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Gaswagen, i camion della morte

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I gaswagen, traducibile come camion del gas, fu un particolare tipo di autocarro inventato dal direttore del NKVS Isay Berg nel 1936 per l'eliminazione fisica di parte dei condannati nelle Grandi Purghe. In seguito fu utilizzato dai nazisti come strumento di esecuzione che anticipò le camere a gas per lo sterminio di un grande numero di ebrei durante la seconda guerra mondiale. Risulta complesso stimare il numero delle vittime: alcuni studiosi stimano in 700.000 le persone uccise tramite questo strumento di morte.
Ricostruiamo la storia di questo tremendo metodo di sterminio.
I gaswagen furono utilizzati per la prima volta dai sovietici durante le Grandi purghe staliniste degli anni trenta. Le Grandi purghe furono una vasta repressione avvenuta nell'Unione Sovietica nella seconda metà degli anni trenta, voluta e diretta da Stalin dopo l'omicidio di un importante dirigente del partito a Leningrado, Sergej Kirov. Il compito di questa operazione fu quello di epurare il partito comunista da presunti cospiratori. La repressione, eseguita con procedimenti giudiziari sommari, colpì anche semplici cittadini non iscritti al partito ma considerati ostili al regime. L'operazione, voluta da Stalin, ebbe grande risonanza in occidente in seguito ad alcuni processi celebrati tra il 1936 ed il 1938 contro i massimi dirigenti del PCUS. Per quale motivo l'eco delle purghe giunse nell'Europa occidentale? Perché nel periodo compreso tra il 1936 ed il 1938 furono oggetto di arresti e condanne numerosi esponenti delle comunità straniere, inclusa quella italiana, emigrati nella patria socialista per sottrarsi alle persecuzioni politiche nei paesi d'origine. All'interno di questa repressione nacque il camion della morte come strumento d'eliminazione di massa di prigionieri politici. Isay Berg, capo della sezione moscovita del NKVD, ebbe l'idea di soffocare gruppi di prigionieri con con fumi provenienti dal motore di un camioncino apparentemente adibito al trasporto di pane, come alternativa alla fucilazione. I cadaveri venivano in seguito sistemati all'interno di fosse comune: emblematico il caso di Butovo, dove un totale di 20.000 (circa) condannati furono sepolti ed in seguito bruciati. Sull'attribuzione della paternità di questo strumento di morte ad Isay Berg esistono voci contrastanti poiché lo stesso fu ucciso durante la Grande purga del 1939.
L'utilizzo dei gaswagen fu ripreso successivamente dai nazisti. I camion erano prodotti da imprese tedesche, Diamond ed Opel, o svizzere, Saurer. Il funzionamento dei gaswagen nella Germania nazista era abbastanza semplice perché assolveva ad un preciso compito: eliminare velocemente i prigionieri. Questo era possibile poiché questo tipo di veicoli aveva la capacità di contenere un grande numero di persone nel cassone posteriore. Una volta che il carico umano da eliminare trovava posto sull'autocarro, lo stesso era sigillato internamente ed il cassone, dove veniva fatto confluire il gas di scarico del motore, funzionava da camera a gas, uccidendo le persone alloggiate al suo interno grazie all'azione del monossido di carbonio. Purtroppo questi camion necessitavano di continua manutenzione, motivo per il quale i prigionieri potevano vedere come erano costruiti al loro interno. In questo senso sono molto importanti le testimonianze dei sopravvissuti ai campi di sterminio poiché grazie a questi ricordi possiamo conoscerne il funzionamento. Al suo interno il camion presentava un pavimento in assi di legno come le future docce a gas, pareti laterali di color bianco e la porta stagna per non permettere ai gas iniettati di uscire. Robert Mohr, un comandante delle SS, è indicato come uno degli artefici di questa tipologia di camion nella Germania nazista. Alla sua unità, che operava nei pressi di Stalino, furono assegnati diversi gaswagen, a proposito dei quali dichiarò: “Vidi soltanto esternamente il camion del gas del Sonderkommando che incontrai a Stalino. Era un grande veicolo grigio che assomigliava ad una specie di autobus senza finestre”. 
Ma l'ufficiale nazista maggiormente implicato nello sviluppo di questi mezzi di distruzione di massa fu Walter Rauff. Il nazista in fuga, morì solo il 5 maggio del 1984 in Cile stroncato da un tumore ai polmoni, iniziò come funzionario del Ministero della Marina Tedesca, ruolo che ricoprì sino al 1937. L'anno successivo fu arruolato nelle file del SD, i servizi segreti delle SS comandate da Heydrich, per poi passare a comandare un dipartimento della polizia criminale nazista. Nel 1941 e nel 1942, Rauff fu coinvolto nello sviluppo di furgoni e camere mobili a gas. Come avvenne il suoi coinvolgimento nei gaswagen? Rauff affidò il compito di tenere i furgoni a gas che operavano nell'Unione Sovietica, ed in altre zone occupate dai nazisti, ad un chimico delle SS, August Becker, che informò Rauff sulle operazioni di morte tramite il monossido di carbonio. Si presume che Rauff sia stato responsabile della morte di quasi 100.000 persone, per la maggior parte ebrei e disabili, durante la seconda guerra mondiale. Nel campo di sterminio di Chelmno, in tedesco Kulmhof, in Polonia, dove Rauff operò come stretto collaboratore di Himmler, furono attivi diversi gaswagen. In un archivio delle SS fu ritrovato un documento che recita: “Nel giro di sei mesi, tre di questi camion hanno trattato 97.000 pezzi senza inconvenienti di sorta”. Dopo l'esperienza in Polonia Rauff fu inviato in Tunisia. Nel 1943 fu chiamato dallo stesso Himmler per ricoprire l'incarico di ispettore per la Lombardia, il Piemonte e la Liguria. 
Il 13 settembre, ordinò di iniziare a rastrellare gli ebrei a Baveno, Arona e successivamente a Meina, dove accadde l’episodio più noto: sedici ospiti dell’albergo Meina furono identificati e trattenuti per alcuni giorni in una stanza e poi, in due notti successive, il 22 ed il 23 settembre, uccisi e gettati con zavorre nel Lago Maggiore. Altri rastrellamenti avvennero nei giorni seguenti a Mergozzo, Stresa e Novara. L’ordine partì con una telefonata da Milano, dalla viva voce di Walter Rauff. Nello stesso anno Karl Frederich Otto Wolff fu nominato Governatore Militare e Comandante supremo delle SS e della polizia dell’Italia settentrionale. Da qui in poi il destino di questi due uomini s’intreccia con quello di personaggi di rilievo della scena politica internazionale. Il 10 maggio del 1944 Wollf fu ricevuto da Pio XII, su intercessione della principessa Virgina Bourbon del Monte, coniugata Agnelli, madre di Gianni. Il rapido capovolgersi della situazione, a sfavore della Germania, consigliò ai comandanti nazisti di cercare contatti con i prossimi vincitori per assicurarsi una via d’uscita. Come sappiamo, per Rauff, e molti altri tra cui il medico della morte dottor Mengele, funzionò poiché morì soltanto nel 1984 in Cile.
I gaswagen non funzionarono solo a Chelmno. A fine novembre del 1941 a Kozminek, in Polonia, 700 ebrei furono asfissiati mediante l'utilizzo di questo strumento di morte. A Stalino, in Ucraina, Robert Mohr iniziò la sua sperimentazione con un gaswagen. Il 30 settembre del 1941 le truppe del campo ebbero a disposizione diversi veicoli per l'eliminazione dei prigionieri. Tra il marzo e l'aprile del 1942, grazie ad un camion di 5 tonnellate contenente circa 60 persone, Mohr sterminò moltissimi ebrei. Gli sterminatori delle SS successivamente alle operazioni con il gas dovevano rimuovere i cadaveri, spesso sporchi di urina e feci, e gettarli in un pozzo in una miniera. Anche a Minsk, Bielorussia, furono utilizzati i gaswagen. In un comunicato del 31 luglio del 1942 il generale commissario Kube, in un comunicato, informa il suo superiore che nelle ultime dieci settimane sono stati eliminati, anche mediante l'utilizzo dei camion, 55.000 ebrei, 10.000 solo a Minsk tra il 29 ed il 30 luglio. 
I gaswagen furono un tassello importante nell'eliminazione di ebrei e disabili voluta dai nazisti. 
Ancora oggi, malgrado i documenti esistenti, molte persone tendono a sminuire, quando non giungono a negare, il genocidio perpetrato dai tedeschi. 
A queste persone rivolgo un solo monito: sarebbe potuto accadere a voi.

Fabio Casalini

Bibliografia 
Brissaud, Andrè. Le grandi purghe di Mosca. Ginevra, Edizioni Ferni, 1973

Campolieti Giuseppe. Le sante bugie: fatti e misfatti della chiesa dei papi. Edizioni Dedalo. 

Cavallarin G. Marco. Nuovi Albergo "Regina & Metropoli" Via Santa Margherita Ang. Via Silvio Pellico, Milano, 13 settembre 1943-30 aprile 1945 - La Storia raccontata da una lapide. Nuovi Autori Editrice

Colton Timothy. Moscow: Governing the Socialist Metropolis. Belknap Press, 1998. 

Dollmann Eugen, Roma nazista, Longanesi, 1951

Gaja Filippo. Il Secolo Corto. La Filosofia del Bombardamento. La Storia da Riscrivere. Maquis editore, 1994 

Merridale Catherine. Night of Stone: Death and Memory in Twentieth-Century Russia. Penguin Books, 2002 

Nozza Marco. Hotel Meina - la prima strage di ebrei in Italia. Il saggiatore, 2008 

Pace Giovanni Maria. La via dei demoni. Sperling & kupfer, 2000. 

Petacco Arrigo. Nazisti in fuga. Mondadori, 2014 

Phayer Michael. Il papa e il diavolo. Newton Compton Editori, 2000 

Roggero Roberto. Oneri ed onori: le verità militari e politiche della guerra di liberazione in Italia. Greco & Greco editori. 2006
FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.

Tra gli spettri dei larici ecco l'altare delle streghe

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I magnifici riflessi del Lago di Brunei - fotografia di Rosella Reali

Ci sono escursioni in montagna che ti segnano nell’anima, per la fatica che si fa, più o meno a seconda dell’allenamento di chi intraprende il cammino, e per la bellezza della meta.
Una di queste per me è stata la gita al lago di Brumei. Un giorno come tanti in luglio, un caro amico, esperto di montagna, manda a me e Fabio Casalini, un messaggio, breve e convincente: «domenica prossima, se il tempo è bello, torno al lago di Brumei e all’Altare delle Streghe. Volete venire?»
Tanto dislivello in pochi chilometri, sentiero poco battuto e quindi mal indicato, pendenze importanti, una gita non per tutti. L’ultimo tratto, verso il famigerato Altare, ha un passaggio impegnativo, su una bocchetta molto ripida, transito per camosci e altri animali selvatici. La curiosità è tanta. Invito accettato.
Quest’anno abbiamo nelle gambe abbastanza chilometri per affrontare il percorso.
Domenica mattina. Tempo bello, si parte. Il cielo ci regala qualche nuvola, per rendere più suggestivo l’azzurro intenso che ci sovrasta. L’aria è fresca, invitante. Ci lasciamo alle spalle la calura della bassa Ossola per immergerci nel verde brillante e silenzioso della Valle Antigorio. Una gioia per gli occhi, carburante per il nostro spirito.
Il panorama salendo all'altare delle streghe - fotografia di Rosella Reali

In allegria, con il cuore leggero cominciamo la salita. Il primo tratto è su strada asfaltata e porta ad Esigo, grazioso abitato con case in sasso e legno che si estende in un pianoro verde, affacciato sulla valle Antigorio. Tutte le case e i prati sono perfettamente curati, le capre pascolano libere, l’oratorio di san Rocco completa il panorama. I fiori adornano balconi e aiuole. Di fronte a noi la valle di Agaro, gli abitati di Costa e Pioda Calva, il pizzo Nava con la sua strana forma, la diga di Agaro.
Un caffè preso con amici ed un saluto alla simpatica e sorridente proprietaria del piccolo agriturismo che incontriamo sulla strada. Superato Esigo, situato a 1140 metri s.l.m. seguiamo le indicazioni per l’alpe Agarù. Il bosco di faggi ci protegge dal sole, possiamo ancora per qualche minuto godere del fresco. Un vecchio e smunto cartello ci incida la direzione di salita.
Il sentiero è poco battuto dagli scarponi degli escursionisti, l’erba alta e il tracciato approssimativo ci fanno subito capire che avere con noi il nostro amico Giulio, esperto conoscitore della montagna, non può essere che un bene.
Panorama salendo all'altare delle streghe - fotografia di Rosella Reali

Fin da subito la pendenza si mostra interessante. Il percorso è scosceso, con passaggi difficoltosi per chi non è abituato. Il tracciato del CAI non è sempre ben visibile a causa della rigogliosità della vegetazione che ha coperto i segnali, riprendendo il suo naturale corso, oppure in seguito a cedimenti del terreno. Durante la salita incontriamo l’alpe Cerino, nascosta fra la boscaglia.
Qualche sosta per riposare, per fare quattro chiacchiere e per prendere fiato.
Più si sale e più la valle di Agaro si apre davanti a noi, fino a vedere l’acqua azzurra del lago. Il pizzo Nava si fa sempre più vicino, mostrando quasi un volto umano sulla parete che domina la valle Antigorio: sembra sorridere guardandoci fare fatica.
Arriviamo all’alpe di Brumei. Due antiche costruzioni in sasso e legno, ormai abbandonate e diroccate, ci accolgono e ci fanno da ornamento per le foto che scattiamo delle montagne di Devero. Un tempo alpeggio abitato, oggi monumento al ricordo di quei giorni in cui la fatica del vivere la montagna non spaventava.
Attorno a noi il paesaggio si fa mozzafiato, le cime che vedevamo dal basso si fanno sempre più vicine. Il cielo azzurro, adorno di nuvole bianche, il Pizzo Brumei sopra di noi. Giornata davvero perfetta.
Una piccola sosta e si prosegue, si sale ancora, per poi attraversare un vasto pianoro verso sinistra, ultimo tratto prima del lago. Accanto a noi Cistella e Diei, di fronte la meta.
Salendo all'altare delle streghe - fotografia di Giulio Tonzi

Percorriamo un sentiero poco battuto, invaso da rododendri e farfalle. I larici ci accompagnano lungo tutto il percorso. L’altare delle Streghe si fa sempre più vicino: qualche ora fa sembrava una meta irraggiungibile. Improvvisamente il sentiero finisce e davanti a noi si apre, in tutta la sua semplice bellezza, il lago di Brumei, uno specchio azzurro, sul cui fondo riposano gli spettri dei larici abbattuti dalle valanghe invernali.
Fiori a perdita d’occhio. Sul terreno i segni del passaggio di camosci e cervi che, probabilmente, scelgono il lago per bere. Dalla parte opposta del lago si gode della meravigliosa vista del monte Cervandone, del pizzo Cornera, del monte Cazzola, della Rossa, che, china su sé stessa come una vecchia signora segnata dal tempo, rende il paesaggio unico.
Ci sediamo a respirare, a guardare la vetrina delle Alpi, come tre bambini felici davanti ai loro giocattoli preferiti. La bellezza immensa di questo luogo, il rumoroso silenzio del bosco di larici, il profumo del vento.
Con i piedi sull'altare delle streghe - Fotografia di Giulio Tonzi

Riposiamo pronti per continuare ancora a camminare per raggiungere l’Altare. Questa piana meravigliosamente dipinta dalla natura probabilmente un tempo era abitata da popoli antichi, che rendevano grazie alla natura per i doni che ricevevano ogni giorno, spingendosi in luoghi isolati per compiere antichi culti di ringraziamento. E li troviamo l’Altare delle Streghe, un masso coppellato, inciso in tempi remoti da temerari uomini che volevano ringraziare gli dei per ciò che la natura dava loro.
Un masso a picco sul vuoto, in un luogo riparato lontano da tutti, da dove si vede il mondo, quello conosciuto a quel tempo, dove solo pochi in tempi moderni si sono spinti. Passaggio per camosci, sfida per chi ha voglia di capire, di scoprire cosa spingesse tanto in alto coloro che ci hanno preceduti su questa terra.
Ma davvero era un luogo di incontro per le streghe?
Davvero si spingevano fin quassù per i loro sabba, per incontrare il loro signore, il dio delle tenebre?
Davvero delle donne, conoscitrici delle antiche tradizioni, delle erbe, custodi del sapere che ci arriva dalla notte dei tempi, sarebbero salite fin quassù, magari scalze, dopo ore e ore di cammino, in sentieri scoscesi e pericolosi?
Le streghe non sono mai esistite.
Alcune degli incavi presenti sul masso definito l'altare delle streghe - fotografia di Giulio Tonzi

Non volavano, non avevano cappelli a punta, non mutavano la loro forma in animali. Erano solo donne, guaritrici, Herbarie. Erano donne accusate ingiustamente dalla maldicenza delle persone, perseguitate dalla chiesa, che voleva cancellare il loro sapere, arrivato fino a noi ”come un fiume sotterraneo”.
Questo luogo conserva i segni del passaggio dei nostri antenati, di chi ha camminato nelle nostre valli prima di noi, rispettando la natura, compiendo antichi riti per riconoscenza verso i benevoli dei della natura.
Da quassù, da questa lingua di roccia, si riconciliavano con il mondo circostante, diventando un tutt’uno con le piante, i fiori, gli animali, con il cielo. Io credo che questo luogo speciale sia davvero un altare, ma che poco avesse a che fare con le streghe.
Alcuni degli incavi presenti sul masso definito l'altare delle streghe - fotografia di Giulio Tonzi

Le streghe non sono mai esistite, le hanno create gli uomini, la chiesa cattolica con le sue convinzioni, con la sua voglia di rinnovamento e di cancellare le religioni che l’avevano preceduta, per essere la sola a dare sollievo all’anima di chi a lei si accostava.
Da quassù, dopo un lungo cammino, mi sembra di volare, di essere al di sopra del mondo, di vivere una dimensione diversa.
Giulio Tonzi - Rosella Reali - Fabio Casalini
Rosella Reali


ROSELLA REALI
Sono nata nel marzo del 1971 a Domodossola, attualmente provincia del VCO. Mi piace viaggiare, adoro la natura e gli animali. L'Ossola è il solo posto che posso chiamare casa. Mi piace cucinare e leggere gialli. Solo solare, sorrido sempre e guardo il mondo con gli occhi curiosi tipici dei bambini. Adoro i vecchi film anni '50 e la bicicletta è parte di me, non me ne separo mai. Da grande aprirò un agriturismo dove coltiverò l'orto e alleverò animali. 
Chi mi aiuterà? Ovviamente gli altri viaggiatori.
Questa avventura con i viaggiatori ignoranti? Un viaggio che spero non finisca mai...


L'anarchico che scoprì di non saper volare

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Attentato a New York - 1920

Giuseppe Pinelli fu un anarchico e ferroviere italiano, animatore del circolo anarchico Ponte della Ghisolfa. Morì nella notte tra il 15 ed il 16 dicembre 1969 spinto giù dalla finestra della questura di Milano, dove era trattenuto per accertamenti in seguito all'esplosione di una bomba in piazza Fontana, evento noto come la Strage di piazza Fontana.
Eppure il povero Pinelli non fu il primo anarchico che volò dalla finestra di un grattacielo.
Il 3 maggio del 1920 Andrea Salsedo precipitò dal quattordicesimo piano di uno dei grattacieli più alti di New York, Nuova York come era conosciuta tra i cafoni siciliani compaesani di Andrea.
Chi era Andrea Salsedo, il primo anarchico che si accorse di non saper volare?
Andrea nacque il 21 settembre del 1881 a Pantelleria, provincia di Trapani. A soli tredici anni si avvicinò al movimento politico riformista sull'onda dell'entusiasmo provocato dalla carismatica figura di Luigi Galleani, confinato politico a Pantelleria, che realizzò una scuola popolare frequentata da giovani panteschi. All'interno di questa esperienza sociale, i ragazzi potevano discutere di anarchia, politica e radicalismo sociale.
Per quale motivo Galleani fu confinato a Pantelleria?
Luigi divenne anarchico quando era studente di legge all'Università di Torino. Dovette trasferirsi in Francia poiché fu minacciato di procedimenti giudiziari a suo carico. Alcuni anni dopo fu espulso dalla Francia per aver preso parte ad una manifestazione di protesta. Si trasferì in Svizzera dove frequentò il geografo anarchico Reclus. In seguito alla sua partecipazione alla commemorazione dei Martiri di Haymarket, un gruppo di anarchici giustiziati a Chicago nel 1887, fu espulso anche dalla Svizzera trovando nuovamente casa in Italia. Nel 1895 fu arrestato e confinato a Pantelleria, da dove riuscì a fuggire nel 1900 trovando rifugio in Egitto. Galleani decise di attraversare l'oceano per recarsi negli Stati Uniti nel 1901.
Andrea Salsedo

Un personaggio di questo livello non poteva che travolgere le idee rivoluzionarie dei giovani abitanti di Pantelleria dove Galleani istituì il circolo sociale per ragazzi. Andrea Salsedo divenne uno dei più assidui frequentatori di questo ristretto circolo di uomini. Nel 1901, anno di morte del regicida Gaetano Bresci, Andrea si era trasferito a Marsala dove stampava La Falange, un foglio di rabbia. Nella città siciliana Andrea ebbe molti problemi con la legge a causa delle continue ordinanze di sequestro. Alla fine dovette chiudere il piccolo foglio di protesta. Fu allora che prese la decisione di trasferirsi negli Stati Uniti. Verso la fine del primo decennio del XX secolo, Andrea giunse a New York. Nella città americana iniziò a lavorare come garzone sino a quando non incontrò quello che a lui parve un fantasma: Luigi Galleani. All'ombra della Statua della Libertà Luigi animava un circolo anarchico frequentato da italiani e pubblicava una rivista, 
Mulberry Street, l'ingresso di Little Italy agli inizi del novecento

La Cronaca Sovversiva. Salsedo iniziò a collaborare con il vecchio maestro in qualità di tipografo. Andrea era bravo, molto bravo. Aveva imparato i trucchi del mestiere, soprattutto a risparmiare. Con i soldi che riuscì ad accumulare, divenne editore in proprio. Stampava libri anarchici ed una rivista, Il domani, che finì immediatamente nel mirino dell'Fbi. Con l'ingresso negli anni venti del secolo scorso l'aria a New York divenne irrespirabile per gli anarchici. Gli uomini del Federal Bureau of Investigation chiusero molte tipografie, e quasi tutti i circoli. L'opera di repressione giunse ad arrestare sino a 4.000 persone in un solo giorno. Nelle settimane successive oltre 3.000 individui furono espulsi dagli Stati Uniti, tra cui il maestro di Andrea, Luigi Galleani. Alla repressione gli anarchici risposero con le bombe. 
Attentato a New York - 1920

Una di queste scoppiò a Washington dove, vicino al corpo di un attentatore crivellato dai proiettili di stato, furono rinvenuti alcuni volantini rossi. Gli inquirenti si prodigarono alla ricerca delle persone che avevano stampato quei volantini. Le indagini condussero le autorità ad arrestare un certo Ravarini che immediatamente fece un nome, quello di Roberto Elia, che lavorava in una tipografia dove si “stampavano anche cose anarchiche”. La tipografia era quello di Andrea Salsedo. La notte del 25 febbraio del 1920, Andrea e Roberto Elia furono prelevati dalle loro abitazioni e condotti negli uffici dell'Fbi a New York. I due arrestati furono interrogati separatamente. Roberto Elia disse di non avere informazioni circa i volantini rossi trovati addosso all'attentatore di Washington. Poche ore dopo fu rilasciato.
Cosa accadde ad Andrea Salsedo?
Dal momento dell'arresto iniziò il calvario dell'anarchico italiano.
Gli fu negata la possibilità di mettersi in contatto con il proprio avvocato.
Fu sottoposto ad interrogatori brutali, che spezzarono il fisico e la mente dell'uomo.
Fu selvaggiamente picchiato.
Fu lasciato senza assistenza medica anche quando, disperato, urlava per il dolore provocato dal mal di testa, causato dai numerosi colpi ricevuti.
Come possiamo essere sicuri che fu brutalmente picchiato, addirittura torturato, dagli uomini dell'Fbi?
Esistono due testimonianze a supporto di queste affermazioni. La prima è dello stesso Roberto Elia che, poco dopo il rilascio, dichiarò d'aver intravisto, anche se per pochi secondi, Andrea Salsedo con la faccia insanguinata. La seconda è quella di Maria Petrillo, moglie di Andrea, che denunciò alla stampa, poco dopo l'unico colloquio avuto con il marito, che il viso di Salsedo era sfigurato a causa delle botte ricevute. In una lunga intervista rilasciata alla stampa, che fece scalpore nelle immediatezze delle operazioni di polizia o pulizia volute dall'Fbi, Maria Petrillo dichiarò che l'avvocato difensore, tale Narciso Donato, aveva fatto di tutto tranne che il proprio lavoro. Qualche tempo dopo si scoprirà che Donato era pagato dal Ministero della Giustizia, come affermerà la figlia di Andrea, Silvestra Salsedo.
Il Park Row Building negli anni 20: edificio dal quale precipitò Andrea Salsedo

Dopo due mesi e mezzo di agonia, la vita di Andrea Salsedo si interruppe improvvisamente.
Il 3 maggio del 1920 morì precipitando dal quattordicesimo piano del Park Row Building, edificio dove erano siti i locali dell'Fbi.
L'Fbi dichiarò che si trattava di suicidio.
Il Dipartimento di Giustizia fece eco: suicidio.
La Polizia di New York affermò che Andrea Salsedo si suicidò.
Le autorità negarono con fermezza ogni responsabilità circa la morte dell'anarchico.
Roberto Elia, che tornerò in Italia poco tempo dopo il rilascio trovando la morte in circostanze misteriose, seguì le indicazioni impartite dichiarando che Andrea si era suicidato.
Non tutti seguirono le indicazioni e le parole delle autorità. La comunità anarchica italiana presente negli Stati Uniti, di cui facevano parte anche Bartolomeo Vanzetti e Nicola Sacco – i famosi Sacco & Vanzetti, si ribellò. Nicola Sacco dichiarò: “Andrea Salsedo è stato pestato brutalmente per giorni, finché è morto fra le mani dei suoi aguzzini che l'hanno fatto volare dalla finestra per giustificare quel corpo martoriato e quel viso sfigurato”. Vanzetti affermò: “da lui si voleva conoscere l'intera mappa dell'anarchismo in America”. Vanzetti, amico di Salsedo, organizzò un comizio per il 9 maggio che avrebbe dovuto aver luogo a Brockton. Purtroppo furono arrestati poco prima dell'incontro pubblico. I motivi alla base dell'arresto erano vari: entrambi furono trovati in possesso di una rivoltella e di alcuni appunti da destinarsi alla tipografia per l'annuncio del comizio a Brockton. 
Bartolomeo Vanzetti e Nicola Sacco

Pochi giorni dopo furono accusati di una rapina avvenuta in un sobborgo di Boston dove morirono il cassiere della ditta rapinata ed una guardia giurata. I due furono giustiziati per il tramite della sedia elettrica sette anni dopo. 50 anni dopo la morte di Sacco & Vanzetti, il governatore del Massachusetts riabiliterà i due anarchici italiani riconoscendo l'errore giudiziario, il voluto e cercato errore giudiziario.
Ed Andrea Salsedo?
Nei pochi istanti che precedettero l'urto sul suolo americano scoprì che gli anarchici non sanno volare.

Fabio Casalini

Bibliografia
Anna Bandettini, L'anarchico di Fo è tornato sulla scena, Repubblica, 2 dicembre 2002

Pino Casamassima, Un anarchico a New York, Focus Storia, 2015

Luigi Rusticucci, Tragedia e supplizio di Sacco e Vanzetti: Vicende giudiziarie desunte dall'istruttoria, Società Editrice Partenopea, Napoli, 1928

Howard Fast, Sacco e Vanzetti, Edizioni di Cultura Sociale, Roma, 1953

FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.



Il santo in altalena della Val Venosta

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Naturno, Naturns in tedesco, è un comune italiano della provincia di Bolzano in Trentino Alto Adige. Geograficamente fa parte della Val Venosta, amministrativamente invece del Burgraviato [zona attorno a Merano nonché il nome della comunità comprensoriale con capoluogo la stessa Merano. Il nome deriva dal Burggraf della Contea del Tirolo ovvero dal burgravio del conte tirolese. La forma italiana del comprensorio si deve all'adattamento fonetico del termine tedesco originario].
Naturno si trova in Alta Val Venosta, giusto alla fine della Val Senales. Dall'abitato parte una funivia che conduce al Monte Sole: da qui esiste una serie di percorsi che fanno scoprire le antiche Waal, vecchie rogge. Erano un antico sistema di irrigazione formato da canalette di assi in larice spesso posizionate tramite strumenti rudimentali accanto alle pareti.
Il toponimo è attestato come Nocturnis nel 1158, come Naturnes nel 1182 e come Naturns nel 1290.
Circa mezzo chilometro ad est del centro cittadino sorge un piccolo gioiello sconosciuto a molti: la chiesa dedicata a San Procolo.
Procolo fu il quarto vescovo di Verona, forse nominato nel 260. Nonostante il lunghissimo episcopato poco o nulla si sa di lui. Durante le persecuzioni di Diocleziano subì affronti ed ingiurie. Fu costretto ad abbandonare la sede vescovile. Ritornatovi, sarebbe morto poco dopo, forse nel 304.
Attigua alla Basilica di San Zeno, a Verona, sorge la Chiesa di San Procolo dove sono contenute le spoglie mortali del vescovo. Alcune reliquie si trovano nella cattedrale di Bergamo.
Il patrocinio di San Procolo si diffuse a Naturns a partire dalle terre longobarde dell'Italia Settentrionale. Numerose chiese furono dedicate a questo santo, soprattutto nel veronese.
Torniamo alla piccola chiesa di Naturns. Subito si percepisce che si tratta di una costruzione molto antica, ma pochi possono immaginare che al suo interno è custodito un ciclo di affreschi che entra di diritto tra i più importanti tesori artistici d'Europa. Scavi archeologici, eseguiti tra il 1985 ed il 1987, hanno accertato che la chiesa fu fondata sui resti di una casa altomedievale, distrutta da un incendio, databile, secondo i resoconti degli studi eseguiti, al primo quarto del VII secolo. L'edificio di culto fu fondato tra il 630 ed il 650. L'edificio consisteva in un'unica sala a pianta rettangolare ed era molto più basso di come appare oggi. L'unico ingresso era rivolto a sud con accanto una finestra con cornice lignea tuttora visibile. Gli studi hanno messo in luce un cimitero utilizzato durante la peste del XVII secolo.
L'opera artistica di maggior pregio è rappresentata dal ciclo di affreschi, conservato in ottime condizioni, che risale all'epoca carolingia [I Carolingi furono una stirpe di franchi che regnò in Europa dal 750 al 987. Le origini carolingie furono il risultato dell'unione di due potenti famiglie nobili d'Europa: i Pipinidi e gli Amolfingi. Dal matrimonio tra Begga, figlia di Pipino di Landen, e Ansegiso, figlio di Amolfo di Metz, nacque Pipino di Herstal, padre di Carlo Martello fondatore del casato carolingio]. Gli affreschi interni, deteriorati in alcuni punti, risalgono al periodo compreso tra il 770 ed l'anno 830. Furono scoperti casualmente nel 1912 sotto uno spesso manto d'intonaco e riportati alla luce, definitivamente, tra il 1923 ed il 1924.
Gli affreschi raffigurano scene della vita di San Procolo, con tratti arcaici e colori brillanti.
Il ciclo più interessante è quello rappresentato sulla parete destra della piccola costruzione religiosa. Tra due gruppi di personaggi spicca la rappresentazione di San Paolo che fugge da Damasco calandosi dalle mura o anche, secondo la tradizione locale, di San Procolo che fugge da Verona in circostanze analoghe. Il “santo in altalena” è rappresentato nel momento in cui viene calato dalle mura mediante una fune che passa dietro alle mani. Le mura della città, simboleggiate da un elemento ad U, sono immerse in uno spazio indefinito, dove non esiste confine tra cielo e terra. 
L'autore degli affreschi, che aveva a disposizione – probabilmente – scarsi riferimenti culturali e limitati mezzi tecnici, si posiziona lontano dalla tradizione classica della pittura anteriore e di quella romanica, conservando una straordinaria freschezza espressiva.
In questa zona alpina, tra Italia e Svizzera, sono concentrate la maggior parte delle rare pitture parietali carolingie d'Europa. Ne sono stupendi esempi la chiesa dedicata a San Benedetto, a Malles non lontano da Naturns, ed in Val Mustair, sul versante svizzero, il monastero di San Giovanni.

Fabio Casalini



Bibliografia & sitografia


Silvia Renhart, San Procolo di Naturno - storia dissepolta - archeologia, antropologia, storia degli uomini del medioevo e del periodo della peste, Tirolo, Museo provinciale di castel Tirolo, 1991


https://www.suedtirol-it.com/naturno/museo-procolo.html

FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.

La fucilazione del poeta andaluso

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“Il sole non era ancora sorto, c'erano appena 16 gradi e sei boia franchisti portavano le loro vittime su due auto verso la campagna. Quella su cui viaggiava Lorca era una Buick decapottabile rosso ciliegia”. Questo il resoconto dell'ultimo viaggio di Federico Garcia Lorca, artista cosmopolita ed omosessuale, giovane amante di Salvador Dalì. 
La sua poesia infiammava la passione libertaria in tutto il mondo. 
L'omicidio di Lorca fu come ammutolire lo spirito laico e rivoluzionario della Spagna. 
Come si giunse alla fucilazione di Federico Garcia Lorca?
Per comprendere l'orrendo crimine dobbiamo risalire la linea del tempo.
Federico Garcia Lorca nacque il 5 giugno del 1898 in una cittadina della provincia di Granada. Il padre era un ricco possidente terriero e la madre svolgeva l'attività di insegnante. La cagionevole salute della madre non le permetterà d'allattare il piccolo Federico; compito che sarà svolto da una balia. Il giovane Lorca trascorrerà un'infanzia felice dal punto di vista intellettuale ma fisicamente ricca di malattie. Nel 1909 la famiglia si trasferì a Granada. Lorca rimase profondamente coinvolto nell'attività dei circoli artistici locali, tanto da pubblicare la sua prima opera letteraria all'età di 19 anni. Lo stesso anno si trasferì a Madrid per frequentare la locale università. Nella città spagnola stringerà un fortissimo legale con Luis Bunuel, Salvador Dalì e Gregorio Martinez Sierra, direttore del Teatro Eslava. Seguendo gli inviti di Sierra, Lorca mise in scena, nel 1920, la sua opera d'esordio: il maleficio della farfalle, che non riscontrò la benevolenza del pubblico. Questi primi insuccessi non fermarono la determinazione del letterato. Nel giro di pochi anni Lorca riuscì a ribaltare i rovesci in successi pubblicando raccolte di poesie, divenendo così un membro di spicco della società artistica e letteraria del proprio paese. Malgrado il successo, nel 1929 Lorca cadde in una profonda depressione causata dai sensi di colpa per l'omosessualità che non riusciva più a nascondere a parenti ed amici. La famiglia, ignorando le cause dello stato mentale di Federico, organizzò un viaggio negli Stati Uniti mascherandolo dietro ad una borsa di studio. Il poeta spagnolo iniziò a frequentare la Columbia University e la città di New York. Questo soggiorno assunse un'importanza fondamentale nella produzione artistica di Lorca tanto da comporre quello che molti giudicano il suo capolavoro: Poeta en Nueva York. In quest'opera il letterato spagnolo analizza gli accesi contrasti tra i poveri ed i ricchi, tra gli emarginati e le classi dominanti, trovando connotazioni di razzismo nel comportamento di chi decide le sorti della società. Il viaggio negli Stati Uniti rafforzò in Garcia Lorca il convincimento che fosse necessario un mondo più equo e meno discriminante nei confronti dei deboli e dei poveri.

Il 5 marzo del 1930 Lorca partì per Cuba, dietro invito della Institucion hispanocubana de Cultura. Dopo un breve soggiorno a Cuba, il poeta rientrò in Spagna. Il ritorno nel paese natale coincise con la caduta della dittatura di Primo de Rivera ed il ristabilirsi della democrazia. Nel 1931 Garcia Lorca fu nominato direttore della compagnia Teatro Universitario la Barraca fondata dal Ministro dell'educazione. L'incarico affidato al poeta fu quello di portare in giro la propria produzione nelle aree rurali più remote del paese. Durante questo periodo non si limiterà a mettere in scena le proprie opere poiché decise di partecipare attivamente nella veste di attore. Fu un periodo molto florido dal punto di vista della produzione teatrale, tanto che Lorca scrisse le sue opere più note, denominate Trilogia rurale. Poco dopo lo scoppio della Guerra Civile, Lorca lasciò Madrid per Granada con la ferma intenzione di salvare il padre, rifiutando la possibilità di asilo offertagli da Colombia e Messico. Perché questi paesi offrirono asilo politico a Lorca? Erano preoccupati che il poeta potesse rimanere vittima di un attentato a causa del suo ruolo di funzionario della Repubblica. Nel frattempo rilasciò l'ultima intervista al giornale Sol di Madrid. Lorca ribadì l'intenzione di rifiutare le offerte di Colombia e Messico per restare nel proprio paese a combattere le posizioni di estremismo razionalistico tipiche della destra che, da li a poco, prenderà il potere in Spagna. Le parole utilizzate dal poeta furono le seguenti: "Io sono uno Spagnolo integrale e mi sarebbe impossibile vivere fuori dai miei limiti geografici; però odio chi è Spagnolo per essere Spagnolo e nient'altro, io sono fratello di tutti e trovo esecrando l'uomo che si sacrifica per una idea nazionalista, astratta, per il solo fatto di amare la propria Patria con la benda sugli occhi. Il Cinese buono lo sento più prossimo dello spagnolo malvagio. Canto la Spagna e la sento fino al midollo, ma prima viene che sono uomo del Mondo e fratello di tutti. Per questo non credo alla frontiera politica."
Il 16 agosto del 1936, il sindaco socialista di Granada, e cognato di Federico, venne fucilato. Lorca, che si era rifugiato a casa di un amico poeta, Luis Rosales Camacho, fu arrestano. Immediati e numerosi si levarono gli interventi a suo favore. Il governatore Guzman promise che Lorca sarebbe stato rimesso in libertà qualora “non ci fossero denunce contro di lui”. Guzman, con l'appoggio e l'aiuto del generale Queipo de Llano, diede segretamente l'ordine di procedere all'esecuzione del poeta. Garcia Lorca fu condotta a Viznar e all'alba del 19 agosto 1936 venne fucilato sulla strada vicino alla Fuente grande, lungo il cammino che da Viznar conduce a Granada. Il grande poeta fu gettato in una tomba senza nome. Il suo corpo non fu mai ritrovato. La pattuglia che procedette alla fucilazione era comandata da Mariano Moreno, di 53 anni, figlio di braccianti, considerato spietato ed insensibile. Moreno rispondeva direttamente al capitano Nestares, colui che promise una promozione ed un compenso una tantum per l'esecuzione del poeta. Tra i fucilieri anche il cugino di Garcia Lorca, Antonio Benavides, che premette il grilletto in cambio di 300 denari e l'avanzamento di grado. Tra i fucilieri solamente Juan Jimenz Cascales provò rimorso per l'assassinio di Lorca. Non avendo la scorza del boia, chiuse la propria vita accarezzando la follia.
La sua uccisione provocò grande sgomento a livello mondiale. La comunità intellettuale rispose con parole di grande sdegno, tra le quali spiccarono quelle dell'amico Pablo Neruda. 
Nel 2015 fu ritrovato un documento franchista del 9 luglio 1965 che indicava le motivazioni dell'uccisione. Secondo tale fonte, Garcia Lorca venne fucilato poiché era un “massone appartenente alla loggia Alhambra” e “praticava l'omosessualità e altre aberrazioni”.
Un particolare di quell'ultima alba deve essere ancora narrato: quando Lorca si accorse che lo stavano portando alla fucilazione, chiese più volte un prete. 
Forse per prendere tempo. Forse per confessarsi. 
Il fuoco di quei fucili interruppe la vita di un poeta straordinario. 

Fabio Casalini

Bibliografia
Paolo Caucci von Saucken, I Seis poemas galegos di Federico García Lorca, Benucci editore, Perugia 1977

Antonio López Alonso, La angustia de García Lorca, Madrid, Algaba, 2002

Paolo Pignata, voce Federico García Lorca in AA.VV., L'Enciclopedia, vol. 9, Roma, La Repubblica/UTET/De Agostini, 2003

Claudio Rendina, Nota biografica, in Federico García Lorca, Poesie (Libro de poemas), Roma, Newton Compton, 1970

Andrea Nicastro, L’ultimo viaggio di García Lorca, sei fucili per assassinare una star, Corriere della Sera, 20 giugno 2011

FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.




Geo Chávez, l'uomo che sfidò le Alpi

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Jorge Antonio Chávez Dartnell, conosciuto come Geo Chávez, nacque a Parigi, da genitori peruviani, il 13 giugno del 1887. Il padre era un facoltoso banchiere e la madre, Maria Rosa Dartnell, era emigrata in Francia nel 1884 a causa della guerra con il Cile. Il giovane Jorge decise di studiare ingegneria a Parigi, presso l’école Violet, diplomandosi nel 1909. Chávez ottenne il brevetto di pilota alla scuola di aviazione creata da Henri e Maurice Farman. Il giovane effettuò il primo volo agli inizi del febbraio del 1910. Nell’estate dello stesso anno il Touring Club Italiano, in collaborazione con il quotidiano Corriere della Sera, decise di proporre una sfida internazionale per compiere la trasvolata delle Alpi da parte di una macchina più pesante dell’aria. La competizione fu intitolata Gran Premio della traversata delle Alpi e prevedeva che i partecipanti percorressero la rotta partendo da Briga, cittadina svizzera appartenente al Canton Vallese, per arrivare a Milano, trasvolando il Passo del Sempione, Domodossola, Stresa e Varese. 
I partecipanti dovevano giungere a Milano entro 24 ore dalla partenza. Il premio in palio, 100000 lire, era da spartire tra i primi tre classificati. Chávez fu il primo ad iscriversi alla competizione. Nel frattempo la libellula peruviana, così venne soprannominato Chávez, superò il record mondiale di altitudine raggiungendo i 1643 metri. L’impresa avvenne nei cieli di Blackpool in Inghilterra. La giovane età e la predisposizione al volo vollero che poche settimane dopo l’evento inglese Chávez stabilì un nuovo primato mondiale di altezza, giungendo all’incredibile quota – per i tempi in cui viveva la libellula peruviana – di 2652 metri. La nuova avventura ebbe luogo nei cieli sopra Parigi, esattamente ad Issy. La trasvolata delle Alpi sembrava alla portata di Chávez e dell’aeroplano che utilizzava, un Blériot XI, velivolo noto per aver trasvolato il canale della Manica pochi mesi prima della nuova eroica impresa. Il Blériot XI era un monoplano monomotore progettato dal francese Saulnier. Con questo apparecchio il 25 luglio del 1909 Louis Blériot compì la prima traversata aerea della Manica. Interessante effettuare un salto a ritroso nel tempo per comprendere come avvenne quell’epica trasvolata. 
Il giornale Daily Mail mise in palio un premio per il primo uomo che avrebbe attraversato la Manica in aeroplano. La somma, ragguardevole, era di 1000 sterline. Nelle prime ore del 25 luglio del 1909, ancora prima dell’alba, Blériot verificò, con un piccolo giro intorno a Calais, che la macchina fosse in condizioni perfette. La marina francese venne avvertita per un eventuale recupero in mare. Alle ore 4 e 35 del mattino l’aereo decollò dirigendosi verso nord. Blériot volava senza bussole né cartine. Dieci minuti dopo il decollo il pilota non vedeva altro che il mare sotto di sé. Qualche minuto dopo riuscì ad avvistare la costa inglese e corresse la rotta del velivolo. Un giornalista francese che lo attendeva presso Dover sventolò una bandiera francese per indicare a Blériot dove atterrare. Purtroppo l’atterraggio non fu semplice. La brusca manovra mandò in frantumi sia il carrello che l’elica. Il pilota uscì indenne dal contatto con il suolo inglese. Blériot, dopo aver partecipato ad una cena ufficiale organizzata dal Daily Mail fu riportato a Parigi in trionfo. 
Dopo l’epica impresa del pilota francese e l’altrettanto importante primato di quota di Chávez, la libellula peruviana, sicura di poter passare indenne il Passo del Sempione posto poco oltre i 2000 metri di quota, si preparò per la trasvolata delle Alpi. Le cattive condizioni atmosferiche trovate in quota fecero fallire il primo tentativo, avvenuto il 19 settembre del 1910. Chávez narrò che l'ascensione fu tranquilla sino a circa 2200 metri quando incontrò forti turbolenze che fecero vibrare violentemente l'aereo. Finalmente il 23 settembre le condizioni atmosferiche migliorarono e la libellula peruviana partì per compiere l'impresa. Alcuni testimoni raccontarono che il velivolo incontrò forti correnti vorticose sopra i ghiacciai del Fletschhorn. Unico dei 5 partecipanti alla trasvolata, Chávez attraversò le gole di Gondo prima di scendere a Domodossola. Purtroppo l'avventura terminò tragicamente 45 minuti dopo il decollo: in fase di atterraggio, a circa 20 metri di altezza, l'aereo precipitò di punta per l'improvviso, ed imprevisto, cedimento della struttura alare. In un resoconto dell'incidente, di Luigi Barzini, leggiamo: “ad appena una ventina di metri da terra le ali cedono e si ripiegano sopra la carlinga come ali di una libellula”. 
Trasportato immediatamente all'ospedale San Biagio di Domodossola, il pilota peruviano morirà 4 giorni dopo in modo non del tutto chiaro poiché, apparentemente, al momento del ricovero non era in pericolo di vita. Secondo la testimonianza dell'aviatore peruviano Cavalié, le ultime parole di Chávez furono: “arriba, siempre arriba” ovvero “In alto, sempre più in alto”. Il tentativo di trasvolare le Alpi ebbe grande eco già prima dell'impresa, ma la fine del ragazzo peruviano procurò un'ondata di commozione. Chávez fu ricordato da Pascoli con un'ode a lui dedicata: “Cercano tra i venti randagi, in mezzo alle selvagge strette su scrosciar di valanghe e torrenti. Cercano ancore le ultime vedette rapide, trasvolando per le gole placide toreando sulle vette”. Il ragazzo fu ricordato anche dallo scrittore Vittorio Foà: “Mia madre mi raccontava sempre che il giorno in cui ero nato era morto un eroe. Il giorno della mia nascita era successa una cosa molto importante; per la prima volta un uomo aveva attraversato in volo le Alpi. Quell'uomo era Geo Chávez”.


Fabio Casalini

Bibliografia
Luciano Martini. Geo Chavez, il primo trasvolatore delle Alpi, Verbania, Tararà, 2003

Giovanni Caprara, Sulle orme di Geo Chavez, 100 anni dopo, in Corriere della Sera, 23 settembre 2010

Carlo Grande, Geo Chávez, dove osò la libellula, in La Stampa, 19 luglio 2010

Antonia Bordignon, 100 anni fa «l'uomo alato» Geo Chavez sorvolava le Alpi per la prima volta, in Il Sole 24 ORE, 23 settembre 2010

FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.

Tra le nubi ecco il lago Nero della Valle Formazza

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La valle Formazza occupa un posto speciale nel mio cuore.
Le sue montagne alte, imponenti, si stagliano nel cielo azzurro, la natura non lascia molto spazio all'uomo, giocando il ruolo della protagonista ad ogni angolo. Tutte le stagioni imprimono un segno nel nostro cuore, impressionano i nostri occhi con colori, rumori e profumi.
Ci sono escursioni per tutti i gusti, per tutte le gambe. Bisogna essere solo dotati di voglia di camminare e della giusta attrezzatura, per non farsi cogliere impreparati in caso di necessità.
La montagna, secondo il mio punto di vista, va vissuta con responsabilità, con rispetto, non cercando la conquista a tutti i costi, ma assaporando ad ogni passo il percorso che si è deciso di fare.
Così è come la vivo io, così è come la vivono i miei compagni di cammino quel giorno, in agosto, che abbiamo deciso di arrivare al Lago Nero della valle Formazza.
Si parte presto, ma non prestissimo. Arrivati a Riale, punto di partenza della nostra gita, l’aria è fresca, il cielo è azzurro. Attorno a noi, in un abbraccio verde, le alte cime della Formazza ci regalano una vista che ci riempie di entusiasmo. Iniziamo la salita fra risate e scherzi, ricordando le camminate di “gioventù”, quando di “gamba ne avevamo da vendere!”.
Dopo pochi passi la macchina fotografica fa la sua comparsa nelle nostre mani, come se mai prima di quel momento avessimo visto, al mattino presto, quelle verdi montagne, come se il lago davanti a noi fosse una sorpresa.  Giochi di luce e ombra rendono la nostra allegra ascesa, piacevole e frizzante.
La prima tappa è il Lago Kastel, a 2224 metri di altezza. La sua travagliata storia da mancata diga, è in secondo piano rispetto alla bellezza che ci regala: un lago carsico dal colore caraibico, silenziosamente adagiato ai piedi dell’imponente piramide del monte Kastelhorn, 3128 metri di roccia e ghiaccio (sempre meno), meta di ben allenati alpinisti. La salita la conosciamo molto bene, una passeggiata di qualche chilometro, non impegnativa, che ci permette, a diverse altezze, di ammirare il Lago di Morasco, da cui escono le acque della cascata della Toce (o Frua). Una sirena ci avvisa in anticipo dell’apertura delle chiuse, per consentire a chi è alla cascata di poterla vedere nel pieno del suo splendore. Fiori e farfalle adornano il sentiero, mentre “vecchie signore in pietra” ci salutano lungo il percorso, memoria storica di un tempo in cui le nostre valli alpine erano popolate e piene di vita.
Lungo il cammino conosciamo altre persone. Indicazioni, domande, chiacchiere.
È bello condividere la giornata con chi parla il nostro stesso linguaggio. Arriviamo al punto in cui il sentiero si divide: a destra si prosegue per il Kastel, a sinistra per il gradevole Rifugio Maria Luisa, di fronte per il Lago Toggia, un altro specchio d’acqua digato che si aggiunge ai numerosi presenti nelle nostre valli.
La piccola piana che si apre davanti a noi è densamente abitata dalle marmotte, che con il loro fischio, comunicano da una tana ad un’altra l’arrivo dei “soliti umani in gita”. La presenza degli escursionisti non le infastidisce più, come se il nostro girovagare le divertisse.  Fiori e farfalle rendono il paesaggio ancora più bello. Imbocchiamo il sentiero per il Kastel. Pochi minuti in salita prima di vedere il lago. Il colore delle sue acque gelide ci lascia sempre senza fiato. Il Kastelhorn gli fa da giusto contorno. La neve imbianca ancora una parte della sua vetta. Col binocolo vediamo due esperti scalatori che attaccano la sua cima. Emozionante pensare alla loro fatica, alla tenacia e alla voglia di arrivare lassù, per guardare la valle e i suoi specchi d’acqua da quel luogo che molti sognano e pochi conquistano.
Una piccola sosta prima di ripartire verso il Lago Nero. Scattiamo molte foto, la giornata è perfetta, fra sole e nubi che si alternano. Si riparte verso la nostra meta, con un nuovo pensiero per le nuvole nere cariche di pioggia che si addensano lentamente dietro alla montagna che dobbiamo risalire. Dal lago Kastel manca circa un’ora di strada, non impegnativa se non nell’ultimo tratto. Il sentiero costeggia la montagna, sotto di noi una parte della valle Formazza che spesso non viene vista. Riappare il lago di Morasco, che adesso si mostra con una veste color argento, a causa dell’addensarsi delle nuvole nel cielo. Affrettiamo il passo. Il tracciato è ben definito e per la maggior parte del tempo agevole. Incontriamo un grazioso piccolo alpeggio, probabilmente abbandonato. Spicca subito ai nostri occhi una fortificazione dietro la casa principale, per riparare l’abitazione delle valanghe invernali e un perfetto muro di protezione al limitare del precipizio, costruito quasi sicuramente per salvare il bestiame da un salto nel vuoto.
Corsi d’acqua spontanea scorrono sulla nostra strada, interrompendo il sentiero e permettendoci di dissetarci. La vegetazione si fa più rara, meno rigogliosa, fino all’arrivo in una piccola valle verdeggiante, incuneata fra le montagne, dopo alcuni chilometri in falso piano. Il verde davanti a noi è intenso, quasi sfacciato, spicca il giallo delle piante acquatiche presenti in grande quantità, in netta contrapposizione con l’avanzare delle nuvole nere che attorno a noi si addensano. Ci affettiamo, manca poco. Comincia la salita, ben segnata, per alcuni tratti un po’ impegnativa. Dietro di noi il cattivo tempo ci rincorre, come a volerci impedire di giungere alla meta. Siamo attrezzati anche per la pioggia, ma l’idea di arrivare e di non vedere il lago ci impensierisce. Saliamo ancora, decisi, sotto di noi la valle Formazza scompare. L’aria si fa sempre più pungente. Una cascata, qualche piccola pozza d’acqua, Eriofori scompigliati dal vento. L’ultimo tratto è tutto su pietrame. Ci siamo, ma le nubi ora avvolgono tutto. Eccolo li. Il Lago Nero, piccolo bacino a 2428 metri d’altezza, incastrato tra il monte Basodino e Corno Talli, tappa mancata a causa del tempo avverso.
Con questa giornata scura il lago sembra ancora più nero. Gocce. Piove, ma ormai ci siamo. Mangiamo fra risate e foto, conversando con altri escursionisti come noi, mentre un giovane camoscio ci osserva da lontano. Aspettiamo la discesa delle nuvole dal Corno Talli, per scatti ancora più spettacolari.  Fa freddo, ma ne è valsa la pena, la prossima volta lo vedremo col sole, torneremo. Il paesaggio è quasi magico. Non importa che sia arrivata la pioggia. Camminare fra quelle cime che ci hanno accompagnato silenziose è stato emozionante.

Rosella Reali


ROSELLA REALI
Sono nata nel marzo del 1971 a Domodossola, attualmente provincia del VCO. Mi piace viaggiare, adoro la natura e gli animali. L'Ossola è il solo posto che posso chiamare casa. Mi piace cucinare e leggere gialli. Solo solare, sorrido sempre e guardo il mondo con gli occhi curiosi tipici dei bambini. Adoro i vecchi film anni '50 e la bicicletta è parte di me, non me ne separo mai. Da grande aprirò un agriturismo dove coltiverò l'orto e alleverò animali. 
Chi mi aiuterà? Ovviamente gli altri viaggiatori.
Questa avventura con i viaggiatori ignoranti? Un viaggio che spero non finisca mai...







Il saluto romano che salvò Benito Mussolini

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Tra l'inizio del novembre 1925 e la fine dell'ottobre 1926, Benito Mussolini scampò a quattro attentati. Secondo molte voci questi eventi finalizzati ad uccidere il Duce erano ispirati da potenze straniere. Mussolini ne ricavò la certezza d'essere protetto da una buona stella. L'attentato che più mise in pericolo la vita dell'uomo nato a Predappio fu l'ultimo dei quattro, evento avvenuto a Bologna il 31 ottobre del 1926. L'accadimento della città emiliana destò profondo dolore per l'esecuzione sommaria dell'attentatore, un ragazzo che aveva da poco superato i 15 anni. Quel ragazzo si chiamava Anteo Zamboni. Secondo alcune ricostruzioni, l'attentato sarebbe stato, in questo caso, il risultato di una cospirazione maturata all'interno degli ambienti fascisti avversi alla normalizzazione inaugurata da Mussolini, contrario a ulteriori eccessi rivoluzionari e allo strapotere delle formazioni squadriste. Secondo tali ipotesi, il colpo di pistola non sarebbe provenuto da Anteo Zamboni, che sarebbe stato una vittima delle circostanze. Le indagini di polizia si svolsero inizialmente negli ambienti squadristi bolognesi, ipotizzando in un primo tempo un coinvolgimento di ras locali come Roberto Farinacci e Leandro Arpinati, ma non portarono ad alcun risultato. A quel punto si concluse che l'attentato non poteva che essere opera di un elemento isolato. Un'ulteriore indagine sollecitata dal Ministero dell'Interno fu svolta ancora dai magistrati del Tribunale Speciale ma anch'essa approdò alle medesime conclusioni conseguite dalla polizia.
L'attentato promosso da Anteo Zamboni, anche se molti dubbi ancora oggi avvolgono la figura del reale esecutore dell'evento, fu raccontato dallo stesso Mussolini con le seguenti parole: «degli attentati da me subiti, quello di Bologna non fu mai completamente chiarito. Certo che me la cavai per miracolo. L'esecutore, o presunto tale, fu invece linciato dalla folla. Con questo atto barbarico, che deprecai, l'Italia non dette certo prova di civiltà». Se molti dubbi permangono sulla figura dell'esecutore materiale dell'attentato di Bologna, nessuna ombra sulla figura che attentò alla vita di Mussolini il 7 aprile del 1926 a Roma. 
Cosa accadde quel giorno di primavera nelle vie della capitale?
Benito Mussolini aveva da poco lasciato il palazzo del Campidoglio, dove aveva inaugurato un congresso di chirurgia, quando una donna sparò un colpo di pistola al suo indirizzo. Il proiettile ferì di striscio al naso il capo del Governo. La donna con la pistola si chiamava Violet Gibson ed era figlia del Lord Cancelliere d'Irlanda. 
Prima di cercare di comprendere le motivazioni di tale gesto, cerchiamo di ricostruire la figura di Violet Gibson.
La donna nacque a Dublino nel 1876. Suo padre, Edward Gibson, era un importante avvocato e politico irlandese. Suo madre, Frances, era una scienziata dalla profonda fede cristiana. Edward Gibson fu nominato consigliere della regina nel 1872 e, tre anni dopo, divenne membro del Parlamento. Nel 1877 fu nominato procuratore generale d'Irlanda. Nel 1885 fu nominato Lord Cancelliere d'Irlanda. Nello stesso anno, dopo aver ricevuto l'importante carica, Gibson fu elevato alla nobiltà come Barone Ashbourne, di Ashbourne nella contea di Meath. Edward Gibson morì nel il 22 maggio 1913. Il politico irlandese fu sempre troppo indaffarato per dare affetto ai propri figli. La piccola Violet fu costantemente colpita dalle malattie, dalla peritonite alla pleurite, e dai lutti famigliari, dalla morte dell'amato fratello a quella del padre.
Questi eventi potrebbero aver contribuito a minare la salute fisica e psichica della giovane. Violet crebbe insoddisfatta, distaccata dai problemi che perturbavano la vita dei suoi coetanei. Questa sua insoddisfazione si trasformò in uno sfrenato interesse per i principi della Teosofia professati da Helena Blavatsky. Il termine Teosofia, unione delle parole greche Dio e Sapienza, indica diverse dottrine esoterico-filosofiche storicamente succedutesi dal XV al XXI secolo. Nell'ambito della Società Teosofica del XIX secolo, la teosofia si configurò essenzialmente come scienza esoterica. Helena Blavatsky definì la teosofia, nel suo testo La dottrina segreta, come “la saggezza accumulata nel corso delle ere, provata e verificata da generazioni di profeti”. I tre principi e scopi su cui si basò la Società Teosofica erano: formare un nucleo di fratellanza universale dell'umanità senza alcun tipo di distinzione, incoraggiare lo studio comparato delle religioni e delle scienze ed investigare le leggi inesplicate della natura e le capacità latenti dell'uomo. Nel 1902, forse nuovamente annoiata, Violet decise di convertirsi al cattolicesimo, religione ritenuta non adeguata alla sua classe sociale poiché la maggior parte delle famiglie abbienti del Regno Unito erano protestanti. Durante la Prima Guerra Mondiale viaggiò tra Italia e Svizzera avvicinandosi ai Gesuiti. Finita la guerra si impegnò attivamente all'interno dei movimenti pacifisti. Nel 1923 iniziò a dare segni di squilibrio quando inseguì per strada la cameriera con un coltello e, poche settimane dopo, cercò di uccidere un paziente in un ospedale. Dopo questi atti fu rinchiusa per sei mesi in un ospedale psichiatrico. All'interno della struttura i medici diagnosticarono che Violet Gibson era affetta da mania omicida. Dopo aver trascorso sei mesi all'interno dell'ospedale psichiatrico, fu trasferita in un convento di Roma. Nel 1925 tentò il suicidio. L'intenzione della donna era quella di morire per gloria di Dio.
Tra un inseguimento con il coltello ed un tentato suicidio, si giunse alla primavera del 1926 ed all'attentato a Benito Mussolini. Il capo del Governo era appena uscito dal Campidoglio, dove aveva inaugurato un congresso di chirurgia, quando Violet gli sparò un colpo di pistola, ferendolo di striscio al naso. Secondo lo scrittore Arrigo Petacco a salvare Mussolini sarebbe stato un saluto romano che porgeva nel momento dello sparo: tirando indietro il capo irrigidendosi, come sua abitudine nel saluto, avrebbe portato la testa fuori dalla traiettoria. La Gibson, sottratta ad un tentativo di linciaggio, fu condotta in Questura. Fu interrogata ma non rivelò la ragione dell'attentato. Alla polizia che l'accusava di far parte di un complotto internazionale, Violet dapprima rispose affermativamente prima di ritrattare tutto. Al giudice dichiarò che con il suo gesto intendeva liberare l'Italia dal fascismo e che aveva ricevuto messaggi da Dio per questa missione. Dopo diverse settimane di esami clinici, i medici la certificarono affetta da paranoia cronica. L'attentatrice, per volontà dello stesso Mussolini, fu assolta dal Tribunale Speciale per totale infermità di mente e successivamente espulsa dall'Italia verso l'Inghilterra, dove rimase per trent'anni ricoverata in una clinica psichiatrica prima di morire il 2 maggio del 1956.
Benito Mussolini come reagì all'attentato?
Il giorno dopo lo sparo irlandese, Mussolini compì un viaggio in Libia dove si mostrò, a Tripoli, con un vistoso cerotto sul naso. Forse fu in quella occasione che Claretta Petacci scrisse al capo del Governo una lettera di felicitazioni per lo scampato pericolo. La lettera colpì Mussolini, tanto da volerla conoscere. 
Anche Pio XI scrisse una lettera di congratulazioni per lo scampato pericolo, lo stesso Papa che tre giorni dopo la firma dei Patti Lateranensi, del 1929, parlerà di Mussolini come “un uomo come quello che la Provvidenza ci ha fatto incontrare”.

Fabio Casalini



Bibliografia
Frances Stonor Saunders, La donna che uccise Mussolini, Faber and Faber, Londra, 2010

Guido Leto, OVRA fascismo-antifascismo, Cappelli Editore, Bologna, 1951

Pablo Dell'Osa, Il tribunale speciale e la presidenza di Guido Cristini 1928-1932), Milano, Mursia, 2017

Arrigo Petacco, L'uomo della provvidenza: Mussolini, ascesa e caduta di un mito, Mondadori, 2004

FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.

I tredici minuti che non cambiarono la storia

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Gli attentati contro Hitler furono molto più numerosi di quelli organizzati contro Benito Mussolini. Malgrado la tendenza a sminuire la resistenza tedesca, si ricordano oltre 40 eventi diretti ad interrompere la vita di Hitler. Tra i libri che narrano queste circostanze mi piace ricordare Morire in piedidi Indro Montanelli, del 1949, e l'ultimo, in ordine di tempo, di Roger Moorhouse Uccidere Hitler. La storia di tutti gli attentati al Fuhrer, Killing Hitler nella versione originale. Tra tutti gli attentati quello maggiormente coinvolgente riguarda Johann Georg Elser, di professione falegname. Georg nacque nel Wurttemberg agli inizi del 1903. Frequentando la scuola elementare, gli insegnanti si accorsero che il bimbo era dotato nel disegno e nei lavori manuali. Il padre, commerciante di legname, si aspettava che il figlio gli succedesse nell'attività ma il ragazzo decise di perseguire autonomi interessi. Iniziò un apprendistato come operatore di tornio in una fonderia ma, dopo due anni, dovette desistere per motivi di salute. Decise di apprendere il mestiere del carpentiere, lavorando per diverso tempo come falegname d'interni. 
Dopo un breve periodo si occupò in una fabbrica di orologi a Costanza. Agli inizi degli anni trenta fece ritorno al paese d'origine per lavorare nell'impresa di famiglia. Dal 1936 lavorò in una fabbrica di montaggio, prendendo consapevolezza del programma di riarmo nazista. Elser iniziò a frequentare circoli socio-culturali. Nel tempo libero suonava la cetra ed il contrabbasso per il coro locale. Le varie esperienze lavorative lo convinsero che si dovesse aderire ad un sindacato. Nel 1926 entrò in un'organizzazione paramilitare del Partito Comunista Tedesco. Georg era un fiero oppositore del nazismo sin dai suoi esordi. Dopo il 1933 rifiutò di compiere il saluto nazista e di riunirsi ad altri per ascoltare i proclami radiofonici di Hitler. La sua iniziale opposizione era motivata dalla sensibilità verso la condizione operaia e la compressione dei salari dei lavoratori. Elser era disgustato dalla propaganda nazista e dal controllo che il regime imponeva sul sistema educativo e lavorativo. Non sopportava le limitazioni che i nazisti imponevano agli operai, soprattutto quella relativa al diritto di associarsi. Nell'autunno del 1938 l'Europa si trovò sull'orlo della guerra a causa della Crisi dei Sudeti. A placare, momentaneamente, le armi fu la Conferenza di Monaco, dove i capi di governo di Regno Unito, Francia, Germania ed Italia conclusero un accordo che portò all'annessione di vasti territori della Cecoslovacchia, la zona dei Sudeti, da parte dello stato tedesco. Occorre ricordare che nessun rappresentante della Cecoslovacchia fu invitato alle trattative. Dopo i patimenti della Grande Guerra, i tedeschi, ed Elser per primo, erano fortemente preoccupati per l'eventualità di un altro conflitto. 
L'artigiano non credeva alle parole di Hitler, soprattutto in relazione alle affermazioni di voler mantenere la pace. Nella sua mente si delineò il proposito di decapitare il nazionalsocialismo uccidendo il leader. Johann Georg Elser si recò a Monaco il giorno 8 di novembre del 1938. Il motivo del viaggio? Assistere al discorso che il regimo proponeva annualmente nell'anniversario del fallito Putsch di Monaco, ovvero il tentativo, fallito, di colpo di stato – Putsch in tedesco è l'equivalente di questo termine– organizzato ed attuato da Hitler tra il giorno 8 ed il 9 di novembre del 1923 in una birreria di Monaco di Baviera. Quel giorno Elser si convinse circa il luogo e la data del suo futuro attentato. Il luogo fu scelto poiché la rievocazione appariva accompagnata da misure di sicurezza piuttosto blande. Sul piano emotivo la concomitanza, 9 e 10 novembre, della Notte dei Cristalli con le atrocità perpetrate su inermi ebrei convinse Elser che Hitler avrebbe precipitato la Germania in una nuova disastrosa guerra. Il 1 settembre del 1939 scoppiò la Seconda guerra mondiale, evento che forniva una conferma alle previsioni dell'umile falegname. Tra il novembre del 1938 ed il settembre del 1939, Elser decise d'interrompere ogni relazione con amici e parenti ad eccezione di Johann Lumen, conosciuto nel 1938 all'interno della birreria di Monaco. 
Per riuscire nel suo intento, si fece assumere in una cava dove, poco alla volta per non destare sospetti, asportò la quantità di esplosivo necessaria a confezionare la bomba. In seguito inscenò un incidente per poter lasciare il lavoro e trasferirsi a Monaco, dove aveva ipotizzato di compiere l'attentato ad Hitler. Il luogo scelto dal falegname era la birreria dove ogni anno Hitler si ritrovava con i fedelissimi. Per molte sere, 35 notti tra ottobre e novembre del 1939, Elser si nascose nel locale prima della chiusura: quando la birreria chiudeva iniziava a lavorare; ricavò una nicchia nella colonna dove sarebbe stato allestito il palco di Adolf Hitler. Il giorno fatidico, Elser collocò nello spazio ricavato 50 kg di esplosivo con un meccanismo a tempo da lui costruito e sperimentato; calcolò che gli necessitavano 144 ore per attraversare il lago di Costanza e riparare in Svizzera, per cui il meccanismo a tempo avrebbe ruotato per quel numero di ore. All'ora esatta, le 21 e 20, la bomba esplose, facendo cadere il tetto sul palco. I morti furono 8 ed i feriti 62. Ma Hitler, ansioso di rientrare a Berlino per seguire le operazioni belliche in Francia o – secondo altre fonti – a causa del maltempo che gli impediva di tornare in aereo nella capitale tedesca, aveva anticipato il discorso ed era uscito dalla birreria 13 minuti prima dell'esplosione – secondo altre fonti i minuti furono 20. A causa delle coincidenze il tentativo di mutare il corso della storia fallì. Alle otto vittime dell'attentato furono concessi i funerali di stato. Elser fu arrestato da due doganieri mentre cercava di oltrepassare il confine con la Svizzera. Dopo una veloce perquisizione, i militari trovarono una cartolina della birreria di Monaco. Elser fu immediatamente trasferito a Monaco di Baviera dove fu interrogato dalla Gestapo. 
Vi erano diversi elementi, oltre la cartolina, che lo incastravano: le escoriazioni sulle ginocchia ed il fatto che alcune cameriere lo riconobbero come cliente abituale della birreria. Dopo un brutale pestaggio, Elser confessò di essere l'autore dell'attentato. Fu tradotto al quartier generale della Gestapo, dove il falegname fu torturato senza pietà. Himmler, capo delle SS, non si capacitava che un artigiano con la licenza elementare avesse agito da solo. Elser fu imprigionato nel campo di concentramento di Sachsenhausen e, successivamente, in quello di Dachau. L'artigiano fu sottoposto ad un regime di detenzione speciale, fatto che creò maldicenze tra i compagni di sventura, tanto che dopo la guerra uno degli internati, Martin Niemoller, sostenne che Elser facesse parte delle SS e che tutta la questione relativa all'attentato fosse una messinscena dei nazisti per propagandare la leggenda della Provvidenza che vegliava su Hitler. Nell'aprile del 1945, quando le truppe alleate si aggiravano in prossimità di Dachau, Hitler decise di sbarazzarsi del prigioniero speciale e diede l'ordine al capo della Gestapo di uccidere Elser. Georg venne fucilato il 9 aprile del 1945 a Dachau, poche settimane prima della fine della guerra.

Fabio Casalini


Bibliografia
L'attentatore solitario Georg Elser, l'uomo che voleva uccidere Hitler, di Hermut Ortner 

La carcassa color del cielo, di Solvejg Albeverio Manzoni 

Morire in piedi, di Indro Montanelli 

Uccidere Hitler. La storia di tutti gli attentati al Fuhrer, di Roger Moorhouse

FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.

La Vergine di Norimberga

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Il termine inglese fake news, notizie false in italiano, indica articoli redatti con informazioni inventate o distorte e resi pubblici con l’intento di disinformare o diffondere notizie fasulle attraverso i mezzi di comunicazione. Lo storico Marc Bloch, nel libro Le guerre e le false notizie, specificò che “una notizia falsa è solo apparentemente fortuita, o meglio, tutto ciò che vi è di fortuito è l’incidente iniziale che fa scattare l’immaginazione; ma questo procedimento avviene solo perché le immaginazioni sono già preparate e in silenzioso fermento”. Le informazioni false, o distorte, sono sempre esistite. Una di queste invenzioni, entrata prepotentemente nella cultura di massa, è la Vergine di Norimberga o Vergine di ferro. Si pensava fosse una macchina di tortura medievale a causa di una storia raccontata da Johann Philipp Siebenkees, filosofo tedesco vissuto nel XVIII secolo, il quale sosteneva che fosse stata utilizzata la prima volta nel 1515 a Norimberga. Il resoconto si basa sulla testimonianza di Gustav Freytag, contenuta nel Bilder aus der deutschen Vergangenheilt, che narra la pena inflitta ad un falsario che rimase all’interno della macchina di tortura per ben tre giorni. Le prime storie che citano la vergine di ferro, come strumento utilizzato per infliggere pene atroci, risalgono agli inizi del XIX secolo, pochi anni dopo la morte di Siebenkees. Come abbiamo visto, l'’utilizzo di quest’ipotetica macchina della tortura è un mito che risale al secolo precedente, il XVIII, diffuso con l'intento di rafforzare l’idea che le persone nel medioevo fossero incivili. 
A tutto oggi non esistono prove che tali terrificanti macchinari di morte siano stati inventati nel medioevo, neppure che siano stati utilizzati allo scopo di tortura. Tutto questo nonostante la loro presenza massiccia nella cultura di massa. Secondo Wolfgang Schild, professore di diritto penale e storie del diritto penale all’Università di Bielefeld, le presunte vergini di ferro nacquero riunendo reperti trovati nei vari musei. Lo scopo di tale operazione? Creare oggetti spettacolari destinati allo sfruttamento commerciale della loro esposizione. La vergine di ferro della fine del XVII secolo, periodo in cui visse il filosofo – presunto inventore dello strumento di morte – Siebenkees, potrebbe essere stata costruita in seguito all’errata interpretazione di uno Schandmantel, mantello o cappotto della vergogna, o Schandtonne, barile della vergogna, medievali. Questo strumento di tortura, noto anche con il nome di cappotto spagnolo, entrò in uso nel XIII secolo. Gli Schandmantel erano fatti di legno e rivestiti di lamiera. Le vittime erano costrette ad indossare questo dispositivo in pubblico, nelle vie e nelle piazze delle città. Quando i condannati a questa gogna passavano di fronte alla cittadinanza, erano insultati ed umiliati. 
I cittadini si divertivano a lanciare al loro indirizzo verdure marce. Lo Schandmantel era utilizzato principalmente come punizione per i bracconieri e le prostitute. Lo Schandtonne, il barile della vergogna, era appesantito lungo il bordo inferiore e attorno all’apertura del collo. Se l'ispirazione non giunse dal mantello – o barile – della vergogna, è possibile che l'inventore abbia attinto dalla tortura e successiva morte di Marco Atilio (o Attilio) Regolo? Le torture a cui Regolo fu sottoposto, taglio delle palpebre per l'abbacinamento e il rotolamento da una collina dentro una botte irta di chiodi, si ritiene fossero frutto della propaganda bellica romana – Seneca parlò di crocifissione come metodo di esecuzione – alimentando le già nutrite schiere di notizie storiche false. Eppure secondo la versione di Tertulliano e di Agostino d'Ippona, Sant'Agostino, Marco Attilio Regolo fu “fu stipato in una scatola di legno stretta, chiodata con unghie affilate su tutti i lati in modo che non potesse inclinarsi in nessuna direzione senza essere trafitto”. La versione di Agostino è riportata nell'importante scritto La Città di Dio
Risulta possibile che il filosofo tedesco abbia attinto a queste versioni per creare un oggetto fantasioso? Non lo possiamo sapere. Siamo però a conoscenza di un'altra possibile fonte di ispirazione, l'Apega di Nabis – noto anche come l'Apega di ferro. Tale strumento fu descritto da Polibio come un antico dispositivo di tortura, molto simile alla Vergine di Norimberga. Fu inventato da Nabis, re che governò Sparta come tiranno dal 207 al 192 avanti Cristo. Etienne Jean Monchablon, nel Dizionario compendiato di antichità, descrisse l'Apega come un automa inventato da Nabis di Sparta. Il Tiranno gli diede lo stesso nome della moglie poiché quella macchina ne rappresentava la figura e le rassomigliava perfettamente. Il Re se ne serviva per far morire crudelmente quelli che avevano la disgrazia di non piacergli. L'Apega era magnificamente vestita ed era assisa sopra una sedia, con le braccia ed il seno ripieno di punte di ferro che rimanevano nascoste sotto i vestimenti. Quando Nabis non otteneva ciò che desiderava, prendeva per mano la macchina infernale ed avanzava verso la persona che voleva uccidere. Appena giunti nei pressi del malcapitato, l'Apega lo abbracciava, lo stringeva accostandoselo al petto, e lo faceva perire trafitto da tutte le parti delle punte di cui disponeva. Monchablon utilizzò Polibio come fonte per la sua narrazione. Grazie alla ricerca storica, abbiamo compreso che esistevano diverse potenziali fonti d'ispirazione per il creatore della Vergine di Ferro. 
Secondo il folcloristico mito, come funzionava la macchina infernale di recente invenzione? La Vergine di Norimberga consiste in una specie di armadio metallico a misura d'uomo, di forma femminile, piena di aculei che penetravano la carne senza ledere gli organi vitali. In condannato, ipoteticamente, veniva fatto entrare in questa specie di sarcofago e, una volta che si chiudevano le ante, veniva trafitto dagli aculei in ogni zona del corpo. La morte sarebbe giunta lentamente tra atroci dolori. La Vergine ha un aspetto antropomorfo con volta da fanciulla, arricchito da una Gorgiera – colletto pieghettato che fece parte dell'abbigliamento aristocratico maschile e femminile dal XVI a XVII secolo. Il termine deriva dal francese gorge ovvero gola – in legno o metallo modellato affinché si potesse scorgere lo sguardo misericordioso della Madonna. Il corpo della macchina della morte è rigido e formato da una coppia di porte. Nel complesso misurava circa 2 metri per uno di larghezza. Come decorazione, molti aculei taglienti che avevano il compito di infilzare il condannato schivando gli organi vitali appena la doppia porta si richiudeva. In alcuni modelli della Vergine di Norimberga, era presente un lungo chiodo destinato ad infilzare il pene o la vagina dei condannati. Malgrado non esistano documenti storici che siano in grado di confermare l'utilizzo della Vergine di Ferro, il mito vuole che i chiodi avrebbero potuto tenere in vita la vittima anche per due o tre giorni in un perpetuo stato di agonia, sino a quando alla riapertura delle porte gli aculei non si sarebbero sfilati dilaniando le carni e provocando la morte per dissanguamento in pochissimi istanti. 
La Vergine di Norimberga fu esposta per la prima volta al pubblico agli inizi del XIX secolo ma andò perduta nel bombardamento alleato del 1945. Una copia fu venduta al conte di Shrewsbury nel 1890, insieme a molti altri strumenti di tortura, e venne esposta alla World's Columbian Exposition di Chicago del 1893. Agli inizi degli anni sessanta del secolo scorso questa copia fu battuta all'asta ed oggi si trova al Medieval Crime Museum di Rothenburg ob der Tauber. In quel museo, come in molti altri dedicati alla tortura, sono presenti oggetti di fantasia venduti per originali e veritieri. Molti di questi strumenti di morte spesso sono avvicinati alla Santa Inquisizione o all'Inquisizione medievale, creando confusione su quello che realmente avveniva all'interno dei tribunali ecclesiastici. Non serve creare oggetti stravaganti di tortura in riferimento all'Inquisizione, poiché le pratiche utilizzate dai solerti frati, o dagli amici tormentatori, ci ricordano quanto dolore hanno provato donne ed uomini per il solo fatto di allontanarsi dall'ortodossia.

Fabio Casalini


Bibliografia
Jürgen Scheffler. "Der Folterstuhl - Metamorphosen eines Museumsobjektes". Zeitenblicke. Retrieved January 25, 2006

Graf, Klaus (June 21, 2001), Mordgeschichten und Hexenerinnerungen - das boshafte Gedächtnis auf dem Dorf

Pomeroy, Sarah B. (2002p), "Elite Women, The Last Reformers: Apega and Nabis and Chaeron", Spartan Women, Oxford University Press US


FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.

Margherita, l'amore di Dolcino

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Muoio davanti ai tuoi occhi pieni di lacrime e fuoco, muoio straziata, ma non pentita.
Muoio oggi condannata da un tribunale ingiusto che si è allontanato dalla retta via, che non ha saputo comprendere la nostra resistenza, la forza che ci ha uniti tutti, manipolo di disperati con un’unica fede, quella in un Dio giusto e benevolo, capace di essere severo con i propri figli ma anche magnanimo.
Muoio per averti amato, fino all’ultimo giorno, per esserti stata accanto nella fuga, al freddo, calpestando una terra amica e nemica che non ci ha saputo accogliere e proteggere dall’avanzata dell’esercito.
Muoio perché mi hai conquistata, con le tue parole, con la tua forza, con il tuo animo puro e nostalgico.
Muoio per te, perché un giorno chi racconterà la nostra storia di resistenza, di sofferenza e di tenacia, parli di noi come coloro che non si sono piegati ai soldati di Avogadro, che hanno sconfitto la paura e la fame per lungo tempo.
Muoio per te Dolcino, perché hai saputo scuotere il mio animo sopito e ora resterò accanto a te nel tempo. Io, Margherita Boninsegna, sarò per sempre la donna che con te ha combattuto contro la dissolutezza della Chiesa di Roma.
Sono nata in un giorno qualunque, probabilmente nella seconda metà del XIII secolo. Il luogo non importa, forse Trento, forse Arco. La sola cosa che conta è la mia storia dopo l’incontro con te, Dolcino.
È il 1303. Dolcino è nella zona trentina, dove io vivo, in predicazione. Per caso il mio sguardo si incrocia col suo. Le sue parole ardenti conquistano il mio cuore. È a capo degli Apostolici, ordine fondato da Gherardo Segarelli, morto sul rogo qualche anno prima. Predica con ardore una vita di povertà, di rinuncia a qualsiasi bene terreno, alla casa stessa. Predica la santità, il distacco da tutto ciò che di materiale può distogliere gli uomini dalla vicinanza con Dio, come i primi apostoli. Predica con parole di fuoco contro la dissolutezza della Chiesa e degli ecclesiastici. Un uomo semplice, appassionato, dalla lunga barba incolta, dagli occhi profondi come le caverne in cui ci saremmo rifugiati in seguito.
Vestito in modo povero, con un ampio mantello scuro sulle spalle, quell’uomo venuto da lontano tuona ad una folla attonita che lo ascolta instupidita.
Io no. Le sue parole arrivano al mio cuore, mi scaldano, mi strappano dalla materialità a cui sono abituata e mi attraggono verso di lui. Un attimo e la decisione è presa. Lascio tutto, la mia famiglia, i miei beni, la mia comoda vita di provincia per calpestare nuove strade, senza meta, con il solo scopo di diffondere la parola degli Apostolici. Il cammino è lungo, spesso difficile. A noi si uniscono altri. Diventiamo il piccolo gregge di Dolcino.
Ma la Chiesa di Roma non vuole che il nostro pensiero si diffonda, che altri come noi si schierino contro la dissolutezza dell’apparato ecclesiastico, dei papi. Siamo fuorilegge, eretici, da cacciare, da perseguitare e condannare. Ci aspetta il rogo?
Ci spostiamo verso ovest, scatenando l’ira dell’Inquisizione, che si scaglia inesorabile contro la popolazione che ci offre cibo, riparo e aiuto. Ci vogliono isolare, ma la forza della nostra fede, l’ardore della predicazione di Dolcino conquista la folla, la gente comune come noi. Le sue parole ardenti sono come tizzoni accesi che riscaldano il freddo inverno delle montagne del nord.
Il tempo passa. Il nostro peregrinare ci porta nel 1304 sulle montagne del vercellese. La difficoltà del vivere quotidiano ci piega, ma non ci impedisce di armare il nostro braccio per difenderci da chi ci insegue. I vescovi di Novare e di Vercelli, l’Inquisizione, tutti vogliono le nostre teste, tutti ci voglio fermare.
Siamo braccati, come agnelli inseguiti dai lupi. Ci nascondiamo nei boschi, nelle caverne fra le montagne, là dove gli eserciti non possono arrivare. O almeno così pensiamo. I più deboli restano lungo la strada, fratelli e sorelle che saranno sempre nel nostro cuore.
Siamo affamati, armati solo di bastoni e della nostra fede.
Ci rifugiamo in una zona remota, Parete Calva, mentre l’astio dei vescovi si fa sempre più forte. Per stanarci e annientarci assoldano un gruppo di balestrieri genovesi e dei mercenari. Sentiamo il loro fiato sul collo, il loro odio avanzare lento lungo le pendici della montagna. Il buio della notte ci è amico. Ci spostiamo per sfuggire alla morte, per raccogliere le forze.
Occupiamo la Valsesia. La popolazione è divisa: chi è con noi ci aiuta come può, chi è contro di noi subisce razzie e furti. Abbiamo bisogno di sopravvivere.
Il nostro esercito di bastoni cresce. Il comportamento sconsiderato della milizia vescovile ci aiuta a raccogliere nuovi consensi. Tutti guardano a noi e alla nostra resistenza, anche il sommo Vate. È inverno. Un altro fra le montagne. Tante bocche da sfamare, il morale a terra, molti di noi si arrendono alla morte.
Il mio bene verso di lui non muta mai, lo seguo sempre, senza mai indietreggiare. La disperazione ci porta a Varallo, per raccogliere cibo e denaro. La morsa del ghiaccio ricopre tutto, donne e bambini sono i più deboli, altri morti dietro di noi.
Il 9 marzo 1306 lasciamo il rifugio di Parete Calva per andare verso le montagne del biellese. Lungo la strada perdiamo anche l’ultimo briciolo di umanità che albergava nei nostri cuori. Siamo come bestie, non più agnelli, ma a nostra volta lupi, affamati, arrabbiati, in lotta contro l’esercito e la popolazione che non ci accoglie più.
La rabbia ci mangia da dentro. L’ardore iniziale lascia il posto all’odio cieco, al desiderio di vendetta verso chi ci sta braccando da un tempo lungo. È guerra aperta. Saccheggiamo Trivero, poi i paesi vicini. La Chiesa risponde mettendo in campo nuove forze. Ci stabiliamo sul Monte Rubello. Facciamo di quel luogo la nostra casa, costruendo fortificazioni e ripari, gallerie sotterranee e pozzi. Anche le vette limitrofe diventano nostre roccaforti di difesa.
La lotta si fa sempre più aspra. Un nuovo cacciatore ha imbracciato le armi contro di noi.
È il vescovo di Vercelli, Raniero Avogadro. Da uomo di chiesa a guerrigliero il passo è breve: vuole essere lui personalmente a catturarci, a domare Dolcino e la sua agente. Sale a cavallo, guida le milizie contro di noi, con l’aiuto del papa, degli inquisitori lombardi, del duca e dell’arcivescovo di Milano. Sento la fine avvicinarsi. La neve ancora brilla sotto i nostri piedi, l’inverno combatte con noi al loro fianco.
I lupi messi alle strette reagiscono, combattono fino alla morte. Noi abbiamo fatto così. Un piccolo esercito affamato e stremato contro le milizie della Chiesa. La prima battaglia a Mosso è a nostro favore.
Schiacciamo le truppe del vescovo senza pietà. I bastoni battono le spade, lasciando a terra solo corpi insanguinati. Il tempo passa. Il vescovo non vuole mollare, arriva un altro inverno, inesorabile, rigido.
Gli uomini di Avogadro sono di nuovo organizzati, armati e ben nutriti. Noi siamo solo un branco di disperati.
Il 23 marzo 1307 veniamo catturati, insieme. La Chiesa ha vinto ancora. Ci portano nelle carceri vescovili di Biella. Ci dividono. Mentre lo trascinano via, Dolcino strepita, si dibatte, scalcia, come una bestia feroce, indomabile. Urla il mio nome. Lo guardo andare via, i miei occhi pieni di lacrime sanno cosa ci attende.
Lo guardo e ricordo ogni istante insieme. Ogni gioia, ogni dolore.
Quello che avviene dopo poco conta, i mesi che ci separano dalla morte sono solo lo specchio di un copione che l’Inquisizione e la Chiesa mettono in scena ogni volta che qualcuno è accusato di eresia.
La sentenza scontata ci condanna a morte. Di noi parlerà la storia. Per alcuni saremo un esempio, per altri solo un branco incontrollato di assassini.
Mi conducono al patibolo. Il boia è pronto, sulle rive del Cervo, a straziare il mio corpo. Il mio bene, Dolcino, mi aspetta, condannato a guardarmi morire, le mani legate dietro la schiena, piegato da mesi di carcere e torture. I nostri occhi si incontrano ancora, un’ultima volta, pieni di fuoco come quel primo giorno nel territorio di Trento. Anche io non sono più la stessa, le pene corporali mi hanno cambiata, ma il mio spirito è immutato. Possono prendersi la mia vita ma non la mia libertà, il mio cuore dolciniano.
Muoio oggi davanti ai tuoi occhi. Il fuoco è spento soffocato dal dolore.
Pochi giorni e saremo insieme, liberi di vagare sulle nostre montagne dove l’inverno non ci piegherà più.
I nostri corpi straziati bruceranno insieme a quelli di atri fratelli e sorelle, morti come noi in nome di Dio.

Rosella Reali

ROSELLA REALI
Sono nata nel marzo del 1971 a Domodossola, attualmente provincia del VCO. Mi piace viaggiare, adoro la natura e gli animali. L'Ossola è il solo posto che posso chiamare casa. Mi piace cucinare e leggere gialli. Solo solare, sorrido sempre e guardo il mondo con gli occhi curiosi tipici dei bambini. Adoro i vecchi film anni '50 e la bicicletta è parte di me, non me ne separo mai. Da grande aprirò un agriturismo dove coltiverò l'orto e alleverò animali. 
Chi mi aiuterà? Ovviamente gli altri viaggiatori.
Questa avventura con i viaggiatori ignoranti? Un viaggio che spero non finisca mai...



Il piroscafo Ortigia, la nave maledetta

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L'emigrazione italiana è un fenomeno su larga scala finalizzato all'espatrio che interessa la popolazione italiana. Dapprima riguardò il Settentrione e successivamente, dopo il 1880, anche il Mezzogiorno d'Italia. I fenomeni migratori possono essere suddivisi in tre distinti periodi: quello compreso tra l'Unità d'Italia e l'avvento del fascismo, quello – conosciuto come Migrazione Europea – avvenuto tra la fine della Seconda Guerra Mondiale e gli anni sessanta e la terza ondata migratoria destinata all'espatrio cominciata con l'inizio del XXI secolo – conosciuta come Nuova Emigrazione – causata dalle difficoltà che hanno avuto origine nella grande recessione che ha generato la crisi economica mondiale del 2007. Concentrando la nostra attenzione sull'emigrazione verso le Americhe, possiamo considerare come simbolica data d'inizio il 4 ottobre del 1852, data in cui venne fondata, a Genova, la Compagnia transatlantica di navigazione a vapore, il cui principale azionista era Vittorio Emanuele II di Savoia. Questa compagnia commissionò ai cantieri navali inglesi i grandi piroscafi gemelli Genova e Torino, varati nella primavera del 1856, che venero destinati al collegamento marittimo tra l'Italia e le Americhe. Purtroppo diversi furono i naufragi accaduti agli italiani che si trasferivano oltreoceano. Tra la fine dell'ottocento e gli inizi del novecento 5 disgrazie costarono la vita a migliaia di emigranti: nel 1880 avvenne il primo grave incidente del piroscafo Ortigia, nel 1891 affondò l'Utopia, nel 1898 il Bourgogne, nel 1906 il Sirio e nel 1927 il Principessa Mafalda. Degli ultimi due, il Sirio ed il Principessa Mafalda, ci siamo già occupati nelle pagine di questo blog, per cui l'attenzione di questo articolo è concentrata sulle molteplici disgrazie causate dal piroscafo Ortigia.
Il piroscafo fu varato a Livorno nel 1873 e da subito apparve un'imbarcazione complessa e pericolosa tanto che gli incidenti non tardarono a presentare il conto. Il primo disastro avvenne nell'autunno del 1880 quando il piroscafo Ortigia, in rotta da Genova per Livorno, affondò il piroscafo francese Oncle Joseph della compagnia Valery di Marsiglia, proveniente da Piombino e diretto a Genova. L'Oncle Joseph aveva a bordo 300 passeggeri che avrebbero dovuto trasbordare sulla nave postale Berlin in partenza per il Brasile. L'incidente tra le due imbarcazioni avvenne all'interno del Golfo di Spezia. Dei 300 passeggeri a bordo della nave francese solo 35 si salvarono, mentre dei 32 componenti l'equipaggio ben 23 ebbero salva la vita. L'Oncle Joseph in pochi minuti scivolò sul fondo del mare trascinando con sé oltre 200 persone. Il piroscafo Ortigia, dopo essersi accertato che non vi erano superstiti in mare, fece rotta verso Livorno per scaricare i naufraghi. Purtroppo l'incidente non rimase isolato. Nel 1885 l'Ortigia si scontrò con un'altra nave francese, la Martignan, causando la morte di 12 passeggeri. Nel 1890 un altro incredibile incidente, questa volta con una nave norvegese. I morti della sciagura furono cinque. Si giunge al 21 luglio del 1895. Il piroscafo Ortigia si scontrò, sulla rotta da Genova a Livorno, con la Maria P. all'incirca nello stesso punto in cui mandò a picco la nave francese Oncle Joseph. Lo scontro avvenne in una notte buia e la Maria P. Affondò in soli tre minuti, provocando la morte di 148 persone. A causa dell'oscurità, l'Ortigia riuscì a portare in salvo alcuni membri dell'equipaggio e 28 passeggeri del piroscafo francese solo alle prime luci dell'alba. Da quel momento l'Ortigia fu considerata una nave maledetta. Il Secolo XIX del 22 luglio titolava: “Tremenda catastrofe. 
Il piroscafo Maria P. investito dall'Ortigia è affondato in 3 minuti, centoquarantotto i morti”. L'articolo proseguiva nel seguente modo: "Ieri, dopo il mezzogiorno, l’Avvisatore Marittimo della nostra città, avvistava in lontananza un bastimento che appariva guasto e sconquassato nella prua, e ne dava tosto notizia alla Capitaneria di Porto. Più tardi giungeva vagamente notizia di una catastrofe accaduta nelle acque di Spezia di cui si ignorava ancora la portata e i particolari, e in un momento la notizia si diffondeva nella nostra città, apportando uno sgomento, un’ansia, un’impressione di dolore profondo che è più facile immaginare che descrivere. Pur troppo la notizia era vera e di una gravità eccezionale; spaventosa! Il disastro marittimo era avvenuto in prossimità di Spezia; e l’immane sciagura aveva mietuto un centinaio e mezzo di vittime. Il piroscafo investitore è l’Ortigia, il quale parecchi anni or sono – per una sinistra fatalità del destino – investiva in quelle stesse acque col piroscafo Oncle Jospeh. Il piroscafo investito dall’Ortigia è la Maria P. Prima di accingersi a narrare, col cuore profondamente commosso, e con l’animo straziato la tremenda collisione, facciamo precedere alcuni rapidi cenni sui due bastimenti che furono l’uno causa involontaria, l’altro vittima di una sciagura che a quest’ora fa spargere torrenti di lacrime a tante derelitte famiglie. L’Ortigia aveva lasciato Genova alle 21 diretto a Massaua con scali intermedi a Livorno, Napoli e Alessandria d’Egitto. Venti i passeggeri a bordo. La Maria P., piroscafo di 53 metri di lunghezza, costruito a Sunderland, Inghilterra, nel 1886, proveniva da Napoli con 173 passeggeri, 17 persone d’equipaggio, diretto, al comando di Prospero Mortola, a Genova. La maggior parte dei passeggeri avrebbe dovuto trasbordare sul Sud America, piroscafo diretto al Mar del Plata e su una nave francese diretta nel Nord America. Alle 21 il timoniere del Maria P. scorge un fanale in rotta di collisione. Avvisato il secondo ufficiale, questi non dà nessun comando particolare. Il fanale si avvicinava rapidamente. La velocità dell’Ortigia era in effetti doppia rispetto alla Maria P. Quando il secondo ufficiale si accorge che la distanza del fanale è molto prossima alla sua prua dà l’improvviso ordine di “poggiare”, manovra che si esegue facendo virare la nave a sinistra. Se la medesima manovra l’avesse eseguita anche l’altro vascello sarebbero sfilati bordo contro bordo senza che nulla accadesse. Ma la distanza al momento della manovra era troppo breve. La Maria P. aveva il suo fianco completamente esposto alla prua dell’Ortigia che stazzava il doppio. Le lamiere della Maria P. si stracciarono sotto l’urto e la prua della nave investitrice si infilò per circa sei metri nella fiancata all’altezza del fumaiolo. Una parte della struttura di coperta cadde sul ponte; le sartie dell’albero vennero strappate. Chi era in coperta fu scaraventato in acqua. I passeggeri neppure si accorsero di quanto accadde perché l’acqua invase la nave che, sbandando, si infilò sott’acqua. L’Ortigia fece immediatamente macchina indietro ed abbandonò al suo destino la Maria P. che gorgogliando scomparve. Dal piroscafo genovese furono lanciati i salvagente e messe in acque le scialuppe. Da bordo furono accese tutte le lampade a petrolio che illuminarono una scena spettrale. Rottami di ogni genere galleggiavano sul mare calmo e scuro. Borgotti Giuseppe, un fuochista del Maria P. fu uno di quelli sbalzati violentemente in acqua. Riuscì ad afferrare una bimba di due anni, Emilia Balena, che depose su un legno galleggiante. Con grande sforzo riuscì a trarla a bordo dell’Ortigia ma la bimba non sopravvisse. I genitori, per la prontezza del padre Emilio, si salvarono. Poiché soffriva di mal di mare si stava recando sul ponte al momento dell’incidente. Prese di corsa i figli di 3 anni, 18 mesi e trenta giorni e seguito dalla moglie Matilde salì sul ponte da dove venne scaraventato in mare. Furono raccolti molte oro dopo e solo allora scoprirono che la loro piccola figlia aveva perduto la vita. Molti di coloro che erano in mare annegarono a loro volta. Alle 7 della mattina, terminate le operazioni di salvataggio, sul ponte dell’Ortigia si contavano solo 42 sopravvissuti tra i passeggeri, 14 tra l’equipaggio. Il piroscafo volse la prua verso Genova dove attraccò al ponte Federico Guglielmo alle 11.30”.
La nave maledetta fu riacquistata dalla Navigazione Italia. Il nome fu prontamente modificato in Adria. Tra guerre ed incidenti, ritroviamo l'Ortigia – con il nuovo nome – requisita dalla Marina Militare nel 1915. Tre anni dopo termina la sua incredibile vita a causa di un siluro tedesco nel Canale di Sicilia.

Fabio Casalini


Sitografia

www.marenostrumrapallo.it

www.antoniorandazzo.it

www.gabrielepetrone.it

FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.


Messalina, la star della cronaca "rosa antico"

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E’ la Cicciolina del mondo antico, o forse è il caso di chiamarla la Moana Pozzi del potere imperiale, volendo preservare, ma solo per delicatezza, Ilona Staller, visto che, negli ultimissimi tempi, dalla manna è passata alla mannaia governativa gialloverde, mannaggia! Magari è il caso di spogliare la metafora hot e di presentarla solo nel suo nome, forse è meglio! Giovane e dal cor inquietum, Messalina non amava molto la vita di corte, preferendo, piuttosto, un’esistenza eterodossa, se non anticonformista. Di lei si si narrano tuttora le storie più pruriginose: che avesse raggirato il marito con storie clandestine, che avesse avuto relazioni incestuose con i fratelli, che si prostituisse nottetempo nei postriboli sotto il falso nome di Licisca, dove pare si offrisse facilmente a marinai o gladiatori con tutta tranquillità. Di lei si diceva che, mascherata da meretrix, si concedesse addirittura nell’infimo quartiere della Suburra, uno dei più malfamati dell’Urbe, su luridi pagliericci rivestiti di rozze coperte, che sicuramente non avevano nulla da spartire con le alcove patrizie cui era, del resto, abituata tra le mani di buoni fattori, senza ombra di dubbio! Secondo il racconto di Plinio il Vecchio (10,172), una volta sfidò in gara la più celebre prostituta dell’epoca, una tal Lupa, forse, aggiudicandosi un guinness da primati, 25 concubitus (rapporti) in 24 ore, perbacco! Invicta, nei gossip di allora, mentre i paparazzi di quei tempi (sicuramente c’erano!), facevano passaparola del suo nome in lungo ed in largo. Tutta questa emancipazione andava a nozze con un’astuzia di fondo: quando Caligola salì al trono, era già la Sophia Loren della Roma bene. 
Per la cronaca, comunque, sarà Claudio, un uomo, tra l’altro, più anziano di lei di trent’anni, a subire il suo fascino, degno dell’incanto di una famelica Circe; lei, la gran dama del sex appeal non ebbe difficoltà ad averlo ai suoi piedi. Altro che velina! Sciolse i veli del potere finché poté. Ancora: lei aveva ogni cosa al posto giusto, lui, al contrario, lo zimbello di ogni letteratura domestica: balbuziente, zoppo, e per giunta, minorato, stando alle notizie senecane. Nelle questioni di governo ebbe parola su tutto: insieme al marito fece uccidere gli assassini di Caligola, esiliò Seneca in Corsica, bandì Giulia Livilla (sorella minore di Caligola nonché amante di Seneca) a Ventotene, dove fu uccisa, e fece rimpatriare Agrippina minore, sua zia. Maria la sanguinaria le avrebbe fatto un baffo, pardon, un baffetto, perché era già usa alla depilazione! Insomma, un’incarnazione dell’ira giunonica nei panni di una Venere umana, ad esaminare attentamente questo singolare personaggio. Una precisazione: se sapeva essere molto generosa e munificente con gli uomini che accondiscendevano ai suoi capricci, era anche pronta a far fuori con facilità quanti non vi si prestavano. Non fu il caso dell’attore Mnestere, che cedette alle richieste della satanassa, pur di salvare la pelle: così non fu, invece, per Appio Silano, scaraventato dalla Rupe Tarpea per averla rifiutata. La fedifraga passò, per concludere, a Gaio Silio, marito di Giulia Silana: questa volta, però, qualcosa andò storto. Informato senza indugio dal liberto Narciso, Claudio statuì all’istante la morte dei due amanti. Due statue di pietra, entrambi, di fronte al verdetto di morte: c’era da immaginarselo! Mentre l’amante non oppose resistenza (se mai richiese una morte subitanea per potersi sollevare), Messalina si rifugiò negli “Horti Lucullani”, dove fu uccisa da un tribuno inviato, per l’appunto, da un liberto. 
Ecco un reporter di allora, Tacito, che negli Annales XI, 37-38, ne traccia minuto per minuto la sua inesorabile fine: “Il liberto Evodo ebbe l’incarico di vigilare. Costui, precipitatosi negli orti, la trovò stesa a terra, con accanto la madre Lepida che, in disaccordo con la figlia quand’era al colmo della fortuna, si era lasciata vincere dalla compassione per le sue estreme difficoltà, e cercava di persuaderla a non aspettare il carnefice. La vita era passata e non le restava altro che cercare una morte dignitosa. Ma nessun senso dell’onore c’era più in quell’animo corrotto dai piaceri: portava in lungo inutili pianti e lamenti, quando le porte vennero spalancate di colpo dai sopravvenuti e nel silenzio apparve il tribuno, mentre il liberto inveiva con molte ingiurie volgari. Allora per la prima volta Messalina intravvide la sua sorte; prese la spada e la avvicinò invano, tremando, alla gola e al petto, finché fu trafitta dal colpo del tribuno. Il corpo fu concesso alla madre. A Claudio mentre banchettava fu annunciato che Messalina era morta, senza precisare se di mano propria o altrui. Claudio non fece domande, chiese una coppa e continuò il banchetto come di consueto”. L’episodio si chiude, prosasticamente, con l’immobile indifferenza dell’imperatore di fronte alla notizia, un atteggiamento sottolineato in modo da render palese l’idiosincrasia del cronista per il primo cittadino di Roma: liricamente, per fare un confronto poetico, mi sovviene Montale con i suoi Ossi di Seppia, benché qui chi ci abbia rimesso l’osso del collo sia stata una Perla di ostrica e non una cozza qualunque. Roba da umorismo nero tacitiano, così mi immagino la sua reazione e non credo di essere fuori pista! Chi avrebbe detto, infine, che soppressa una Star come lei, proprio lui finì ucciso da un bel brodo di funghi velenosi, apparecchiato dall’ultima delle sue mogli, Agrippina, l’unica che, sfregiando la vita del consorte, si fregiò, da sola, del titolo di Augusta nella storia al femminile. 



Francesco Polopoli

Bibliografia
Fabrizio Dentice, Messalina, Milano, 1991

Marisa Ranieri Panetta, Messalina e la Roma imperiale dei suoi tempi, Milano, 2016

Nunzio Casanova, Messalina: romanzo dell’epoca imperiale, Firenze, 1902

Fonti
Tacito, Annales XI, 37-38 

Giovenale, Satire, VI, vv.114-132 

Letture romanzate
Marcello Camici, Messalina puttana imperiale. La figlia di Iside. S.l., Edizioni Book Sprint, 2018.

Sitografia: https://it.wikipedia.org/wiki/Valeria_Messalina

FRANCESCO POLOPOLI
Nato nel 1973, filologo, esperto di filologia neotestamentaria e divulgatore gioachimita. Ha partecipato a Convegni di italianistica, in qualità di relatore, sia in Europa (Budapest) che in Italia (Cattolica di Milano). Attualmente risiede a Lamezia Terme e da articolista si prende cura dell’antico non solo tramite le testate on line della propria cittadella natale ma anche attraverso Orizzonte Scuola e Tecnica della Scuola, diffondendo in comunità virtuali sempre più condivise i propri contributi. Attualmente è docente di latino e greco presso il Liceo Classico di San Giovanni in Fiore e Membro del Centro internazionale di studi gioachimiti. Ultimo è il volume Vitamina classica. Approccio semiserio alla cultura dell’antico.

Sonderkommando, al servizio della morte

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Sonderkommando. Una delle tante parole che hanno fatto parte del secondo conflitto mondiale, la grande guerra teatro del massacro di milioni di persone ammassate nei campi di concentramento e stermino.
Ma chi era il Sonderkommando? Era una unità, composta da prigionieri, per la maggior parte di origine ebraica, costretti a collaborare alla attività del campo in cui erano internati, spalla a spalla con i soldati tedeschi.
Le parole di Primo Levi, nel suo libro Se questo è un uomo, secondo me, spiegano perfettamente l’essenza del Sonderkommando: «Aver concepito ed organizzato i Sonderkommandos è stato il delitto più demoniaco del nazionalsocialismo. [...] Attraverso questa istituzione, si tentava di spostare su altri, e precisamente sulle vittime, il peso della colpa, tal ché, a loro sollievo, non rimanesse neppure la consapevolezza di essere innocenti.»
L’attività principale che svolgevano era quella di assistere al processo di sterminio delle camere a gas, con il compito successivo di liberarle a procedimento ultimato, smaltendo i cadaveri nei forni crematori o nelle fosse crematorie, che bruciavano ininterrottamente 24 ore su 24. Erano i veri testimoni del genocidio, silenziosi spettatori della fine che faceva la fiumana di gente disperata che quasi ogni giorno arrivava stipata su treni freddi e maleodoranti, con la promessa che avrebbero lavorato, dando il loro contributo forzato allo sforzo bellico.
Operarono in diversi campi: Auschwitz, con i suoi sottocampi, Sobibór, Treblinka, Majdanek e Bełżec.  Venivano scelti all’arrivo ai campi, fra i giovani più robusti e atletici, fra coloro che a prima vista avevano meglio sopportato l’estenuante viaggio, vista la pesantezza delle mansioni a cui erano destinati. Godevano di alcuni privilegi, se così possono essere considerati, rispetto al resto dei prigionieri, per mantenerli in forza.
Occupavano una parte speciale del campo, separata dal resto delle baracche, avevano una razione giornaliera di cibo più abbondante, ma comunque insufficiente, vestiti migliori e qualche volta alcolici. Sopportavano turni massacranti, che dipendevano dalla frequenza di arrivo dei treni carichi di deportati. Potevano restare in servizio anche un giorno intero, fino a che le guardie non davano loro il cambio.
La loro attività era a tempo “determinato”, essendo testimoni dello stermino di massa che avveniva nelle camere a gas: periodicamente, dopo circa 3 mesi, ma non era una regola fissa, l’unità intera, circa 20/25 membri, veniva sterminata, gettata nei forni e sostituita. Non dovevano trapelare notizie, non dovevano sopravvivere testimoni. Nessuno avrebbe dovuto raccontare cosa in realtà accadeva nelle camere a gas, di come la maggior parte dei deportati fossero immediatamente destinati alla morte e poi ai forni, selezionati fra un fiume di gente terrorizzata perché ritenuti inutili.  
Nel solo campo di Auschwitz, durante il periodo di operatività, si susseguirono 12 diversi sonderkommando. Ogni vola che si concludeva una aktion, cioè uno sterminio di un diverso gruppo nazionale, l’unità veniva terminata.
Chi veniva selezionato per il Sonderkommando non aveva possibilità di scelta e non era avvisato prima del compito che avrebbe svolto. Chiunque si fosse rifiutato di ricoprire quel ruolo, sarebbe stato immediatamente fucilato e sostituito.
Rispetto ai lavori svolti dai prigionieri comuni, il sonderkommando ricopriva incarichi particolari all’interno del campo: il loro compito principale consisteva, come già detto, nella pulizia delle camere a gas dopo i trattamenti.
Già questo sarebbe stato sufficiente per annullare la mente di qualsiasi essere umano, ma in realtà questi uomini erano costretti a sopportare ben altro. Prima di leggere alcune testimonianze di membri di sonderkommando sopravvissuti miracolosamente alle marce della morte, mimetizzati fra i prigionieri comuni, non mi ero mai soffermata a pensare a quanta sofferenza si trovassero di fronte ogni volta che le porte stagne delle camere a gas venivano riaperte.
Il processo di eliminazione li coinvolgeva direttamente. Erano costretti a portare un peso più grande della consapevolezza della morte che li attendeva. Erano complici, collaboratori, disprezzabili e testimoni scomodi. Una volta selezionate all’arrivo delle stazioni, le persone destinate alle “docce”, erano condotte in fila verso un’area distaccata del campo. Qui il sonderkommando, seguendo le istruzioni dei soldati, li conduceva in ordine verso gli spogliatoi, cercando di mantenere un’aria rassicurante e usando parole che non inducessero sospetti o reazioni di resistenza, che avrebbero rallentato il processo di sterminio. Se avessero parlato, o lasciato capire qualcosa, sarebbero stati fucilati immediatamente. Una volta entrati, i prigionieri dovevano lasciare a terra tutto ciò che indossavano, effetti personali compresi. Chi non era in grado di svestirsi da solo, era aiutato dal sonderkommando in turno, che aveva l’incarico di favorire le operazioni e di evitare qualsiasi intralcio. Uomini e donne insieme, giovani e vecchi, bambini, mostravano con pudore la loro nudità, piangendo e sperando che quella fosse l’ultima umiliazione.
Da lì erano condotti per un corridoio alle camere a gas, dove entravano ignari del loro destino. Le porte a tenuta stagna erano chiuse dal sonderkommando. Il gas, monossido di carbonio durante una prima fase di sperimentazione, Zyklon B nella fase successiva, svolgeva la sua opera di distruzione, lasciando a terra corpi contorti e ammassati. All’apertura era compito del sonderkommando ripulire: vomito, feci, lacrime, sangue, urine. Il pavimento, scivoloso, era coperto dei fluidi della morte.
Con l’introduzione del Zyklon B il lavoro si era parecchio complicato. Gli effetti del gas erano devastanti. I cadaveri si presentavano irrigiditi, la pelle viscida e squamosa si spaccava appena il corpo veniva afferrato per essere portato verso i carretti utilizzati per il trasporto ai forni. A volte era necessario trascinarli con cinture e bastoni, per evitare un ulteriore scempio dei resti umani. La morte era lenta e violenta, 15 interminabili minuti di agonia, dopo i quali sopraggiungeva l’anossia e il decesso.
Gli uomini del sonderkommando non potevano avere esitazioni o tentennamenti, nessuna commozione, nessuna debolezza. Dovevano svolgere il proprio lavoro indifferenti, efficienti. Se non lo avessero fatto, il capo turno li avrebbe massacrati a bastonate, con la pala, con ciò che trovava. Bastava nulla per morire, il valore della loro vita era come quello degli altri prigionieri, pari a zero.
Prima di essere “cremati” i corpi dovevano essere ulteriormente ripuliti dagli uomini dell’unità di ciò che poteva essere riutilizzato: le teste di donne e bambine dovevano essere rasate, i capelli accuratamente imballati e inviati in Germania per l’utilizzo nell’industria, i denti d’oro estratti, spesso dopo la rottura delle mandibole irrigidite dal rigor mortis. La fase successiva consisteva nel trasporto verso i crematori, dove in ciascun forno il sonderkommando doveva stipare più corpi. Quando i forni erano imballati, i carretti erano condotti verso le fosse crematorie, tra fango e liquami.
Il processo di eliminazione dei cadaveri si concludeva con la raccolta delle ceneri e con la successiva dispersione nei corsi d’acqua o nei boschi, in modo che nessuna traccia di quanto era accaduto fosse eventualmente rinvenuta.
Durante l’ultima fase della guerra, con l’avvicinarsi della fine del conflitto, i sonderkommandos furono incaricati di cancellare le tracce dello sterminio di massa che era stato messo in atto. Fu compito loro distruggere i forni, demolire i fabbricati, sistemare i terreni, dissotterrare i cadaveri seppelliti e non ancora cremati, distruggere i documenti inerenti il genocidio.
All’interno dei campi gli uomini del sonderkommando, a causa dei privilegi di cui godevano, erano invisi agli altri internati.  Facevano parte di una categoria separata. Si organizzarono anche per cercare di resistere e di evadere dall’orrore quotidiano a cui erano sottoposti. Dove fu possibile alcuni di loro scrissero diari in cui raccontavano giornalmente la loro esperienza e quanto avveniva nelle camere a gas, preziosi scritti che furono chiusi in contenitori metallici e seppelliti vicino ai forni. Dopo la fine della guerra, alcuni di questi manoscritti furono ritrovati, anche dopo molti decenni, e stampati. Altre testimonianze furono rese direttamente dai sopravvissuti, che diventarono un prezioso grido di accusa durante processi e caccie ai fuggitivi nazisti.
Anche durante il conflitto la loro azione fu sempre attiva, proprio per portare alla luce quanto stava accadendo. A rischio della vita, in momenti successivi, i sonderkommandos fecero arrivare alla resistenza, soprattutto polacca, prove fotografiche e scritti sottratti ai tedeschi. In molti casi però il materiale che arrivò nelle mani degli alleati fu ignorato o sminuito.
Quando fu possibile, organizzarono operazioni di sabotaggio, al fine di rallentare il processo di sterminio.
A Sobibór riuscirono a dar vita a una rivolta. Il 14 ottobre 1943, un gruppo di uomini del sonderkommando, con a capo un ufficiale russo,  Aleksandr Pečerskij, riuscirono ad uccidere 11 guardie delle SS e alcune guardie ucraine. Scoperti, i prigionieri iniziarono a fuggire, non rispettando i piani stabiliti. In 600 riuscirono a conquistare la libertà, ma stanchi e denutriti, furono ripresi quasi tutti per essere fucilati nel campo nei giorni seguenti. Soltanto 50 di loro sopravvissero alla fine della guerra. Dopo questo episodio, il Reich decise lo smantellamento del campo, che fu demolito in modo sistematico e minuzioso. Al suo posto, per cancellare ogni traccia, furono piantati centinaia di alberi.
Una seconda rivolta dei sonderkommandos avvenne ad Auschwitz, il 7 ottobre 1944, pochi mesi prima dell’ingresso delle truppe alleate al campo.
Di questo episodio ho potuto leggere una testimonianza diretta, grazie al libro di Shlomo Venezia, membro dell’unità addetto al crematorio 4, sopravvissuto al conflitto. La rivolta si risolse in un bagno di sangue e con la distruzione di un forno, grazie all’esplosivo che i ribelli avevano ottenuto da alcune civili impiegate presso le fabbriche belliche.
I rivoltosi furono tutti uccisi, a mani nude, massacrati, o fucilati. Alcune collaboratrici furono individuate, dopo pochi giorni di indagini: 4 donne polacche, Ròza Robota, Ella Garner, Estera Wajcblum e Regina Safirsztaj, furono impiccate il 6 gennaio 1945.
Come si sia arrivati a concepire uno “strumento” come il sonderkommando non riesco a capirlo. Se penso all’intero meccanismo di eliminazione degli indesiderati messo in atto dal nazismo, non posso far altro che considerare l’unità come un giusto corollario di un piano malato, malvagio. Il materiale fotografico a nostra disposizione non è molto, per ovvi motivi. Il sonderkommando era un fantasma, che si aggirava nel campo e come tale primo o poi si sarebbe dissolto nel fumo, nel vento. Erano isolati, per non poter raccontare la morte, per non far capire a chi sopravviveva agli stenti, agli esperimenti, che quei camini alti, da cui usciva giorno e notte fumo bianco, diffondendo un odore acre di carne bruciata, sarebbero stati la sola via di fuga della maggior parte dei prigionieri.
Tocca a noi oggi raccontare e ricordare, raccogliere dai testimoni la loro pesante eredità di dolore e distruzione per tramandarla alle generazioni future, per non commettere gli stessi errori, per non consegnare la nostra vita all’orrore di quei giorni.


… Ad Auschwitz tante persone, ma un solo grande silenzio. È strano, non riesco ancora a sorridere qui nel vento.

Io chiedo, come può un uomo uccidere un suo fratello. Eppure siamo a milioni in polvere qui nel vento….


Rosella Reali

Bibliografia 
Shlomo Venezia - Sonderkommando Auschwitz. La verità sulle camere a gas. Una testimonianza unica - Rizzoli, 2007 

La voce dei sommersi. Manoscritti ritrovati di membri del Sonderkommando di Auschwitz - Marsilio - 1999 

Testimoni della catastrofe. Deposizioni di prigionieri del Sonderkommando ebraico di Auschwitz (1945) - Ombre Corte - 2004 

Hermann Langbein - Uomini ad Auschwitz. Storia del più famigerato campo di sterminio nazista – Mursia - 1992

ROSELLA REALI
Sono nata nel marzo del 1971 a Domodossola, attualmente provincia del VCO. Mi piace viaggiare, adoro la natura e gli animali. L'Ossola è il solo posto che posso chiamare casa. Mi piace cucinare e leggere gialli. Solo solare, sorrido sempre e guardo il mondo con gli occhi curiosi tipici dei bambini. Adoro i vecchi film anni '50 e la bicicletta è parte di me, non me ne separo mai. Da grande aprirò un agriturismo dove coltiverò l'orto e alleverò animali. 
Chi mi aiuterà? Ovviamente gli altri viaggiatori.
Questa avventura con i viaggiatori ignoranti? Un viaggio che spero non finisca mai...

Wilhelm Friedrich Boger, la Tigre di Auschwitz

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Non tutti ricordano che fra il 1963 e il 1965 si tenne il più lungo e pubblicizzato processo per crimini di guerra del periodo post bellico. 
Teatro della kermesse fu il palazzo di Giustizia di Francoforte, dove furono posti sotto accusa 22 imputati per i crimini commessi durante la Seconda Guerra Mondiale all'interno del campo di concentramento e sterminio di Auschwitz. 
I personaggi alla sbarra non avevano nomi importanti e altisonanti come quelli degli imputati a Norimberga. Non avevano neppure svolto un ruolo di primo piano nell'olocausto, come Eichmann, il grande fuggitivo, impiccato nel 1962 dopo anni di latitanza, una cattura rocambolesca e un lungo processo. 
Si erano però distinti per la loro brutalità durante lo svolgimento delle mansioni a cui erano stati assegnati, fatti avvalorati da alcuni documenti trafugati fortunosamente da Auschwitz e dalle testimonianze di 211 sopravvissuti che parteciparono in qualità di testimoni dell'accusa al processo in questione. 
Tornati alla loro vita, “smessi i panni dei sadici assassini”, gli imputati che sedettero di fronte alla giuria e ai loro accusatori erano diventati semplici postini, impiegati, operai o insegnanti. 
I 17 anni trascorsi cambiarono notevolmente le persone nel loro aspetto esteriore, ma non cancellarono le cicatrici di chi nel campo perse il proprio nome per diventare un numero tatuato sulla pelle. 
Fra quegli uomini sedeva Wilhelm Friedrich Boger. I suoi accusatori lo ricordavano come “la tigre di Auschwitz”. Occhi scuri e profondi, denti bianchi, capelli sempre perfettamente pettinati, sorriso aperto e rilassante, che infondeva fiducia a chiunque lo guardava per la prima volta senza conoscerlo. 
Boger nacque il 19 dicembre 1906 a Zuffenhausen, nei pressi di Stoccarda, in Germania. 
Giovanissimo aderì alla “Gioventù hitleriana”, Hitler-Jugend, organizzazione giovanile fondata nel 1926 dal Partito nazionalsocialista dei lavoratori, che accoglieva i giovani tedeschi a partire dai 10 anni, per prepararli ad essere buoni cittadini e ad entrare nelle forze armate per servire la loro patria. 
Dal 1936 al 1937 frequentò con successo la scuola di polizia, diventando commissario politico. Dopo l'inizio del conflitto mondiale, fu trasferito a Zichenau e successivamente fu nominato capo ufficio di polizia di frontiera a Ostrolȩka, in Polonia. 
Un anno dopo chiese e ottenne il trasferimento alla polizia delle SS di Dresda. Inviato al fronte, di supporto alle truppe impegnate nella seconda guerra, fu ferito nel 1942. Finita la convalescenza fu trasferito ad Auschwitz, dove venne assegnato alla sezione politica con il grado di sergente. Il suo compito all'interno del campo era quello di mantenere l'ordine fra i prigionieri, di stilare liste di detenuti assegnando loro una valutazione in base alle loro attitudini, di vigilare su eventuali movimenti di resistenza interna, soffocandoli sul nascere. 
Uno dei suoi incarichi, che svolgeva con grande solerzia e dedizione, fu quello di occuparsi degli interrogatori dei prigionieri, con lo scopo di ottenere preziose informazioni. Per meglio assolvere a questo compito, inventò uno strumento di tortura, probabilmente imitandone qualcuno già esistente, che prese il suo nome: l'altalena di Boger. 
Ad essere sottoposti al trattamento erano sia i criminali comuni che coloro che si erano macchiati di delitti politici, come ascoltare le radio straniere o far parte della Resistenza. 
Gli accusati arrivavano all'interrogatorio già molto provati da percosse e maltrattamenti. Erano condotti al centro del campo, per fungere da esempio agli altri prigionieri; arrivavano solitamente vestiti con abiti civili, col volto sanguinante e pieno di lividi, saldamente incatenati. Erano scortati in una baracca appositamente per procedere con l’interrogatorio. Ad accogliere i nuovi arrivati erano in genere altri detenuti, che reggevano in mano arnesi in legno, all'apparenza innocui. Chiudeva il corteo la Gestapo, attrezzata con fruste, manganelli, mitragliette, fascicoli di documenti, su cui erano riportate tutte le informazioni inerenti i nuovi arrivati e macchine da scrivere, pronte a funzionare per poter raccogliere le loro testimonianze. 
Boger era solito sorridere alla vista di questa processione, dritto, impettito, perfettamente in ordine nella sua divisa, con le mani giunte dietro la schiena. Assaporava quei momenti come il preludio di altri che lo avrebbero soddisfatto di più. 
Pochi minuti e dall'interno della baracca giungevano rumori di percosse, urla, tonfi sordi, pianti. 
Quando Boger entrava nella stanza, gli arnesi in legno venivano usati. Si procedeva a montare l'altalena, sotto l'occhio attento del proprio ideatore: l'accusato era costretto ad abbracciare le proprie ginocchia, con le manette ai polsi. Una sbarra in ferro veniva fatta passare tra avambraccio e ginocchia per poi essere appoggiata a due tavoli in legno distanziati quanto bastava per lasciare appeso il malcapitato, che da quel momento veniva fatto dondolare avanti e indietro, come se fosse seduto su un'altalena. Iniziavano le percosse, date a caso su organi genitali, sedere o pianta dei piedi. I risultati erano devastanti. Capitava che le natiche del prigioniero diventassero insensibili al dolore in seguito alle troppe botte ricevute. In quel caso Boger e i suoi erano soliti cambiare metodo di tortura, versando acqua bollente nelle narici del torturato. Se le grida di dolore erano troppo forti, il viso veniva coperto con una maschera antigas per soffocarle. 
La confessione, ovviamente estorta, si concludeva con una firma quasi irriconoscibile e con una serie di frustate inferte per convincere il moribondo ad alzarsi e ad uscire. Dopo qualche tempo le tavole furono ritenute poco efficaci e pertanto sostituite da due armature in legno costruite appositamente, ritenute più stabili. Si stima che a turno, non si hanno dati certi, furono sottoposti all'altalena di Boger, circa 600 prigionieri. Dopo il trattamento erano costretti a restare in una baracca speciale, coricati giorno e notte sul ventre, anche durante il momento del pasto. Le guardie che le sorvegliavano avevano l'obbligo di sparare a chiunque avesse tentato di parlare o di sollevarsi. Nei periodi in cui i prigionieri politici che arrivavano al campo erano pochi, lo stesso Boger girava in bicicletta fra le baracche di Auschwitz per individuare qualcuno da sottoporre a interrogatorio. La sua attività continuò indisturbata fino all'arrivo delle truppe alleate nel gennaio 1945. 
Il sergente Boger riuscì a sfuggire alle rappresaglie dei prigionieri e all'arresto. Un anno dopo, fu catturato ma mentre era in attesa di estradizione per la Polonia, per essere sottoposto a processo, riuscì ad evadere e a far perdere le sue tracce. 
Solo in seguito si scoprì che visse dal 1948 a Crailsheim, nella regione di Baden-Württmberg, in Germania. 
Due anni dopo iniziò a lavorare in una fabbrica di aeroplani a Stoccarda. Arrestato nel 1959, fu incarcerato in attesa di processo, che iniziò nel 1963. I testimoni a suo carico raccontarono le “gesta” di Wilhelm Friedrich Boger all'interno del campo di concentramento e sterminio di Auschwitz. Ne uscì il profilo di un uomo temuto e crudele, il cui sguardo non era mai bello incrociare. Fra le varie testimonianze vorrei riportare L'esperienza di sopravvissuta ad Auschwitz di Lilly Majerezik, che svolgeva la funzione di segretaria nel dipartimento politico. Nonostante fossero passati molti anni ricordava bene quell'uomo. Come altri detenuti che avevano lavorato in quell'ufficio, la donna non aveva mai visto la procedura completa dell'altalena. Sapeva che l'accusato era appeso a testa in giù e che, dopo che la porta della baracca si chiudeva, dal suo interno si udivano solo urla strazianti. Ricordava inoltre che tutte le testimonianze dovevano essere rese a voce alta, in modo che chi doveva trascriverle non avesse dubbi su quanto aveva appena udito. Tutto questo accadeva mentre uno dei soldati incaricati delle torture strappava alla vittima le unghie di mani e piedi. 
Un altro sopravvissuto raccontò di come il Sergente si divertiva ad uccidere i prigionieri con la propria pistola, facendoli allineare contro il “Muro Nero”. Chi era condotto lì sotto sapeva che sarebbe stato giustiziato. Contro quella parete, situata fra il blocco 10, sulla sinistra, è il blocco 11, sulla destra, il sergente Boger fu visto giustiziare fra i 50 e i 60 prigionieri, a gruppi di 2 persone, in un solo giorno. 
Ma il racconto più scioccante fu quello di un'altra donna sopravvissuta al lager: il suo nome era Dounia Wasserstrom. Un giorno assistette all'arrivo di un camion carico di bambini ebrei, che si fermò proprio davanti al dipartimento politico. Boger uscì, si fermò sulla porta con le mani appoggiate ai fianchi. Un bambino di circa 4 o 5 anni saltò giù dal mezzo, stringendo forte una mela fra le mani. Boger si avvicinò, lo afferrò per i piedi e gli spacco la testa contro il muro. Il rumore sordo prodotto dal piccolo cranio che si fracassava rimase nelle orecchie della donna per tutta la vita. Boger si voltò e, senza emozione, le ordinò di lavare il sangue dal muro e di sistemare quel disastro. Pochi minuti dopo il sergente la chiamò in ufficio per una traduzione, dove l'aspettava seduto alla scrivania mangiando la mela che il bambino teneva tra le mani. 
Ma il peggio di sé la “tigre di Aushwitz” lo mostrava quando era ubriaco. Per gioco era solito scegliere uno o più detenuti che faceva sdraiare a terra, mettendo loro un bastone sul collo. Dopo esserci salito sopra, aspettava divertito che il prigioniero morisse strozzato, fra risate e urla di stupore. 
Il 19 agosto 1965 il processo di Francoforte si concluse. Dei 22 imputati, solo 20 arrivarono alla fine. 
Il giudizio per due di loro fu sospeso a causa delle gravi condizioni di salute in cui vertevano. Beneficiarono della pietà della giustizia, almeno per il momento. Sei furono condannati all'ergastolo. Fra questi vi era anche Boger. Detenuto in prigione a Bietigheim-Bissinger, città della Germania, morì di malattia il 3 aprile 1977, dopo solo 19 anni di carcere. La pena che scontò, lui come tutti i nazisti arrestati e giudicati davanti a un tribunale, non fu sufficiente per cancellare le sofferenze di chi sopravvisse ai lager nazisti. La storia lo ricorderà come un pesce piccolo, uno dei tanti soldati che diede libero sfogo all'interno dei campi di concentramento a tutte le proprie perversioni, senza pensare che quelli che aveva davanti erano esseri umani e non semplici numeri tatuati sulla pelle.

Rosella Reali

Bibliografia
Lorenzo Albertinelli, I lager: poema storico in sette canti, La Giuntina, 1994

Andrew Nagorski, Sulle tracce dei criminali nazisti, Newton Compton editore, 2016

ROSELLA REALI
Sono nata nel marzo del 1971 a Domodossola, attualmente provincia del VCO. Mi piace viaggiare, adoro la natura e gli animali. L'Ossola è il solo posto che posso chiamare casa. Mi piace cucinare e leggere gialli. Solo solare, sorrido sempre e guardo il mondo con gli occhi curiosi tipici dei bambini. Adoro i vecchi film anni '50 e la bicicletta è parte di me, non me ne separo mai. Da grande aprirò un agriturismo dove coltiverò l'orto e alleverò animali. 
Chi mi aiuterà? Ovviamente gli altri viaggiatori.
Questa avventura con i viaggiatori ignoranti? Un viaggio che spero non finisca mai...


Wilhelm Brasse, il fotografo di Auschwitz

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Friedrich Nietzsche scriveva che chi lotta con i mostri deve guardarsi di non diventare, così facendo, un mostro. E se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l'abisso scruterà in te. Esiste la reale possibilità di divenire mostri per coloro che lottano contro il male? Riusciamo a riflettere a sufficienza sulle motivazioni che scatenano gli istinti peggiori dell'uomo? Cesare Lombroso, antropologo e criminologo, sosteneva che “non vi è delitto che non abbia radice in molteplici cause”. Queste ed altre domande saranno sorte nella mente di Wilhelm Brasse negli anni in cui è stato a contatto con il terribile male del nazismo?
Chi è Wilhelm Brasse?
Brasse è stato un fotografo professionista polacco e, soprattutto, un prigioniero del campo di concentramento di Auschwitz durante la seconda guerra mondiale. Divenne famoso come Il fotografo di Auschwitz. La sua vita ed i suoi lavori sono stati oggetto di un documentario televisivo polacco, The Portraitist, del 2005.
Prima di comprendere il male che ha documentato per i carnefici, e come capiremo anche per tutti noi, cerchiamo di ripercorrere le tappe della sua vita.
Brasse nacque a Zywiec, in Polonia, il 3 dicembre del 1917 da un discendente di coloni austriaci e da madre polacca. Suo padre era un soldato dell'esercito polacco e combatté nella guerra polacco-sovietica del 1919-1921. Brasse apprese i rudimenti della fotografia in uno studio di proprietà della zia, nella città di Katowice. Sviluppò ben presto una grande capacità di ritrarre le persone nei vari momenti della quotidianità.
Dopo l'invasione della Polonia, nel settembre del 1939, subì enormi pressioni dai nazisti per entrare nella Wehrmacht. Rifiutando ripetutamente l'invito, fu interrogato dalla Gestapo. Tentò di fuggire in Francia, attraverso l'Ungheria, ma fu catturato al confine polacco-ungherese ed incarcerato per quattro mesi. Malgrado la prigionia, Brasse non modificò le proprie idee rifiutando nuovamente di giurare fedeltà ad Hitler. Tale comportamento gli costò un biglietto di sola andata per il lager. Il 31 agosto del 1940 fu deportato nel campo di concentramento di Auschwitz, subito dopo l'apertura avvenuta nel giugno dello stesso anno.
Prima di proseguire ritengo doveroso un breve richiamo sul campo di concentramento di Auschwitz. Per campo di concentramento di Auschwitz si intende quel vasto complesso di campi di lavoro e concentramento che formarono un sistema organizzato situato nelle vicinanze di Auschwitz, città della Polonia meridionale.
Oltre al campo originario, Auschwitz I, durante l'Olocausto nacquero diversi altri campi attorno al corpo originario, o sotto-campi, tra cui il famigerato campo di sterminio di Birkenau, ricordato come Auschwitz II. Il complesso dei campi di Auschwitz, il più grande realizzato dal nazismo, svolse un ruolo fondamentale nel progetto di Soluzione finale della questione ebraica, divenendo il più efficiente centro di sterminio della Germania nazista. Nell'immaginario collettivo Auschwitz è divenuto il simbolo universale del lager nonché il sinonimo di fabbrica della morte.
Brasse, dopo l'internamento ad Auschwitz, nel febbraio del 1941 fu chiamato nell'ufficio di Rudolf Hoess, comandante del campo, insieme ad altri quattro prigionieri. In quell'occasione fu testata la sua abilità fotografica. In seguito alla prova fu selezionato per le sue abilità di laboratorio e per l'ottima abilità tecnica con la macchina fotografica. La scelta ricadde su di lui anche grazie al fatto che parlava e comprendeva molto bene il tedesco.
In seguito gli fu ordinato di fotografare, a scopo di documentazione, i prigionieri del campo. Le operazioni avvennero nella Erkennungsdienst, ovvero l'unità di identificazione fotografica. L'anno successivo Josef Mengele, il medico nazista soprannominato l'angelo della morte, incontrò Wilhelm Brasse. Il motivo dell'incontro risiedeva nell'ammirazione di Mengele per le fotografie di Brasse. Il medico chiese a Brasse di fotografare i gemelli e le persone con disordini congeniti su cui egli stesso stava effettuando sperimentazioni. Probabilmente quello fu il momento in cui decise di ribellarsi ai nazisti, cercando di collaborare con la resistenza polacca. Quell'iniziale ribellione non fu l'unica che maturerà negli anni nel campo di sterminio.
Agli inizi del 1945, con l'avvicinarsi del fronte di guerra al campo di Auschwitz dopo l'entrata dei sovietici in Polonia, i nazisti ordinarono a Brasse di distruggere tutte le fotografie ed i negativi. Lui disobbedì, a rischio della vita, nascondendo la maggior parte delle sue, forse, 50.000 immagini in una baracca-dormitorio. L'Armata Rossa le troverà appena liberato il campo, conservandole sino ad oggi.
Cosa accadde a Brasse dopo l'avanzata del fronte di guerra al campo di Auschwitz?
Nel febbraio del 1945, insieme a migliaia di altri prigionieri, Brasse fu trasferito nel campo di concentramento di Ebensee, un sotto-campo austriaco del complesso di campi di concentramento di Mauthausen-Gusen. Questo complesso di campi di sterminio era l'ultimo rimasto ancora sotto il controllo dei nazisti. Wilhelm Brasse rimase imprigionato nel lager di Ebensee sino a quando le forze americane lo liberarono agli inizi del maggio del 1945. Dopo il ritorno a Zywiec, Brasse provò a riprendere il lavoro di fotografo, ma i fantasmi dei campi di concentramento gli impedirono di continuare l'attività di ritrattista. Decise di aprire un salumificio, che gli diede modeste soddisfazioni economiche. Malgrado possedesse ancora una macchina fotografica, in un'intervista, dichiarò che non avrebbe mai più scattato fotografie.
Morì a Zywiec all'età di 94 anni.
Anche se è difficile dire quali fossero le fotografie di Brasse, dato che le immagini dei campi di concentramento non indicavano il nome del fotografo, Mensfelt, portavoce del museo di Auschwitz-Birkenau, dichiarò che furono scattati circa 200.000 ritratti di prigionieri, nelle tre pose, con nome e professione allegata. Sempre secondo Mensfelt, circa 40.000 di queste immagini sono giunte sino a noi con le carte di identificazione e 2000 delle stesse sono esposte al museo. Molte altre fotografie si trovano a Yad Vashem, il memoriale dell'Olocausto israeliano. Alcune fotografie identificative di prigionieri di Auschwitz, e di altri campi di concentramento, sono accessibili negli archivi fotografici dell'USHMM ovvero United States Holocaust Memorial Museum.
Wilhelm Brasse non fu l'unico fotografo dei campi di concentramento. Come lui svolsero tale attività anche Georges Angeli a Buchenwald e Francisco Boix a Mauthausen, poiché la catalogazione fotografica dei prigionieri dipendeva da una direttiva generale cui tutti i campi di concentramento dovevano rispondere.
Cosa differenzia Brasse dagli altri fotografi della morte?
Grazie ai suoi racconti ed alle sue memorie, raccolti per il documentario televisivo polacco The Portraitist del 2005, sappiamo come avvenivano tutte le operazioni di catalogazione dei prigionieri.
Secondo Chéroux, studioso delle fotografie dei lager, quelle immagini servivano ad attestare la conformità del detenuto agli standard fisici e sociali. Lo studioso ricorda che quei corpi una volta fotografati diventavano immediatamente inutili.
Alcune di queste fotografie sono contenute nel libro La vita di Wilhelm Brasse, il fotografo di Auschwitz,di Luca Crippa e Maurizio Onnis, e ci ricordano gli ultimi istanti della vita dei soggetti ripresi.
L'importanza di queste immagini, come Brasse intuì nel periodo peggiore della vita nel campo di concentramento e sterminio, resisterà al tempo e al cambiamento delle idee politiche, ricordando alle nuove generazioni cosa fu il Nazismo.
Un giorno chiesero a Simon Wiesenthal cosa pensava di un possibile ritorno al potere del Nazismo, rispose: “Assolutamente no, a meno di una crisi pericolosa: se ci fosse una grande crisi economica, i democratici finirebbero per così dire sotto accusa, e tutto sarebbe possibile. Ma non accadrà.”
Il Grande cacciatore di Nazistimorì a Vienna il 20 settembre del 2005.
Sembra ieri, ma sono passati 13 anni.

Fabio Casalini

Bibliografia
Luca Grippa e Maurizio Onnis, Il fotografo di Auschwitz - «Il mondo deve sapere», Milano, Edizioni Piemme, 2013

Maria A. Potocka, Wilhelm Brasse photographer 3444 Auschwitz 1940-1945, Eastbourne, Sussex Academic Press, 2012

Alessandro Melazzini, Il fotografo di Auschwitz, in Il Sole 24ore, 15 giugno 2009

Elisa Barberis, Morto Brasse, fotografo di Auschwitz, in La Stampa, 24 ottobre 2012

Valentina Avon, L'orrore di Auschwitz rivive nello scatto della bimba col fazzoletto, ora a colori, in La Repubblica, 15 marzo 2018

Michele Smargiassi, Wilhelm Brasse, il fotografo del lager. L'uomo che documentò il male, in La Repubblica, 26 ottobre 2013

FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti

Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.

La maledizione di un bimbo piangente in un'epigrafe latina

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C.I.L. VI, 5861: Iunius Faustus heic situs est misellus beimus. Matri meae inpiae sceleratae Di Superi et Inferi referant gratiam quod me…
Trad.: Qui è sepolto un povero bambino di due anni, Giunio Fausto. A mia madre empia e scellerata gli Dei Superi ed Inferi gliela facciano pagare cara per avermi…
Il testo è rimasto mutilo, e ciò acuisce la nostra fantasia deduttiva sull’eventuale colpa commessa da questa madre nei confronti del figlioletto o per averlo messo al mondo quando non avrebbe dovuto, cosa che mi sembra improbabile, perché se ne sarebbe potuta disfare in qualche modo, o per averlo fatto soffrire, o per averlo trascurato e fatto morire senza le cure e l’affetto che avrebbe meritato. Resta il mistero di chi abbia potuto commissionare un’epigrafe del genere: anzi, l’enigma s’infittisce di più, anche alla luce dell’illeggibilità del prosieguo. Perché il messaggio s’interrompe di colpo? Proprio la sezione finale si è dovuta cancellare nel corso degli anni? Che gli agenti atmosferici possano decidere di tagliare le informazioni più importanti, lo trovo piuttosto strano. E se ci fosse stata una volontaria manomissione?
Comunque, sembra un sms degno da film horror, non lo nascondo, anche perché sempre più credo che la parzialità con cui questa nota sia stato tramandata sia dovuta all’intenzione di spezzare la catena di una maledizione. Ogni qualvolta leggo quest’epigrafe, poi, mi si presentano agli occhi, non so perché, i dipinti del Bragolin con protagonisti numerosi bambini tristi e piangenti: pare, racconta la tradizione popolare, immortalata successivamente a leggenda, che fossero ignifughi e che dondolassero autonomamente, pur essendo appesi al muro. Già che ci sono, approfondisco la vicenda, e la dico tutta, per rileggerla all’indietro, con riferimento al nostro inciso, con lo scopo di farne rilevare delle continuità.
Era il settembre del 1985: siamo a Rotherrham, un paesino dello Yorkshire, nel regno Unito. Ecco in un presente storico quanto accaduto in un reportage di una convulsa giornata di fine stagione:
May Hall, una casalinga di mezz’età, sta facendo bollire dell’acqua su un pentolino. Suo marito Roy sarà a casa fra poco, stanco e affamato. Un tintinnare di chiavi annuncia il suo ingresso. La donna si precipita a dargli il benvenuto, e per qualche minuto dimentica che in cucina il fuoco è acceso.All’improvviso uno strano odore di bruciato pervade la casa. La cucina va a fuoco ed in breve tutto il piano superiore è invaso dalle fiamme.
Un particolare: un quadro piangente nel mucchio della macerie rovente risulta incolume. Fra la cenere e i tizzoni ancora ardenti ha contorni chiari e distinti. Un bambino, insomma, nell’immagine illesa di se stesso: unico superstite di un’abitazione interamente sbriciolata nello sgomento dei suoi proprietari.
Fin qui nulla di strano, se la storia non si fosse presentata altre volte e con lo stesso epilogo. Ancora una volta, il volto di un marmocchio con lucciconi agli occhi.

A proposito, The Sunuscì con un articolo allarmante intitolato Blazing Curse of the Crying Boy, ovvero La maledizione fiammeggiante del bambino che piange. Tra le altre cose, nello stesso periodo, circolava la voce che lo stesso autore dei dipinti avesse frequentato parecchi orfanotrofi per ricavarne i soggetti delle sue opere e che i modi con cui avrebbe interagito con i frugoletti sarebbero stato pessimi, a dir poco, pur di vedere il loro volto rigato da copiose lacrime. Addirittura, uno, El Diablo, avrebbe, forse, incarnato il colore dei suoi pennarelli, diventando fiamma occulta nelle case che lo avrebbe ospitato.
E’ evidente che l’emotività prenda il sopravvento spesso sulla nostra ragione: quella, anzi, sragiona, quando le paure inconsce mettono in discussione tutto l’asse cognitivo, si sa! A chiunque è capitato di farsi venire i bordoni senza alcuna spiegazione e, personalmente, non trovo tante difficoltà ad immaginare un cuore che pompa a mille nel fermare lo sguardo su un’immagine che sembra osservarti. Se poi aggiungiamo l’atteggiamento poco rassicurante di un fantolino, rotto da un fiume di pianto, l’insieme si fa ancora più raccapricciante.
Ecco, nell’interpretare il testo in lingua latina, da cui siamo partiti, sento gli stessi brividi, che avverto nel raccontare la storia di questi quadri; chissà, forse quell’anima irrequieta infestava la tranquillità di ogni lettore: probabile! O magari, da genietto malefico, può aver seminato orrore nel paese, prima di aver placato la sua vendetta, può anche essere, per le superstitiones cui erano usi i nostri Antichi Romani.
Ma una domanda sorge spontanea: che fine ha fatto sua madre, che è la prima destinataria di questo “antico telegramma dell’al di là?”. Siccome il tono lapidario dell’incisione ha una sua certezza nel nome degli dei, cui la preghiera è rivolta, penso che le possa essere capitato qualcosa di brutto, come per Morgan, madre di Samara, protagonista di The Ring. (The Ring è un film del 2002, diretto da Gore Verbinski con Naomi Watts).
Qui, però, invece di un SMS, è una VHS il tramite della maledizione: piuttosto, già che ci siamo, chi, della nostra generazione, può dimenticare questa serie filmica? Pelle d’oca assicurata persino alla memoria, anche adesso!
Ecco uno stralcio del nastro del presagio, ivi contenuto, prima di passare alle ultime conclusioni istruttorie: una coppia di Moesko Island prende in adozione la piccola Samara. All’inizio tutto sembrava filare liscio, fino a quando alcuni inquietanti avvenimenti turbano la tranquilla vita della comunità isolana oltre che di casa sua. In particolare, i numerosi cavalli posseduti dalla famiglia adottiva cominciano a manifestare segni di pazzia, correndo verso il mare per poi morire annegati. Pare che la ragazzina, probabilmente dotata di poteri psichici e paranormali, avesse la capacità di causare sciagure a chi le stava intorno, animali e persone. I genitori la confinano prima nella loro stalla, fino alla decisione della madre di ucciderla, soffocandola con una busta di plastica e gettandola poi in un pozzo, per spezzare la catena di sventure. Nell’oscurità la ragazza sopravvive per sette giorni, fino a morire di consunzione, povera cara, mentre la signora Morgan, cedendo al rimorso, si suicida buttandosi da una scogliera. L’ultima immagine che la bambina vede prima di spirare è l’anello circolare di luce che filtra dal coperchio del pozzo. I poteri di Samara non conoscono battute d’arresto: anzi, si imprimono misteriosamente in una videocassetta che contiene una sequenza di immagini mentali proiettate da lei sul nastro; queste portano con sé una terrificante maledizione: la tenebrosa bambina dalla pelle diafana ed i lunghi capelli scuri, infatti, torna ogni volta per uccidere, dopo sette giorni, chiunque le abbia guardate.
Che la madre di Giunio Fausto, per via del rimorso, possa essersi uccisa come la signora Morgan? O che a lettura dell’epigrafe ogni viandante si sia portato con sé un pezzo di questo SMS maledicente come la VHS della nostra pellicola horror?
Septimo die…
Tra sette giorni…
Vale anche per il nostro testo d’apertura quest’attesa serrata, che più volte abbiamo sentito ripetere, incollati alla visione, e per giunta con visione alterata dei nostri occhi bovini, o è una mia volontaria traduzione in latino di quella frase ricorrente, che ha ossessionato il pubblico d’ogni età dal 2002 in avanti?
Mi taccio, per autotutela, cari lettori, perché le notti lunghe danno forma ai brutti pensieri!

Francesco Polopoli

Bibliografia 

Per la parte epistemologica: 

Alfredo Buonopane, Manuale di epigrafia latina, Roma, 2009. 

Per l’epigrafe di questo saggio

Giacinto Agnello-Arnaldo Orlando, L’uomo romano di fronte alla morte (Immaginario collettivo e immaginario letterario), Palermo, 2005.

FRANCESCO POLOPOLI
Nato nel 1973, filologo, esperto di filologia neotestamentaria e divulgatore gioachimita. Ha partecipato a Convegni di italianistica, in qualità di relatore, sia in Europa (Budapest) che in Italia (Cattolica di Milano). Attualmente risiede a Lamezia Terme e da articolista si prende cura dell’antico non solo tramite le testate on line della propria cittadella natale ma anche attraverso Orizzonte Scuola e Tecnica della Scuola, diffondendo in comunità virtuali sempre più condivise i propri contributi. Attualmente è docente di latino e greco presso il Liceo Classico di San Giovanni in Fiore e Membro del Centro internazionale di studi gioachimiti. Ultimo è il volume Vitamina classica. Approccio semiserio alla cultura dell’antico.


Le guerre Apache di Mangas Coloradas

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“... gli tagliarono la testa e la bollirono in una grossa pentola nera. Per un Apache la mutilazione del corpo è molto peggio della morte, perché il guerriero deve vagare mutilato per l’eternità. Gli occhi bianchi in quel momento non sapevano bene quello che avevano fatto …” (Juh, Capo Apache della divisione Nednhi)

Il sud ovest degli Stati Uniti, arido e selvaggio, è stato abitato per molto tempo da diversi popoli, ma una nazione su tutte diede del filo da torcere all’uomo bianco. Gli Apache impegnarono gli Spagnoli in 250 anni di guerriglia, acquisendo da loro l’arte della tortura e della mutilazione. Sebbene non molto numerosi (probabilmente non più di 6.000 individui divisi in diverse bande) gli Stati Uniti impararono ben presto a temerli, indomabili guerrieri e tenaci difensori del loro aspro e inospitale territorio. La zona d’influenza degli Apache infatti si estendeva ad ovest dal Gila River e dalle Mogollons mountains in Arizona, fino ad arrivare ad est al Rio Grande per includere gran parte dell'attuale New Mexico sud-occidentale fin quasi al Texas. Nel 1846 l’Apacheria divenne terreno di scontro tra gli Stati Uniti ed il Messico, per cui gli americani ritenevano essenziale ottenere una pace duratura con i nativi e, all’epoca, uno dei più rappresentativi e temuti capi di guerra si identificava nel 50enne Mangas Coloradas, membro della divisione Mimbreno (Tchihende) degli Apache centrali, importante e rispettato capo tribale già da quasi 10 anni. Il Capo indiano era una figura veramente carismatica ed impressionante, alto due metri con un corpo enorme e una testa sproporzionatamente grande, possedeva uno sguardo astuto ed impenetrabile, come la folta matassa di capelli che gli pendevano fino alla vita, le labbra sottili e ben disegnate, il naso aquilino. Tutti gli apaches Chiricahua gli obbedivano ciecamente. Egli, vedendo negli americani i potenziali alleati contro gli odiati nemici messicani, firmò lo stesso anno un trattato di non belligeranza che si protrasse senza grossi problemi per diverso tempo. Quasi 15 anni dopo tale trattato Mangas Coloradas era ancora il principale ed il più stimato referente indiano per i capi dell’esercito americano. Nel 1860 purtroppo, poco prima dello scoppio della guerra civile, ad ovest del Missouri si sparse la voce che le montagne di Pinos Altos nel New Mexico ormai divenuto stabilmente territorio degli Stati Uniti, erano piene zeppe di oro, per cui una moltitudine di morti di fame muniti di pale, picconi e setacci, si riversarono nel territorio degli Apache. Era la solita storia: con i minatori arrivarono gli allevatori per creare pascoli nelle praterie desertiche e nelle zone boschive, gli agricoltori costruirono fattorie nel deserto, gli impiegati delle diligenze tracciarono le piste, i soldati vennero stanziati a protezione dei coloni. I terreni di caccia e le fonti di acqua vennero invase, la selvaggina cominciò a scarseggiare.
Le relazioni con i rappresentanti degli Stati Uniti tuttavia restavano accettabili e le razzie contro i bianchi furono circoscritte ad episodi “fisiologici”, anche perché Mangas poteva contare non solo sul suo grande carisma ma anche sulle abilità di suo genero Cochise, atletico 35enne, temibile guerriero, tattico, astuto e pieno di risorse, alto un metro e ottanta per 70 chili, divenuto capo supremo del ramo Chiricahua. Gli Apache inoltre avevano dalla loro parte le peculiarità del territorio, caratterizzato da due impenetrabili fortezze naturali: i monti Chiricahua e i monti Dragoon, tali da scoraggiare qualsivoglia invasione di campo. Sfortunatamente apparve sulla scena uno di quei personaggi che il destino a volte invia beffardo e su cui gli storici preferirebbero non soffermarsi: John Ward, un californiano che si era installato con la convivente messicana e due bambini in un ranch vicino a Fort Buchanan. Nel gennaio del 1861 una banda di giovani indiani non meglio identificati razziarono alcuni capi di bestiame del ranch rapendo uno dei figli di Ward che li stava accudendo, Felix di 12 anni. Pur senza alcuna prova certa Ward giurò alle autorità del forte che il rapimento del figlio era opera degli Apache Chiricahua. Una pattuglia di 50 uomini agli ordini del 25enne Sottotenente George N. Bascom del 7° fanteria venne quindi inviata verso l’Apache Pass per contattare Cochise e risolvere la questione. Il capo indiano accettò l’incontro e giunse all’accampamento dei soldati, in segno di pace, unitamente a 6 suoi parenti (sua moglie e 2 figli piccoli, suo fratello con 2 nipoti); Cochise negò subito ogni addebito precisando che avrebbe esperito delle ricerche in merito a tale rapimento. Bascom però non si fidò della buona fede del guerriero e, per tutta risposta, fece circondare gli indiani presenti trattenendoli come ostaggi, convinto così di poter ottenere la liberazione del bambino; solamente Cochise riuscì ad intuire per tempo la trappola e fulmineamente si divincolò dalla presa dei soldati dandosi immediatamente alla macchia. L’affronto non poteva restare impunito. Il giorno seguente 500 guerrieri Apache attaccarono una stazione di posta a Butterfield uccidendone il direttore, 9 messicani e catturando 3 ostaggi bianchi da poter scambiare con i 6 parenti di Cochise trattenuti dai soldati.
Il tenente Bascom rifiutò ogni scambio finchè il giovane Felix Ward non fosse stato rilasciato, anzi nel timore che la situazione potesse ancora peggiorare chiese altri 70 uomini di rinforzo da Fort Breckenridge, che dislocò in assetto da guerra sull’Apache Pass. Cochise aveva ormai capito le intenzioni dei soldati e, probabilmente, pensò che non avrebbe mai più rivisto i suoi parenti vivi, per cui attaccò rabbiosamente i soldati di Bascom sull’Apache Pass, i quali però respinsero l’offensiva. Cochise fuggì furente con la sua banda verso Sonora e strada facendo uccise i 3 prigionieri della stazione di posta: Sam Whitfield, William Sanders e Frank Brunner furono ritrovati cadaveri da Bascom, con segni di tortura e orrendamente mutilati. La notizia arrivò in poco tempo anche al tenente Isaiah Moore, responsabile della custodia dei parenti di Cochise, il quale come rappresaglia diede ordine di giustiziare immediatamente tre degli ostaggi: il fratello di Cochise Coyuntura ed i 2 nipoti furono quindi impiccati ad un albero. La donna con i bambini furono invece liberati. I molti tentativi di Mangas Coloradas di mantenere la pace per il proprio popolo erano ormai solo un lontano ricordo. Restavano solo odio e violenza. Le razzie di Cochise divennero furibonde oltre ogni limite immaginabile, secondo una stima successiva i dieci anni di guerra che Cochise scatenò dopo l’episodio che passò alla Storia come “l’affair Bascom” costarono oltre 5.000 vite umane, una vendetta così terribile che la buona reputazione di cui il capo aveva goduto tra i bianchi in precedenza venne del tutto dimenticata.
(A questo punto occorre aprire una parentesi per precisare che il 12enne Felix Ward fu ritrovato incolume 9 anni dopo, il 2 dicembre 1872, allorquando si arruolò come esploratore Apache nell’esercito divenendo ben presto Sergente. Il giovane indiano, visibilmente di carnagione chiara, dichiarò il suo vero nome e raccontò al comando di Green Camp di essere stato rapito anni prima da una banda di indiani Pilas, poi venduto ad un gruppo di Apache Coyoteros, che nulla avevano a che fare con la tribù di Cochise.) 
Ma all’epoca dei fatti l’odio e la vendetta erano ormai inarrestabili. Mangas conosceva bene il prezzo della guerra: le continue ed improvvise fughe per mettere in salvo la sua gente tra le montagne, il rischio ogni giorno ed ogni notte di venire attaccati, la precarietà di vita, la fame divorante, le difficoltà per vecchi, donne e bambini e l'angoscia della morte. Tuttavia con la sua terra ormai invasa dalle milizie di volontari armati l’anziano capo non potè fare altro che unire tutte le sue forze a quelle di Cochise, chiamò a raccolta i Chiricahuas, i Bedonkohes, i Chokonen e gli altri rami del popolo Apache. Guidò la danza della guerra nella notte del consiglio attorno al fuoco, al ritmo dei tamburi chiamò per nome a voce alta tutti i guerrieri migliori, confermando così la propria leadership nelle battaglie che sarebbero seguite. Morris Edward Opler, in un'intervista per il suo libro “An Apache Life-way”disse: "la notte in cui ci fu il consiglio di guerra Mangas era frenetico, fuori di sé, pur sapendo che le sue abilità fisiche sarebbero ben presto diminuite per l’età avanzata, sentiva dentro di sé il potere delle preghiere degli sciamani. Sapeva di poter ancora precedere i propri guerrieri in battaglia. Sarebbe stato spietato e selvaggio”.
Con il suo genio militare e la sua diplomazia inter-tribale Mangas Coloradas riuscì per la prima volta a confederare le varie nazioni Apache in una guerra senza quartiere. Nonostante la sua età, grazie al suo carisma ed alla straordinaria forza fisica mantenne la supremazia e impose le proprie decisioni, battendosi spesso in scontri corpo a corpo con i guerrieri più giovani, ottenendo da tutti rispetto e timore verso la sua persona. Con lo scoppio della guerra civile le forze unioniste si ritirarono in gran parte dall’ovest dirigendosi verso il Rio Grande per combattere i confederati. I coloni, ormai alla mercè delle bande apaches, cominciarono a lasciare le loro case scappando verso est. I messicani evitavano ogni resistenza spostandosi a sud del confine. Cochise e Mangas presero possesso di ogni pista, controllarono ogni sorgente d’acqua, tranciarono ogni palo del telegrafo. La linea ferroviaria nei pressi del Cooke’s canyon era interrotta e le miniere di Pinos Altos isolate. Le famiglie di bianchi da Mesilla fino a Tucson erano terrorizzate, anche fuggire diventava sempre più rischioso. Tra le comunità di coloni non passava giorno senza che giungessero notizie di massacri, torture e orrende mutilazioni. In assenza dei soldati regolari le milizie di volontari non riuscivano a far fronte all’emergenza in maniera adeguata. Nei primi anni ’60 dell’800 gli Apaches di Mangas e Cochise gettarono una rete di sangue e terrore su Nuovo Messico e Arizona. Entrambi i capi subirono ferite nei combattimenti, perdendo dozzine dei migliori guerrieri, inclusi parenti, amici e alleati. E la controffensiva dei nemici era nell’aria, i bianchi morivano a mucchi ma non mollavano la presa, difendendo la terra che era stata degli Apaches come dei cani rabbiosi addentano un osso appena rubato. I messicani cominciarono ad affacciarsi nuovamente sul confine inviando da sud truppe di rurales, i soldati confederati oltre a combattere la loro stessa gente provavano ad attaccare anche i villaggi indiani della sierra a nord di Chihuahua, il vaiolo inoltre devastava continuamente le bande di Chiricahua vicino ai villaggi messicani di Janos e Fronteras. Ma soprattutto una minacciosa colonna di oltre 2.000 soldati volontari dell'Unione armati di cannoni, sotto il comando del Generale di Brigata James Henry Carleton - un uomo che avrebbe sviluppato un rabbioso odio per Mangas e Cochise – si era messa in marcia dalla California verso il territorio Apache, decisa a fermare il caos ed a riaffermare il controllo degli Stati Uniti nell’intero sud-ovest. Il 14 luglio 1862, un contingente della colonna di Carleton, formato da 120 volontari di fanteria, venne sorpreso da 200 guerrieri di Mangas e Cochise mentre si abbeverava ad una sorgente sull’Apache Pass. Nel duro combattimento che ne seguì Mangas subì una terribile ferita da arma da fuoco e fu subito trasportato dai suoi guerrieri fino alla città di Janos, in Messico, ad una distanza di circa 120 miglia, per essere curato dal medico del paese, costantemente sotto minaccia dei guerrieri, pena l’uccisione di tutti gli abitanti del villaggio: il vecchio Mangas sopravvisse e cominciò a pensare alla pace. 

Ormai sulla settantina, il vecchio capo appena ristabilito convocò un nuovo consiglio nel quale, contro il parere degli altri capi, espresse l’intenzione di andare a parlamentare con il Gen. Joseph R. West, incaricato da Carleton di occuparsi della controffensiva. Il 17 gennaio 1863, mentre gli emissari Apache si muovevano per contattare i responsabili dell’esercito, il destino giocò nuovamente le sue carte truccate: nei pressi dell’accampamento di Mangas, a Pino Alto, si trovò a passare una milizia di volontari composta da circa 60 minatori alla guida di Joseph R. Walker. Secondo la successiva testimonianza di uno dei volontari, tale Daniel Conner, i cercatori d’oro erano consapevoli di essere finiti in pieno territorio Apache, per cui maturarono la convinzione che se fossero riusciti a rapire e trattenere come ostaggio Mangas Coloradas avrebbero avuto qualche possibilità di raggiungere il forte incolumi, ottenendo magari anche un premio dal comandante della guarnigione. Alzarono quindi una bandiera bianca e chiesero di parlamentare con il vecchio capo che, convinto di essere di fronte agli uomini inviati da Carleton, si presentò da solo e cadde nella trappola. Un gruppo di sprovveduti era riuscito laddove l’esercito, dopo anni di guerriglia, aveva fallito. Il capo indiano si fece accompagnare a Fort MacLane, dove fu subito imprigionato e interrogato dal Gen. West in persona il quale, tuttavia, non riuscì a strappargli alcuna utile informazione. Al termine dell’interrogatorio si dice che l’alto ufficiale lasciò il vecchio capo nelle mani di un manipolo di guardie, esclamando con un fil di voce: “lo voglio morto”. Quella notte era di guardia Daniel Conner il quale, nelle sue memorie, racconta quanto segue: “verso le 9 ho notato che due soldati stavano facendo qualcosa al prigioniero, ma smisero appena mi avvicinai al fuoco per scaldarmi … dal mio punto di osservazione scoprii che stavano arroventando le baionette con le quali bruciavano i piedi e le gambe di Mangas che, peraltro, subiva impassibile senza emettere il benché minimo lamento. Continuarono a torturarlo fino a quando Mangas, riuscendo ad appoggiarsi sul gomito sinistro, guardò i soldati dicendo loro che potevano anche smetterla, lui non era un bambino e non aveva più voglia di giocare … i due soldati furiosi gli spararono tre colpi di revolver in faccia uccidendolo all’istante”. 
Sempre secondo Conner un ufficiale, udendo gli spari, accorse subito ma quando le guardie gli dissero che Mangas era stato ucciso perché aveva tentato di fuggire, tornò a dormire. Al mattino il soldato John T. Wright, appena montato di guardia, vide il cadavere del capo indiano giacere in un angolo, gli si avvicinò e gli strappò lo scalpo. Un po’ più tardi il corpo di Mangas fu gettato in una fossa comune, ma di lì a poco il medico dell’esercito lo fece disseppellire e decapitare. La testa fu bollita per rimuovere la carne ed il teschio fu inviato presso l’università frenologica di New York, dove il dottor O. S. Fowler, dopo averlo misurato e studiato nei minimi dettagli, dichiarò alla stampa che quello era il cranio più grande che avesse mai visto.
La notizia dell’omicidio e della mutilazione del grande Capo Mangas Coloradas raggiunse in breve tempo tutti i villaggi nativi del sud ovest, sortendo l’unico effetto di aumentare a dismisura l’odio delle tribù e la sete di vendetta di Cochise. Lo scontro tra Apache e bianchi sarebbe continuato per altri 25 anni. 
“Ero una bambina, quando il nonno Mangas mi sollevava da terra per farmi giocare, mi guardava dritta negli occhi e mi leggeva dentro, mi sentivo come se egli potesse scrutare nella mia mente e nel mio cuore. Erano occhi luminosi e gentili, ridevano e scherzavano, ma sapevo che quegli stessi occhi, da un momento all’altro, sarebbero potuti diventare feroci e spietati” (Dilth-Cleyhen figlia di Victorio, genero di Mangas Coloradas) 

Sergio Amendolia


Bibliografia
James L. Haley – Apache. Storia e cultura di un grande popolo - Mursia

Lee Miller – Il respiro della prateria – Rizzoli

Dee Brown – Seppellite il mio cuore a wounded knee – Mondadori

Citazioni
Ruth McDonald Boyer, Narciissus Duffy Gayton – Apache mothers and daughters

Conner Daniel Ellis – Joseph Reddeford Walker and the Arizona Adventure

Morris Edward Opler - An Apache Life-way

SERGIO AMENDOLIA
Nato 55 anni fa a Genova, sposato con 2 figli, 2 gatti e un cane, ho sempre guardato con stupore l'orizzonte e tutto ciò che quella linea rappresenta e contiene, convinto che dove il cielo finisce si celano sempre spazi e tempi lontani, spesso inesplorati o conosciuti poco e male. Forse per questo mi attira l'impostazione di questo blog ed i veli della Storia che gli articolisti provano spesso a sollevare, perché conoscere è importante e aiuta a capire ciò che siamo e come lo siamo diventati. Oltre alla nostra bella Italia ed alla sua impareggiabile ricchezza di arte e storia, mi affascinano molto gli scenari mozzafiato dell'Ovest Americano. In questi ultimi anni ne ho percorsi alcuni, ancora una volta cercando di varcare orizzonti i cui contorni sfuggono in continuazione, dimensioni che ho provato a malapena ad intuire nei volti dei nativi che ancora oggi si incontrano nelle riserve: a volte duri, scolpiti e aridi come i monoliti di arenaria rossa, probabilmente gli unici in grado di metabolizzare la sensazione di infinito che pervade quelle terre lontane. Per questo mi piace, quando il tempo libero me lo permette, collaborare con riviste e pagine web, tentando di approfondire le vicende che hanno caratterizzato la storia di quei popoli d'oltreoceano, in particolare l'epopea del West, con un occhio particolare agli uomini e alle donne che la vissero davvero, fuori dai luoghi comuni e dai grandi miti costruiti da Hollywood.

I Walser di Campello Monti

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Avevo circa vent'anni quando entrai, casualmente, in un bar di Omegna. Provai un'immediata sensazione di frescura che contrastava con il calore della mia pelle. In quell'occasione conobbi un borgo di cui ignoravo l'esistenza: Campello Monti. Un uomo, sulla sessantina, narrava di salite impervie, venti gelidi ed acque cristalline. Attirò la mia attenzione.
Oggi non ricordo il nome ma le fattezze, quelle sì. Le fatiche della vita si misuravano dalle pieghe del volto. Rari capelli, arruffati. Mani grandi, segnate dal trascorrere del tempo. Calmo narrava. Beveva vino nero. Mi avvicinai con il rispetto che si deve alle persone che hanno conquistato l'età del riposo. Mi guardò con pregiudizio, con quell'aria tipica del montanaro che guarda il cittadino. Raccontai delle mie origini, della casa estiva alle porte della Val Grande e dell'amore sconsiderato per la montagna. Si fidò.
Mi raccontò di una popolazione, i Walser, di origine germanica che abbandonò le proprie terre in cerca di fortuna. In seguito mi narrò le alterne vicende del piccolo borgo posto sul finire di una valle impervia e stretta. Altro non ricordo, a vent'anni il vino annebbia velocemente le idee. Mi congedai ringraziandolo, non riuscendo a pagare i due bicchieri di vino rosso. Nel tragitto verso casa promisi a me stesso di andarci il prima possibile. Era il 1989. Trascorsero gli anni.
Conobbi personalmente Campello Monti solo agli inizi del nuovo millennio. Fu una piacevole scoperta. Annuiial ricordo delle montagne dure e delle acque cristalline. Ci tornai una volta soltanto, per salire una vetta che domina la valle. Dimenticai quel luogo sino a quando decisi di raccontare la bellezza dei postiche ho avuto la possibilità di frequentare per nascita e per curiosità. Addentriamoci nella storia di questo piccolo borgo dall'antica storia, iniziando dalla conoscenza del popolo che lo fondò. I Walser, parola nata dalla contrazione del tedesco Walliser ovvero vallesano o abitante del cantone Vallese, sono una popolazione di origine germanica che abita le regioni alpine attorno al massiccio del Monte Rosa. I Walser appartenevanoal ceppo degli Alemanni, originariamente un'alleanza di tribù germaniche stanziate intono alla parte superiore del fiume Meno, e giunsero attorno al secolo VIII nell'alto Vallese, in Svizzera. Durante i secoli XII e XIII dei coloni Walser provenienti da quella terra si stabilirono in diverse località dell'arco alpino italiano, francese, svizzero ed austriaco. L'emigrazione verso queste nuove terre avvenne, probabilmente, per una serie di cause concomitanti. La prima di queste ipotesi attiene alla sovrappopolazione delle terre dell'Alto Vallese, che spinse i coloni alla ricerca di nuovi pascoli per il bestiame. Una seconda possibilità riguarda le condizioni climatiche favorevoli che resero possibile la sopravvivenza anche a quote elevate. I ghiacciai si ritirarono permettendo il transito su molti valichi alpini per buona parte dell'anno. L'ultima causa è quella relativa agli incentivi offerti ai coloni Walser da parte dei signori delle terre da colonizzare che favorirono la creazione di stabili insediamenti. Relativamente alla fondazione di un insediamento Walser, il più antico documento scritto risale al secolo XIII e riguarda la colonia di Bosco Gurin, nel Canton Ticino. Il paese, in epoca medievale, era chiamato Buscho de Quarino e fino al 1934 portò il nome di Bosco-Vallemaggia. Bosco Gurin venne fondato da coloni Walser provenienti dalla Val Formazza. Come l'antico borgo ticinese, anche Campello Monti venne fondato da coloni provenienti da un altro insediamento Walser, nel caso specifico dagli abitanti di Rimella, Reammalju in lingua Walser. 
La colonizzazione avvenne tra la prima e la seconda metà del XV secolo. Il toponimo Campello apparve per la prima volta in un documento del 1442. Se è certo che l'abitato fu fondato dagli abitanti di Rimella, è altrettanto confermato che i pascoli ove ora sorge l'antico borgo erano sfruttati dai pastori del Cusio. Questi pascoli erano di proprietà di un monastero di Arona che ne concedeva l'uso ai pastori cusiani, che però si resero colpevoli di razzie, compresi furti di bestiame, ai danni dei coloni di Rimella. Nel momento in cui i rimellesi riuscirono ad ottenere la concessione dei pascoli del Capezzone, del Penninetto e del Pennino, decisero di stabilirsi permanentemente alla confluenza dei torrenti Strona e Chigno, dando origine ad un vero e proprio paese. Anche dopo la nascita di Campello, Kampel in lingua Walser, gli abitanti mantennero un fortissimo legame con il borgo d'origine, Rimella. Questo legame si consolidò anche con il trasporto dei cadaveri nel cimitero di Rimella da Campello Monti. Il trasferimento si rese necessario poiché nel nuovo borgo alpino non vi era un sepolcretoconsacrato. I defunti venivano trasportati da Campello Monti, situato a 1305 metri sopra il livello del mare, sino alla Bocchetta di Rimella, posta ad oltre 1900 metri di quota, per poi giungere nel paese d'origine.
Una pergamena del 1448 narra che l'affitto novennale dei tre alpeggi – Capezzone, Pennino e Penninetto – divenne un contratto d'affitto perpetuo e che il concessionario non fu più un intermediario, ma direttamente la Comunità Walser di Rimella. Gli abitanti del nuovo paese si staccarono in modo progressivo dal paese d'origine, tanto che a partire dal 1551 i defunti poterono essere sepolti nel nuovo cimitero di Campello Monti. Nel 1759 l'autonomia religiosa si ampliò ulteriormente con l'erezione a parrocchiale della chiesa dedicata a San Giovanni Battista. Nel 1816 si completò l'autonomia da Rimella con la costruzione di un comune a sé stante. Con Regio decreto numero 317 del 1929, Campello Monti perse la propria autonomia comunale e fu aggregato al nuovo comune di Valstrona, nato dall'unione di vari centri presenti nella valle. Il territorio dell'antico borgo passò dalla provincia di Vercelli a quella di Novara, della quale a quel tempo la vallata faceva parte. Oggi Campello Monti è abitato solo durante la bella stagione poiché d'inverno non è raggiungibile con gli autoveicoli perché la strada che lo serve è chiusa a monte dell'abitato di Forno. Alcuni alpeggi del centro abitato sono tuttora caricati dagli allevatori che vi conducono il bestiame durante l'estate. 
Una menzione per l'Ecomuseo Campello Monti – Walsergemeinschaft Kampel, che ogni anno organizza un convegno denominato Campello e i Walser. Un ultimo aspetto di cui vorrei trattare attiene all'antica lingua Walser di Campello Monti, il titzschu [la lingua Walser è una variante del dialetto tedesco meridionale, chiamatoaltissimo alemanno, ed è molto simile allo Svizzero tedesco nella sua forma più antica. Tra le varianti si ricordano il titsch di Gressoney Saint-Jean e di Macugnaga, il toitschu di Issime ed appunto il titzschu di Alagna Valsesia e Rimella]. Il titzschu si perse tra la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento anche a causa di motivazioni politiche e religiose. Le autorità, sia civili che religiose, imposero, a partire dal XVIII secolo, regole che obbligarono i campellesi a ricorrere alla lingua italiana o, in alternativa, al dialetto lombardo/piemontese parlato nella bassa valle e ad Omegna.
Come raggiungere Campello Monti?
Per chi proviene dal Piemonte o dalla Lombardia, è consigliata l'uscita autostradale di Gravellona Toce. Dopo circa 5 chilometri si giunge ad Omegna dove si accede alla strada provinciale che percorre tutta la Valle Strona. Dopo circa 19 chilometri si giunge nell'antico borgo di Campello Monti.

Fabio Casalini

Un ringraziamento a Filippo Spadoni per le splendide fotografie

Bibliografia
Vincenzo Amato, Campello Monti, il villaggio walser che vive solo d’estate, in La Stampa, 25 luglio 201

Goffredo Casalis, Campello, in Dizionario geografico storico-statistico-commerciale degli Stati di S. M. il Re di Sardegna, vol. 3, Maspero, 1836

Davide Boretti, Il villaggio imbiancato di Campello Monti abitato solamente dai passeri, in La Stampa, 12 febbraio 2017

Enrico Rizzi, Walser: gli uomini della montagna, Valstrona, Fondazione arch. Enrico Monti, 1981

Enrico Rizzi, Storia dei Walser dell'ovest: Vallese, Piemonte, Cantone Ticino, Valle d'Aosta, Savoia, Oberland Bernese, Atlante delle Alpi Walser II, Anzola d'Ossola, Fondazione arch. Enrico Monti, 2004


FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti

Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.




La Belle Époque nel'antico borgo di Cervatto

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Cervatto è un piccolo comune italiano sito nella provincia di Vercelli. Con i suoi, circa, 50 abitanti è il settimo comune meno popolato d'Italia. L'antico borgo è situato in un punto panoramico della Val Mastallone e sorge a circa 1000 metri d'altezza. Il paese prende il nome dal torrente Cervo, affluente del Mastallone, che scorre nell'omonima valle. Le origini di Cervatto restano ancora incerte, malgrado vi siano alcune testimonianze della presenza Walser. Le vicende storiche di questo piccolo borgo immerso nella natura sono state condivise, per svariati secoli, con il vicino abitato di Fobello, rispetto al quale è stato dipendente sino al 1845. Cervatto nel 1738 ottenne autonomia religiosa rispetto a Fobello. Il distaccamento spirituale fu concesso dall'allora vescovo di Novara Gilberto Borromeo. A quell'epoca la chiesa dedicata a San Rocco fu distaccata dalla vicina parrocchia di Fobello ed eretta a parrocchiale. 
La storia di Cervatto si tinse di notorietà durante il periodo della Belle Époque quando divenne un riferimento della borghesia piemontese e lombarda. 
Prima di addentrarci nelle vicende strettamente legate al piccolo abitato piemontese, rileggiamo i fasti della Belle Époque: con questo termine si indica il periodo storico, sociale e culturale, europeo che inizia nell'ultimo ventennio del XIX secolo per concludersi con l'inizio Prima Guerra Mondiale. La Belle Époque, pur facendo riferimento specifico alla Francia ed in particolar modo alla città di Parigi, si estese a tutti i paesi dell'Europa occidentale giungendo sino negli Stati Uniti, dove tale momento storico è conosciuto come Gilded Age. Ritengo interessante una piccola disgressione sul fenomeno nord americano. La Gilded Age si identifica con il periodo che va dall'elezione a presidente degli Stati Uniti di Grant e termina con la presidenza di McKinley. Il termine deriva dal romanzo The Gilded Age di Mark Twain. L'autore satireggia un'epoca di grandi problemi sociali mascherati da una sottile doratura. Tornando in Francia, l'espressione Belle Époque nacque alla fine dell'Ottocento scaturendo, in parte, dalla realtà storica ed in parte da un sentimento di nostalgia per i tempi andati. In quel periodo le invenzioni ed i progressi della scienza furono senza paragoni con le epoche passate.
Inquadrato il periodo, dobbiamo rispondere a qualche domanda. La prima attiene ai motivi per i quali Cervatto fu eletto a luogo privilegiato dalla borghesia piemontese e lombarda. La seconda riguarda le famiglie che salirono sino al borgo, decidendo di migliorare l'aspetto architettonico.  
Perché le famiglie benestanti scelsero Cervatto?  
Vi possono essere molteplici risposte, ma tutte si concentrano sulla tranquillità e sulla bellezza del panorama che si godeva, e si gode, dalle terrazze delle case del piccolo abitato vercellese. Ancora oggi Cervatto è conosciuto con l'appellativo di Conca di Smeraldo. Tra il serio ed il faceto, la risposta la potremmo trovare nel termine borghesia. La parola deriva da borghi, cioè i quartieri sorti all'esterno delle mura che poi venivano inglobati con il successivo allargamento cittadino, poiché la borghesia, agli inizi della sua espansione finanziaria, non poteva permettersi di abitare nel centro cittadino dove abitavano i nobili, ed era così costretta ad abitare in periferia. Magari qualche ricordo dei tempi passati rimase nel sangue dei nuovi ricchi di fine ottocento. Uscendo dal sarcasmo, la borghesia piemontese e lombarda trovò nel borgo di Cervatto quella pace che nelle città di fine Ottocento aveva perduto.

Tra le famiglie che modificarono l'abitato, e la storia di Cervatto, quella dei Borsalino, che fecero erigere una villa chiamata la Cervattina. La Borsalino Giuseppe e Fratello è un'azienda manifatturiera la cui fondazione risale al 1857 con sede ad Alessandria. Al fondatore, Giuseppe, si deve la creazione di un particolare modello di cappello in feltro che prese il nome di Borsalino. Un'altra famiglia che occorre ricordare è la Montaldo, che a fine Ottocento fece erigere un'imponente villa-castello. La modifica architettonica dell'antico borgo passò attraverso famiglie non di origine piemontese, come la Banfi le cui origine affondano in Puglia. Enea Banfi fu uno dei fondatori dell'azienda tessile Manifattura di Legnano, attiva dagli inizi del Novecento al 2008. L'atto costitutivo dell'azienda risale al 1901 e recitava “l'oggetto dell'azienda è la preparazione dei filati, dei tessuti e delle lavorazioni affini”. In pochi anni l'azienda fu conosciuta in tutta Italia per la qualità e la varietà dei filati di cotone. La fortuna della famiglia Banfi fu anche la fortuna di Cervatto. 
Non possiamo dimenticare l'imprenditore Pietro Bayla, operativo nel settore tessile, che fu il principale promotore per la realizzazione della strada carrozzabile che da Varallo giungeva a Fobello, e quindi a Cervatto. L'ultima importante famiglia per la storia del piccolo borgo vercellese è la Dell'Acqua, di origini lombarde.
Il progresso tecnologico che consentì l'abbellimento di paesi, città e borghi, aveva però un prezzo: il benessere di alcuni si basava sulle fatiche di molti. Non tutte le persone godevano degli stessi diritti. Nello stesso periodo storico della Belle Époque, segnatamente tra il 1890 ed il 1914, divenne importante un movimento formato essenzialmente da donne, le Suffragette, che rivendicavano il diritto di voto. 
Poi giunse il giugno del 1914.
L'assassinio dell'arciduca Francesco Ferdinando spense le mirabolanti luci della Belle Époque, incrinando altresì il rapporto tra l'uomo e la montagna. 
Gli eventi narrati, permisero a Cervatto di giungere a noi come una bellissima perla immersa nel verde alpino.
Fabio Casalini

Tutte le fotografie di Cervatto e della Val Mastallone sono di proprietà di Filippo Spadoni


FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.

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