolico determinato in un papetto: si trattava di una moneta d’argento usata nello Stato della Chiesa, del valore di 2 paoli o di 20 baiocchi. Fu coniata dai regnanti papali nel periodo compreso tra Benedetto XIV e Pio IX. Il termine papetto si riferisce al fatto che sulla moneta vi era l’effigie del pontefice regnante. La sua carriera iniziò in tenera età il 22 marzo del 1796, a quell’epoca Bugatti aveva 17 anni. La certezza del numero delle esecuzioni si può determinare con precisione, chirurgica direi, dal taccuino nel quale Mastro Titta registrava, con meticolosa precisione, le generalità delle vittime, il luogo e il genere dell’esecuzione. Non scordava di segnare il crimine commesso dal giustiziato per sua mano. La sua meticolosità contiene un piccolo errore: il Bugatti registrò 516, dimenticando che due persone, uno squartato dall’aiutante e l’altro fucilato, non perirono a causa delle sue prestazioni.
Nei periodi d’inattività dalla forca svolgeva il mestiere di venditore di ombrelli, sempre a Roma. Il boia viveva all’interno della cinta muraria del Vaticano, sulla riva destra del Tevere nel rione Borgo.
Tra il pubblico delle esecuzioni, spesso, si celava Giuseppe Gioacchino Belli: dedicò diversi sonetti a Mastro Titta. Tra questi anche Il ricordo. Il sonetto fu composto nel 1830 e narra dell’impiccagione di Antonio Camardella, colpevole dell’uccisione del canonico socio in affari Donato Morgigni: peccato che l’esecuzione sia avvenuta nel 1749 e non all’epoca del Bugatti. Il fatto che Belli decise di utilizzare la figura di Mastro Titta per narrare un evento lontano dal tempo, ci permette di comprendere, se ancora ce ne fosse bisogno, quale fama circondava il boia ancora giovane di vita e carriera. Riporto integralmente il testo del sonetto.
«Il giorno che impiccarono il Camardella
io mi ero appena cresimato.
Mi sembra adesso, che il padrino al mercato
mi comprò un “saltapicchio” e una ciambella. 
Mio padre prese poi la carozzella,
ma prima volle “godersi” l'impiccato:
e mi teneva in alto sollevato,dicendo: 
«Guarda la forca quant'è bella!». 
Tutt'a un tratto, al “paziente”, 
Mastro Tittaappioppò un calcio in culo, e il papà a me
uno schiaffone sulla guancia con la destra. 
«Tieni!», mi disse,
 «e ricordati beneche questa stessa fine sta già scritta
per mille altri che sono meglio di te». »
La giustizia com’era organizzata al tempo delle esecuzioni capitali? Le autorità papali, dopo un rifiuto delle idee francesi, dovettero prendere atto che il modo di pensare e di agire stava cambiando: si andava nella direzione della semplificazione del sistema giudiziario. Cambiano le modalità di pena di morte ed alcune novità entrano in vigore nelle carceri. Ultimo aspetto, ma non secondario, la lenta ma graduale scomparsa dei birri - che erano delinquenti assoldati per effettuare arresti: più ne facevano più guadagnavano – per lasciare spazio ai carabinieri.
In questo nuovo mondo Mastro Titta si muoveva a suo agio, tranne che per un aspetto da non sottovalutare: egli viveva sulla riva destra del Tevere, zona adatta all’epoca dei fatti a persone di dubbia moralità, e poteva attraversare il ponte solo per eseguire il suo lavoro di boia. Passava su ponte di Castel Sant’Angelo con il lungo mantello rosso: alla visione di questa scena i romani potevano comprendere che quel giorno un altro poveraccio avrebbe lasciato questo mondo. Prima di attraversare il ponte, il boia seguiva un copione ben collaudato: si confessava, si comunicava e si vestiva con il classico mantello rosso. I luoghi delle esecuzioni potevano essere Piazza del Popolo, Campo dei Fiori o Piazza del Velabro.
Le condanne a morte erano eseguite di fronte ad un folto pubblico. Tra questi spettatori, attirati non sappiamo da quale perverso sentimento, si celavano, oltre al citato Belli, altri letterati che hanno costruito pagine bellissime che resteranno nell’immaginario della nostra civiltà. Tra questi vorrei ricordare Lord Byron e Charles Dickens. Erano gli anni del Gran Tour in Italia, ed una scappata a Roma per le esecuzioni gli illustri letterati non potevano perdersela.
Lord Byron scriveva all’amico editore John Murray: «La cerimonia - compresi i preti con la maschera, i carnefici mezzi nudi, i criminali bendati, il Cristo nero e il suo stendardo, il patibolo, le truppe, la lenta processione, il rapido rumore secco e il pesante cadere dell’ascia, lo schizzo del sangue e l’apparenza spettrale delle teste esposte – è nel suo insieme più impressionante del volgare rozzo e sudicio new drop e dell’agonia da cane inflitta alle vittime delle sentenze inglesi. »
Lord Byron scriveva queste parole nel 1813, agli inizi della carriera del Bugatti.
Per leggere le righe di Dickens dobbiamo attendere il finire dell’attività lavorativa di Mastro Titta. Assistette ad un’esecuzione in via dei Cerchi, agli inizi degli anni sessanta del 1800, scrivendo: « Uno spettacolo brutto, sudicio, trascurato, disgustoso; che altro non significava se non un macello, all’infuori del momentaneo interesse per l’unico disgraziato attore. »
Non solo stranieri ma anche nostrani personaggi noti. Massimo d’Azeglio, nelle pagine de I miei ricordi, scrisse: « In una gabbia di ferro stava il cranio imbiancato dal sole e dalle piogge di un celebre malandrino
Mastro Titta non dispiegò la propria arte solo per gli occhi increduli dei romani, o dei ricchi letterati stranieri che giungevano nelle italiche terre, ma anche per i cittadini d’alcune città laziali. Tra queste occorre ricordare Tivoli dove le condanne a morte erano eseguite in Piazza Domenico Tani, o Subiaco.
Di questo periodo complesso della nostra storia cosa rimane?
Sicuramente il mantello scarlatto utilizzato da Mastro Titta durante le esecuzioni, ben conservato al Museo Criminologico di Roma, e il ricordo dell’ultimo sovrano dello Stato Pontificio, Pio IX, il cui papato è durato ben 31 anni e 7 mesi, attestandosi alle spalle del solo Pietro.
Parlando di Pio IX, che pensionò Mastro Titta, si ricorda la proclamazione a beato del 2000: questa è un’altra, lunga e dolorosa, pagina della nostra storia.

Fabio Casalini





Bibliografia

Lanfranco Cesari, Mastro Titta: giustizie eseguite dal carnefice romano nell'Umbria papalina, Foligno, 1998.

Charles Dickens, Lettere dall'Italia a cura di Lucio Angelini; Milano, Lampi di stampa, 1999

Livio Iannattoni, Mastro Titta. Boja de Roma, 1984.
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