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I Walser di Riva Valdobbia

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Riva Valdobbia, Rifu in Walser, è stato un comune italiano autonomo sino alla fusione con il vicino Alagna Valsesia avvenuta il 22 luglio del 2018. Oggi è una piccola frazione collocata in Val Grande, valle principale della Valsesia, tra Mollia ed Alagna. Ad ovest di Riva Valdobbia si apre la Val Vogna, valle laterale che collega Riva Valdobbia con Gressoney-Saint-Jean attraverso il colle di Valdobbia. La via del colle era frequentata da persone che andavano a lavorare all'estero, sopratutto in Francia. Le molte disgrazie che colpirono gli emigranti, di ritorno dai lavori estivi, spinsero alla costruzione di un rifugio, intitolato al canonico Nicolao Sottile. Il suono della campana collocata sulla facciata dell'edificio serviva ad indicare la via ai viandanti in difficoltà. Nella lingua locale “andare in obbia” significava andare incontro ai parenti di ritorno dai paesi esteri. Il borgo fu fondato da gruppi di coloni Walser provenienti da Gressoney-Saint-Jean. Addentriamoci nella storia di questo piccolo borgo dall'antica storia iniziando dalla conoscenza del popolo che lo fondò. I Walser, parola nata dalla contrazione del tedesco Walliser ovvero vallesano o abitante del cantone Vallese, sono una popolazione di origine germanica che abita le regioni alpine attorno al massiccio del Monte Rosa. 
I Walser appartengono al ceppo degli Alemanni, originariamente un'alleanza di tribù germaniche stanziate intono alla parte superiore del fiume Meno, e giunsero attorno al secolo VIII nell'alto Vallese, in Svizzera. Durante i secoli XII e XIII dei coloni Walser provenienti dal Vallese si stabilirono in diverse località dell'arco alpino italiano, francese, svizzero ed austriaco. L'emigrazione verso queste nuove terre avvenne, probabilmente, per una serie di cause concomitanti. La prima di queste ipotesi attiene alla sovrappopolazione delle terre dell'Alto Vallese che spinse i coloni alla ricerca di nuovi pascoli per il bestiame. Una seconda possibilità riguarda le condizioni climatiche favorevoli che resero possibile la sopravvivenza anche a quote elevate. I ghiacciai si ritirarono permettendo il transito su molti valichi alpini per buona parte dell'anno. L'ultima causa è quella relativa agli incentivi offerti ai coloni Walser da parte dei signori delle terre da colonizzare che favorirono la creazione di stabili insediamenti. Relativamente alla fondazione di un insediamento Walser, il più antico documento scritto risale al secolo XIII e riguarda la colonia di Bosco Gurin nel Canton Ticino. La frazione Peccia, di Riva Valdobbia, risulta già abitata nel 1325. 
Il nome Riva deriva dalla posizione del centro cittadino, posto alla confluenza tra il Sesia e la Vogna. Il termine Valdobbia, ripreso dal colle omonimo, deriverebbe dal detto locale “andare in obbia”, ovvero recarsi incontro ai parenti che tornavano dai lavori estivi effettuati in paesi esteri. Nel corso del tempo furono proposte altre ipotesi sulla derivazione del toponimo, tra cui quella che Valdobbia, per assonanza, derivasse da Val (che) Doppia, poiché permette l'accesso dalla Valsesia alla Valle del Lys. L'abate Gorret suppose che si trattava di Val Dubbia, poiché contesa tra i coloni delle comunità di Gressoney-Saint-Jean e della Valsesia. All'interno dell'abitato di Riva Valdobbia vi è un gioiello artistico, considerato Monumento nazionale: la parrocchiale dedicata all'arcangelo Michele. Questo edificio è molto interessante a livello artistico, sia per il grandioso affresco che ne ricopre la facciata, sia per le opere di arte sacra che sono conservate al suo interno. Un anno è scolpito nella memoria dell'edificio sacro: il 1640. Perché è importante quella data? Era il 1640 quando una piena del torrente Vogna portò con se buona parte della Parrocchiale di San Michele. 
Gli abitanti di Riva Valdobbia decisero di trasferire le funzioni nel più sicuro oratorio dedicato a Santa Maria. L'edificio sacro era da considerarsi cappella cimiteriale, e, forse, da questa funzione possiamo risalire al perché del maestoso affresco che adorna la facciata della chiesa. Se l'oratorio era la cappella di un cimitero, colui che affrescò la scena del Giudizio Universale aveva il compito di ammonire e forse spaventare le persone che si recavano al camposanto per far visita ai propri cari passati di là. Una seconda domanda che mi sono posto riguarda l'autore del magnifico affresco. Gli studiosi tendono attribuire la paternità degli affreschi a Melchiorre d'Enrico, fratello minore di Tanzio da Varallo. Se effettivamente la mano fosse quella di Melchiorre, gli affreschi aumenterebbero di fascino, poiché sarebbero stati dipinti da un ragazzo poco più che ventenne. Analizzando la storia della Parrocchiale e della famiglia d'Enrico, nella quale vi era una forte componente artistica, alcuni studiosi hanno avanzato l'ipotesi che fosse un secondo Melchiorre d'Enrico ad aver affrescato la famosa facciata ed non il più giovane, al quale si lascerebbe l'intervento al solo (bellissimo) San Cristoforo. 
Nasce ora il terzo quesito. Perché la mano dovrebbe essere quella del Melchiorre più anziano? La risposta la si trova nelle figure rappresentate nel Giudizio Universale. Sono di chiara impronta nordica, e dato che il Melchiorre più anziano aveva soggiornato per diverso tempo in Sassonia, gli studiosi hanno avanzato la teoria appena esposta.Vi è ancora una domanda cui ho trovato immediatamente risposta. Perché la chiesa è dotata di due campanili? Il primo (alto circa 34 metri) è riferibile al vecchio oratorio, e venne mantenuto malgrado i lavori di abbellimento e riedificazione della Parrocchiale. Grazie a questi lavori, nel 1661, venne edificata la seconda torre campanaria, molto slanciata rispetto alla precedente. Coloro che hanno ristrutturato l'edificio si sono spinti sino a circa 43 metri di altezza. La risposta, sulla presenza del doppio campanile, sarebbe facilmente rintracciabile nella volontà, ferrea e continuativa, degli abitanti di Riva Valdobbia di abbellire ciclicamente la loro chiesa. Terminato il secondo campanile, i lavori ripresero a partire dal 1735 per ampliare maggiormente la Parrocchiale e donargli quell'aspetto imponente che il Monte Rosa chiedeva. 
Pensavo di aver esaurito le domande, ma essendo ignorante ne sono giunte altre. Quando si è di fronte al giudizio universale sorge spontaneo chiedersi, ma perché San Cristoforo? Riva Valdobbia si trova in Valsesia, all'ombra del Monte Rosa. Nei secoli passati vi erano molti passaggi o passi che permettevano alle genti di spostarsi, proprio a ridosso della Grande Montagna. Montagna che era confine naturale, ancora prima che geografico, tra i diversi popoli. Chi era il santo protettore delle zone di confine? Lui, San Cristoforo. Appena risolto il dubbio un altro segue, ma perché è stato rappresentato smisurato rispetto agli altri personaggi? La figura del santo è davvero enorme rispetto all'affresco (già grande di suo) e tale grandezza era dovuta al fatto che il Santo si doveva scorgere da lontano, come un faro acceso nella notte buia di molti mari del Sud. L'interno della Parrocchiale riveste un grande interesse per la qualità e la quantità di opere d'arte conservate. Oltrepassata la soglia si entra in un particolare mondo sospeso tra il barocco ed il classicismo. 
Lo sguardo cade sulle numerose cappelle presenti e sulla quantità di opere che adornano le stesse. Vi è un motivo per tale ricchezza di arredi sacri. Nel corso del tempo molti oratori della valle Vogna sono stati spogliati dei loro patrimoni artistici con l'intento di trovargli riparo in questa maestosa chiesa posta, quasi, alla fine della strada della Valsesia. Oltre solo Alagna ed il Monte Rosa, splendido guardiano di tutta la valle.

Fabio Casalini


FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.





Terrore barbaro, i Macrocephali

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I barbari posero nei confini dell’impero romano una minaccia costante di invasione.
Essi terrorizzavano l’impero per i continui flussi di popoli che migravano verso l’impero per sfuggire a fame e miseria e alle continue migrazioni e agitazioni di altri popoli barbari.
Ma spesso anche per sottrarre a Roma terra e ricchezza, con atti di saccheggi e attacchi violenti.
Quando le legioni romane venivano a contatto durante le battaglie con questi popoli, spesso tra i soldati vagava un senso di terrore e sgomento dinanzi a questi uomini, che presentavano una stazza fisica imponente ed una forza bestiale.
Per Roma ed il suo pensiero, questi popoli non erano ritenuti civilizzati. Essi erano lontani dai principi romani, e le loro usanze, spesso erano perfino inimmaginabili al mondo latino ed in precedenza la mondo greco.

Il medico Greco Ippocrate (V-IV sec. a.C) descriveva una popolazione dell’Asia minore con queste parole i Macrocephali: "Non c’è altra razza di uomini che li rassomigli. Pensano che la nobiltà sia proporzionata alla lunghezza del cranio. Allora praticano questa usanza: subito dopo la nascita, mentre le ossa del cranio sono ancora tenere, le modellano con le mani e le costringono ad assumere una forma oblunga applicando bendaggi e altri sistemi di costrizione. In questo modo, la forma sferica della calotta viene distrutta e la testa cresce in lunghezza".
Questa usanza antichissima, si affaccia nell’uomo e nel mondo in molte popolazioni e regioni distanti tra loro; in Asia e in Europa, era legata al potere sociale ed una appartenenza all’élite della società, nell’America precolombiana ed in Africa era simbolo di magia e appartenenza alla sfera religiosa e spirituale.
Per dare forma al cranio dei neonati, si applicavano bendaggi sopra delle tavolette di legno, o con la pressioni delle mani, che con forte pressione davano la forma desiderata al cranio ancor molle, provocando nell’individuo un mutamento completo anche nei tratti del volto.
Questi uomini provocavano sgomento dinanzi al mondo classico,  quasi un senso di terrore, come  se essi non fossero umani, questa tecnica, oltre a modificare i tratti somatici, elevava anche in altezza  di parecchi centimetri questi uomini, spesso già imponenti.
Quando la popolazione degli Unni, si stanziò creando un loro regno nell’Europa centrorientale, portò la diffusione di questo rito nei paesi sottomessi che l’addottorano per assomigliare ai loro dominatori.
Successivamente con i Longobardi, che occuparono i territori dell’ex Impero Romano, questa usanza arrivò in Italia, in Piemonte sono stati trovati i resti di questi crani deformati nel cimitero goto-longobardo di Collegno (Torino) ed a Frascaro (Alessandria) in una necropoli ostrogota.
L’integrazione dei barbari nei corso dei secoli con il mondo appartenente all’ex Impero Romano, portò l’estinzione di questa tecnica, che sopravvisse incredibilmente fino al XIX secolo nella Francia sudoccidentale.
Il fascino di questo strano rito, risiede nel fatto che fu utilizzato da popolazioni, che non si videro mai e che non ebbero mai contatti tra loro, nei secoli e nelle enormi distanze di terra e di mare, di lingue e di scritture, di Dei e di arte e di cultura che per sempre gli separavano.
Come se tutti infondo vengano dallo stesso luogo.

Simone De Bernardin


Simone De Bernardin nasce a Verbania sul Lago Maggiore il due settembre 1989. Fin dalla tenera età, dimostra di essere un bambino molto introspettivo, riflessivo e creativo, passa le sue giornate a inventare, osservare, riflettere e a domandarsi i perché dell’esistenza e tutto ciò che riguarda la vita e la natura. Verso la fine delle scuole elementari, comincia a scrivere appunti, riflessioni e poesie su ciò che gli accade e su ciò che lo circonda raccogliendole tutte in un grosso raccoglitore dove continua tutt’oggi a scrivere. Il primo anno di scuola media riceve la sua prima macchina fotografica con la quale comincia a scattare e a sperimentare la fotografia e da subito s’innamora del bianco e nero per la sua capacità espressiva di cogliere l’essenza delle cose.Studia fotografia e comincia a realizzare immagini e poesie che toccano temi tipici del Romanticismo di cui egli si sente attratto e che ne condivide i principi quali, il tema dell’infinito, il sentimento, il mistero, l’inconscio, la natura e il rapporto tra vita e morte. Nel 2012, realizza la sua prima mostra fotografica, presso il Comune di Verbania, e successivamente partecipa al concorso Il Segno dove viene segnalato come giovane artista, esponendo le sue opere a Venezia presso Palazzo Zenobio e successivamente a Milano presso la Galleria Zamenhof. Nel 2013 raccoglie un'insieme di sue poesie in un libriccino dal titolo Animam Meam. Nel 2014 termina il suo primo romanzo Lettere.

Il mostro di Ravenna, tra mito e leggenda

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“Al dì 8 marzo. Come in Ravenna è nato di una monica et un frate un mamolo a questo che te scrivo. Haveva la testa grossa, coon un corno nella fronte et una bocca grande; nel petto tre lettere come vedi qua: YXV, con tre peli allo petto una gamba pelosa con una zampa de diavolo, l’altra gamba de homo con un occhio in mezzo alla gamba; mai homo se recorda simile cosa. Lo governatore della terra mandàne nella carta a papa Iulio secondo."
Ravenna otto marzo 1512, un bambino “mostruoso” viene messo al mondo da una monaca gravida di un frate.  L’aspetto del fanciullo incute terrore e sgomento tra i testimoni.  Papa Giulio II, ordina che venga subito abbandonato nel bosco, e che la sua sorte sia lasciata in mano a Dio.  La notizia sfugge da Ravenna ed in poco tempo raggiunge le più importanti corti europee, iniziano a girare rappresentazioni, disegni ed iconografie della creatura, giungono studiosi, e nascono nuove descrizioni; al mostro vengono aggiunte caratteristiche diverse, giunte da ogni parte del vecchio continente. 

Un farmacista noto di Firenze, Luca Landucci, descrive così la bestia: “Dove sono le poppe aveva dal lato ritto un fio, e dall’altro aveva una croce più in giù, nella cintola, due serpe, e dov’è la natura era di femmina e di maschio.” 
Questi tipi di nascita, in epoca passata, erano fonte di credenza della manifestazione del divino nelle vicende dell’uomo, esse erano presagi di sventura, annunciavano l’inizio di un periodo di forti travolgimenti, di crisi o di crolli di imperi, teste e corone. 
In questo caso, la nascita di quella creatura segnò l’inizio di una delle guerre più cruente e sanguinarie della storia. 
L’undici aprile del 1512, nel giorno di Pasqua, nei pressi di Ravenna l’esercito francese, guidato dal condottiero Gaston de Foix, sfidò le truppe della Lega Santa, comandata dal viceré di Napoli Raimondo de Cardona e da Pietro Navarro. 
Alla sanguinosa battaglia, dove caddero all’incirca 20 mila uomini, fu utilizzata per la prima volta nella storia l’artiglieria da campo, che rivoluzionò il tradizionale metodo di combattimento medioevale, basato sulla difesa e fortificazioni ma soprattutto dalla nobile etica della cavalleria; le armi d’artiglieria colpivano indistintamente uomini, donne, bambini e soldati. 
Alla guerra parteciparono i più grandi condottieri d’Europa: Antonio di Leyva, Fabrizio I Colonna, Fernando d’Avalos Marchese di Pescara, Ettore Fieramosca, Romanello da Forlì, Giovanni Capoccio, Raffaele de’ Pazzi, Francisco de Carvajal, Fanfulla da Lodi nell’esercito della Lega Santa; Carlo III di Borbone, Teodoro Trivulzio, il cavalier Baiardo, Odet de Foix, Federico Gonzaga, Jacques de La Palice, Yves d’Alegre, Alfonso I d’Este, Gaston de Foix da parte francese. 
L’esito della battaglia fu devastante a livello umano, i Francesi ottennero la vittoria insieme ad Alfonso d’Este, Ravenna indifesa segnò la resa senza condizioni, ma brutalmente fu presa d’assalto. 
Fu saccheggiata dei suoi tesori, furono rubati i suoi ori sacri, le chiese vennero spogliate delle loro opere artistiche, le donne furono violentate, gli uomini uccisi. 
Una barbaria indescrivibile pulsò in quegli uomini privi di ogni limite. 
Più di 2000 civili persero la vita. 
Sebastiano Menzocchi descrive così questa atrocità: “…l’esercito francese e il marchese di Ferrara dette l’assalto et batteria a Ravenna et la prese, entrano dentro ed mese tutta la terra a sacho, ammazzando gente asai peggio dei Turchi tolsero le mogli a loro mariti, et le figlie a padri et alle dolenti et afflitte madri, che, peggio che più nanzi non esplicare, le suddette mogli et figlie eran condutte in presenza et vista delli mariti et padri a svergognarle et violarle, ligando li mariti spogliava nude le innocente et infelice donne operando in loro ogni disonestà et scelleratezza, poi eseguiti gli effetti inhumani et bestiali, ammazzavano lì mariti et le donne svergognate le menavano di poi al campo, quando non havean facultà né denari da pagare le taglie, et anche rescosse le trattava come prima senza avere rispetto né a Dio né ai Santi…”. 
Testimoni oculari dicono di aver avvistato tra le mura violentate di Ravenna, la creatura demoniaca gioire e ridere nel vedere morire la città che l’aveva condannata alla morte in un bosco. 
Il giovane condottiero Francese Gaston de Foix morì sul campo di battaglia trafitto da una picca. 
A soli 22 anni, entrò nella storia come un dei più grandi generali mai esistiti. 
Il suo feretro fu trasportato fino a Milano, dove il suo corpo fu sepolto nel Duomo della città. 
La monumentale tomba fu affidata allo sculture Agostino Busti detto il Bambaia che mai terminò. 
Il Vasari descrive così l’opera non compiuta: «ell'è tale quest'opera che mirandola con stupore stetti un pezzo pensando se è possibile che si facciano con mano e con ferri sì sottili e maravigliose opere, veggendosi in questa sepoltura, fatti con stupendissimo intaglio, fregiature di trofei, d'arme di tutte le sorti, carri, artiglierie e molti altri instrumenti da guerra, e finalmente il corpo di quel signore armato e grande quanto il vivo, quasi tutto lieto nel sembiante così morto, per le vittorie avute. E certo è un peccato che quest'opera, la quale è degnissima di essere annoverata fra le più stupende dell'arte, sia imperfetta e lasciata stare per terra in pezzi, senza essere in alcun luogo murata, onde non mi maraviglio che ne siano state rubate alcune figure e poi vendute e poste in altri luoghi.»

Simone De Bernardin

Simone De Bernardin nasce a Verbania sul Lago Maggiore il due settembre 1989. Fin dalla tenera età, dimostra di essere un bambino molto introspettivo, riflessivo e creativo, passa le sue giornate a inventare, osservare, riflettere e a domandarsi i perché dell’esistenza e tutto ciò che riguarda la vita e la natura. Verso la fine delle scuole elementari, comincia a scrivere appunti, riflessioni e poesie su ciò che gli accade e su ciò che lo circonda raccogliendole tutte in un grosso raccoglitore dove continua tutt’oggi a scrivere. Il primo anno di scuola media riceve la sua prima macchina fotografica con la quale comincia a scattare e a sperimentare la fotografia e da subito s’innamora del bianco e nero per la sua capacità espressiva di cogliere l’essenza delle cose.Studia fotografia e comincia a realizzare immagini e poesie che toccano temi tipici del Romanticismo di cui egli si sente attratto e che ne condivide i principi quali, il tema dell’infinito, il sentimento, il mistero, l’inconscio, la natura e il rapporto tra vita e morte. Nel 2012, realizza la sua prima mostra fotografica, presso il Comune di Verbania, e successivamente partecipa al concorso Il Segno dove viene segnalato come giovane artista, esponendo le sue opere a Venezia presso Palazzo Zenobio e successivamente a Milano presso la Galleria Zamenhof. Nel 2013 raccoglie un'insieme di sue poesie in un libriccino dal titolo Animam Meam. Nel 2014 termina il suo primo romanzo Lettere.





La Riserva Menominee, racconto di un viaggio indimenticabile

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Quello che segue è il racconto di un un’esperienza di viaggio che rimarrà impressa nella mia memoria per sempre. Nell’estate del 2017, insieme ad Anna, la mia compagna, ho trascorso una decina di giorni in Wisconsin, nei pressi di Keshena, nella riserva della tribù Menominee.
Abbiamo avuto il privilegio di essere ospiti di una famiglia davvero speciale: i Fernandez. Wade Fernandez, il capofamiglia, è un bluesman e un polistrumentista eccezionale: passa con disinvoltura dalla chitarra al flauto tradizionale e le sue canzoni – le mie preferite sono Sawaenemiyah (Blessed) e Still Standing Proud– vibrano di amore per la vita e serenità. La musica che compone fonde con eleganza il blues e il rock con influenze indiane e tradizionali, creando atmosfere coinvolgenti ed evocative. Nei suoi testi si riflette l’attualità della vita in Riserva, ma anche un messaggio più ampio e universale di comunione e fratellanza.
Il suo nome nativo è Wiciwen Apis Mahwaew, che significa “cammina con il lupo nero”. Si trova spesso in tour in Europa – soprattutto in Germania e Svizzera, dove è molto noto e apprezzato - ed è così, durante una sua tournée italiana organizzata dall’Associazione Soconas Incomindios, che ci siamo conosciuti.
Paula Fernandez, sua moglie, ha dedicato l’intera vita ad apprendere e divulgare la cultura della propria tribù e dei nativi americani e, come amo definirla, è una vera e propria enciclopedia vivente in materia. Il suo nome nativo è Kamewanukiw, che significa letteralmente “Donna della pioggia”, ma ha in realtà un significato più ampio. Una traduzione più accurata è “spirito della prima pioggia che porta la vita in primavera”. Il nome le è stato attribuito a causa dei suoi sforzi per riportare in vita la cultura e le tradizioni menominee.
È stata per noi un’amica, una guida e una maestra. I loro cinque figli, Wade Jr, Cedar, Quentin, Blaize e Rain, sono stati gentili con noi e abbiamo trascorso insieme molte ore di gioco e relax.
Ho imparato molto in quei giorni, ma ho esitato a lungo prima di accingermi a scrivere. In parte per un profondo rispetto e per la paura di “tradire”, con la mia interpretazione, la bellezza e la profondità dei contenuti che mi sono stati trasmessi.  In parte, perché penso che occorrerebbe uno scrittore migliore di me per cantare questa canzone, per trasmetterne intatto il significato.
In ogni caso, alla fine, mi sono deciso, perché ho pensato che il regalo che ci è stato fatto da Wade e Paula sia troppo bello per tenerlo per me stesso.
La loro storia, quella del loro popolo, merita di essere raccontata e conosciuta. Non importa, spero, che io sia un bianco che parla di tradizioni non sue: in fondo, siamo tutti uomini che vivono, amano e muoiono su questa terra. Conoscerci meglio, forse, può aiutarci ad andare oltre le differenze, rispettandole senza cancellarle, per trovare un terreno comune di dialogo e comprensione.

Chi sono i Menominee

Vista dallo spazio, la riserva dei Menominee è un rettangolo verde. Nel resto dello stato del Wisconsin, il verde è molto più pallido, in seguito ad anni di disboscamento, allevamento intensivo e inquinamento: quello che chiamano “progresso”, insomma. 
La riserva, oggi, è una frazione piccolissima di quella che era in origine la terra ancestrale di questo popolo, erosa progressivamente dai trattati e dagli inganni dell’uomo bianco. All’interno dei suoi confini, i nativi sono riusciti a rispettare la foresta, applicando tecniche di taglio selettivo che oggi vengono studiate in tutto il mondo.
Oltre alla vegetazione, i Menominee hanno conservato anche un ricco e vasto patrimonio di tradizioni e pratiche, purtroppo quasi sconosciuto ai più perché rimasto lontano dai riflettori hollywoodiani, da sempre puntati sugli indiani delle grandi pianure e sulle battaglie della seconda metà del 1800. La storia di questo popolo, tuttavia, ha un fascino profondo e discreto che merita di venire divulgato, perché i Menominee continuano a lottare ancora oggi, per esistere e per conservare la ricchezza inestimabile della loro lingua e delle loro tradizioni.
I Menominee sono una tribù nativa nordamericana che fa parte della famiglia degli Algonchini, un ceppo attestato tra Stati Uniti e Canada che comprende varie altre tribù (Ojibwa, Delaware, Shawnee…), affini tanto per la lingua che per tradizioni e folklore.
Menominee è la traslitterazione del modo in cui i vicini Ojibwa chiamano questa tribù, che significa “popolo del riso selvatico”, ma i Menominee chiamano se stessi in un altro modo, Mamaceqtaw, che significa semplicemente “il popolo” (questo è il significato comune di molti altri nomi di tribù aborigene, pensiamo ad esempio ai Lakota). Un altro modo per definirli è Kiash Machatiwuk, ovvero “gli uomini Antichi”, le altre tribù della zona li chiamano così.

Preistoria

Quest’ultimo nome risulta essere particolarmente azzeccato. Conversando con diversi membri della tribù, all’interno della riserva, mi è capitato spesso di sentir dire “noi siamo qui da sempre”. E le radici di questo “sempre” affrontano davvero nella notte dei tempi, in quanto esistono prove archeologiche che attestano che la presenza di nativi in Wisconsin risale a oltre 14.500 anni fa.
La riserva dei Menominee è un luogo incredibilmente ricco di resti archeologici: al suo interno, una piccola equipe di archeologi, guidata dal Dott. David Overstreet, lavora in collaborazione con i nativi per riportare alla luce i segni e le prove di questo passato remotissimo. Il lavoro dell’archeologo, in questo caso, non si limita semplicemente al ritrovamento di reperti, ma va anche nella direzione opposta: restituire alla terra che le ospitava le reliquie sacre un tempo trafugate. Il lavoro scientifico, in questo caso, non va a detrimento delle credenze tradizionali, ma collabora con esse: nel corso degli anni, Overstreet si è guadagnato la stima e il rispetto dei locali.              
Uno dei ritrovamenti più sensazionali di questo studioso risale al 1994, quando la sua equipe rinvenne uno scheletro quasi completo di mammut: oggi, è possibile ammirare questo imponente e suggestivo reperto nel Milwaukee Public Museum.
Questo mammut, significativo già di per sé, è ancora più importante per un dettaglio: su alcune delle sue ossa sono presenti delle incisioni derivanti da strumenti in pietra, che indicano che il mastodonte era stato macellato da esseri umani. Questi graffi, datati al radiocarbonio, hanno spostato a 14.500 anni fa la presenza umana in Wisconsin mentre, sino ad allora, si pensava che i primi insediamenti risalissero a 13.000 anni fa, con la cosiddetta civiltà Clovis.
Conversare con il Dott. Overstreet è terribilmente interessante: lo ascolto rapito e vorrei che il nostro incontro non finisse mai. Frequenta la Riserva da oltre vent’anni ed è bello sentirlo raccontare di come, analizzando i racconti e le leggende Menominee o aggirandosi per la foresta in compagnia degli anziani, sia riuscito a trovare resti archeologici, vasellame e tumuli funerari. Storia e leggenda, in questo caso, coincidono, e, incastonati nella tradizione orale, ci sono molti tesori ancora da scoprire.
I ritrovamenti di Overstreet e della sua equipe nei pressi del Wolf River, il fiume che attraversa la riserva, ci parlano di una civiltà antica ma, per certi versi, sorprendente, che coniugava la caccia e la raccolta di frutti spontanei con la coltivazione della terra.
Sebbene i Menominee siano definiti “il popolo del riso selvatico”, in realtà coltivavano anche mais e altri tipi di cereali. Proprio il mais consentì a questa popolazione di sopravvivere alla Piccola Glaciazione dell’8000 a.C.  circa, che mieté invece molte vittime in Europa: la maturazione rapida di questo cereale, infatti, si adattava meglio alla stagione più corta e permetteva di placare la fame.
I segni di queste antiche coltivazioni sono tutt’ora visibili in molte parti della foresta, dove non è infrequente imbattersi nei “beds”,  i “letti”:  larghi solchi scavati nel terreno migliaia di anni fa, utilizzati per far crescere i cereali. La terra veniva arata con bastoni di legno, le cui punte vennero progressivamente ricoperte prima in osso e poi in rame, per aumentarne la durezza e la durata. Le zolle venivano poi rivoltate con scapole di bisonte. Il rame utilizzato era di origine vulcanica, quindi non veniva fuso ma semplicemente battuto a freddo.
Lo stoccaggio e la cottura dei cereali avvenivano in vasi di terracotta temperati con gusci di conchiglia. L’utilizzo dei gusci di conchiglia per la cottura del vasellame svolgeva una duplice funzione: oltre a conferire maggiore durezza ai contenitori, rilasciava carbonio, che andava ad arricchire gli alimenti, prevenendo le patologie derivanti da un grande consumo di mais, quali pellagra e osteoporosi. Simili raffinatezze mettono in crisi la sommaria classificazione di “civiltà primitiva”!
È importante evidenziare come l’archeologia, in casi come questo, non sia un mero studio accademico ma assuma sempre dei forti connotati politici. Nel corso degli anni, molti studiosi, non sempre intellettualmente onesti, hanno cercato di posticipare il più possibile la data di insediamento dei Menominee e di altre popolazioni native, al fine di giustificare, in qualche modo, la successiva colonizzazione avvenuta ad opera dei bianchi. C’è stato chi, addirittura, ha ipotizzato che l’insediamento dei nativi americani, i cosiddetti “indiani”, sia avvenuto ai danni di una civiltà antecedente, la cosiddetta “Civiltà dei Mounds”, come per attenuare le colpe derivanti dal genocidio causato dagli Europei. Secondo questo discutibile modo di argomentare, colonizzare un popolo colonizzatore sarebbe, teoricamente, meno grave di imporsi su chi ha abitato quella terra da sempre.
Gli studi attuali, come quelli operati da Overstreet e dalla sua equipe, dimostrano il contrario e, nel corso degli anni, hanno smontato le teorie di chi sosteneva che i Menominee si fossero insediati in un periodo recenziore, dimostrando che il legame tra questo popolo e la terra che abita è vecchio come il mondo e merita tutto il rispetto possibile.
Il Dott. Overstreet considera in modo critico la famosa “teoria dello stretto di Bering”, che sostiene che i nativi americani siano giunti nel “Nuovo Mondo” percorrendo a piedi la Beringia, un istmo che collegava Asia e America. A suo giudizio, infatti, i ritrovamenti recenti dimostrano che l’America era stata raggiunta molto tempo prima, per mezzo di imbarcazioni, sia dalla Polinesia, che dalla penisola iberica, che dal Giappone. Nell’America Meridionale, ad esempio, esistono siti che risalgono a 22.500 anni fa, la cui semplice esistenza basterebbe a confutare l’ipotesi dello Stretto di Bering, ma, forse per orgoglio accademico, la teoria continua a godere di credito.
La ricerca sul passato non si limita soltanto agli scavi: nella Riserva si pratica anche un innovativo sistema di archeologia sperimentale, che consiste nel ricreare un antico insediamento, riproducendone le capanne (wigwam) e le colture, ma anche l’uso e la costruzione di lance e di altri utensili per la vita quotidiana in quel passato remoto. Nel corso di questo esperimento si è scoperto, ad esempio, che quel tipo di vita era estremamente duro, che presupponeva la cooperazione di tutta la comunità, perché una famiglia isolata non ce l’avrebbe mai fatta.
La cosa positiva di questi progetti è che non vengono imposti, ma sono fatti nel pieno rispetto delle credenze e della cultura tribale e, di conseguenza, godono di credito e collaborazione da parte dei residenti nella riserva. Il dottor Overstreet è oggi in età avanzata e a succedergli sarà probabilmente una giovane studiosa menominee, che ha imparato ad amare l’archeologia attraverso i campi estivi organizzati da lui.
All’interno della riserva si trovano ben due musei. Uno è dedicato al taglio della foresta, una vasta esposizione di asce, carrucole, cordame e ogni sorta di utensile per tagliare e spaccare la legna. Il secondo, piccolo ma molto curato e interessante, è dedicato alla storia della tribù e raccoglie manufatti e testimonianze materiali di questo popolo.

[continua]

Gian Mario Mollar


Bibliografia
Patty Loew, Indian Nations of Wisconsin, Wisconsin Historical Society Press, 2013

David R. M. Beck, Siege & SurvivalHistory of the Menominee Indians (2 volumi), University of Nebraska Press, Lincoln & London, 2002

La musica di Wade Fernandez



Il sito della tribù Menominee e della Riserva

Testo: Gian Mario Mollar
Consulenza e revisione del testo: Paula Fernandez

Foto: Anna Di Stefano

GIAN MARIO MOLLAR
Classe 1982, si è laureato a pieni voti in Filosofia presso l’Università di Torino, con una tesi sul neoplatonismo magico. Uomo dagli interessi eclettici e disparati, dalla pesca all’esoterismo, dal trekking alla letteratura, da bambino ha incontrato Tex e Zagor, e da allora prova un’attrazione irresistibile per la Frontiera Americana, che rappresenta per lui il luogo dell’avventura e del sogno. Attualmente collabora con siti internet quali Farwest.it e Axis Mundi, nonché con la rivista Tepee di Soconas Incomindios, un comitato di solidarietà con i popoli nativi americani. Nei suoi scritti cerca di evidenziare aspetti insoliti e poco conosciuti dell’epopea western, il cosiddetto Weird West, una terra di mezzo in cui folclore e leggenda si fondono con la storia. Nel gennaio 2019 uscirà il suo primo libro, I misteri del Far West, per i tipi di Edizioni Il Punto d’Incontro.


L'assurdo processo pubblico a Francesco De Gregori

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Era il 1977 quando Roberto Vecchioni si fece conoscere al grande pubblico con l’album Samarcanda. I temi ricorrenti del disco sono quelli tipici di Vecchioni, natura, morte, amore, nostalgia e poesia. All'interno dell’album una canzone più di altre merita approfondimenti e ricerche: Vaudeville. La definizione riporta alla commedia brillante e leggera, basata sulla satira e sull'intrigo, che ebbe molto successo tra la fine del Settecento e gli ultimi decenni dell’Ottocento. La canzone, scritta ed interpretata da Roberto Vecchioni, fa riferimento ad un avvenimento occorso al cantautore romano Francesco De Gregori nella primavera dell’anno precedente. Lo stesso Vecchioni in un’intervista disse: “Ricordo il processo ideologico a De Gregori al Palalido di Milano che portò Francesco ad interrompere il tour e a isolarsi per un lungo periodo, culminato con la scrittura e la pubblicazione di Generale ed altri capolavori. Dell’episodio assurdo capitato a De Gregori ne parlo in Vaudeville, che fa parte di Samarcanda”
Vaudeville è una canzone irreale e grottesca che stigmatizza la concezione di vedere il cantautore come un guru e non come un qualsiasi uomo di spettacolo. Questa visione si comprende leggendo attentamente il testo:
E spararono al cantautore
in una notte di gioventù,
gli spararono per amore
per non farlo cantare più
gli spararono perché era bello
ricordarselo come era prima,
alternativo, autoridotto,
fuori dall'ottica del sistema.
[Scemo, scemo]
Mentre cadeva giù dalle tasche
gli rotolavan di qua e di là
soldi di Giuda, bucce di pesche
e tante altre curiosità,
mentre cadeva, buono tra i buoni
e si annebbiava vieppiù la vista
fece di getto due o tre canzoni
segno che era un grande artista.
[Scemo, scemo]
E spararono al cantautore
in un eccesso di gioventù,
gli spararono per ricordarlo
come era stato e non era più.
E con il mento fra le due assi,
steso sul palco con gli occhi bui,
senti gridare dietro quei passi
"Se lo mangiamo siam come lui"
Risaliamo la linea del tempo sino al 1976. Nella primavera di quell'anno De Gregori intraprese una tournée che partì da Pavia. La seconda tappa si svolse al Palalido di Milano, il 2 aprile, con due concerti, uno pomeridiano ed uno serale. Nel corso dell’appuntamento serale alcuni ragazzi dei collettivi politici studenteschi salirono a più riprese sul palco interrompendo il concerto. L’obiettivo era di leggere di fronte al pubblico un comunicato contro l’arresto, avvenuto alcuni giorni prima a Padova, di un militante della sinistra extraparlamentare. Tra i ragazzi che interruppero il concerto la figlia di Giorgio Bocca ed il leader del gruppo musicale Kaos Rock. I collettivi politici studenteschi avevano un secondo fine per giustificare quell'azione: contestare il cantautore ritenuto colpevole di praticare uno stile di vita lussuoso e di utilizzare, o strumentalizzare, i temi della sinistra per arricchirsi. Secondo la ricostruzione di Mario Luzzatto Fegiz, alle 22.30, dopo aver eseguito alcune canzoni controvoglia, De Gregori decise di chiudere la propria esibizione. I contestatori, paventando disordini, lo spinsero a tornare sul palco sotto la minaccia di una pistola. Francesco De Gregori fu sottoposto ad una serie infinita di domande. Gli aderenti al movimento studentesco accusarono verbalmente il cantautore con frasi dal tono intimidatorio, tra le quali: 
“Suicidati come Majakovskij”
“Vai a fare l’operaio e suona la sera a casa tua” 
“Quanto hai preso stasera?”
Dopo circa una ventina di minuti dall'inizio della delirante farsa, la polizia fece irruzione all'interno del Palalido lanciando fumogeni al fine di disperdere i contestatori.
Le prime parole di Francesco De Gregori furono:“Non canterò mai più in pubblico. Stasera mancava solo l’olio di ricino, poi la scena sarebbe stata completa”.
Pochi giorni dopo l’incredibile evento, il cantautore romano scrisse una lettera a Muzak – rivista musicale italiana fondata nel 1973 a Roma - dichiarando che i contestatori avevano commesso “un grave errore politico, che non può che consolidare l’universo musicale consueto e ricacciare a destra autori e gruppi potenzialmente disponibili ad iniziative di sinistra”.
Nonostante il minacciato ritiro dalle scene, nell'autunno dello stesso anno De Gregori fu nuovamente sul palco per una serie di concerti tra Palermo e La Spezia. Terminati questi pochi spettacoli, si prese un anno di lontananza dalla scena musicale. L’episodio colpì profondamente il mondo della musica. Oltre alla citata Vaudeville di Roberto Vecchioni, altre canzoni fanno esplicito riferimento al pubblico processo a De Gregori: Era una festa di Edoardo Bennato e Nel tempo di Luciano Ligabue.
La canzone di Bennato ricorda il clima surreale di quella serata con le seguenti parole:
Francesco forse non se lo aspettava
vedeva intorno a se solo ragazzi come lui
gli dicono compagno sei in errore
la tua avventura si conclude
noi invece andiamo avanti e non ci fermeremo mai
Luciano Ligabue ricorda gli eventi nella canzone Nel tempo del 2010:
C’ero nel ‘settantasette
a mio modo e col mio passo
il processo a De Gregori
C’ero coi Police a Reggio
c’erano due torri e un muro
e Berlinguer e Moro lì
Nel 1978 Francesco De Gregori tornò sulla scena musicale con il bellissimo album De Gregori, disco contenente la famosa Generale. Nel mese di luglio dello stesso anno, De Gregori e Lucio Dalla tennero un memorabile concerto allo stadio Flaminio di Roma davanti ad oltre 40.000 spettatori. Quella sera fu l’inizio di una bellissima avventura che si concluderà l’anno successivo, dopo una serie incredibili di concerti da tutto esaurito. Ai concerti seguì un film ed un disco da oltre 500.000 copie vendute. De Gregori e Dalla ottennero un seguito popolare che non aveva precedenti nella storia della musica italiana, rivoluzionando il modo d’intendere il rapporto tra il cantautore ed il suo pubblico. Furono i primi a sbarcare negli stadi di calcio. Purtroppo anche Lucio Dalla conoscerà la contestazione ad un suo concerto: i fatti si svolsero a Milano nella magnifica cornice del Castello Sforzesco. Il 24 luglio del 1978, il palco dal quale cantava Dalla fu investito dal lancio di una bomba molotov. Quelle atmosfere si respirano nelle parole di Bennato: Era una festa e sembrava una guerra, era Roma e sembrava il Vietnam.

Fabio Casalini

FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.




Menominee, il popolo del riso selvatico

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Come abbiamo visto, Menominee significa “popolo del riso selvatico”: la raccolta di questo particolare tipo di cereale, dal chicco scuro e allungato, era una prerogativa di questa tribù, che la condivise con le popolazioni limitrofe e anche nel corso dei contatti con l’uomo bianco.
Il riso selvatico cresce lungo il corso dei fiumi, in luoghi in cui l’acqua scorre senza però essere troppo impetuosa. La raccolta avveniva – e avviene tutt’ora, sebbene in misura molto più limitata e soprattutto allo scopo di tramandare la procedura rituale – a bordo di canoe: le piante venivano scosse gentilmente all’interno della canoa per far sì che depositassero i chicchi sul fondo dell’imbarcazione.
Nel corso della raccolta, una buona parte di chicchi si disperde nell’acqua, dando così vita ad altre piante: il riso selvatico cresce se viene raccolto, perché è la raccolta stessa a favorirne la diffusione. Questa dinamica è il significato dell’espressione indiana: “ovunque vadano i Menominee, il riso selvatico li segue”.
Una volta raccolto il riso viene “danzato”. Nel corso della danza rituale, l’impatto dei piedi nudi con i chicchi separa la pula, che viene successivamente setacciata. Il prodotto così ottenuto si poteva conservare a lungo, garantendo alla tribù di sopravvivere durante l’inverno.
Oltre al riso selvatico, i Menominee ricavano tradizionalmente anche lo zucchero dallo sciroppo estratto dall’acero, il maple syrup. Il procedimento prevede l’incisione degli alberi per farne fuoriuscire la linfa, che viene successivamente bollita fino a condensarla.
Un’altra fonte di sopravvivenza era la pesca dello storione, considerato animale sacro e spirituale. Proprio come il salmone, gli storioni un tempo risalivano il corso del Wolf River per venire a depositare le uova nei pressi della riserva. L’arrivo degli storioni, in primavera, costituiva un momento di festa e preghiere, in cui vita materiale e vita spirituale si incontravano e fondevano.
La costruzione di alcune dighe a valle della riserva, nei pressi della città di Shawano, ha purtroppo decretato la fine di questo rituale, impedendo ai pesci di risalire la corrente del fiume.
Da alcuni anni, tuttavia, i Menominee sono riusciti a dare nuova vita a questo antico rito, trasportando alcuni esemplari di storione che sono riusciti a insediarsi e a depositare le uova nei pressi delle cascate di Keshena Falls. L’obiettivo, naturalmente, non è tanto quello di mangiare il pesce, quanto piuttosto di praticare una tradizione che, altrimenti, sarebbe destinata a estinguersi per sempre. Nel frattempo, inoltre, si stanno studiando degli scivoli che dovrebbero permettere agli storioni di superare in autonomia le dighe lungo il fiume, ma al momento si tratta di poco più di un progetto.
Insomma, le fonti di sostentamento di questo popolo erano legate al ciclo stagionale: il riso selvatico in autunno, la caccia in inverno, gli storioni e lo sciroppo d’acero in estate, la coltivazione di ortaggi e cereale in estate. La sopravvivenza non era un semplice fatto strumentale, ma assumeva connotati spirituali e religiosi, come si evince dai racconti di fondazione, che riflettono il cuore e la struttura di quella che era la società menominee.
Nella mitologia Menominee, dopo che il Creatore ebbe terminato la creazione, un Orso spuntò dalla terra e, risalendo il fiume, si rivolse a lui, chiedendogli di diventare un uomo. Il Creatore acconsentì a questa sua richiesta, trasformandolo così nel primo Menominee. L’Orso, poi, proseguì nel suo percorso e, sentendosi solo, chiese all’Aquila di scendere dal cielo per diventare sua sorella, trasformandola a sua volta in essere umano. La stessa procedura si ripeté con altri animali, quali il Castoro, la Gru, il Lupo e l’Alce: ognuno di essi divenne uomo e, a sua volta, adottò altri animali. Tutti insieme, questi Fratelli formarono la tribù dei Menominee.
Miti come quello di fondazione possono apparire “primitivi” se considerati con le categorie del pensiero occidentale, ma sono in realtà molto meno ingenui di quel che sembra. L’Orso non è semplicemente un animale parlante: nella lingua Menominee, esso indica piuttosto un clan e il luogo dove esso risiedeva, così come per tutti gli altri animali della storia. Il mito, dunque, non parla tanto di bestie e magie, quanto di incontri tra gruppi umani differenti, che si uniscono a formare un popolo.
La tribù è infatti composta da clan, ognuno dei quali porta il nome di uno di questi animali fondatori. La struttura è piuttosto complessa: ogni clan è una sorta di famiglia allargata che provvede a uno o più bisogni fondamentali per la tribù. Ad esempio, dal Clan dell’Orso provengono in genere gli oratori e i politici, dal Clan dell’Alce, invece, i guardiani che badano alla sicurezza interna, mentre dal Clan del Lupo i cacciatori, e così via.
I racconti tradizionali dei Menominee racchiudono significati profondi e ramificati su più livelli: per questa ragione molti di essi considerano in modo critico la commercializzazione della spiritualità nativa che viene spesso operata. Spesso noi occidentali giochiamo a “fare gli indiani”, senza renderci conto che le nostre semplificazioni sommarie possono risultare offensive per chi ha radici profonde.

Un pomeriggio di pioggia con Dave Napos

Ho trascorso un intero pomeriggio piovoso a chiacchierare con Dave Turney. Ci incontriamo per caso: è un cugino di Paula, venuto per aiutarla a sistemare delle tubature in casa. Indossa un cappello da baseball con la scritta “Viet Nam Veteran”, veterano del Vietnam, e scopro ben presto che ha un bagaglio incredibile di storie da raccontare. Il suo nome menominee è Napos Netaekamen, che significa letteralmente “primo coniglio”.
Mentre sorseggiamo caffè alla cannella e la pioggia increspa la superficie del lago Legend, mi racconta che quando si è arruolato nell’esercito aveva soltanto diciassette anni, e non aveva neanche idea di dove si trovasse il Vietnam.
Ha servito in una squadra per il recupero dei feriti. Mi racconta che vent’anni dopo, nel 1995, nel corso di un pow-wow ha incontrato un altro veterano, un Ojibwa. Chiacchierando, si sono resi conto che quello non era la prima volta che si vedevano: vent’anni prima, Dave lo aveva soccorso, mentre era ferito e minacciato dal fuoco dei viet kong.
Si ricorda ancora il bombardamento di Natale di Hanoi del 1972, le esplosioni che illuminavano a giorno la baia, e di tante altre “bad things”, di cui preferisce non parlare. Anche in ambito militare c’era razzismo: lo chiamavano “indian” e “Chief”, ma dopo i primi tempi non erano in molti quelli che si azzardavano a schernirlo, perché Dave sapeva difendersi.
Chiacchieriamo, e i discorsi si estendono in cerchi concentrici: dal pugilato, che entrambi amiamo, al cinema, dalle macchine sportive americane, un’altra passione comune, alla cultura menominee. Dave mi spiega che una delle cose che lo irritano maggiormente è la commercializzazione della cultura nativa: “Ci sono molti che scoprono di colpo di essere indiani e si mettono a vendere ciarpame new age come lo zodiaco indiano. Un giorno mia nipote è tornata a casa da scuola e mi ha raccontato che la maestra gli aveva insegnato il suo nome indiano. Ho dovuto spiegarle che lei aveva già un nome tribale e faceva parte di un clan, e poi ho chiesto alla maestra di evitare questo genere di attività”. I Menominee sono giustamente sensibili sulle loro origini e tradizioni ed esigono che vengano rispettati anche dai bianchi.
Parlando di cinema, Dave mi confessa di adorare i film western, ma mi dice anche che tutta la produzione di Hollywood è farcita di errori grossolani e di imprecisioni, che fanno ridere i nativi. In particolare, mi fa notare che gli attori che impersonano protagonisti nativi americani sono quasi sempre dei bianchi travestiti da indiani: un dettaglio significativo, che la dice lunga sull’impostazione culturale alla base di questi spettacoli. In ogni caso, la produzione cinematografica è diventata più favorevole a partire degli anni ’70, in cui si è passati dalla rappresentazione dell’indiano cattivo a una più umana e articolata, nonché più corretta da un punto di vista storico. “Piccolo Grande Uomo”, ricorda, è stato uno dei primi film a rappresentare questa svolta.

L’arrivo dell’uomo bianco

In una sera d’estate, mentre il sole tramonta lentamente, tingendo il cielo di rosa e ricoprendo il lago di scintille d’oro, Paula ci racconta di un’antica profezia. Sediamo nel prato davanti alla casa, di fianco al luogo sacro in cui sorge la capanna sudatoria, con i suoi dodici pali e la ruota di medicina delle quattro direzioni. Sorseggiamo the freddo, perché l’alcol è considerato un pericolo e un grande nemico all’interno della riserva.
In un passato lontano, intorno all’anno mille d.C., ci racconta, le tribù della Costa Atlantica, che vivevano sul golfo di San Lorenzo, ricevettero una visione, che anticipava l’arrivo dal mare di uomini “dalla pelle bianca e ricoperti di peli”. Scossi da questa anticipazione, dopo aver tenuto un consiglio, le tribù decisero di migrare verso l’interno, risalendo il corso del fiume San Lorenzo fino a raggiungere i Grandi Laghi. Lungo la strada, di tanto in tanto si smarrirono e furono costretti a fermarsi, per attendere la nascita di un bambino capace di indicare loro nuovamente la strada.
Queste tribù esuli, tra cui gli Ojibwa, i Potawatomi e gli Ottawa, raggiunsero l’area di Green Bay e la terra dei Menominee intorno alla fine del XV secolo, pressappoco quando Colombo raggiunse il continente americano con le sue tre caravelle. La migrazione si fermò perché gli esuli avevano trovato “il cibo che cresce sull’acqua” di cui parlava la profezia, che altro non era se non il riso selvatico dei Menominee.
Il primo contatto con i bianchi risale al 1634, quando il francese Jean Nicolet attraversò il Lago Michigan sperando di aver trovato il famoso “Passaggio a Nord Ovest”, che lo avrebbe portato in Cina. Pensando di dover incontrare dei cinesi, il commerciante francese si era premurato di indossare una vestaglia di seta e, quando vide i nativi che lo aspettavano sulla riva, saltò in piedi sulla canoa e sparò in aria, pensando di blandire gli orientali con un altro prodotto di loro invenzione, la polvere da sparo. La popolazione nativa che assistette a questo bizzarro e comico incontro dovette rimanerne piuttosto impressionata, perché da allora gli uomini bianchi si chiamano “quelli che stanno in piedi sulla canoa”.
I Menominee e gli Ojibwai, nonché le altre tribù locali, quali gli Ho-Chunk e i Potawatomi, onorarono l’arrivo dell’uomo bianco, cospargendogli i capo di tabacco e avviando relazioni commerciali, basate soprattutto sulla compravendita di pelli e di zucchero ricavato dall’acero.
La storia dei Menominee non è una storia di guerre e scontri, come ad esempio quella dei Lakota e degli altri indiani delle pianure, ma piuttosto uno svilupparsi di relazioni diplomatiche con l’uomo bianco. Malgrado questa natura pacifica, la cosiddetta “civilizzazione” ebbe un esito altrettanto esiziale per i Menominee: dapprima per il dilagare di epidemie, poi per una progressiva dipendenza economica nei confronti dell’uomo bianco, per acquistare armi e oggetti in ferro e acciaio, e successivamente, con l’avvento dell’era dei trattati, intorno alla metà del XIX secolo, per la perdita delle loro terre, che, trattato dopo trattato, vennero progressivamente erose e sottratte loro.
“La profezia di cui vi parlavo”, ci racconta Paula con la sua voce un po’ roca, mentre il sole è ormai sceso dietro alla fitta foresta e i contorni del suo volto si sono fatti indistinti: “diceva che con l’arrivo dell’uomo bianco la pioggia sarebbe diventata fuoco, gli uccelli sarebbero caduti dal cielo, pesci sarebbero venuti a galla a pancia in su,  il ventre della Madre Terra sarebbe stato tagliato, i nostri stessi figli ci avrebbero girato la schiena, le nostre lingue sarebbero state tagliate e avremmo pianto per cento anni. Tutte queste previsioni, purtroppo, si sono avverato: l’inquinamento derivante da uno sfruttamento cieco e brutale della natura ha causato disastri ambientali, le viscere della terra sono state tagliate dalle miniere,intere generazioni di nativi sono state separate dai genitori per venire educati come uomini bianchi, nell’orrore delle “boarding schools”, e la nostra lingua è stata quasi dimenticata.
La profezia, però, parla anche di una Settima Generazione che si risveglierà, e di uomini di tutte le razze che verranno da noi per imparare. Anche questo si sta avverando, perché sono in molti quelli che vengono alla riserva, per esempio ad apprendere tecniche sostenibili di silvicoltura.
A quel punto, ci sarà un bivio: o tutti insieme impareremo a curare la Madre Terra, oppure la terra morirà. I cento anni del pianto sono passati e la Settima Generazione sono i nostri figli. Il futuro è in mano loro”.
Paula ha visitato la protesta di Standing Rock in Dakota con sua figlia Cedar: quando gli hanno dato la parola, ha portato questo messaggio di speranza, amore e fratellanza per le generazioni future, insieme a un’ampolla d’acqua presa dal Wolf River, un fiume che la tribù Menominee ha difeso, opponendosi alla costruzione di una miniera.
È ormai buio e sul lago è sceso un grande silenzio. Il vento fa stormire le foglie degli alberi e il cielo è pieno di stelle. Paula ci augura la buona notte: io e Anna andiamo a letto, i cuori pieni di tristezza, meraviglia e speranza.

A spasso nella riserva

Ai non nativi è vietato camminare nella foresta: la Riserva è sotto la giurisdizione della Polizia Tribale e la foresta, il verde manto che la ricopre e ne costituisce anche la principale fonte di sostentamento, è un bene da salvaguardare.
Quando siamo con Paula, però, possiamo addentrarci in quell’intrico verde e scoprirne la bellezza. Una bellezza discreta, ma al contempo antica e magica. Passo dopo passo, Paula ci racconta storie e leggende.
Sono cresciuto in mezzo ai boschi, ma qui le piante sono diverse e hanno nomi diversi: per esempio, la nostra guida ci insegna a riconoscere ed evitare l’edera velenosa: una piantina dall’apparenza innocua, con tre foglie di un verde intenso, che però è terribilmente urticante, molto peggio della nostra ortica.
Oppure ci insegna a riconoscere il winter green, una pianta le cui foglie hanno un gradevolissimo sapore di menta e si possono masticare come una sorta di chewingum naturale, e gli strani grappoli pendenti di una pianta dalla quale si ricava una bevanda deliziosa chiamata “limonata indiana”.
Di tanto in tanto, Paula si arresta, si strappa un capello e lo getta nel vento, oppure mi chiede un pizzico di tabacco e lo lascia cadere a terra. Quando entriamo più in confidenza, ci spiega che è il modo nativo di pregare e rendere grazie. La natura è un grande essere vivente e tutto si basa sulla reciprocità: se strappi una foglia a un albero, devi dargli in cambio qualcosa, se vedi un’aquila in cielo, significa che il Creatore ti ha fatto il dono di mostrarti uno dei suoi messaggeri, e anche in questo caso è bene offrire un po’ di tabacco.
Il concetto di reciprocità è ben altro che superstizione: è un modo di vivere in armonia con la natura. Dietro a queste credenze si cela una saggezza profonda, che la civiltà occidentale ha dimenticato da lungo tempo. Per noi, la natura è sempre stata un grande supermercato, da depredare senza pagare il conto: nel corso dei secoli, abbiamo disboscato, inquinato, sporcato senza alcun freno inibitore, e oggi fenomeni come il riscaldamento globale ci presentano un conto salato.
I Menominee hanno da sempre usato un approccio diverso: anche quando hanno disboscato per vendere il legname, lo hanno fatto con raziocinio, dando modo alla foresta di ripopolarsi e di rinnovarsi. I piccoli gesti quotidiani di Paula sono scintille preziose di una saggezza olistica e antica.
Insieme visitiamo le Cascate di Keshena, un luogo sacro le cui acque, un tempo, brulicavano di storioni e dove ancora oggi, malgrado l’interruzione del fiume dovuta alle dighe, si celebra la cerimonia della pesca, in cui, in cui alcuni esemplare di quel pesce vengono consumati ritualmente dalla tribù.
Il Wolf River è un fiume bellissimo, che attraversa la riserva e taglia il verde della foresta con un susseguirsi di rapide e cascate. Paula ci accompagna alle Wolf River Dells, un altro luogo sacro che, si dice, fu teatro dello scontro titanico e primordiale tra l’Aquila e il Serpente. Ci mostra i punti in cui gli enormi artigli dell’aquila segnarono la roccia: alla fine fu lei a prevalere, guadagnandosi il privilegio di vivere sulla terra, mentre il serpente fu costretto, da allora, a strisciare sotto terra. In un giorno di sole, Anna ed io noleggiamo un canotto e ci avventuriamo lungo il fiume. È un’esperienza bellissima: ci sono le rapide, in cui in genere ribaltiamo il gommone e finiamo in acqua tra grandi risate, ma anche chilometri di navigazione lenta, che ci consentono di contemplare una natura maestosa e selvaggia. Daini dalla coda bianca e tartarughe ci guardano perplessi dalle rive del fiume.
Spesso prendiamo la macchina per spostarci da un punto all’altro: io guido e Paula ci racconta. In genere sono così assorto sulle sue parole che mi distraggo e non mi fermo agli incroci, o non rispetto le precedenze, che in America sono un po’ diverse. Paula mi grida di fermarmi. Poi sorride e mi chiede se in Italia guidano tutti così male.
Sul bordo della strada che porta a Keshena, c’è una piccola aiuola che racchiude un masso, molto sgretolato. Tutto intorno ci sono sigarette e prese di tabacco, lasciate in offerta dai passanti. Paula mi dice di accostare e ci racconta la leggenda di Spirit Rock.
Proprio in quel luogo sacro, lungo la riva del fiume, si ritrovarono tre guerrieri per chiedere aiuto al Creatore. Dopo aver offerto tabacco, il primo chiese di diventare più abile nella caccia, per poter sfamare la sua numerosa famiglia. Il Creatore glielo concesse e lo rimandò a casa.
Il secondo guerriero chiese di trovare una sposa, perché aveva tutto ma non aveva nessuno con cui condividere il suo benessere. Anche questa volta, il Creatore lo esaudì e lo mandò a casa esultante.
Il terzo guerriero chiese la vita eterna: il Creatore si indignò per il suo egoismo e la sua presunzione e lo esaudì trasformandolo in un masso che sarebbe durato per sempre: Spirit Rock, appunto.
Le intemperie hanno sgretolato la pietra e di quello che doveva essere un masso gigantesco rimane ormai ben poco. Con triste serenità, Paula ci dice che quando il masso si sarà sgretolato del tutto si estinguerà anche il popolo Menominee.

Al Pow Wow

In vita mia, non ero mai stato a un pow-wow. La sera che precede l’evento, Paula e Wade ci accompagnano al Pageant, uno spettacolo teatrale che prevede, appunto, la messa in scena della leggenda di Spirit Rock.
Il luogo in cui si svolge è un anfiteatro naturale, incastonato nel verde. Dalle pareti della conca sono state ricavate delle gradinate naturali.
Wade viene ben presto fagocitato dalla folla di amici e ammiratori: tutti vogliono stringergli la mano e sentire il racconto del suo viaggio in Europa, dal quale è appena rientrato. Accompagnerà lo spettacolo suonando il flauto.
Paula rimane con noi, ci presenta i suoi fratelli, i suoi cugini, i suoi amici. Ci fa conoscere il Presidente della Riserva, che ci dà il benvenuto, e anche il presentatore del Pow Wow: si chiama Joey Greignon. Indossa un cappello da cowboy e un cravattino di cuoio, ha una faccia simpatica e una parlata che lo fanno sembrare uno speaker da rodeo. In realtà, e lo scoprirò soltanto in seguito, è un uomo sacro, la cui famiglia si adopera da sempre per mantenere la tradizione spirituale dei Menominee.
L’inizio del Pow Wow è preceduto dal Mocassin Game, un gioco tradizionale di abilità e fortuna, a cui partecipano molti di coloro che nel pomeriggio danzeranno. I due contendenti siedono uno di fronte all’altro: ciascuno ha davanti a sé quattro quadrati di tessuto, i mocassin, appunto. Il giocatore solleva ciascuno dei quattro pezzi e lascia sotto uno di essi una pallina: toccherà all’avversario, consigliato dai suoi compagni di squadra, indovinare dove è stata nascosta la pallina, percuotendo il quadrato con un bastoncino. Al cambiare del turno, le parti si invertono.
Consumiamo il pranzo nelle bancarelle del pow-wow: ovunque aleggia il profumo di fried bread, delle deliziose e ipercaloriche frittelle di farina fritte nell’olio, ma ci sono anche rivenditori di riso selvatico, e bellissime bancarelle di gioielli e manufatti indiani. Paula ne approfitta per acquistare degli orecchini coloratissimi, ricavati dagli aculei di porcospino, considerati una vera sciccheria dalle donne native.
Il pow wow è una sorta di festival dell’indianità: ritrovandosi per assistere alle danze, i nativi riscoprono le loro radici e celebrano la gioia di stare insieme. È un momento profano, una festa in cui i danzatori ricevono premi in denaro, ma lo spirito che lo anima è sacro: è la volontà di un popolo di riscoprire, e celebrare, le proprie radici.
La radura in cui si svolge il pow-wow è circondata da una decina di grandi tamburi: intorno ad essi siedono circa otto persone che li percuotono con delle mazze, intonando dei vocalizzi. Stare in piedi vicino ai tamburi è un’esperienza indimenticabile: le vibrazioni mi fanno tremare il diaframma, sono pervaso da un senso di comunione e forza. Ogni squadra suona a turno e intona canti con stili diversi: sento Joey che presenta il southern style, il più movimentato crow-hop e così via. Paula fa riconoscere i diversi stili al mio orecchio poco allenato e mi spiega che i suonatori, così come i danzatori, arrivano da ogni parte degli Stati Uniti. Noto che, di tanto in tanto, i suonatori compiono arresti e false partenze per mettere alla prova l’abilità dei danzatori.
I danzatori sono uno spettacolo a parte, un colpo d’occhio indimenticabile: ognuno di essi indossa un corredo finemente decorato, che ha richiesto ore e ore di preparazione. Paula mi spiega che non bisogna definirli “costumi”, perché questa parola implica un travestimento in ciò che non si è: la parola giusta, in questo caso, è “outfit, regalia”.
Ci sono diversi stili di danza, ognuno con peculiarità proprie e accompagnato da canti specifici. I primi che vedo danzare sono i “traditional”: gli uomini indossano vestiti di pelle di daino e copricapi di pelo, decorati con i motivi della propria tribù di provenienza. I vestiti tradizionali Menominee spiccano per l’utilizzo del fiore di ninfea come motivo ornamentale. Anche le donne hanno abiti piuttosto sobri, con lunghe gonne. Lo stile di danza è piuttosto statico: gli uomini mimano scene di caccia saltellando al ritmo del tamburo, le donne muovono le braccia su e giù lungo i fianchi, con un movimento che richiama il lavaggio dei panni.
È poi la volta dei “grass dancers”, uno stile di danza che arriva dalle Grandi Pianure, in cui i danzatori ballavano per appiattire gli steli d’erba e consentire la costruzione dell’accampamento. I regalia maschili sono meravigliosi: corone di piume e nastri che si muovono a un ritmo forsennato, con balzi e grandi turbinii di penne d’aquila. Le donne che danzano con loro, invece, hanno decine e decine di campanelli sospese alle vesti: si dice che questo stile sia nato da una visione.
Infine, lo spettacolo puro: i “fancy dancers”. Solo i ragazzi e le ragazze più giovani possono cimentarsi con questo stile, che richiede una notevole prestanza fisica. Gli uomini indossano due bussole di piume, una in testa e una sul fondo schiena, e i loro salti e acrobazie mimano l’eccitazione del ritorno dalla guerra. Le donne, invece, utilizzano lo stile “butterfly”, farfalla: indossano scialli che il vento i movimenti vorticosi gonfiano in figure aggraziate. La loro è una danza di fertilità, introdotta in un periodo più recente per fare da contraltare all’esuberante frenesia dei fancy dancer.
Insomma, ho gli occhi pieni di meraviglia e mi sembra di vivere in un sogno. Paula combatte il suono dei tamburi con la voce per fornirmi ulteriori informazioni, spiegandomi che per molte famiglie la danza tradizionale è un modo di sostentamento: i ricchi premi che vengono assegnati ai danzatori più abili permettono di mantenersi. La vita dei danzatori è una vita nomade: in genere passano l’estate spostandosi da un festival all’altro, percorrendo gli Stati Uniti in lungo e in largo.
Ad un certo punto, la musica si arresta di colpo. È successo qualcosa di grave: si è staccata una piuma d’aquila dalla veste di uno dei danzatori. È un fatto piuttosto raro, che viene considerato un disonore per il contendente, che ha dimostrato di non essere degno delle piume che portava. Per raccogliere la piuma caduta, sarà necessario intonare un canto speciale e soltanto i guerrieri – in questo caso, un gruppo di veterani del Viet Nam – potranno raccogliere la piuma da terra e riconsacrare il terreno di danza. Lo sfortunato danzatore sarà squalificato e dovrà fare dei doni ai suonatori per questa cerimonia, resa necessaria dalla sua trascuratezza. Molti del pubblico scendono per dargli qualche dollaro. Mi avvicino anche io: vedo una profonda tristezza nei suoi occhi.
Le danze si protraggono fino a sera per tre giorni: una cosa che mi colpisce è la quasi totale assenza di bianchi. Tutti i partecipanti sono nativi o parenti di nativi. Chiedo spiegazioni e mi viene spiegato che la riserva non è vista di buon occhio dagli abitanti delle città limitrofe, come Shawano. Gli indiani sono ancora oggi vittima di discriminazione razziale: “quando entro in un negozio al di fuori della riserva, a volte il proprietario mi segue, per controllare che io non rubi niente”. Anche i suoi figli, a scuola, sono stati presi in giro e bullizzati per le trecce dai compagni di classe, perché, purtroppo, i bambini assorbono i pregiudizi dalle loro famiglie.
Rimango perplesso: pensavo che il razzismo fosse un fossile di orrori passati, ma in Wisconsin – e in altri stati del sud la situazione è ancora peggiore – è una triste realtà.

La riserva oggi

Durante una gita in macchina per visitare un amico produttore di vasi, Paula ci racconta come nel corso dell’Ottocento la riserva si sia progressivamente rimpicciolita grazie ai trattati con gli Stati Uniti: una storia di menzogne e sotterfugi, in cui i Menominee sono stati spogliati della terra che calpestavano dalla notte dei tempi.
L’uomo bianco fece ricorso a ogni sorta di inganno: talvolta i capi nativi venivano convocati per siglare un documento. Se questi non si presentavano, perché non interessati all’offerta, il documento veniva siglato in ogni caso e reso operativo. Agli inganni politici si sommano orrori ancora più gravi, come quello delle boarding schools: i bambini venivano separati dai genitori in tenerissima età e imprigionati in collegi fino al raggiungimento dell’età adulta. Il motto di questi istituti era “kill the indian, save the man”, ovvero “uccidi l’indiano, salva l’uomo”. Ai bambini veniva proibito di parlare la lingua nativa: le trasgressioni venivano punite lavando loro la bocca con il sapone. I miti ancestrali e le antiche conoscenze venivano cancellate dalle menti e brutalmente rimpiazzati con l’imposizione del cristianesimo. Il risultato furono generazioni di indiani senza coscienza delle proprie radici, brutalmente omologati a un sistema a loro estraneo. Le conseguenze di questa barbarie - un vero e proprio genocidio, anche se il Governo degli Stati Uniti non l’ha mai ammesso ufficialmente – si vedono ancora oggi: i nativi stanno lottando per riappropriarsi di quello che è stato loro strappato, ma è un processo lento e faticoso – ne parleremo tra poco. Intorno al 1910, i Menominee denunciano l’agente del BIA (Bureau of Indian Affairs), accusandolo di sfruttarli e truffarli con la compravendita del legname proveniente dalla loro foresta. Il processo si protrae per quasi trent’anni, ma si conclude con un esito inaspettato: ai Menominee viene riconosciuto una compensazione di dieci milioni di dollari. Ancora una volta, però, l’inganno è in agguato: la somma non viene affidata direttamente ai nativi, perché vengono giudicati incapaci di gestirla. Vengono nominati cinque amministratori bianchi, che si auto-concedono degli stipendi favolosi per gestire questo patrimonio, che si va rapidamente consumando in cavilli burocratici, senza che la tribù possa veramente beneficiarne. Nel 1951, il Governo degli Stati Uniti propone la Termination, ovvero la chiusura della riserva e la cessazione dei benefici fiscali e assistenziali che essa comporta, in cambio dell’affidamento diretto del denaro rimasto. La tribù non è d’accordo, solo il 5% della popolazione ha votato a favore. Il giorno dell’incontro per sancire la Termination, la delegazione menominee non si presenta, in base al principio tribale per cui l’assenza denota disinteresse. La legge degli Stati Uniti, tuttavia, interpreta l’assenza in modo diverso, e la riserva viene chiusa. L’impatto fiscale risulta devastante: nel giro di pochi anni, tutte le strutture assistenziali collassano: la polizia, i vigili del fuoco e anche l’assistenza sanitaria. Gettati senza preavviso in un sistema a loro estraneo, i nativi non riescono a pagare le tasse e fare quanto necessario per mandare avanti la riserva. Anche quello che rimaneva dei dieci milioni di dollari sfuma rapidamente. Per raccogliere fondi, si decide di creare Legend Lake, lo splendido lago su cui sorge anche la casa di Wade e Paula. Prima degli anni cinquanta, questo lago non esisteva: al suo posto c’erano otto laghi di dimensioni più ridotte. Con scavi ed esplosivi si crea il grande bacino: l’obiettivo è quello di creare dei lotti terrieri di lusso lungo le sue sponde e di venderli a facoltosi uomini bianchi. Le pubblicità fioriscono sui giornali e sui cartelli stradali: “vieni a scoprire una terra vergine, calpestata soltanto da mocassini indiani”. Alcuni di questi lotti vengono venduti e trasformati in lussuose residenze per il weekend, ma le relazioni tra i nuovi proprietari e la tribù sono ancora oggi conflittuali. Nel 1973 la Termination viene terminata a sua volta, perché riconosciuta come un esperimento non riuscito. La Contea di Keshena torna ad essere una Riserva: nel frattempo, i dieci milioni di dollari non ci sono più. I bianchi che hanno comprato le case lungo la riva del lago hanno mantenuto la proprietà acquisita, ma oggi pagano le tasse alla riserva anziché allo stato.
Tornare a parlare la lingua antica
Entrare nella scuola di lingua menominee è stata un’esperienza emozionante. Ron Corn Jr., l’insegnante, ha all’incirca la mia età: i suoi occhi color nocciola trasmettono positività e sono incorniciati da lunghi capelli castani. La sua classe, una decina di allievi, soprattutto donne, di età molto varia, dai diciassette ai cinquanta, ci accoglie sorridendo: a turno, ognuno si presenta, dice il proprio nome in lingua Menominee e ci racconta il suo significato. “L’orgoglio di parlare la lingua Menominee – ci spiega Ron – è un fatto relativamente recente: un tempo noi indiani ne provavamo vergogna, perché ci avevano insegnato che era sbagliato. Questo ha fatto sì che la lingua si sia quasi estinta”: oggi, nella riserva, rimangono soltanto cinque persone capaci di parlarla in modo fluente, e hanno tutte più di ottant’anni. Conoscere a fondo la cultura menominee senza conoscere la lingua è impossibile: la lingua, infatti, è la cultura stessa. Essa non è semplicemente un modo di chiamare le cose, ma è parte delle cose stesse. “Gli antichi conoscevano la lingua degli uccelli e ci sono uccelli che parlano in menominee”. Ron ci parla di un uccello il cui verso, in Menominee, significa “è andato via”. “Non solo – continua – esiste una canzone antica che i cacciatori cantavano per convincere i cervi a stare fermi e a farsi uccidere, ma deve essere utilizzata soltanto in momenti di estrema difficoltà. Tutto è connesso e la lingua è la chiave per comprendere tutto: dalla quantità di grasso che trovi scuoiando un cervo puoi predire come sarà la stagione successiva. L’arrivo delle lucciole preannuncia che il cervo è pronto per essere mangiato. Prima del loro arrivo, infatti, la sua carne è ancora viscida e non è adatta al consumo. Gli insetti nel fango ti indicano quando avverrà il disgelo”. Ron ha appreso tutto quello che sa – e che cerca di trasmettere con una passione travolgente - da una donna anziana della tribù, che aveva fatto ritorno alla Riserva dopo essere stata per molti anni a Milwaukee. Questa donna aveva visto il suo primo uomo bianco a sette anni, e l’aveva scambiato per un fantasma. Il fantasma l’aveva presa e rinchiusa in una boarding school. Da anziana aveva fatto ritorno alla riserva, nella speranza di poter trasmettere a qualcuno il suo bagaglio di conoscenze, e aveva trovato in Ron un allievo attento e volenteroso. L’insegnamento si protrasse per anni, fino a quando un giorno, mentre discorreva con lei in Menominee davanti al tepore della stufa, la donna lo aveva interrotto di colpo e aveva dichiarato soddisfatta: “Adesso posso morire tranquilla”. Ancora oggi, a distanza di anni, le lacrime affiorano ai suoi occhi mentre ci racconta questa storia. La lingua Menominee è meravigliosamente complessa. Dopo averla appresa, Ron l’ha dovuta studiare al contrario, per fissarla in schemi linguistici e poterla insegnare, ma senza avere i mezzi per poter studiare all’università. Ci spiega che si tratta di una lingua basata sui verbi anziché sui nomi e che le parole hanno schemi morfonomici complessi, costituiti da prefissi, radici, mediali, finali e suffissi. Gli aggettivi non esistono: al loro posto si utilizzano i verbi. Curiosamente, anche i possessivi hanno un uso limitato alla casa e ai parenti più prossimi: ciò denota una vita comunitaria basata sulla condivisione anziché sulla proprietà. In origine, si trattava di una lingua orale: la sua prima traslitterazione nell’alfabeto occidentale risale al 1821 e nel 1827 viene fatto un primo tentativo per fissarla in un sistema linguistico. Nei primi decenni del Novecento sarà un linguista non-nativo, Lenner Bloomfield, a salvarla dall’oblio, intervistando e registrando su rulli di cera gli anziani. Gli studi di Bloomfield si rivolsero soprattutto al cosiddetto “Ojibwai Trading Language”, una sorta di lingua comune e condivisa da più tribù per il commercio, detta anche “pigeon language”, ovvero linguaggio piccione. Nell’idioma nativo furono inglobate anche espressioni europee: per esempio, “Posoh”, il saluto tipico menominee, deriva dal francese “Bonjour”. Nel 1970 un altro linguista, Ken Miner, contribuì a perfezionare e schematizzare ulteriormente la lingua Menominee. L’avvento della religione cristiana, ci spiega Ron, ha modificato profondamente la lingua e le espressioni, spostando il focus dal verbo al nome. Ad esempio, anticamente non si diceva “qual è il tuo nome?” bensì “come ti chiami?” e così via. Questo ha fatto sì che si sia progressivamente perso il contatto con la natura. Conscio di essere stato il depositario di un dono prezioso, Ron Corn Jr. si dedica anima e corpo all’insegnamento, con una passione che trasuda da ogni suo pacato atteggiamento. “Non sappiamo tutto, c’è ancora tanto da fare, però è iniziato un nuovo corso. Oggi, i nostri figli hanno qualcosa che noi non abbiamo avuto: la possibilità di studiare il Menominee come seconda lingua”. Salutando Ron, in un certo senso sento già la sua nostalgia. Mi racconta di quando va a caccia nei boschi e gli dico che, un giorno, mi piacerebbe andare con lui.

In giro per la riserva
Con grande – e pienamente giustificato - orgoglio, Paula ci porta a visitare le strutture principali della Riserva: entriamo negli uffici della polizia tribale, dove ci viene spiegato il complesso meccanismo della giurisdizione tribale. All’interno della riserva, infatti, l’applicazione della giustizia spetta alla polizia tribale, ma gli individui esterni, come Anna ed io, ad esempio, sono sotto la giurisdizione della polizia federale, che ha competenza anche per i crimini più gravi, quali l’omicidio. Immaginiamo che un nativo pesti a morte un altro nativo: per le percosse dovrà rispondere alla legge tribale, ma il giudizio sull’omicidio competerà invece all’autorità federale. La legge federale, però, non ha efficacia nella riserva per i crimini minori.
 Visitiamo poi l’anagrafe e l’edificio dell’amministrazione. Per essere ammessi nella Tribù, occorre dimostrare di avere almeno il 25% di sangue menominee. Tutte le richieste vengono verificate dall’amministrazione, verificando l’archivio storico e studiando l’albero genealogico nell’individuo. Se non si raggiunge la percentuale, l’ammissione non viene concessa.
Insieme visitiamo la Highschool e il College: edifici di costruzione recente e pieni di colori, pensati per consentire ai più di giovani di “imparare a camminare nei due mondi”, ovvero ad adattarsi al mondo dei bianchi senza per questo rinnegare le proprie radici.
La riserva dispone inoltre di un efficiente ospedale: la malattia più diffusa, purtroppo, è il diabete, derivante dalla dieta introdotta dall’uomo bianco, troppo ricca di zuccheri e carboidrati.
Passo un po’ di tempo al Menominee Museum: si tratta di un museo piccolo ma pieno di manufatti interessanti, come, ad esempio, canoe, punte di freccia, abiti tradizionali e una gigantesca scultura in legno che raffigura il Clan dell’Orso.

Tempo di commiato.

L’ultima sera, a cena, insisto per cucinare una pasta. Il risultato, sinceramente, non è un granché, ma è bello condividere insieme un ultimo momento.
Impossibile ringraziare abbastanza Paula e Wade per tutto quello che hanno fatto per noi, per il tempo che ci hanno dedicato, per i sentimenti e i pensieri che hanno condiviso.
Al momento di partire, la mattina presto, Wade suona per noi il flauto: è il suo modo per salutarci e augurarci buon viaggio. La melodia, dolce e dal sapore antico, sembra avvolgerci come un mantello e ci sentiamo sereni.
Con Paula, ci salutiamo un po’ più tardi: impossibile trattenere le lacrime. Speriamo tanto di rivederli presto.
Un antico proverbio arabo afferma che “chi non viaggia non conosce il cuore degli uomini”. In effetti, per me e Anna, quest’“avventura” nella riserva menominee è stata l’occasione di confrontarci con una realtà diversa dalla nostra. Mettere tra parentesi, anche solo per un attimo, le proprie certezze per confrontarsi con idee e modi di vivere diversi dai nostri può essere un esercizio un po’ destabilizzante, ma sicuramente istruttivo e fecondo. Soprattutto se, come in questo caso, la cultura in questione, quella dei Nativi Americani, ci affascina sin da quando eravamo bambini.
Scoprire la diversità culturale è, a mio giudizio, utile da due punti di vista: in primis, perché ci permette di imparare dagli altri, ma anche perché ci insegna qualcosa di più su noi stessi.
In Italia, come in gran parte dell’Europa, quando si parla di “indiani” la mente corre quasi automaticamente ai popoli della Grandi Pianure. Sioux, Comanche, Apache sono, in genere, le tribù che ci vengono in mente quando pensiamo ai Nativi d’America, perché le loro gesta ci sono state riproposte in mille versioni da film e nuvole parlanti. I Menominee, purtroppo, non hanno goduto della stessa esposizione mediatica e letteraria, ma la loro cultura e la loro storia meritano di essere conosciute.
Le popolazioni native sono state ferite gravemente – quando non mortalmente – dall’avvento degli Europei e dal modello che definiamo “occidentale”. Imbattersi in persone che, malgrado le enormi difficoltà attuali, continuano a lottare per mantenere vive le proprie tradizioni e per proteggere la natura è commovente ed esaltante al tempo spesso.
Mi riempie di gioia e orgoglio avere la possibilità di condividere la mia esperienza e di regalare un’eco, per quanto fioca, dello scorrere impetuoso del Wolf River.
Waewenin! Grazie.

Gian Mario Mollar


Bibliografia
Patty Loew, Indian Nations of Wisconsin, Wisconsin Historical Society Press, 2013

David R. M. Beck, Siege & SurvivalHistory of the Menominee Indians (2 volumi), University of Nebraska Press, Lincoln & London, 2002

La musica di Wade Fernandez



Il sito della tribù Menominee e della Riserva

Testo: Gian Mario Mollar
Consulenza e revisione del testo: Paula Fernandez

Foto: Anna Di Stefano

GIAN MARIO MOLLAR
Classe 1982, si è laureato a pieni voti in Filosofia presso l’Università di Torino, con una tesi sul neoplatonismo magico. Uomo dagli interessi eclettici e disparati, dalla pesca all’esoterismo, dal trekking alla letteratura, da bambino ha incontrato Tex e Zagor, e da allora prova un’attrazione irresistibile per la Frontiera Americana, che rappresenta per lui il luogo dell’avventura e del sogno. Attualmente collabora con siti internet quali Farwest.it e Axis Mundi, nonché con la rivista Tepee di Soconas Incomindios, un comitato di solidarietà con i popoli nativi americani. Nei suoi scritti cerca di evidenziare aspetti insoliti e poco conosciuti dell’epopea western, il cosiddetto Weird West, una terra di mezzo in cui folclore e leggenda si fondono con la storia. Nel gennaio 2019 uscirà il suo primo libro, I misteri del Far West, per i tipi di Edizioni Il Punto d’Incontro.

Il panorama dalla vetta dello Staldhorn

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Alpeggio Hopsche (2039 metri) salendo le prime rampe dello Staldhorn

Alpeggio Hospchee ed Hopschesee - lago di Hopsche - salendo lo Stalhorn

Lo spettacolo della natura poco dopo l'alpeggio Hopsche

La natura poco sotto la zona denominata Galmji (2373metri) 

Panorama dalla vetta dello Staldhorn (2463 metri)

Panorama dalla vetta dello Staldhorn. E' possibile ammirare il Passo del Sempione (Simplonpass) ed il lago Hopschsee

Panorama dalla vetta dello Staldhorn verso il Fletschhorn

Vetta dello Staldhorn

Scendendo dalla vetta dello Staldhorn, il massiccio del Monte Leone si specchia nelle acque di un laghetto occasionale

Scendendo dalla vetta dello Staldhorn, il Fletschhorn cerca di specchiarsi nelle acque di un piccolo lago effimero

Non lontano dal laghetto effimero nel quale si specchiano le magnifiche vette che adornano la regione del Passo del Sempione


ROSELLA REALI
Sono nata nel marzo del 1971 a Domodossola, attualmente provincia del VCO. Mi piace viaggiare, adoro la natura e gli animali. L'Ossola è il solo posto che posso chiamare casa. Mi piace cucinare e leggere gialli. Solo solare, sorrido sempre e guardo il mondo con gli occhi curiosi tipici dei bambini. Adoro i vecchi film anni '50 e la bicicletta è parte di me, non me ne separo mai. Da grande aprirò un agriturismo dove coltiverò l'orto e alleverò animali. 
Chi mi aiuterà? Ovviamente gli altri viaggiatori.
Questa avventura con i viaggiatori ignoranti? Un viaggio che spero non finisca mai...








Il Passo del Sempione immerso nell'autunno

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Hopschusee (lago di Hopsche) posto a breve distanza dall'Ospizio del Sempione

Rotelsee, piccolo lago posto alle spalle dell'Ospizio del passo del Sempione

Rotelsee, piccolo lago posto alle spalle dell'Ospizio del passo del Sempione

I colori della natura sul pendio del monte Hubschhorn

Un larice sul pendio del monte Hubschhorn

L'aquila del Passo del Sempione ammira l'autunno

Riflessi autunnali nelle acque del lago Hopschusee

Hopschusee ripreso dalle ultime baite dell'alpeggio Hopsche

L'autunno lungo le sponde del lago Hopschusee

Incontro tra il buio e la luce lungo le sponde del lago Hopschusee

Ultimi raggi del sole sui larici del Passo del Sempione. Le vette del Breithorn, del Leone e del monte Hubschhorn sono ancora illuminate dal sole 

FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.

Il tatuatore di Auschwitz

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Vivo. Sono ancora vivo. Ancora un giorno, forse più. 
Ho aperto gli occhi su questo che oggi è il mio mondo, la mia casa. Fumo, odore di morte, fetore di carne bruciata, di sofferenza. Cammino fra sconosciuti, disperati come me, affamati, sporchi, malati. La vita umana non ha più valore, non esiste più il calore dell’amore, della famiglia. Entrando qui ho perso tutto, la mia identità, la mia origine, il mio nome. Sono un numero, come tanti. 
Sopravvivo alla morte, come posso. Sopravvivo al dolore, all’oblio in cui ci vogliono relegare, aggrappato ai miei ricordi, alle cene in famiglia, alle feste, alle passeggiate all’aria aperta, al fruscio delle pagine dei libri, al sapore dei piatti cucinati da mia madre. 
Prima di entrare da quel cancello ero un uomo, giovane e pieno di vita, ero Ludwig " Lale" Eisenberg, ora sono il prigioniero n° 32407. 
Sono nato a Korompa, un piccolo borgo del Regno di Ungheria, il 28 ottobre 1916, da una famiglia di origine ebrea. È aprile del 1942 quando l’esercito tedesco entra nel mio paese. Mi offro volontario al posto della mia famiglia, che spero sia risparmiata dal rastrellamento. Sono l’unico tra i miei fratelli a non essere sposato. Il mio pensiero va a loro. E poi sono giovane e forte, saprò sopportare qualsiasi tipo di incarico. 
Sono spaventato. Le notizie sui campi di concentramento sono poche. Si parla di luoghi di lavoro, in cui le persone vengono obbligate a portare il proprio contributo per lo sforzo bellico, per una guerra che non abbiamo voluto e che stiamo subendo, che ci sta annientando. Mi separano dalla mia famiglia. Viaggio in treno, per un tempo che sembra infinito, ammassato con sconosciuti spaventati e piangenti, che hanno portato con sé, in quel viaggio verso l’ignoto, ciò che hanno potuto, vinti dalla fretta e dalle minacce dei soldati. 
Arriviamo in un posto che solo dopo saprò essere il più grande campo di concentramento e sterminio della seconda guerra mondiale: Auschwitz. 
Cosa mi aspetta non lo so, ma al nostro arrivo capisco subito che nulla di buono può accadere in quel luogo. Soldati urlanti e aggressivi, con cani famelici e abbaianti, ci accolgono a spintoni, manganellate e calci. Chi si ferma riceve una razione di violenza e botte che cessa solo quando la rabbia dell’aggressore sfuma. 
Ci dividono in gruppi. Un medico si aggira fra noi, con occhi di ghiaccio e mezzo sorriso. Accanto a lui una donna, con un cane al guinzaglio. Sussurra solo poche parole. Io e altri siamo mandati fino a una baracca in legno, dove all’interno ci aspettano dei soldati e un prigioniero, appoggiato a un tavolo, con degli arnesi davanti. Quell’uomo dal volto scavato, dalle occhiaie profonde e nere, dal viso inespressivo, pallido, mi fa alzare la manica dei vestiti che indosso: senza tanti convenevoli, mentre un soldato mi tiene fermo, imprime sulla mia pelle un numero. 
Un dolore fortissimo si impossessa di me. Da quel momento non sono più un uomo. Non ho più nome, sono solo un numero, quello che per tutta la vita porterò tatuato sull’avambraccio sinistro. Sono uno dei tanti, carne da macello, merce di scambio. Identità senza valore, che oggi può vivere e domani ardere in un forno crematorio. 
Il mio destino e quello dell’uomo dei tatuaggi si incrociano in quel momento. Nessuno dei due sa che presto il nostro incontro determinerà la direzione delle nostre vite. Lui si chiama Pepan. 
È un medico francese, incaricato dalle SS di occuparsi dei tatuaggi dei nuovi prigionieri. 
Vengo assegnato alla costruzione dei blocchi abitativi per il campo in continua espansione. Quasi ogni giorno arrivano treni carichi di disperati come me. Auschwitz sembra un formicaio operoso, ma non è vita quella che cammina per i suoi viali, sono uomini e donne senza futuro, ombre di esseri umani dal destino segnato. 
Dopo poche settimane mi ammalo di tifo. Non sono più in grado di lavorare e vengo ammassato in una baracca insieme ad altri malati come me, in attesa della morte. Non ci sono cure, a malapena ci nutrono. Se le nostre condizioni peggiorano ci lasciano al nostro destino. Ogni giorno vedo trascinare via morti e moribondi, verso un carretto sempre strapieno di corpi ammucchiati. 
Una mattina tocca a me. Sono vivo, vorrei urlare, ma non ho la forza. Mi caricano su un carrello, con altri corpi maleodoranti, coperti di sporcizia. Mi portano verso una fossa comune. 
Qualcuno si accorge che respiro ancora e, rischiando la vita, mi trascina fuori dal qual mucchio di morte e mi nasconde in una baracca. È Pepan, che mi cura e mi salva. 
Dopo qualche tempo sto meglio. Divento il suo assistente. Mi insegna il “mestiere”. Quando Pepan un giorno sparisce misteriosamente, prendo il suo posto, andando a lavorare direttamente per il Politische Abteilung. 
Divento capo tatuatore di Auschwitz-Birkenau. La scelta ricade su di me anche perché parlo slovacco, tedesco, russo, francese, ungherese e polacco. E là dove non comprendo le parole, so farmi capire. 
Un ufficiale delle SS è assegnato al mio controllo. Godo di alcuni privilegi, che mi permettono di vivere meglio e di organizzarmi per cercare di aiutare altri prigionieri. Ho una baracca a parte, razioni più abbondanti, posso girare liberamente per il campo e avere del tempo libero, mangiare nell’edificio dell’amministrazione. 
Ma il mio compito è pesante, come un fardello, un peso che mi porterò dentro fino alla morte. 
Devo imprimere sulla pelle di altri prigionieri un numero, io sono la chiave che apre la porta dell’oblio del lager. 
Anche io come il mio maestro non ho espressione. Cerco di non guardare negli occhi chi si siede di fronte a me. Se un giorno uscirò da qui, se un giorno rivedrò il mondo libero e non le mura delle baracche, spero di poter dimenticare il dolore che ho inferto a tutti coloro che sono passati sotto le mie mani. Gli strumenti del mio lavoro non sono stati concepiti per non fare male. All’inizio si usava uno speciale timbro in metallo, composto da aghi grossi della lunghezza di circa un centimetro. I primi a sperimentare questo sistema furono i prigionieri di guerra sovietici, a cui il numero era impresso sul torace. Con il passare del tempo però il marchio sulla pelle sbiadiva. Allora qualcuno ha pensato di usare un doppio ago, intercambiabile: un colpo secco incide la pelle dei prigionieri, in modo più profondo e indelebile. L’inchiostro viene colato all’interno della ferita. In un certo senso chi viene tatuato ha una speranza di vita. Chi siede davanti a me può sperare di farcela, di tornare a casa un giorno dai propri cari. Chi non viene tatuato è mandato direttamente alla morte, perché ritenuto inadatto al lavoro. Un sistema tremendo, spietato, che annulla la persona rendendola un animale da macello, un sistema ideato ed utilizzato solo ad Auschwitz. 
Fare il mio lavoro mi ha permesso di aiutare alcuni prigionieri. Cerco di condividere le razioni più abbondanti di cibo che ricevo. Quando la guardia a me assegnata è distratta, altero i tatuaggi dei detenuti, magari per tenerli fuori dalla camera a gas. Quando ho potuto, ho aiutato altri nella fuga. 
Non ero mai al sicuro. Mi sentivo sempre minacciato. Il dottor Mengele, temuto da tutti, un giorno mi passò accanto e mi disse: “Un giorno toccherà a te tatuatore”. 
Non guardo mai nessuno negli occhi. Mi manca il coraggio. Non voglio vedere il dolore, la paura. 
In una mattina di luglio davanti a me si siede una giovane ragazza, tatuata con il numero 34902. 
Il suo numero di matricola si sta sbiadendo. Alzo gli occhi. Incrocio i suoi, pieni di lacrime e di terrore. 
Un attimo. In quel momento ho capito che non avrei mai amato nessun’altra donna. 
Ci siamo innamorati, come se la morte attorno a noi si fosse improvvisamente dissolta. 
Gisela Fuhrmannova, Gita, ecco il suo nome. Da quel momento faccio di tutto per proteggerla, per aiutarla a sopravvivere. Quando posso, con la complicità delle guardie, le faccio arrivare cibo extra, come la cioccolata. Riesco a farla assegnare a lavori meno gravosi, a tenerla lontano il più possibile dalle camere a gas. Riusciamo a passare anche alcuni brevi momenti di felicità insieme, in cui il nostro amore cresce. Il tempo passa. È il 1945. L’armata rossa avanza inesorabile verso il campo. Auschwitz è nel caos. Le SS ci costringono a distruggere documenti, a demolire i forni. Si organizzano trasferimenti di prigionieri, in massa. Il 25 gennaio tutte le donne partono per la marcia della morte. Gita è fra loro. 
Io vengo trasferito a Mauthausen lo stesso giorno. 
Non so più nulla di lei. Il 27 l’armata rossa entra nel campo. I cancelli di Auschwitz vengono abbattuti. 
Inizia la mia fuga in cerca di lei. Dopo settimane di ricerche la ritrovo a Bratislava. 
Non ci separiamo più. In ottobre ci sposiamo, certi che il nostro matrimonio sarà sterile a causa delle privazioni e delle torture subite da Gita nel lager. La nostra vita è senza pace. 
Cambiamo il mio cognome in Sokolov, per sembrare più russo. A Bratislava apriamo un’attività in proprio, un negozio di tessuti. Siamo attivi nella raccolta di denaro a sostegno della creazione dello Stato di Israele. Questa attività non è vista di buon occhio dal governo comunista. A questo si aggiunge la nazionalizzazione dell’industria che aggrava la situazione. 
Finisco in carcere e i nostri beni sono sequestrati. Siamo ancora senza nulla, dobbiamo ripartire. 
Vienna, poi Parigi. Approdiamo in Australia, che diventa la nostra nuova casa. Ci stabiliamo a Melbourne. Trascorriamo qui la nostra vita. Io non lascerò mai questo paese ospitale, Gita tornerà qualche volta in Europa. Nel 1961 nasce Gary, il nostro unico figlio. Un miracolo per noi che ci credevamo condannati a non vivere mai questa gioia. 
Non ho mai raccontato a nessuno la mia esperienza ad Auschwitz, neppure a nostro figlio. Ho sempre avuto paura del giudizio che gli altri avrebbero potuto esprimere sul mio operato nel campo. 
Gita mi lascia solo nel 2003. Per la prima volta dovrò affrontare la vita senza i suoi occhi dolci accanto. Forse anche per me è giunto il momento di raccontare la mia storia, l’orrore di quegli anni, la sofferenza che abbiamo respirato ogni giorno, fino alla liberazione. Affido le mie memorie a Heather Morris, che saprà raccoglierle in un libro. Muoio nel 2006, prima di vedere pubblicati i miei ricordi. Non siamo più solo dei numeri tatuati su un avambraccio, siamo Lale e Gita, due giovani ebrei che si sono amati nel campo di Auschwitz.

Rosella Reali

Bibliografia

Morris, Heather (2018). Il tatuatore di Auschwitz: basato sulla storia vera dell'amore e della sopravvivenza . 




ROSELLA REALI
Sono nata nel marzo del 1971 a Domodossola, attualmente provincia del VCO. Mi piace viaggiare, adoro la natura e gli animali. L'Ossola è il solo posto che posso chiamare casa. Mi piace cucinare e leggere gialli. Solo solare, sorrido sempre e guardo il mondo con gli occhi curiosi tipici dei bambini. Adoro i vecchi film anni '50 e la bicicletta è parte di me, non me ne separo mai. Da grande aprirò un agriturismo dove coltiverò l'orto e alleverò animali. 
Chi mi aiuterà? Ovviamente gli altri viaggiatori.
Questa avventura con i viaggiatori ignoranti? Un viaggio che spero non finisca mai...


L'infanticidio nel Medioevo

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L'infanzia nel Medioevo fu caratterizzata da tenerezza ed affetto, ma anche da pratiche spesso crudeli. Le condizioni ambientali, le infermità, il tentativo di controllo delle nascite ed i problemi di divisione del patrimonio furono le cause che impedirono quella cura che le famiglie moderne dedicano ai figli. La soluzione a tali problemi esulava dai codici scritti da dotti uomini di città, attingendo nelle antiche radici delle popolazioni europee.
Una delle pratiche più utilizzate fu quella dell'esposizione dei bambini in luoghi di difficile accesso, evento che conduceva alla morte del neonato. Solo nel Trecento furono istituiti gli Ospizi dei Trovatelli, dove fece la sua comparsa la ruota. Le altre soluzioni variavano dalla cessione dei bambini alla Chiesa all'uccisione degli stessi.
La tradizione dell'infanticidio era molto più sviluppata di quello che potremmo pensare: in alcuni paesi scandinavi sopravvisse per diversi secoli anche dopo l'introduzione e la conversione alla religione cristiana. L'infanticidio rappresentava nel Medioevo, forse in tutte le epoche, un modo comodo di eliminare il neonato che avrebbe potuto mettere in pericolo l'equilibrio, in molti casi già precario, economico delle famiglie. Un secondo fattore alla base di questo fenomeno potrebbe risalire al fatto che la nascita di un bambino avrebbe rivelato una condotta poco compatibile con le idee sociali e religiose di un determinato gruppo di persone.
Quali possono essere i fattori alla base dell'accettazione di tale, cruenta, pratica?
Da una parte l'infanticidio era un reato, sempre che fosse considerato tale in una determinata società, facilmente occultabile, non esclusivamente per la facilità di abbandono nei campi o nei boschi del neonato, ma anche per l'elevato tasso di mortalità infantile del Medioevo. Delort, autore del libro La vita quotidiana nel Medioevo, scrive che il calcolo statistico conduce ad un tasso di mortalità infantile spaventoso.
Un secondo fattore da prendere in considerazione per l'accettazione dell'infanticidio era relativo all'interpretazione secondo cui tale pratica rappresentava l'unico mezzo di controllo delle nascite. Malgrado l'economista Thomas Malthus non fosse ancora nato, la società medievale seguiva la dottrina economica che scaturì dal cervello e dalla penna dell'economista inglese. Il malthusianesimo è una teoria che attribuisce la diffusione della povertà e della fame nel mondo principalmente alla pressione demografica: in sostanza allo stretto rapporto esistente tra popolazione e risorse naturali disponibili. Thomas Malthus si fece assertore di un energico controllo delle nascite e auspicò il ricorso a strumenti tali da disincentivare la natalità, al fine di evitare il deterioramento dell'ecosistema terrestre e l'erosione delle risorse naturali, non rinnovabili.
Un terzo ed ultimo fattore che permette di comprendere la sopravvivenza di tale pratica era da ricercare nell'atteggiamento delle famiglie nei confronti dell'infanzia, più vicino alle società arcaiche precristiane che alla visione moderna. Con il trascorrere dei secoli e l'affermazione del Cristianesimo, l'infanticidio diviene, durante il periodo medievale, oggetto dell'attenzione della legislazione ecclesiastica. Le accuse di bambini annegati, bruciati alla nascita o esposti, erano diffuse in tutte Europa, così come l'abbandono alla nascita nei brefotrofi.
Una delle accuse che maggiormente fu indirizzata ai genitori dagli ecclesiastici d'allora era quella relativa all'aver causato la morte del neonato per soffocamento nel sonno, accidentalmente o volontariamente. I sermoni ecclesiastici ed i testi normativi, anche laici, dimostrano che l'infanticidio inquietava i responsabili dell'ordine sociale e civile del periodo medievale. Gli scritti medievali si rifacevano a testi più antichi: Rabano Mauro riporta nel suo penitenziale in materia d'infanticidio e di aborto i canoni di Ancira, Lerida ed Elvira dove venivano comminate penitenze di sette anni per le donne abortiste e infanticide.
Anche Reginone di Prum affrontò il tema della morte involontaria del figlio: “se qualcuno avrà ucciso incautamente il proprio figlio, o lo avrà soffocato per il peso degli abiti e se ciò è avvenuto dopo il battesimo, faccia penitenza a pane e acqua per quaranta giorni, e si astenga dal mangiare olio, legumi e dall'avere rapporti con il coniuge”.
Un secolo dopo Ivo di Chartres trattò dell'aborto e dell'infanticidio, riferendosi ai canoni precedenti. Ivo si differenziò dagli scritti antichi poiché previde solo dieci anni di penitenza, al posto della scomunica terminale, per le donne che si macchiavano di tali crimini. Sulla scia dei suoi colleghi si mosse anche Burcardo di Worms, una delle massime autorità in tema di penitenziali. Burcardo attenuò le penitenze proposte dai canoni di Lerida, Ancira ed Elvira adducendo argomentazioni di tipo umanitario. Lo stesso Burcardo paragonò l'infanticidio alla contraccezione ed all'aborto, reato per il quale previde una penitenza di dieci anni non solo per la madre ma anche per la donna che avesse aiutato o insegnato la pratica alla partoriente, soprattutto se il fatto avveniva dopo il quarantesimo giorno dal concepimento, ovvero dopo l'animazione del feto.
Un dato appare incontrovertibile: nei penitenziali medievali emerge con forza il passaggio delle responsabilità dell'infanticidio dal maschio alla femmina. Nel Medioevo avvenne un cambiamento ed un passaggio di responsabilità: nei secoli precedenti era il padre che prendeva la decisione di accettare o meno un figlio, nel periodo medievale divenne la madre, in piena autonomia, a decidere la sorte del neonato. Il passaggio delle responsabilità di fatto coincise con la trasformazione della responsabilità legale, idea che ritroviamo nelle parole di Burcardo di Worms: “Se una donna mette il bambino presso il camino e un'altra persona viene a mettere sul fuoco un calderone d'acqua bollente, e questa si riversa sul bambino e l'uccide, la madre faccia penitenza per la sua negligenza e l'altra persona sia considerata innocente”.
Questo passaggio di responsabilità coincise con una diminuzione del ricorso all'infanticidio, facilmente spiegabile dal maggiore attaccamento della madre verso il neonato rispetto al padre. Con il trascorrere dei secoli si crearono dei distinguo all'interno del reato di soppressione della vita di un neonato: se lo stato di povertà della madre era riconosciuto come motivo attenuante per un simile delitto, una donna che si fosse macchiata di tale infamia per interessi personali o per soddisfacimento dei propri desideri era giudicata e punita severamente sia dai giudici ecclesiastici che da quelli laici.
Inevitabilmente era condannata alla pena capitale dal tribunale secolare.
Verso la fine del Medioevo mutò il clima generale a causa della scomparsa dell'iniziale tolleranza verso questo delitto. L'epoca della comprensione lasciò il posto a crudeli punizioni, come la sepoltura da viva della madre infanticida o la messa al rogo con la condanna di portare al collo il corpo del bimbo ucciso nel percorso dal carcere al patibolo.
Nello stesso periodo rinacque ed esplose il ricorso alla pratica del Répit.
Per comprendere l'eventuale collegamento tra il delitto ed il rito dobbiamo cercare nella storia della religione cristiana e nel sacramento del Battesimo.
San Paolo in un sermone disse “sento che la questione è profonda e riconosco che le mie forze non sono idonee a scrutare l'abisso. Il bambino non battezzato va alla condanna. Ma dove non trovo il fondo dell'abisso debbo pensare alla debolezza umana, non debbo condannare l'autorità divina”.
Parole similari furono utilizzate da Sant'Agostino: “È dunque giusto dire che i bambini che muoiono senza il battesimo si troveranno nella condanna, benché mitissima a confronti di tutti gli altri. Molto inganna e s'inganna chi insegna che non saranno nella condanna”.
Il problema della morte alla nascita, accidentale o volontaria, fu un problema a lungo dibattuto. La cultura medievale escogitò la presenza del Limbo, luogo nel quale i bimbi nati-morti avrebbero vagato per l'eternità, lontano da Dio, ma al tempo stesso lontano dalle fiamme dell'inferno. Ancora prima della nascita del Limbo, lo stesso Sant'Agostino analizzò il problema donando speranza ai genitori: parlò della resurrezione temporanea in riferimento al caso di una donna cui vennero esaudite le preghiere sul ritorno alla vita del bimbo nato morto. Le preghiere della donna erano rivolte alla reliquia di Santo Stefano martire. Il figlio della donna resuscitò il tempo necessario per ricevere il battesimo. Il desiderio di dare ai propri figli la salvezza dell'anima superò anche il Limbo, dando vita, o ridando vita, al rito del Répit. Questo rito si svolgeva in pochi luoghi sacri, chiamati Santuari à Répit o del respiro. Il tentativo di riportare alla vita, anche solo per un attimo, il bimbo nato morto è attestato in Europa a partire dalla metà del 1200 e fu tollerato dalla Chiesa sino alla metà del 1700. Il ricorso al Répit si sviluppo nello stesso momento nel quale le autorità civili ed ecclesiastiche mutarono atteggiamento nei confronti dell'infanticidio.
Le madri, sulle quali ricadeva la responsabilità della morte del neonato, iniziarono a cercare, e trovare, luoghi idonei alla rinascita del bimbo per il tempo necessario alla somministrazione del battesimo. Il sentimento di colpa, morale e legale, che colpì le madri fu alla base del ricorso al rito del Répit? Non penso potremo mai trovare una risposta certa. L'ultimo collegamento storico è relativo alla mitologia stregonica.
Nel Malleus Maleficarum si ritrovano delle levatrici che uccidono i bambini allo scopo di impedirne il battesimo, chiaramente spinte in quello dalla figura demoniaca poiché i bambini rifiutati dal cielo perché macchiati dal peccato originale erano destinati alle fiamme dell'inferno, dimora del diavolo. Il battesimo era necessario per permettere al bimbo di recuperare il suo posto in cielo e non dover vagare per l'eternità nell'inferno. Tra la fine del Medioevo e l'inizio dell'epoca moderna, un misto di paure, religiose e legali, e la nascita di una nuova cultura consentì una rapida diminuzione del ricorso all'infanticidio, sia come strumento di controllo delle nascite che come soluzione ad una gravidanza inaspettata.

Fabio Casalini

Bibliografia
Dean Mitchell, The Malthus Effect: population and the liberal government of life, Economy and Society, 2015

Petoia Erberto, Storia segreta del Medioevo, Newton Compton editori, 2018

Prosperi Adriano, Dare l'anima. Storia di un infanticidio, Einaudi, 2005

Robert Delort, La vita quotidiana nel Medioevo, Laterza, 1997

Fabio Casalini e Francesco Teruggi, Mai vivi, mai morti, Giuliano Ladolfi editore, Borgomanero, 2015

Marcel Bernos, Réflexions sur un miracle de l'Annonciade d'Aix. Contribution à l'etude dex sanctuaries à repit, in Annales du Midi, Edition Privat, Tolosa, 1970

Fiorella Mattioli Carcano, Santuari à Répit, Priuli e Verlucca, Ivrea, 2009

Jean-Baptist Thiers, Traité de l'exposition du Sain Sacrament de l'autel, Louis Chambeau, Avignone, 1977

FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.

Galleggiando fra le ninfee

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Si sa che qualsiasi discorso si faccia intorno ad un quadro o ad un’opera d’arte in genere può cambiare radicalmente nel momento in cui finalmente la si riesce a vedere dal vivo. E’ sicuramente il caso delle famose Nymphéas di Claude Monet, in particolare di quelle esposte da qui all’eternità nelle sale ovali dove lo stesso Monet ha voluto che fossero collocate (e probabilmente per le quali le ha pensate) quando le donò allo stato francese e al mondo in­tero, nei locali dell’Orangerie, edificio ai margini dei giardini delle Tuileries a Parigi.  Per quanto mi riguarda è uno di quei casi in cui, mai davvero particolarmente entusiasta delle trasparenze acquatiche del grande impressionista, quando finalmente le ho viste dal vero la mia considerazione di quelle opere è cambiata. Sostanzialmente cambiata. 

Poche opere come les Nymphéas devono essere viste (ma “vedere” è un termine inadeguato) dal vivo, nella loro collocazione, nelle loro dimensioni, e so­prattutto nella loro immensa impalpabilità. In breve, la storia racconta che Monet, già anziano e ormai piuttosto ricco e famoso, si ritirò in Nor­mandia, nella sua villa di Giverny, e letteralmente si immerse nel lavoro che avrebbe concluso la sua car­riera di pittore, e che avrebbe cambiato la pittura da lì a venire. Ma non si mise subito a dipingere, affat­to. Si mise a progettare e costruire il giardino, e nel giardino il lago con le ninfee, montandolo e rimontandolo, con le ruspe e con tutto l’armamentario ne­cessario, come se quella fosse l’opera da realizzare, e non la rappresentazione che ne sarebbe seguita. E poi si mise ad osservarle, a passare ore ed ore (da vero vecchio rimbambito) a fissare apparen­temente senza motivo il suo laghetto con le sue ninfee, osservandolo e verrebbe da dire assimi­landolo, a tutte le ore del giorno, con tutte le sfuma­ture di luce possibili, con tutte le ombre e i riflessi che generava. E ancora non prendeva in mano il pennello. Poi infine si mise davanti alle tele. Ma, attenzione, sempre la storia racconta che non lo abbia fatto con la tela e il cavalletto davanti allo stagno, ma chiuso nel suo immenso studio, con le ninfee qual­che decina di metri più in là ma senza poterle vedere direttamente (probabilmente anche per un motivo pratico: su quelle tele così spropositate non si poteva lavorare all’aperto). Così chiuse in apparente contraddizione con l’in­tero movimento impressionista di cui lui stesso era stato alfiere, e per il quale la pittura “en plein air” era il fondamento irrinunciabile, con quello che pro­babilmente fu il suo estremo e autentico colpo di genio: si mise a dipingere senza più guardare l’og­getto della sua pittura, a dimostrazione evidente che il suo scopo stavolta non era più rappresentare ciò che si vede, ma ciò che si ricorda, o che si è colto, o che si è capito dell’oggetto della rappresentazione. 
 Qui probabilmente sta la prima scoperta, almeno per me, di queste opere uniche nella storia dell’arte. Nell’osservarle (insisto ad evitare il verbo “guardare”) ci si rende conto che non rappresentano un paesaggio, un lago, dei fiori galleggianti o degli alberi, ma probabilmente rappresentano il suo sguardo su di esse, rappresentano letteralmente “l’idea” delle ninfee così come si era ormai formata nella mente del pittore. Nella mente, non più davanti agli occhi. E così probabilmente Monet ha realizzato il primo vero esempio di pittura metafisica, e il primo passo fon­damentale verso quello che diverrà, molti anni dopo, l’astrattismo. 
L’altra scoperta, se così la si può chiamare, è che non si tratta di una visita, ma di un’esperienza in senso più ampio. Non si va a guardare dei quadri, ma si va a galleggiare in un non-spazio guardando non-paesaggi. Non si sta da un lato a guardare una rappresentazione che sta oltre il confine della tela, ma ci si trova circondati da enormi tele che seguono incurvandosi la superficie ovale delle due sale, e che sono comunque confinate entro cornici solo per mo­tivi puramente fisici, ma sono pensate e realizzate per espandersi oltre, e lo fanno. 
E la prova che non si tratti di paesaggi ma di rappresentazioni mentali esiste. Basta riuscire a toglier­si dalla mente la pretesa di “guardare”, e ci si ac­corge immediatamente che, oltre alla straordinaria capacità di ricreare ambienti e trasparenze con pen­nellate che viste da vicino (cioè come le vedeva il pittore!) sono pure e semplici incrostazioni di colore, ci sono altri significativi indizi che distinguono les Nymphéas da qualsiasi altro quadro. Tutti o quasi tutti i quadri hanno un punto di vista ideale. Un punto e una distanza dalla tela in cui l’osservatore può dire: “Ecco! È da qui che va visto”. Les Nymphéas no. 
Puoi avvicinarti fino a guardare la singola pen­nellata, puoi allontanarti per cercare di cogliere l’in­sieme e ti accorgi che potresti avvicinarti all’infinito, se potessi farlo, oppure allontanarti all’infinito, se non avessi alle spalle un altro spicchio di stagno dipinto, e continueresti a vederle in modo diverso, come se ogni punto dello spazio fornisse una sua visione del quadro, nessuna migliore delle altre, nessuna che ti dice di più o di meno della pre­cedente. 
 Al centro delle sale ovali dell’Orangerie ci sono dei divani, ma servono solo per riposarti se sei stanco, perché non ha senso sedersi e guardarle. Dopo poco ti rendi conto che l’unico modo di guardarle è continuare a muoverti, girare lungo il perimetro, lasciarti avvolgere da una visione che scorre, ondeggia, muta in continuazione, raggiunge i sensi trapassando la vista. L’unico modo di guardarle è non fermare mai lo sguardo. L’unico modo di guardarle è lasciarsi trasportare lentamente dalla corrente quasi inesistente di quello stagno. L’unico modo è galleggiarci in mezzo. 

Poi a un certo punto arriva inevitabile anche la visita alla sua casa-giardino di Giverny. 
È davvero un luogo particolare. Si capisce in ogni angolo e da ogni scorcio che si tratta di ambienti progettati e realizzati da un pittore (e che pittore!). La casa è emozionante. Il suo leggendario studio con le grandi vetrate, le stanze arredate una ad una con colori e stili diversi. La cucina blu, la sala da pranzo completamente gialla che scomporla in pennellate sembra un quadro di Van Gogh. 

E il giardino, il suo capolavoro, un tripudio di prospettive e di colori, viali di dalie e esplosioni di gigli. 
E poi, naturalmente, il laghetto con le ninfee. Che non solo è esattamente come lo hai sempre immaginato, ma che improvvisamente fa acquistare ai suoi quadri, in assoluta contemporaneità con il loro visionario astrattismo, una dimensione realistica sbalorditiva. E’ esattamente come nelle sue tele. I riflessi, le ombre, le rifrazioni, le scomposizioni della luce. Tutto torna. Nel constatare la perfezione delle sue riproduzione si comprende, all’ombra di quei salici, quanto il maestro possa essere penetrato nella sua ricerca nella struttura più intima di quei colori, di quella luce, di quella atmosfera. Quasi fosse riuscito a scomporla nelle sue componenti chimiche per poi riprodurla ricombinandole in laboratorio. 

Da fotografo e appassionato d’arte non ho potuto sottrarmi al gioco di ricercare con le inquadrature e con la luce i suoi angoli e le sue visioni (andando a memoria, naturalmente) e nelle fasi successive di ricerca e sviluppo degli scatti effettuati sorprendermi a scoprire quanto alcune di queste potessero essere affiancate e confrontate con gli squarci dei suoi quadri, in un gioco di riflessi e rimandi pressoché senza soluzione. 

Il consiglio quindi è: andate a visitare l’Orangerie a Parigi, lasciatevi ubriacare dalla danza oscillante delle sue enormi tele, e poi (meglio ancora se nello stesso viaggio) spostatevi una settantina di chilometri a nord-ovest e visitate la casa-giardino di Monet, Giverny, Normandia. Ne uscirete con un modo nuovo di vedere l’arte e la pittura, e al tempo stesso con un modo nuovo di concepire il paesaggio e la natura. 

Claude Monet – Les Nymphéas 

(1920) 

Parigi – Orangerie 



Per illudersi di dare un’occhiata virtuale alle Nymphéas: http://www.musee-orangerie.fr/

La casa giardino di Monet a Giveny: http://fondation-monet.com/


Alessandro Borgogno 


 ALESSANDRO BORGOGNO

Vivo e lavoro a Roma, dove sono nato il 5 dicembre del 1965. Il mio percorso formativo è alquanto tortuoso: ho frequentato il liceo artistico e poi la facoltà di scienze biologiche, ho conseguito poi attestati professionali come programmatore e come fotoreporter. Lavoro in un’azienda di informatica e consulenza come Project Manager. Dal padre veneto ho ereditato la riservatezza e la sincerità delle genti dolomitiche e dalla madre lo spirito partigiano della resistenza e la cultura millenaria e il cosmopolitismo della città eterna. Ho molte passioni: l’arte, la natura, i viaggi, la storia, la musica, il cinema, la fotografia, la scrittura. Ho pubblicato molti racconti e alcuni libri, fra i quali “Il Genio e L’Architetto” (dedicato a Bernini e Borromini) e “Mi fai Specie” (dialoghi evoluzionistici su quanto gli uomini avrebbero da imparare dagli animali) con L’Erudita Editrice e Manifesto Libri. Collaboro con diversi blog di viaggi, fotografia e argomenti vari. Le mie foto hanno vinto più di un concorso e sono state pubblicate su testate e network nazionali ed anche esposte al MACRO di Roma. Anche alcuni miei cortometraggi sono stati selezionati e proiettati in festival cinematografici e concorsi. Cerco spesso di mettere tutte queste cose insieme, e magari qualche volta esagero.

Andrea Matteucci, il serial killer di Aosta

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Questa è la storia di un uomo come tanti, uno nato in una famiglia difficile, che al primo vagito ha respirato aria di difficoltà.
Andrea Matteucci nasce a Torino, il 24 aprile 1962. La sua è una famiglia operaia. Suo padre lavora in fabbrica, ma lo stipendio non basta. Ha precedenti penali per furto e ricettazione, ha sempre cercato di arrangiarsi anche in modi non leciti. Dopo pochi mesi dalla nascita del figlio scappa. Sparisce nel nulla lasciando nella disperazione la moglie e un neonato inconsapevole del fatto che tutta la sua vita sarà segnata.
Mamma Maria Pandiscia non ha molta scelta. Deve “campare”. Forse Andrea starà meglio a Foggia con una parente. Così il piccolo viene affidato a zia Lina, fino all’età di 5 anni. Il rapporto fra i due è sereno e felice. Lina è una mamma, dolce e gentile. Tutto procede bene, fino al giorno in cui una sconosciuta si presenta alla porta della loro casa a Foggia. Quella donna è la mamma di Andrea, ma lui non la conosce, non sa chi sia. Lo rivuole con sé e così, raccolte le sue cose, fra le lacrime, mamma e figlio vanno a vivere ad Aosta.
Poteva andare meglio? Forse sì, ma Andrea questo non lo saprà mai.
Viene messo in un istituto religioso, dove rimane fino ai 9 anni, quando cambia collegio. La mamma in casa fa la prostituta e lui lo sa.
Alla sera finita la scuola torna a casa a dormire, mal sopportato dalla madre e dal suo compagno, un uomo pieno di rabbia a violento. La donna lo vive come un peso e non come una gioia. Nel suo viso rivede il marito, il fallimento della sua vita. Inveisce spesso contro di lui, lo chiama coniglio, cagone, gli dice che è uguale a suo padre, senza futuro.
Andrea è frustrato dal lavoro della madre. Lei non fa nulla per nascondere ciò che fa, anzi lo costringe ad assistere ai suoi incontri, creando in lui un trauma insanabile. Da grande dirà: «faceva la prostituta e mi faceva assistere agli incontri con i suoi clienti. Io odio le donne che si fanno pagare per stare con gli uomini».
La violenza cresce attorno a lui e lui con essa. Mamma Maria si vanta spesso delle prodezze fatte durante l’esercizio del mestiere. Racconta al figlio di avere sparato ad un cliente, che aveva parlato male di lei, di averne ucciso un altro, e di averne evirato un terzo, perché si era rifiutato di pagarla.
Andrea ascolta, crede a tutto, infondo non ha motivo di non farlo. Respira degrado e violenza, umiliazioni e soprusi. Un giorno la madre gli racconta di aver ucciso il cane della vicina, solo perché le sta antipatica: lo ha impiccato a un albero del giardino. E la nonna? La mamma dice di averla uccisa, imbottendola di medicinali e la picchiandola sulla testa. Andrea la ricorda, anche lei piena di stranezze per lui incomprensibili: beveva l’aceto e aveva spesso allucinazioni durante le quali vedeva parlare i morti.
A 13 anni tutto cambia. Andrea ruba una bicicletta con un amico. Preso dal rimorso e dalla paura delle conseguenze decide di scambiarla con quello del suo compagno. Tornando a casa il patrigno lo vede e sapendo che quella bicicletta non gli appartiene, lo riempie di botte, lo porta in giro per il quartiere, urlando a tutti che è un ladro. L’umiliazione è forte. Andrea sente dentro di sé crescere una rabbia oscura, mai provata prima, sente nascere il desiderio di uccidere. La sua mente vacilla.
A 14 anni ne combina una grossa. Rapina la macelleria dove lavora. Ha una scacciacani in mano. Nessuno dei suoi colleghi lo prende sul serio, continuano a lavorare pensando a uno scherzo. Anche questa volta il rimorso è grande, quasi quanto la confusione nella sua testa. Si costituisce dopo una settimana. Forse allora Andrea è un bravo ragazzo. Il reato commesso non è grave, ma tanto basta perché sua madre e il compagno lo allontanino da casa. Aspettavano un pretesto.
Il tribunale non può far altro che metterlo in una comunità, dove rimane fino a 18 anni.
Quando esce torna a vivere con la mamma e il compagno. In casa rimane il meno possibile, il clima di disprezzo e ostilità attorno a lui non è cambiato. Lei continua ad insultarlo, accrescendo la sua rabbia, alimentando quel bisogno di uccidere, di vendicarsi, che sente sempre più forte dentro di sé.
Trova lavoro come meccanico, a Quart, comune vicino ad Aosta.
La sera del 30 aprile 1980 Andrea esce di casa. Incontra un uomo di nome Domenico Raso, di 50 anni, nella zona del Teatro Romano di Aosta. L’uomo è un commerciante, sposato, con due figli, segretamente omosessuale. Andrea gli piace. Lo avvicina e gli chiede se vuole appartarsi con lui, dietro all’Arco di Augusto. Il ragazzo accetta, senza pensare. Domenico gli chiede di fare l’amore. Adrea accetta di nuovo, ma quando gli si avvicina per baciarlo, il ragazzo gli sferra un pugno. L’uomo cade, faccia a terra, stordito, probabilmente sorpreso. In un attimo il ragazzo lo afferra per i capelli e lo colpisce alla schiena con un coltello che tiene alla cintura. La lama si incastra. Andrea si alza e se ne va, ma deve fermarsi, Domenico è solo ferito e ora urla forte, troppo forte, qualcuno potrebbe sentirlo. Pochi passi e riprende il coltello. Lo colpisce molte volte, mentre l’uomo resta morente a terra. Si allontana, sparendo nella notte, ancora sconvolto da quello che ha fatto, trafelato, sporco di sangue, pervaso da una sensazione mai provata prima. I giornali, giorni dopo, parlano dell’omicidio, commesso da persona ignota, in una città come Aosta, dove di omicidi non se ne vedono molti. I sensi di colpa lo raggiungono, condizionano i suoi sogni. Si ripromette di non farlo mai più.
Passano alcuni mesi. Arriva la chiamata al servizio militare. Andrea parte per Livorno, entra nella Folgore. Svolge tutto il servizio senza problemi, come barelliere. Si congeda un anno dopo con il grado di Caporalmaggiore. Pensa anche di “mettere la firma”, ma si congeda. Ci ripensa ma è troppo tardi.
Tornato ad Aosta conosce una ragazza, tramite un amico comune. È il 1983. Si sposano e vanno a vivere a Saint- Pierre. Si trasferiscono poi a Sarre e da lì a Villeneuve. Qui si stabiliscono e Andrea trova lavoro come commesso. Nel 1987 diventa padre. Tutto sembra andare bene, una famiglia normale, una vita normale. Il passato è lontano dimenticato. Almeno così sembra.
Un giorno Andrea si licenzia. Decide di diventare scalpellino. Prima va ad imparare il mestiere in una bottega, poi ne apre una sua ad Arvier, paese poco distante dal suo. Ma il lavoro non gira bene, non va come dovrebbe. E anche la vita con sua moglie diventa difficile. Non hanno più rapporti intimi, sono due estranei che litigano ogni giorno. In famiglia è un continuo tira e molla: un giorno insieme, uno distanti, con i suoceri sempre in mezzo a sostenere la figlia. Andrea sente crescere lo stress.
È il 1992. Una sera esce per andare a sfogarsi: vuole trovare una prostituta con cui fare l’amore, come fa da un po’ di tempo. Ha di nuovo litigato con sua moglie. Quella sensazione sopita da tanto rinasce dentro di lui in modo prepotente. In tasca ha una pistola che spara un pallettone, una di quelle usate per abbattere le mucche. Nel suo girovagare con il furgone passa da Brissone. Vede una ragazza che gli piace, bionda, minuta, con gli occhiali. Le chiede il nome: Daniela Zago, torinese di 30 anni. Si appartano, ma dopo un po’ comincia ad andare tutto storto. Lui non riesce a fare l’amore, è troppo stressato, arrabbiato. Lei ha fretta, vuole tornare indietro, ricominciare a lavorare. La riaccompagna. Fa un giro e poi ci ripensa. Torna da lei, le chiede di nuovo di salire e di riprovare. Lei accetta. Una volta sul furgone lui le domanda: “hai dei figli?”. Quando lei dice di noi, lui le spara alla nuca. Sangue dappertutto, ma Daniela non è morta è ferita. Chiede di essere portata in ospedale. Andrea acconsente, ma in realtà la conduce in un altro posto e le spara di nuovo: sta volta muore. Riparte per Arvier, si ferma vicino al suo laboratorio, scava una buca e la seppellisce. Torna a casa, più sereno, sollevato, per aver liberato il mondo da una persona “indegna”, volgare. Rientrato, regala alla moglie i gioielli che ha sottratto alla ragazza, per farsi perdonare delle incomprensioni di qualche ora prima. Quello che è accaduto gli resta in testa, per un mese, poi una notte torna dove ha seppellito Daniela, la dissotterra, la taglia a pezzi e poi la mette in un bidone. Le dà fuoco. Dopo qualche ora di lei non resta che cenere, che viene dispersa in una discarica.
Ad aprile del 1992 Andrea e la moglie si separano. Il bambino resta con la mamma. Lui va di nuovo a vivere Villeneuve, dove finalmente incontra il suo vero padre, quello che lo aveva abbandonato appena nato. L’uomo, scontati i suoi debiti con la giustizia, vorrebbe instaurare un rapporto con il figlio, farsi perdonare. Ha un lavoro in Puglia, una vita e vorrebbe che ora Andrea andasse con lui.
Il ragazzo accetta, ma ancora una volta le cose non sono come dovrebbero.
Il padre in realtà ha un magazzino dove ricetta camion rubati e convive con una donna che ha una figlia, Anna Maria. Andrea gli ha dato tutti i suoi risparmi, fidandosi di quell’uomo che infondo non conosce. Non può più tornare indietro, senza soldi. Così accetta di aiutarlo in questa attività illecita, mentre a poco a poco si innamora della figlia della compagna di suo padre.
Ma Andrea non è felice. Quella vita non fa per lui. Inizia a rubare furgoncini ad Aosta, dove va a vivere con Anna Maria, per poi portarli in Puglia dal padre, che li smonta e li rivende sul mercato nero. Di nuovo il rapporto con la sua ragazza va in crisi. Le liti continue lo stressano e anche quel frequente viaggiare non gli va giù. Ancora una volta la suocera si mette in mezzo e il loro rapporto finisce.
Nell’agosto del 1994, una sera che è particolarmente triste, esce di casa con la pistola in tasca. Sente il bisogno di sfogarsi. Cerca una prostituta con cui fare l’amore, come è solito fare negli ultimi tempi, in cerca di quella serenità smarrita da tempo. Comincia a girare quando, vicino a Chambave, vede una ragazza di colore che gli piace. Si chiama Clara Omarei Bee, ha 26 anni, è nigeriana. Accetta di salire con lui, non vede alcun pericolo in quel giovane con l’Ape Piaggio. Si appartano. La ragazza non è gentile, ha fretta, è scontrosa. Lui vorrebbe chiacchierare, ma lei non vuole, deve tornare sulla strada. Iniziano a litigare, volano parole, urla. Andrea le dà un pugno in faccia, poi tira fuori la pistola e le spara in testa. Aspetta un po’ di tempo, infila un preservativo, poi ha un rapporto sessuale con il corpo della ragazza. Riparte con l’Ape Piaggio, va a casa a Villeneuve, dove nel frattempo si è ritrasferito, la fa a pezzi con un coltello. Torna ad Arvier, con i resti insanguinati, li mette nel bidone usato anni prima e gli dà fuoco. Resta solo cenere, che Andrea conserva per una notte a casa. Il giorno dopo se ne disfa gettando tutto nella Dora Baltea. Si sente meglio.
Il 10 settembre, un mese dopo, è in giro con una Fiat Uno: sta andando a caccia. Sa quello che vuole fare. Incontra una prostituta di colore, Lucy Omon, vicino a Nus. Vanno a casa di lui, dove hanno un rapporto completo. Ne avranno un altro in auto, tornando verso la statale dove la ragazza lavora.
All’ultimo Andrea cambia strada, va ad Arvier, al solito posto. Improvvisamente quell’uomo gentile cerca di ucciderla, soffocandola con un cuscino che ha in auto. Non ci riesce. Ci riprova con uno straccio ma la ragazza riesce a fuggire.
Passano dei mesi, otto per l’esattezza. Andrea ha una nuova fidanzata, Anna. Con lei va tutto bene, ma quella sensazione dentro di lui non si assopisce più. Nell’aprile del 1995 viene condannato per furto d’auto. Non va in carcere, ha solo l’obbligo di firma a Saint- Pierre. Può continuare la sua vita. Il 12 maggio, con un furgone, va verso Arnauld in cerca di compagnia. Sulla strada vede una ragazza che gli piace. È albanese, si chiama Albana Dakovi, ha 20 anni. Si appartano e fanno sesso sul furgone. Lui la riporta al suo posto e se ne va. Alle 18 ci ripensa, torna da lei. Si appartano di nuovo, ma questa volta Andrea vuole solo parlare. Lei non capisce, comincia ad agitarsi, hanno una discussione durante la quale lui le dà uno schiaffo. L’uomo perde la testa. La spinge fuori dal furgone. La raggiunge con una chiave inglese in mano e la colpisce alla testa. Poi afferra un coltello, la pugnala più volte e le taglia la gola. La rimette nel furgone, per disfarsi del cadavere. Ma lungo il tragitto si ferma a fare benzina, non può permettersi di rimanere a secco. Decide di andare a Villeneuve. Porta Albana in casa, la mette in uno stanzino e si siede a pensare. Dopo sette ore decide di avere un altro rapporto sessuale con lei, con il preservativo. Il giorno dopo deve partire per la Puglia, deve portare un furgone a suo padre. Lascia la ragazza morta nello stanzino e se ne va. Il 17 maggio, al suo rientro, la fa a pezzi con il solito coltello, la porta ad Arvier, la mette nel bidone, lo stesso, e le dà fuoco. Butta le ceneri nella Dora. Di lei conserva una catenina d’oro, che Andrea pensa di regalare ad Anna.
Dopo un mese Andrea vien arrestato. Un testimone lo ha visto caricare sul furgone Albana, prima che lei sparisse. Trovano sul suo mezzo tracce di sangue della ragazza. È il 26 giugno 1995.
Andrea nega tutto, mente. La pressione è forte, sente aumentare lo stress. Il giorno dopo viene reinterrogato e ammette che è responsabile della morte della giovane, ma che è stato un tragico incidente. La sua versione non regge. Si contraddice. Tramite il confronto con vecchi casi irrisolti, fra cui quello di un omosessuale di Aosta avvenuto negli anni ’80 e quelli di due prostituire sparite nel ’92 e nel ’94, emergono collegamenti e prove a suo carico. Viene interrogata anche una giovane scampata ad un tentato omicidio, Lucy Oman, che lo riconosce come il suo aggressore. Andrea non ce la fa, crolla, ammette i delitti, l’aggressione. Ha ucciso 4 persone, ha compiuto atti di necrofilia, ha commesso atti di vilipendio sui cadevi e li ha distrutti.
Il 16 aprile 1996 la corte di Assise di Aosta dichiara Andrea Matteucci, un uomo all’apparenza normale, colpevole dell’omicidio di Albana e del tentato omicidio di Lucy. Per gli altri reati commessi resta la sua confessione ma non ci sono prove schiaccianti. La sua condizione mentale, refertata da esperti, fa accettare il ragionevole dubbio. Deve scontare 24 anni di carcere. Ma la sua vicenda non è finita qui. Al processo d’appello vien riconosciuto colpevole di tutti e 4 gli omicidi. La condanna è a 30 anni di carcere, tenuto conto del vizio parziale di mente.
Nel 2017, a 54 anni, Andrea Matteucci, il serial Killer di Aosta, torna in libertà. Ha passato gli ultimi anni in un ospedale psichiatrico a Reggio Emilia. Probabilmente continuerà la sua vita in una struttura sanitaria in Valle d’Aosta, ma questo noi non lo sappiamo, è tronato ad essere un uomo comune dal passato oscuro.

Rosella Reali

Bibliografia
Carlo Lucarelli, Massimo Picozzi - Serial Killer - 2003 - Oscar Mondadori

http://www.serialkiller.it/serialkiller

https://www.lastampa.it/2017/03/12/aosta/il-ritorno-a-casa-di-mister-hyde

http://www.ansa.it/valledaosta/notizie/2017/03/10/serial-killer-aosta-tornato-in-liberta

ROSELLA REALI
Sono nata nel marzo del 1971 a Domodossola, attualmente provincia del VCO. Mi piace viaggiare, adoro la natura e gli animali. L'Ossola è il solo posto che posso chiamare casa. Mi piace cucinare e leggere gialli. Solo solare, sorrido sempre e guardo il mondo con gli occhi curiosi tipici dei bambini. Adoro i vecchi film anni '50 e la bicicletta è parte di me, non me ne separo mai. Da grande aprirò un agriturismo dove coltiverò l'orto e alleverò animali. 
Chi mi aiuterà? Ovviamente gli altri viaggiatori.
Questa avventura con i viaggiatori ignoranti? Un viaggio che spero non finisca mai...






Marozia e la pornocrazia pontificia

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Maria, detta Mariozza e poi conosciuta come Marozia, nacque intorno all'anno 892 a Roma. Era figlia di Teodora e del Senatore romano Teofilatto. Maria era nota per la sua bellezza e per la spregiudicatezza delle sue azioni. Malgrado fosse analfabeta, riuscì a dominare Roma e la Chiesa Cattolica per un ventennio del secolo X grazie all'astuzia ed alla seduzione di cui era portatrice. Forti alleanze ed amicizie potenti permisero l'instaurazione della cosiddetta Pornocrazia: neologismo, ricalcato dal francese pornocratie, che indica una forma di governo caratterizzata dalla forte influenza sugli uomini di potere esercitata dalle cortigiane o favorite. L'elemento caratteristico della pornocrazia non è lo scambio di favori sessuali e posizioni di privilegio, perché questo scambio è tipico di qualsiasi relazione tra potenti e concubine, e nemmeno il ruolo politico o pubblico della concubina ma la capacità della favorita, o delle favorite, di creare un potere personale attraverso la relazione con il potente di turno, che sostituisce il potere del potente e talvolta gli sopravvive. 
La pornocrazia prescinde dal sesso e dall'orientamento sessuale dei protagonisti e può instaurarsi anche nel caso di relazioni tra donne di potere e cortigiani. Torniamo nella Roma del X secolo. Marozia, appena quindicenne, fu la concubina di Papa Sergio III, suo cugino, che conobbe quando era semplice vescovo di Cerveteri, all'epoca Caere. Questa relazione però appare controversa secondi alcuni storici, Pietro Fedele per citarne uno, mentre la gran parte degli autori accettò il racconto di Liutprando da Cremona, vescovo e diplomatico italiano al servizio del Sacro romano impero. Nel corso della sua vita adulta, Marozia si sposò ben tre volte, e tutti i matrimoni furono politici. Nel 909, quando era incinta del primo figlio, sposò Alberico di Spoleto. Il figlio che attendeva fu in seguito legittimato. Alberico e Marozia ebbero un figlio, cui fu dato, senza molta fantasia, il nome di Alberico. Marozia si unì ad Alberico, il vecchio, poiché scorgeva in lui due caratteristiche che apprezzava: il potere e l'ambizione di poterne avere ancora di più. Le aspettative di Marozia si realizzarono quando Alberico si alleò a Papa Giovanni X. Insieme, nel 916, sconfissero i Saraceni al Garigliano. Alberico, il vecchio, fu immediatamente nominato console di Roma, ma lasciò la povera Marozia presto vedova poiché fu ucciso nel 924 ad Orte. L'inconsolabile donna ritentò la scalata al potere sposando Guido, marchese di Toscana. L'uomo era un acerrimo oppositore del Pontefice. Per amore di Guido, e del potere, Marozia divenne la principale nemica di Papa Giovanni X. 
Nel maggio del 928 la battaglia raggiunse il culmine e Marozia riuscì, assediando la residenza del Papa al Laterano, ad imprigionare Giovanni X. Deposto ed in miseria, il papa morì poco dopo l'inizio della prigionia, probabilmente per soffocamento. Guido divenne il signore di Roma e Marozia riuscì nella non facile imprese di pilotare l'elezione di tre papi successivi: Leone VI, Stefano VII e Giovanni XI (il suo primo figlio, che appena ventunenne salì al trono di Pietro). A causa del carattere estremamente debole, Giovanni XI fu un facile strumento nelle mani della donna che assunse il ruolo di vero pontefice. 
Poco tempo dopo la consacrazione del figlio, morì Guido, il secondo marito. Nel 932, scontato il lutto, Marozia si sposò per la terza volta: il prescelto era Ugo di Provenza, Re d'Italia dal 926 al 947. La particolarità di questa unione risiede nel fatto che Ugo era fratello di Guido e quindi impossibilitato a sposare Marozia. Come riuscirono a risolvere il problema? Ugo giurò e spergiurò, dicendo il falso chiaramente, d'essere figlio illegittimo del proprio padre. La donna, sfruttando l'influenza sul figlio divenuto Papa, progettò l'incoronazione di Ugo ad imperatore. Ma la sorte non sempre è benevola con i malfattori ed Alberico II, secondo figlio di Marozia e fratellastro di Giovanni XI, sventò i propositi della potente madre. Alberico, prima della data prevista per l'incoronazione, sollevò la città contro Ugo e lo costrinse alla fuga. Unico padrone della città, Alberico avviò il riordino di Roma e dei territori circostanti, che si presentavano abbandonati e decaduti. 
Sotto il suo dominio i pontefici non furono altro che degli strumenti nelle sue mani che potevano in ogni momento essere deposti. Alla morte di Giovanni XI fece eleggere Papa Leone VII ed alla morte di quest'ultimo Stefano VIII. E Marozia? Dal momento dell'arresto si persero le tracce. Probabilmente finì i suoi giorni reclusa in un convento. Morì, presumibilmente, prima del 936 e venne sepolta nel monastero dei Santi Ciriaco e Nicola. Secondo lo storico Edward Gibbon, la vicenda di Marozia potrebbe aver ispirato la leggenda della Papessa Giovanna, che molti credettero realmente esistita sino alla Riforma Protestante. 


Sino a qui la storia per come ci è pervenuta tramite gli scritti di Liutprando da Cremona, che non lesinò parole dure nei confronti di Marozia: “bella come una dea e focosa come una cagna, viveva nel cubicolo del Papa e non usciva mai dal Laterano”. Secondo la storica, vissuta nel Novecento, Luigina Fasoli la storia potrebbe essere diversa: “gli studiosi più aggiornati, senza giurare che Marozia fosse un esempio di cristiana modestia, sono convinti che la sua autorità dovesse posare su una base più solida della lussuria e del vizio. Marozia doveva avere molto ingegno, molta abilità e pochi scrupoli”. Molti secoli dopo gli avvenimenti narrati, un poeta e scrittore irlandese disse: “fornite alle donne occasioni adeguate e le donne potranno fare di tutto”. Oscar Wilde forse conosceva la storia della bella Marozia?

Fabio Casalini


Bibliografia
Paola Toscano, Straordinaria e scellerata vita di Marozia che volle farsi imperatrice, Mondadori, 1998  

Vittoria Calabri, Marco Poli, Intrighi e misfatti. Marozia fra storia e leggenda, Nuova S1, 2012 

Giovanni Di Capua, Marozia. La pornocrazia pontificia intorno all'anno Mille, Scipioni, 2013 

Tommaso di Carpegna Falconieri, Marozia, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 70, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2008

FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.





Costanza d’Altavilla, l’imperatrice che (forse) partorì nella pubblica piazza di Jesi

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Giovanni Villani concepì l’idea di realizzare una cronaca dei fatti a lui contemporanei, e della storia di Firenze, mentre si trovava a Roma in occasione del primo Giubileo del 1300. Cominciata nel 1308, la redazione dell’opera lo occupò per tutta la vita e rimase incompiuta alla sua morte, avvenuta nel 1348. La Nuova Cronica fu continuata dal fratello Matteo e, dal 1363, dal figlio Filippo. All'interno della monumentale opera è riportato un evento, molto particolare, avvenuto un secolo prima, circa, del primo Giubileo: il parto sulla pubblica piazza di Jesi da parte di Costanza d’Altavilla. Il figlio, Federico II, ricoprirà il ruolo d’Imperatore del Sacro Romano Impero. Il Villani riportò l’evento con le seguenti parole: «Quando la 'mperatrice Costanza era grossa di Federigo, s'avea sospetto in Cicilia e per tutto il reame di Puglia, che per la sua grande etade potesse esser grossa; per la qual cosa quando venne a partorire fece tendere un padiglione in su la piazza di Palermo e mandò bando che qual donna volesse v'andasse a vederla; e molte ve n'andarono e vidono, e però cessò il sospetto».
Chi era Costanza d’Altavilla e quali furono le motivazioni che la portarono ad affrontare un parto sulla pubblica piazza di Jesi?
Non vi sono notizie certe della vita di Costanza prima del matrimonio con Enrico VI di Svevia. Era figlia di Ruggero II re di Sicilia e della terza moglie Beatrice. Secondo una tradizione popolare trasmessa da Giovanni Villani, e ripresa successivamente da Dante Alighieri, Costanza avrebbe manifestato in gioventù interesse per la vita monastica o, addirittura, sarebbe entrata in convento. Quest’interesse per la vita monastica rappresenta il primo punto su cui porre l’accento come causa per il pubblico parto della donna. Proseguiamo nel racconto della vita di Costanza. Un dato certo che risulta dalle narrazioni è che all'età di trent'anni era ancora nubile, fatto che doveva sembrare strano al tempo in cui viveva dato il suo rango di principessa e che rappresenta il secondo tassello per comprendere il pubblico parto della donna. Dato che non esistono riscontri all'ingresso in convento di Costanza, probabilmente restò alla corte di Palermo. Crescendo vide morire tutti coloro che gli erano davanti per la successione alla corona. 
Il 29 ottobre del 1184, ad Augusta, fu accordato il suo fidanzamento con Enrico VI di Svevia, figlio dell’imperatore Federico Barbarossa. Nell'estate dell’anno successivo Costanza lasciò Palermo per recarsi a Milano, luogo prescelto per il matrimonio. Enrico l’accompagnò sino a Salerno dove dovette lasciarla per recarsi in Germania per i funerali della madre. La prima celebrazione del matrimonio avvenne a Rieti, prima città oltre i confini del Regno di Sicilia incontrata lungo il percorso, alla presenza di una delegazione imperiale in rappresentanza d’Enrico. Il matrimonio di Rieti, celebrato il 23 agosto del 1185, aveva un valore simbolico e politico poiché significava avere l’approvazione da parte della Chiesa. Il matrimonio fu ripetuto a Milano il 27 gennaio del 1186. Nel 1189 Guglielmo II, non avendo discendenti diretti, indicò la zia, Costanza, come erede obbligando i cavalieri a giurarle fedeltà. La nomina aveva lo scopo di appianare le divergenze che opponevano la nobiltà siciliana ed il clero alla casata degli Hohenstaufen. I baroni ed il Papato preferirono eleggere re di Sicilia Tancredi, cugino di Guglielmo II. 
Nel novembre del 1189, Tancredi fu incoronato Re di Sicilia. Papa Clemente III approvò e riconobbe l’elezione. Nel 1191, quando succedette al padre sul trono imperiale, Enrico partì immediatamente alla conquista della Sicilia, in questo sostenuto dalla flotta pisana. Tancredi, grazie ad una pestilenza che decimò l’esercito d’Enrico, riuscì a sconfiggere sia la marineria pisana che le truppe imperiali. Costanza fu imprigionata a Salerno. Per il suo rilascio, il Re avrebbe preteso che Enrico scendesse a patti firmando una tregua. Papa Celestino III si offrì come mediatore. Tancredi accettò e decise per il trasferimento di Costanza a Roma. Durante il viaggio, il convoglio fu attaccato e l’imperatrice liberata. Tre anni dopo, nel 1194, Tancredi morì e gli succedette sul trono Guglielmo III, di soli nove anni. Enrico approfittò della situazione, ed in poco tempo riuscì a sottomettere il Regno di Sicilia. 
Il 25 dicembre del 1194 fu incoronato Re di Sicilia nella cattedrale di Palermo di fronte al piccolo Guglielmo ed alla madre. Alla cerimonia non poté presenziare Costanza perché durante il viaggio dalla Germania alla Sicilia diede alla luce il figlio, Federico II di Svevia, sulla pubblica piazza di Jesi. La nascita del figlio era importante per la successione del regno di Sicilia ma era avvolta da supposizioni e dicerie. Alcuni detrattori considerarono Federico II l’Anticristo in conformità ad una leggenda medievale che sosteneva che sarebbe nato da una vecchia monaca. Inoltre l’età avanzata della donna avrebbe dato adito ad ulteriori pettegolezzi. Costanza lo sapeva e s’ingegnò per trovare il modo di placare le malelingue. Per questi motivi fu allestito un baldacchino al centro della piazza di Jesi, dove il corteo nobiliare si fermò durante il viaggio verso la Sicilia, e Costanza partorì pubblicamente, al fine di fugare ogni dubbio sulla nascita del futuro imperatore. Il figlio, da alcuni considerato l’Anticristo, si rivelerà come lo stupor mundi (stupore o meraviglia del mondo). Il giorno successivo, per rimarcare la natura della maternità, Costanza si mostrò nella stessa piazza mentre allattava il figlio.
Nel 1197 morì, nei pressi di Messina, Enrico di Svevia a causa di una malattia contratta durante l’assedio di Castrogiovanni. Costanza assunse il ruolo di tutrice del piccolo Federico II e reggente del regno. Nel 1198 anche Costanza morì, all’età di 44 anni. Poco prima di lasciare questo mondo decise di porre il proprio figlio, all’epoca di soli 4 anni, sotto la tutela di papa Innocenzo III. Costanza d’Altavilla, la donna che partorì Federico II sulla pubblica piazza di Jesi per tacitare le malelingue, fu sepolta nella cattedrale di Palermo, vicino al padre Ruggero II. 
Il parto sulla pubblica piazza di Jesi avvenne realmente?
Dobbiamo considerare che tutto il brano del Villani contiene clamorose inesattezze, dal fatto che le nozze si svolsero a Milano e non a Roma, che Costanza si sposò a 32 e non a 50, che la regina ed imperatrice partorì a 40 anni e non a 52 e che il parto avvenne non a Palermo ma bensì a Jesi.  Salimbene de Adam nel 1229 affermò in maniera esplicita che Federico non era figlio di Costanza e che la donna finse per tutta la durata della gravidanza. Alcuni storici moderni, tra cui Houben, partendo dalle inesattezze del Villani tendono a considerare come frutto della fantasia popolare i riferimenti contenuti nel trattato la Nuova Cronica, compreso l'evento del parto sulla piazza di Jesi. Ma su questo punto Salimbene de Adam e Giovanni Villani concordarono, anche se il primo identificò nella città marchigiana il luogo dell'evento. Salimbene citò le modalità del parto avvenuto nel 1194 a Jesi, dentro una grande tenda nella piazza del mercato, come una messinscena per dissipare i dubbi esistenti sulla veridicità della gravidanza annunciata da Costanza d'Altavilla.
Un aspetto di tutta questa vicenda però appare chiaro: avendo perduto i genitori in giovane età, Federico II trascorse la sua infanzia da piccolo vagabondo, evento che contribuì a fortificare la sua personalità.

Fabio Casalini


Bibliografia
John Julius Norwich, Il regno del sole, vol. II, Mursia, Milano 1972

Eberhard Horst, Friedrich der Staufer. Eine Biographie, Claassen, Düsseldorf 1977. (ed. it.: Federico II di Svevia. L'imperatore filosofo e poeta, Rizzoli, Milano, 1981

Carla Maria Russo, La Sposa Normanna, Edizioni Piemme, 2004

Costanza d'Altavilla, imperatrice e regina di Sicilia, su Dizionario Biografico degli Italiani 

La Repubblica del 7 maggio 2004, Il sospetto dei ricercatori: ignota la madre di Federico II

FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.

Chi ha ucciso Anna Mae?

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“Gli anziani Sioux dicono che il vento ulula sempre quando viene spostato il corpo della vittima di un omicidio. Durante la veglia e i funerali tradizionali tenutisi per Anna Mae Aquash – violentata, uccisa e il suo cadavere privato delle mani - i venti di tempesta raggiunsero i 60 kilometri all’ora, battendo i campi desolati” 

(Johanna Brand – Vita e morte di Anna Mae Aquash)


Il 24 febbraio 1976, appena fuori dal villaggio di Wamblee, nel Sud Dakota, Roger Amiotte, approfittando del clima relativamente mite in quel periodo dell’anno, costruisce una cinta di delimitazione su una parte scoscesa del terreno del proprio ranch, all’interno della riserva indiana di Pine Ridge. Siamo sul confine nord orientale delle Badlands, le terre cattive dei Sioux Lakota, a due ore di auto dalle Black Hills le sacre colline dei nativi, a meno di un’ora di marcia da Wounded Knee dove nel 1890 centinaia di uomini, donne e bambini Sioux di Piede Grosso vennero massacrati dall’Esercito degli Stati Uniti. Sono le 14.00, il contadino a bordo del proprio pick-up percorre il letto di un torrente in secca in fondo ad un pendio, sul lato sinistro della striscia d’asfalto che collega la Highway 73, quando alla base dell’arido dirupo corroso dal vento scorge un corpo umano rannicchiato. Non lo tocca e corre ad avvertire le autorità a Pine Ridge, circa 160 km a sud. Nel giro di due ore sul posto accorrono vice sceriffi dalla vicina cittadina di Kadoka, poliziotti tribali indiani della riserva, nonché alcuni agenti dell’FBI. Si tratta di una giovane donna nativa semi congelata e semi decomposta, dall’apparente età di 25-30 anni, alta meno di un metro e sessanta, unghie lunghe, camicia di colore chiaro, giacca a vento rossa ed un braccialetto turchese al polso destro. Nessun documento di identità. L’autopsia sommaria e frettolosa del dottor Brown, volato apposta da Scottsbluff in Nebraska, referta la causa di morte da congelamento. Il medico, con una prassi del tutto inusuale, recide le due mani della ragazza consegnandole agli agenti dell’FBI, perché sul posto non si è in grado di rilevare le impronte digitali. Passato qualche giorno, non riuscendo ad accertarne l’identità, il cadavere viene seppellito nel cimitero dietro la chiesa cattolica del Santo Rosario, nei pressi di Pine Ridge. Una umile tomba senza nome. Il 6 marzo successivo l’FBI di Washington annuncia che le impronte digitali appartengono a Anna Mae Pictou Aquash, appartenente alla tribù MicMac della Nuova Scozia (Canada), nota attivista dell’AIM (American Indian Movement), amica intima dei leader latitanti del movimento Dennis Banks e Leonard Peltier, veterana dell’occupazione di Wounded Knee del 1973 e di molte delle successive azioni dell’AIM. La riesumazione del cadavere ed una nuova autopsia fissata per l’11 marzo, eseguita dal patologo Gary Peterson nominato dai parenti della ragazza e pagato da Candy Hamilton legale di un gruppo di sostegno dell’AIM, stabilisce che la giovane indiana non è morta assiderata, bensì uccisa con un colpo di pistola cal. 32 alla nuca sparato da distanza ravvicinata, dopo aver subito uno stupro e probabili percosse, verosimilmente 3-4 settimane prima del ritrovamento. Un vero e proprio giallo. La macchina della giustizia a questo punto si mette in moto davvero, emergono inefficienze e superficialità da parte di tutti i pubblici ufficiali protagonisti del ritrovamento e della prima autopsia. I mass media si interessano al caso e in quella parte di opinione pubblica un po’ più attenta ai fatti di cronaca nera e più sensibile agli accadimenti nelle riserve indiane si pongono diverse domande: chi è quella bella ragazza indiana e perché le è stata riservata una fine tanto orribile?

Anna Mae Pictou nasce il 27 marzo 1945 nella riserva degli indiani MicMac nella Nuova Scozia, appena fuori dal villaggio di Shubenacadie, in una delle tante comunità native squallide e devastate dalla povertà, dalla disoccupazione, dove la fame e le pessime condizioni sanitarie rappresentano la norma. Ultima di tre figli, Anna Mae cresce e studia in una scuola cattolica, dove l’unico contatto con il mondo tradizionale della tribù MicMac resta un vecchio libro di preghiere, nel quale i canti e le liturgie sono tradotte nell’antica lingua degli antenati. All’età di 11 anni è costretta a trasferirsi in una scuola residenziale fuori dalla riserva, vicino a New Glasgow, dove impara il sarcasmo e gli sbeffeggiamenti razzisti dei suoi compagni bianchi che la considerano appartenente ad un popolo pigro ed ubriacone. Lei d’altra parte, crescendo, impara il silenzio e l’indifferenza verso chi la insulta chiamandola Squaw, evitando ogni sorta di coinvolgimento, ben sapendo che agli occhi degli insegnanti la colpa di ogni contrasto viene attribuito ai ragazzi nativi, tra le risa degli altri scolari bianchi. Nell’estate del 1962, all’età di 17 anni, Anna Mae dice basta e se ne va, unendosi alla famiglia della sua amica Doris Paul nella migrazione di massa verso lo Stato americano del Maine, in cerca di lavoro stagionale. Dopo alcuni mesi come raccoglitrice di more nei quali lavora 15 ore per un dollaro al giorno, alloggiando in un letto di paglia senza acqua corrente e nell’assenza di servizi igienici di qualsiasi tipo, Anna Mae si trasferisce quindi a Boston trovando impiego come imballatrice in uno stabilimento. Stordita dalle attrazioni della metropoli americana, la ragazza sogna una vita migliore ma si ritrova presto incinta per ben due volte dell’amico MicMac Jake Maloney. La giovane coppia si impegna e riesce a stabilirsi in un appartamento, quasi una vita da bianchi, ma l’idillio dura poco e Anna Mae si ritrova sola, picchiata e tradita dal marito, con due bambine piccole in una grande città americana. La ragazza però non si dispera e si inserisce in una comunità di recupero per indiani colpiti da alcool e droga: il Boston Indian Council. Diventa parte attiva dello staff del progetto “Bicultural education school” (Tribes) e riscopre la bellezza delle proprie tradizioni, diventa insegnante di materie scolastiche nelle varie iniziative per i bambini indiani: arte, artigianato, musica e danza. Finalmente è parte di qualche cosa, finalmente si sente orgogliosa della propria cultura. Le sue bambine Denise e Deborah la seguono ovunque. Il 26 novembre 1970 la 25enne Anna Mae incontra per la prima volta i militanti dell’AIM, l’American Indian Movement, uno dei movimenti più radicali del momento al quale aderiscono anche i nativi della costa orientale come i Wampanoag, i Narraganset e i Passamaquoddy. In quell’occasione intravede Russel Means, uno dei leader del movimento, mentre con altri 200 militanti seppellisce simbolicamente la roccia di Plymouth sotto una tonnellata di sabbia, “una sepoltura simbolica della conquista dell’uomo bianco”. L’AIM è stata fondata da poco, a Minneapolis nel 1968, un periodo difficile per la storia americana: c’è la guerra fredda e impazzano le proteste studentesche, viene ucciso il senatore Robert Kennedy e le pantere nere tendono un’imboscata alla polizia di Oakland, i Vietcong lanciano l’offensiva del Tet su Saigon e giornalisti come Peter Arnett denunciano i metodi dell’establishment Yankee nel Vietnam. L’FBI, che fronteggia il dissenso su vari fronti e con molti mezzi spesso poco ortodossi, è particolarmente attenta a questi movimenti rivoluzionari, temendo che il diffondersi dei disordini minino ulteriormente la sicurezza nazionale. 

All’epoca il Presidente dell’AIM è John Trudell, cantante e poeta, tra i leaders storici figurano i telegenici Dennis Banks e Russell Means: trecce tradizionali, frange di camoscio e stivali da cowboy, poi divenuti anche attori in alcuni film di Hollywood (l’ultimo dei Mohicani) ritratti in un’occasione da Andy Warhol, personaggi carismatici e pressoché onnipresenti all’interno del movimento. Il Los Angeles Times all’epoca li definisce come "i due indiani più famosi dai tempi di Toro Seduto e Cavallo Pazzo". Diversi personaggi famosi simpatizzano per il movimento, tra loro Marlon Brando e Jane Fonda. Al di là dell’immagine, l’obiettivo dichiarato del Movimento è molto importante: tutelare gli indiani nei ghetti urbani dove da decenni sono sfollati dai programmi governativi, diventare il baluardo di salvaguardia della sovranità dei nativi americani, denunciare i numerosi episodi di molestie e di razzismo da parte della polizia ma soprattutto, almeno inizialmente, trattare temi come la spiritualità. Bisogna comprendere infatti che con il movimento l’antica religione indiana viene vissuta come segno di riscatto dalla cristianizzazione forzata, torna a vivere dopo essere stata vietata sin dai tempi di Franklin D. Roosvelt. Ancora negli anni ’60 i bambini vengono puniti se pregano alla maniera indiana, gli uomini incarcerati se praticano i bagni di sudore, le sacre pipe distrutte e i fardelli di medicina bruciati o consegnati ai musei. Grazie al movimento i missionari vengono allontanati da alcune comunità native, si torna all’uomo-medicina e si ripercorre la strada del peyote. La radicalizzazione ben presto si allarga alle riserve dell’Ovest, la stampa bianca riscopre il problema indiano ed il “red power”, anche grazie ad azioni dimostrative di vasta portata, come l’occupazione di Alcatraz del 1971. Nel novembre 1972 Anna Mae, il suo nuovo compagno Nogeeshik Aquash, un artista Chippewa originario dell’Ontario ed altri membri del Boston Indian Council partecipano all’occupazione dell’edificio del Bureau of Indian Affairs di Washington al termine della “Marcia dei Trattati Infranti” organizzata dall’AIM. Ma la svolta avviene nel febbraio del 1973, Anna Mae e Nogeeshik, lasciano le due bambine a Boston dalla sorella di lei e partono per unirsi al movimento nell’occupazione del minuscolo villaggio di Wounded Knee – simbolico luogo degli indiani Sioux, triste ricordo del massacro del 1890 – ad opera di circa 200 giovani militanti nativi i quali, dopo aver fatto irruzione nel trading post di Gildersleeve gestito da bianchi e aver preso in ostaggio per poco tempo 11 persone, si barricano attorno alla chiesetta cattolica del sacro cuore ed al museo, con lo scopo di attirare l’attenzione del mondo sulla situazione disperata della loro gente e protestare contro il regime oppressivo e corrotto del presidente tribale Wilson di Pine Ridge, che ha dalla sua parte una milizia indiana, i “goons”, vera e propria squadraccia armata che spadroneggia liberamente nella riserva. Appena Dennis Banks vede la nuova arrivata Anna Mae le dice di andare in cucina, a lavare i piatti. "Sig. Banks, " risponde Anna Mae " non sono venuta qui per lavare i piatti. Sono venuta qui per combattere. " Se è vero che Wounded Knee è il luogo ideale per i rivoltosi, viste anche le condizioni di Pine Ridge che registrano una disoccupazione del 54%, alcoolismo cronico e povertà diffusa, è anche vero che per il Governo i tempi ed i modi sono perfetti per giustificare una controffensiva assolutamente sproporzionata. Tutta l’area viene circondata da ingenti forze dell’ordine in assetto di guerra, vengono perfino schierati reparti dell’Esercito (nonostante le Leggi interne lo vietino). Si crea un assedio che dura 71 giorni nei quali le parti si scaricano addosso migliaia di proiettili, o meglio i rivoltosi reagiscono con i pochi proiettili che hanno all’immensa azione di fuoco, spesso solo dimostrativa, delle truppe assedianti: alla fine lo stallo si conclude grazie all’intervento del capo spirituale della riserva Lakota, Frank Fools Crow, che media la resa tra l’FBI, i Goons e Dennis Banks.
Nelle settimane di lotta si contano 2 indiani uccisi e diverse persone ferite, compresi alcuni agenti di polizia, 185 militanti sono trattenuti in stato di fermo. In questi 71 giorni Anna Mae sposa nel rito indiano il suo compagno e diventa una delle pochissime donne di spicco del movimento, si guadagna la stima e l’affetto di tutti, uomini e donne, ma soprattutto donne. Infatti mentre la parte femminile costituisce circa metà dei ranghi del movimento, Banks, Means e una manciata di uomini ricevono tutta l'attenzione. "Stavamo facendo quello che le donne indiane hanno fatto per migliaia di anni, stare dietro ai propri uomini e sostenerli" dice Mary Brave Bird, amica di Anna Mae e scrittrice dei discorsi per i leader dell’AIM. "Volevamo presentare un'immagine al mondo e l'uomo indiano arrabbiato era meglio della donna indiana arrabbiata. I guerrieri davano spettacolo." La fine dell’occupazione lascia però un clima avvelenato, il movimento non è più lo stesso: alcuni giovani piangono quando sanno che un altro trattato è stato firmato. “Soltanto un altro trattato da violare”. Disordini, aggressioni contro il movimento e omicidi spesso impuniti si susseguono a Pine Ridge (23 morti solo nel 1973) le indagini latitano quindi non si sa quanti crimini siano maturati all’interno del Movimento, quanti perpetrati dalle squadre di Wilson, o quanti addirittura provocati dagli agenti dell’FBI. La riserva diventa un vero e proprio regno del terrore. William Janklow, candidato per la carica di procuratore generale dello Stato del Sud Dakota, dichiara: "L'unico modo per affrontare il problema indiano nel South Dakota è quello di mettere una pistola alle teste dei leader AIM e premere il grilletto". La paura di infiltrati serpeggia per anni, fino al 1975 quando il responsabile della Sicurezza dell’AIM, Douglass Durnham, confessa di essere un agente provocatore inviato dall’FBI, una vera e propria spia operativa, incaricata di infangare il movimento costruendo ad hoc presunti contatti dello stesso con la CIA, in modo da disinnescarlo e screditarlo agli occhi della popolazione nativa. Il 12 marzo Durnham getta la maschera durante una conferenza stampa a Chicago. E’ il caos, i dirigenti dell’AIM si accusano a vicenda, il movimento è scosso dalle fondamenta. I mariti sospettano delle mogli, le sorelle dei fratelli. I vecchi amici che hanno combattuto insieme molte battaglie per i diritti civili cominciano a temersi a vicenda. Quelli incarcerati sospettano di chi viene rimesso in libertà. La strategia dell’Fbi si rivela vincente, i sospetti e le paranoie si acutizzano e coinvolgono anche Anna Mae. La ragazza, già dal 1974 viene lasciata dal marito ed inizia una relazione con Dennis Banks, divenendo (stranamente per gli osservatori) anche grande amica della giovanissima moglie del leader Darlene (Ka-mook). I sussurri, l’invidia ed il sospetto si sprecano: lei, un’indiana canadese, un’estranea a tutti gli effetti al popolo Sioux, come ha fatto a salire così in alto nel movimento? Ma Anna Mae tira dritto, va dalla sua amica Mary Brave Bird a Rosebud, studia la lingua Sioux e comincia a produrre artigianato nativo. Sa essere dura quando c’è da lottare, sensibile e ben disposta verso chiunque sia malato o disperato. Intanto le fazioni si fronteggiano, lo stesso Dennis Banks, Chippewa originario del Minnesota, viene contrapposto a Russell Means Lakota sangue puro.

Nel bel mezzo di tale situazione il 26 giugno succede l’irreparabile: i due agenti dell’FBI Ray Williams e Jack Coler entrano nella riserva cercando un certo Jimmi Eagle, responsabile di rissa e rapina avvenuta nei pressi di Oglala qualche sera prima. Nella proprietà di Jumping Bull si verifica uno scontro a fuoco, i particolari sono ancora oggi poco chiari, l’unica prova è data dall’allarme dato via radio dai due poliziotti che urlano di essere stati attaccati da alcuni uomini all’interno di un furgone rosso. L’allarme tuttavia, come prassi dell’epoca, non viene registrato su nastro. La versione è però confermata da un terzo agente Gary Adams, sopraggiunto nei minuti successivi alle fasi concitate dell’allarme. Quando le armi cessano di sparare i due agenti e un nativo di 24 anni, Joe Stunz, giacciono a terra morti. L’ira della polizia federale si scatena subito dopo, il ranch viene circondato e crivellato dai colpi di M16 delle squadre speciali, i lacrimogeni sommergono l’intera proprietà. Le indagini, sulle quali a tutt’oggi gravano diversi dubbi, incastrano tra gli altri Leonard Peltier (quest’ultimo membro dell’AIM e già ricercato dal 1972 per tentato omicidio, in possesso di un furgone simile a quello ricercato nonché di armi ritenute compatibili ai colpi rinvenuti) come uno dei 4 o 5 nativi che si trovavano verosimilmente a bordo del furgone incriminato. Lo stesso verrà arrestato mesi dopo in Canada e condannato a 2 ergastoli. Per la riserva di Pine Ridge ha inizio la lunga estate calda del 1975, per Anna Mae Pictou Aquash gli ultimi mesi di vita. La polizia rastrella tutta la zona alla ricerca degli assassini, anche Anna Mae, grande amica del latitante Peltier, viene fermata parecchie volte dall’FBI, interrogata e sempre rilasciata sotto minaccia di essere espulsa dagli Stati Uniti in quanto cittadina canadese. Questo suo entrare ed uscire dai posti di polizia fa si che i sospetti su di lei si acuiscano. La ragazza, d’altra parte, cerca di evitare ogni contatto al di fuori della riserva ben sapendo il clima che regna. Alla fine di luglio Anna Mae si reca con Dennis Banks ed alcune donne Oglala al Crow dog’s Paradise, nella vicina riserva di Rosebud, per presenziare all’annuale danza del sole. Là viene avvicinata da Leonard Crow Dog, presente forse anche il ricercato Leonard Peltier ed altri che l’accusano apertamente di essere una spia dell’FBI. Dennis Banks si affretta a precisare che la loro relazione sentimentale deve finire. Anna Mae, scossa ed in lacrime torna da sola a Pine Ridge e teme sempre più per la propria vita. Il suo proverbiale ottimismo crolla, è delusa e teme tutti: l’FBI, i Goons di Wilson, ma soprattutto l’ostilità crescente da parte del suo movimento, che per lei rappresenta la casa per cui ha dedicato la vita, rinunciando a crescere due figlie. Si confida con l’amica Mary, piange e pensa alle bambine lontane. Temendo che le sue figlie crescendo possano ritenerla una poco di buono, istruisce la sorella Rebecca, che ospita le bambine, a conservare le sue lettere “in modo che quando le mie figlie avranno l’età giusta potranno leggerle e sapere la verità … non smetterò di combattere per il mio Paese finché non morirò. E allora saranno le mie figlie a prendere il mio posto. Mi fa male il cuore ogni volta che penso alle mie bambine”. Il 18 luglio, ad un raduno nel Montana il leader AIM Vernon Bellecourt accusa apertamente sul palco l’amico Bernie Morning Gun di essere un informatore della polizia. Il sospetto reciproco tra i membri dell’AIM ha raggiunto l’apice. Nei primi di agosto Dennis Banks, condannato per alcuni fatti violenti accaduti nel ’72 nella cittadina di Custer, si dà alla latitanza. Alla fine di ottobre l’FBI di Portland (Oregon) diffonde le ricerche di un Camper Dodge Explorer con targa New Mexico di proprietà dell’attore Marlon Brando (amico e sostenitore dell’AIM) sospettando che a bordo ci possano essere i latitanti Dennis Banks e Leonard Peltier. Il mezzo viene fermato sulla Highway 80 nei pressi della cittadina di Ontario, a bordo ci sono un uomo con due ragazze: Anna Mae Aquash e Darlene Ka-mook Nichols Banks (incinta di 8 mesi) le quali scendono dal camper con le mani in alto. Il veicolo, con a bordo probabilmente Leonard Peltier, schizza via esplodendo un colpo di pistola verso la polizia prima di scomparire. Le due ragazze vengono nuovamente arrestate e rilasciate pochi giorni dopo su cauzione.

Per l’AIM è tutto chiaro, qualcuno ha dato la soffiata all’FBI circa gli spostamenti del camper. Ai primi di dicembre Anna Mae viene portata a Rapid City per essere interrogata dai membri dell’AIM sui fatti di ottobre. Ogni volta che le rivolgono domande lei scoppia a piangere. Non ci sono prove a suo carico e quindi viene ufficialmente rilasciata. Da quel momento la ragazza scompare. Solo una telefonata verso metà dicembre alla sua amica Paula Giese per dirle che a gennaio l’avrebbe raggiunta a Minneapolis. Non la raggiungerà mai. Il suo corpo verrà trovato, violentato e giustiziato sulle badlands il 24 febbraio 1976. Al suo funerale presenzia qualche famiglia della riserva, molte ragazze Oglala, due uomini-medicina che pregano ai quattro venti alla maniera Sioux, nonché le sorelle di Anna Mae: Mary Lafford e Rebecca Julian arrivate dal Canada. Le due bambine sono state lasciate a Halifax dal padre. Nessun leader dell’AIM è presente! La risposta paralizzata dell’AIM al funerale di Anna Mae dimostra quanto fosse stata efficace la campagna denigratoria che ha legato la giovane MicMac all’FBI. Molte donne, amiche di Anna Mae, si allontanano dal movimento, alcune di loro neanche provano a difenderla, temendo di essere a loro volta etichettate come informatrici della polizia. Le indagini non vengono archiviate ma proseguono in maniera blanda: le Autorità canadesi, sollecitate dai parenti, chiedono agli Stati Uniti notizie sugli sviluppi dei procedimenti, ma accettano distrattamente le comunicazioni formali che non portano a nulla. Gli anni passano, le udienze del 1976, 1982, 1994, sollecitate dai legali della famiglia, non evidenziano passi avanti, nell’indifferenza della comunità bianca e nell’omertà di quella nativa. Nell’opinione pubblica resta un solo ricordo di Anna Mae Pictou Aquash: “un’altra indiana uccisa”. Anni dopo, nel 1997, Paul DeMain un indiano Objiwa redattore del quotidiano indipendente “News from Indian Country” comincia a pubblicare articoli sul caso di Anna Mae, sostenendo di avere nuove testimonianze che possono dare una svolta al caso. Gli investigatori hanno infatti ripreso le indagini con nuovi elementi. Nel 2002 DeMain dichiara che Anna Mae e Darlene (Ka-mook) Nichols, le due ragazze mentre erano a bordo del camper di Marlon Brando in quell’ottobre del 1975, udirono Leonard Peltier confessare l’omicidio di uno dei due agenti dell’FBI: “implorava per la sua vita ma io l’ho giustiziato” avrebbe detto il latitante dell’AIM alle due giovani. Peltier dal carcere denuncia DeMain per diffamazione ma ormai il dado è tratto e le nuove informazioni, vere o false che siano, diventano di dominio pubblico. Il caso passa al procuratore Rod Oswald: la gola profonda è Darlene Ka-mook, la ex moglie bambina di Dennis Banks dal quale ha avuto 4 figli (all’epoca della relazione aveva 15 anni) che conferma le dichiarazioni del giornalista e confessa che, dopo l’omicidio dell’amica Anna Mae, si è allontanata da Banks e dal movimento accettando di collaborare con l’FBI e di indossare un microfono. 
Per anni Darlene frequenta e interroga sotto mentite spoglie almeno 10 testimoni degli ultimi giorni di vita di Anna Mae, registrando di nascosto dozzine di ore di conversazione. Vengono quindi sentiti nuovi testi. Darlene – che in quegli anni si sposa con un poliziotto indiano che segue il caso - parla anche con Arlo Looking Cloud, il fratello nullafacente di un membro dell’AIM. Questo è il riassunto dei fatti che emergono dall’infiltrazione di Darlene: il 10 dicembre 1975 Anna Mae viene portata in più luoghi dagli indiani membri dell’AIM Arlo Looking Cloud, John Graham e dalla nativa attivista Theda Nelson Clarke. Diverse persone tra le quali alcune donne proprietarie delle case sono testimoni di questi giorni di spostamenti della ragazza (una di queste donne è Candy Hamilton, giornalista nativa e attivista, che si rivelerà molto importante per il prosieguo delle indagini). Dopo un crudo interrogatorio Anna Mae viene caricata nel bagagliaio di un pick-up e portata per una nuova seduta inquisitoria a casa di Thelma Conroy Rios (altra attivista incriminata per responsabilità nell’omicidio) a Rapid City. Qui Anna Mae resta qualche giorno e viene violentata da Graham. Infine, in una gelida alba, la ragazza viene legata e trascinata da Arlo Looking Cloud e da John Graham nelle badlands, dove sarà giustiziata con un colpo cal. 32 alla testa. Durante l’udienza del 2004 Arlo Looking Cloud dichiara “la ragazza era in ginocchio, smise di piangere e pregò per le sue figlie. Poi Graham le sparò alla nuca”. Graham nega ma viene condannato all’ergastolo, per il reo confesso Arlo Lokking Cloud la pena viene ridotta a 20 anni. Il Pubblico Ministero non si accontenta, convinto che i due uomini siano solo le pedine e che i mandanti siano proprio i leaders dell’AIM. Impossibile che un membro importante come Anna Mae, la ex donna di Dennis Banks, venga uccisa in quel modo senza un ordine dall’alto. Le indagini sfiorano John Trudell che testimonia ammettendo che Arlo Looking Cloud gli aveva confessato l’omicidio di Anna Mae da parte di John Graham. Trudell getta ombre anche su Dennis Banks, sostenendo che questi nei giorni di febbraio 1976 gli avrebbe confermato che la ragazza morta era Anna Mae, ancora prima che il cadavere venisse identificato. Dennis Banks in tribunale rimanda al mittente le accuse sostenendo l’esatto opposto e incolpando Trudell. Restano i sospetti ma nessuna prova viene comunque formalizzata contro eventuali mandanti. Le due donne incriminate muoiono di malattia e gli unici incarcerati restano i due esecutori materiali del delitto. In un’intervista al New York Times Dennis Banks (deceduto nel 2017) alla domanda se fosse a conoscenza o meno dell’omicidio della sua ex ragazza, dichiara: “il Governo ha fatto di tutto per far credere a chiunque nel movimento che Anna Mae fosse un’informatrice dell’FBI … non ci sono segreti ne domande sospese. Se c’è una casa in fiamme, nessuno dà necessariamente l’ordine di spegnere il fuoco. Qualcuno và e lo fa.” Dal maggio 2012 per gli Stati Uniti d’America il caso Anna Mae Pictou Aquash è chiuso. Solamente le figlie Denise e Debbie – che hanno fatto traslare la salma di Anna Mae nella terra nativa in Nuova Scozia - continuano la loro battaglia dal Canada, convinte che i mandanti dell’omicidio della loro madre si celino tra i leaders dell’AIM. Negli ultimi anni hanno costituito l’associazione “Indigenous Women for Justice” fondata per sostenere giustizia per Anna Mae e per le altre donne native canadesi, oltraggiate e abusate all’interno delle proprie comunità. Tra le loro battaglie figura la ferma opposizione alla grazia per Leonard Peltier, pur essendo la stessa invocata invece da molte parti, compresa Amnesty International. Per Denise e Debbie egli era un grande amico di Anna Mae, deve per forza sapere e deve dire quello che sa sull’omicidio della loro madre. 
Nel 1992 il regista inglese Michael Apted gira il film Thunderheart – cuore di tuono, con l’attore protagonista Val Kilmer, inserendo liberamente la figura di Anna Mae Aquash nei panni cinematografici dell’insegnante attivista Maggie Eagle Bear. Nel lungometraggio recita anche John Trudell, ex presidente dell’AIM. 

“Una Nazione non è morta finché i cuori delle sue donne resistono” (antico proverbio Cheyenne) 

Sergio Amendolia 

Bibliografia
Johanna Brand – Vita e morte di Anna Mae Aquash – Xenia; 

Mary Crow Dog – Donna Lakota – Est; 

Thomas E. Mails – Fools Crow capo cerimoniale dei Sioux Teton – Xenia; 

Philippe Jacquin – Storia degli indiani d’America – Mondadori. 

Sitografia






SERGIO AMENDOLIA
Nato 55 anni fa a Genova, sposato con 2 figli, 2 gatti e un cane, ho sempre guardato con stupore l'orizzonte e tutto ciò che quella linea rappresenta e contiene, convinto che dove il cielo finisce si celano sempre spazi e tempi lontani, spesso inesplorati o conosciuti poco e male. Forse per questo mi attira l'impostazione di questo blog ed i veli della Storia che gli articolisti provano spesso a sollevare, perché conoscere è importante e aiuta a capire ciò che siamo e come lo siamo diventati. Oltre alla nostra bella Italia ed alla sua impareggiabile ricchezza di arte e storia, mi affascinano molto gli scenari mozzafiato dell'Ovest Americano. In questi ultimi anni ne ho percorsi alcuni, ancora una volta cercando di varcare orizzonti i cui contorni sfuggono in continuazione, dimensioni che ho provato a malapena ad intuire nei volti dei nativi che ancora oggi si incontrano nelle riserve: a volte duri, scolpiti e aridi come i monoliti di arenaria rossa, probabilmente gli unici in grado di metabolizzare la sensazione di infinito che pervade quelle terre lontane. Per questo mi piace, quando il tempo libero me lo permette, collaborare con riviste e pagine web, tentando di approfondire le vicende che hanno caratterizzato la storia di quei popoli d'oltreoceano, in particolare l'epopea del West, con un occhio particolare agli uomini e alle donne che la vissero davvero, fuori dai luoghi comuni e dai grandi miti costruiti da Hollywood.

L'omicidio del Corpus Domini

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Elvira era bella.
Elvira era dolce.
Elvira era gentile e piena di sogni, che non potrà mai realizzare.
Elvira si doveva sposare ed aveva già l’abito bianco nell’armadio, quello che nel giorno delle nozze l’avrebbe fatta sentire speciale.
Elvira aveva 22 anni quando un giorno di giugno del 1947 qualcuno si prese la sua vita e la sua giovinezza e la lasciò morire annegata nel suo sangue.
L’Italia del dopoguerra si stava ricostruendo, con fatica. In quell’anno il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi ricevette dall’America un’ingente somma che “sarà utile per il consolidamento del sistema democratico”. A maggio il nostro paese fu sconvolto dall’eccidio di Portella delle Ginestre. La banda di Salvatore Giuliano riempiva le pagine dei giornali, mentre si susseguivano i governi che avrebbero dovuto dare stabilità al nostro paese devastato dalla guerra. Pochi giorni dopo i fatti di Portella, un tribunale inglese condannò a morte il maresciallo Kesserling, per la strage delle Fosse Ardeatine.
Tutto questo sembrava così distante dal piccolo abitato Toiano, un borgo di poche anime contadine in provincia di Pisa. Elvira Orlandini viveva lì, nella casa di famiglia. Era nata nel 1925 da Antonio e Rosaria. Tutti in paese la consideravano la più bella. Grandi occhi limpidi e vivaci, curve generose, capelli scuri e fluenti. Elvira passava per andare a messa e tutti si voltavano, fantasticavano. Lei di grilli per la testa non ne aveva, o almeno così si diceva, ma sono passati tanti anni, e la verità rimarrà sepolta con il resto dei segreti di quella rigogliosa e discreta campagna.
5 giugno, il giorno del Corpus Domini. Alla radio si parlava di un americano, George Marshall: quella mattina aveva presentato un piano per la ricostruzione economica dell’Europa. La notizia passò, tutti la sentirono ma nessuno la ascoltò. Erano altre le cose che contavano. La realtà contadina di Toiano era fatta di fatica e sacrifici, erano altri i pensieri. La bicicletta era un bene prezioso, che si usava fra la polvere su e giù per le colline, il vestito buono era conservato per le grandi occasioni. Le scarpe si suolavano e si risuolavano, fino a che non ne potevano più. A casa Orlandini era così. Ma presto ci sarebbe stata quella grande occasione. Elvira si sarebbe sposata con un bravo giovane. Ugo Ancillotti, serio, lavoratore, taciturno e spesso ombroso. In paese si diceva che era così a causa dei patimenti che aveva subito in guerra: era un reduce.
Elvira lavorava sodo, nei campi per aiutare la famiglia e a servizio di una facoltosa famiglia di svizzeri che possedeva la tenuta San Michele, i Salt. Erano ricchi, potenti e chiacchierati. Tutti li temevano in paese. Mancavano pochi giorni alla mietitura e poi lei e Ugo sarebbero diventati marito e moglie. La sera prima di coricarsi, forse, nel silenzio della sua stanza, interrotto solo dal canto dei grilli, Elvira apriva l’armadio per sbirciare il suo abito, per sognare a occhi aperti, come facevano tutte le ragazze della sua età.
Le due del pomeriggio. Il primo caldo, la prima afa e nubi cariche di pioggia all’orizzonte. Papà Antonio era nei campi, ad accudire i buoi, mamma Rosaria e le figlie stavano sistemando la cucina dopo il pranzo. In paese erano in corso i preparativi per la festa del Corpus Domini, a cui tutti avrebbero partecipato. Elvira uscì per andare alla fonte a prendere l’acqua. Doveva percorrere circa quattrocento metri a piedi. Aveva una brocca in mano e un asciugamano di iuta sulla spalla. Lungo la strada incontrò un’amica, Iva Pucci. Un sorriso, un saluto, quattro chiacchiere, poi Iva proseguì la sua passeggiata, aveva già preso l’acqua qualche ora prima.
Una curva sul sentiero e la ragazza sparì, inghiottita dal silenzio della campagna, dal frinire delle cicale.
Due ore dopo Elvira non era ancora rientrata. Madre e sorelle si preoccuparono, pensavano si fosse fermata lungo la strada a chiacchierare, ma si stava facendo tardi. Così mamma Rosaria si incamminò verso la fonte per cercarla, chiedendo a chiunque incrociasse se aveva visto la sua bambina.
Elvira non c’era da nessun parte. Così Rosaria decise di tornare casa a chiamare il marito. Antonio e il cognato Giovanni, con cui era nei campi, lasciarono il lavoro e corsero alla fonte. Una volta arrivati notarono per terra una grossa chiazza di sangue e segni di trascinamento verso il bosco. Rami spezzai indicavano il percorso.
Quella era una zona di fitta vegetazione, il Bosco delle Purghe, attraversata da un vecchio canale di scolo chiamato Botro della Lupa, che dalla fonte si allargava scendendo verso valle. I due uomini, cominciarono a camminare fra i cespugli, seguendo la traccia. Antonio davanti, Giovanni a breve distanza. Alcuni passi ancora e a terra videro le ciabatte di Elvira, ben sistemate una sopra l’altra, con accanto la brocca. Dopo pochi metri, dove il bosco era più fitto, c’era il suo corpo senza vita. Elvira era lì, con la gola squarciata: un taglio da 12 centimetri. Il sangue era dappertutto: sul suo viso, in bocca, sui vestiti, a terra.
Antonio non ci poteva credere. Preso dal panico, afferrò il corpo della figlia per il busto, insieme a Giovanni, in un disperato tentativo di salvarla, di trascinarla fino alla fonte. Non si rese conto che stava compromettendo irrimediabilmente la scena del crimine. Due giovani del paese, in bicicletta, si trovavano a passare in quel momento. Videro la scena e cercarono di aiutare, ma ormai non c’era nulla da fare. Corsero a chiamare i carabinieri, che arrivarono sul luogo del delitto in pochi minuti.
Il corpo della ragazza era ancora caldo. Il sangue dalla ferita sul collo le era colato nei polmoni, soffocandola in pochi secondi. Presentava altri segni di coltellate, inferte dopo la morte, sul cranio, almeno tre. Mancava l’asciugamano, sparito come il coltello. Elvira era senza mutandine. Pochi dubbi, anzi nessuno. Secondo il maresciallo dei carabinieri accorso sul posto, il colpevole non poteva che essere uno: Ugo Ancillotti.
E poi il suo comportamento era davvero strano. Come mai era arrivato sul luogo del delitto senza che nessuno glielo avesse indicato? E i suoi pantaloni? Presentavano delle macchie di sangue sospette.
Chiedendo in giro, a chi li conosceva, era emerso che spesso e volentieri i due giovani litigavano. Per un certo periodo si erano anche allontanati, per poi tornare insieme e decidere di sposarsi.
Gli elementi per chiudere in fretta il caso c’erano tutti. Il maresciallo era convinto che interrogando, senza troppi convenevoli, il giovane Ancillotti, questi sarebbe capitolato e avrebbe confessato ciò che aveva fatto in preda ad un attacco di folle gelosia. Ugo venne arrestato. Restò in carcere due anni. L’opinione pubblica teneva gli occhi puntati sul processo, sulle indagini, sugli indizi presentati a carico, sulla strategia della difesa.
Si faceva un gran parlare di quel ragazzo discreto e timido, del reduce dal bell’aspetto. E di Elvira?
Anche di lei si parlava. Le testimonianze, le voci, la ricerca della verità. A quel tempo, come oggi, della vittima si ebbe poco rispetto. Si cercava di capire se davvero Ugo l’avesse uccisa, quando avesse perso la verginità e con chi, se c’era come, come si diceva un ritardo nel ciclo della giovane prima di morire. E il lavoro dai Salt? Anche quello fu passato al microscopio, suscitando lo sconcerto e la disperazione della famiglia. Il paese era schierato con il giovane imputato, mentre l’opinione pubblica duellava fra innocentisti e colpevolisti. A difendere l’Ancillotti, per altro gratuitamente, fu Giacomo Picchiotti, noto avvocato e parlamentare socialista. Accanto a lui sedevano altri due importanti principi del foro, Gattai e Gelati. Per loro era innocente e doveva essere assolto: le prove a suo carico erano indiziarie. L’aula del tribunale divenne un’arena, fra applausi e risate.  Moltissime furono le lettere di mitomani alla corte, di folli che si auto accusavano dell’omicidio. Centinaia i messaggi per Ugo, che lo sostenevano, che lo esortavano a non cedere alle false accuse che gli erano state mosse. Il processo fu trasferito a Firenze. La difesa dimostrò che l’apparato accusatorio era inconsistente: Ugo era arrivato in bicicletta sul luogo del delitto senza che gli fosse indicato perché la strada che stava percorrendo per andare a casa di Elvira, passava proprio davanti al bosco dove fu ritrovata. La testimonianza dell’amica Iva era poco attendibile: durante il dibattimento raccontò di un incontro, fra Elvira e Ugo, nel bosco proprio il giorno dell’omicidio, ma nulla era emerso a poche ore dal ritrovamento del cadavere. E quelle impronte di scarpe n° 40 nei pressi del corpo? Ugo calzava il 43. Il sangue sui pantaloni fu escluso quasi subito; le macchie rilevate erano talmente piccole che non potevano essere compatibili con l’efferatezza della ferita inferta: gli schizzi di sangue dalla gola avrebbero imbrattato ovunque. Quella mattina poi i due erano stati a messa insieme in paese, che era finita alle 13.30 circa: il ragazzo non avrebbe avuto il tempo materiale per compiere il delitto.
Alla fine del processo l’accusa chiese 18 anni. Le prove raccolte dal maresciallo Leonardi non furono sufficienti per fugare ogni dubbio. La famiglia Orlandini si batté fino all’ultimo, convinta della colpevolezza del giovane. Il paese si schierò invece in sua difesa. Ugo Ancillotti fu assolto dopo solo tre ore di camera di consiglio, il 21 luglio 1949.
Nessun colpevole. Molte prove raccolte durante il processo non furono considerate: ad esempio la lettera anonima spedita ad Ancillotti poche settimane prima del matrimonio, in cui gli si diceva di non sposare la Orlandini, ma senza specificare il perché. Inoltre la giovane stava, nell’ultimo periodo, deperendo fisicamente. Temeva di essere incinta, lo aveva confessato ad una maga sua conoscente, di un uomo sposato e per questo temeva per la sua vita.
Fiumi di parole, di voci, di testimonianze, vere o false che fossero, si riversarono su quello che doveva essere il processo per consegnare alla giustizia l’assassino di una giovane ragazza di 22 anni. In realtà il clamore che ne scaturì distolse l’attenzione da Elvira e dalla sua triste fine. Il suo assassino non fu mai scoperto. Il 30 marzo 2013, morì Ugo, l’ultimo fra i protagonisti di questa vicenda. Fino alla fine dei suoi giorni non smise mai di professarsi innocente.
E la bella Elvira? Qualcuno dice che si aggiri ancora oggi nel Bosco delle Purghe in cerca di pace.

Rosella Reali

Bibliografia
Paolo Falconi, La bella Elvira. Toiano 1947: il delitto del Corpus Domini, il "giallo" di una storia vera di Paolo Falconi, CDL Libri, 2002.


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ROSELLA REALI
Sono nata nel marzo del 1971 a Domodossola, attualmente provincia del VCO. Mi piace viaggiare, adoro la natura e gli animali. L'Ossola è il solo posto che posso chiamare casa. Mi piace cucinare e leggere gialli. Solo solare, sorrido sempre e guardo il mondo con gli occhi curiosi tipici dei bambini. Adoro i vecchi film anni '50 e la bicicletta è parte di me, non me ne separo mai. Da grande aprirò un agriturismo dove coltiverò l'orto e alleverò animali. 
Chi mi aiuterà? Ovviamente gli altri viaggiatori.
Questa avventura con i viaggiatori ignoranti? Un viaggio che spero non finisca mai...




Gli Amanti di Valdaro

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Valdaro, ubicato alle porte di Mantova, salì prepotentemente alle cronache nel 2007 quando il suo territorio fu oggetto di un ritrovamento eccezionale: due scheletri del neolitico rinvenuti abbracciati. Le immagini della scoperta fecero, rapidamente, il giro del mondo. A questi scheletri fu dato il nome di Amanti di Valdaro. L'unicità della scoperta scomparve pochi mesi dopo poiché, in Turchia, furono rinvenuti scheletri posizionati in una situazione similare.
Ricostruiamo questa vicenda.
Nel febbraio del 2007 la Soprintendenza per i beni archeologi della Lombardia comunicava il ritrovamento di una sepoltura neolitica nell'ambito degli scavi di una villa romana in zona Valdaro. L'eccezionalità del rinvenimento consisteva nel fatto che due scheletri furono ritrovati sepolti di fianco, faccia a faccia, incrociati in un abbraccio che coinvolgeva anche gli arti inferiori. Si tratta di uno straordinario esempio di sepoltura doppia (o bisoma) in Italia Settentrionale. L'archeologa Menotti, che guidò gli scavi, riferì che il rinvenimento consisteva in due scheletri, un uomo ed una donna, non più vecchi di 20 anni alla morte e di un'altezza di circa 1 metro e 57 centimetri. Lo scheletro maschile fu ritrovato con una punta di freccia di selce vicino al collo. La femmina aveva una lama di selce lungo la coscia e due coltelli, sempre di selce, sotto il bacino. L'esame osteologico non rivelò alcuna prova di morte violenta; nessun trauma e nessun microtrauma. La spiegazione più probabile risiede nel fatto che gli strumenti di selce siano stati sepolti insieme alle persone come oggetti tombali.
Le fotografie dei due scheletri provocarono un'ondata di grande emozione popolare che permise una grande celebrità al ritrovamento. Le fotografie furono pubblicate nei giorni precedenti la festa di San Valentino e divennero simbolo dell'amore eterno di due amanti.
Però le cose potrebbero essere andate diversamente.
Potrebbe essere un sacrificio umano?
In questa visione, l'uomo sarebbe morto per primo e la donna sarebbe stata uccisa in seguito per permettergli di raggiungere l'uomo a cui era “appartenuta” in vita.
Le congetture si sprecarono come i rinvenimenti successivi a quello alla porte di Mantova. Pochi mesi dopo il ritrovamento degli Amanti di Valdaro, una spedizione archeologica nella provincia turca di Diyarbakir riportò alla luce i resti di due scheletri sepolti insieme, in una sorta di abbraccio. L'uomo, di circa trent'anni, e la donna, di circa vent'anni, furono ritrovati insieme a 22 tombe del periodo del Neolitico risalenti a circa 8000 anni fa.
Con il trascorrere degli anni altri ritrovamenti similari avvennero in tutto il mondo.
Nel 2009 fecero il giro del mondo le fotografie di due scheletri di età tardo romana sepolti mano nella mano. L'uomo e la donna furono rinvenuti durante gli scavi effettuati sotto il controllo della Soprintendenza Archeologica dell'Emilia-Romagna in una via di Modena. L'uomo aveva il palmo rivolto verso l'alto, quasi a reggere quello femminile rivolto verso il basso. Praticamente i due scheletri si tenevamo per mano. La particolarità risiede nel fatto che l'uomo tiene la mano destra della donna con la sinistra, contrariamente al gesto ufficiale della dextrarum iunctio, dove avveniva l'unione delle mani destre di sposo e sposa come rievocazione del matrimonio. Quindi l'unione delle mani di queste persone nella sepoltura avvenne come gesto quotidiano e non come rievocazione di un rito nuziale.
Un altro rinvenimento spettacolare avvenne nel 2012 nel villaggio siberiano di Staryi Tartas. Gli archeologi rinvennero 600 tombe risalenti all'età del bronzo. Alcune di queste rivelarono sepolture di coppia o di un'intera famiglia. Gli esami archeologici evidenziarono che questi individui appartenevano alla cultura di Andronovo, che si sviluppò tra il 2000 ed il 1200 a.C. Le ipotesi degli archeologi rivelavano che tali disposizioni sepolcrali erano tracce di antichi sacrifici rituali. 
Una seconda ipotesi si potrebbe avvicinare a quella proposta per gli Amanti di Valdaro, ovvero che morto l'uomo tutta la famiglia sia stata uccisa affinché potessero “viaggiare” per l'eternità insieme. 
Agli inizi del 2015 un eccezionale scavo archeologico nella zona del Peloponneso permise di rinvenire un uomo ed una donna sepolti abbracciati. Nel comunicato dei responsabili dello scavo archeologico si leggeva: “le sepolture doppie e incrociate sono molto rare e quella di Diros è una delle più antiche rinvenute finora al mondo. Nei pressi dello scavo sono stati ritrovati anche le tombe di un bambino e di un feto, oltre ad un ossario di circa 4 metri. Siamo abbastanza certi che questa zona sia servita come luogo di sepoltura per migliaia di anni”.
Ma per ritrovare la scoperta archeologica più spettacolare tra le sepolture doppie o collettive bisogna risalire la linea del tempo sino al 1972, quando un team dell'Università della Pennsylvania rinvenne nel sito archeologico di Hasanlu, in Iran, due scheletri umani che si abbracciavano sino quasi a baciarsi. Si trattava di un uomo ed una donna tra i 20 ed i 30 anni che godevano di buona salute prima di morire. La coppia di scheletri fu ritrovata in una struttura simile ad un cestino, senza altri oggetti tranne una lastra di pietra sotto la testa. Morirono insieme nel IX secolo a.C., durante la distruzione della cittadella di Teppe Hasanlu.
Le scoperte archeologiche dimostrano quanto ancora non conosciamo della vita, e della morte, di chi ci ha preceduto sui sentieri della nostra esistenza.


Fabio Casalini






Il Papa che fu gettato dalla finestra

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Ottaviano dei conti di Tuscolo, figlio di Alberico di Roma, nacque probabilmente intorno al 937 a Roma. Sua madre era, con buone possibilità, Alda, figlia del Re d'Italia Ugo di Provenza. Non è da escludere il fatto che la vera madre di Ottaviano fosse una concubina. Il ragazzo crebbe nel palazzo di famiglia ottenendo un'educazione del tutto similare a quella dei suoi contemporanei aristocratici romani. Ottaviano discendeva dal Re d'Italia e la sua famiglia apparteneva ai marchesi di Spoleto: il nonno era il marchese Alberico I di Spoleto e la nonna era una donna di nome Marozia, personaggio famoso poiché instaurò, grazie all'aiuto della madre Teodora, il regime della pornocrazia pontificia. Maria, detta Mariozza e poi conosciuta come Marozia, nacque intorno all'anno 892 a Roma. Era figlia di Teodora e del Senatore romano Teofilatto. Maria era nota per la sua bellezza e per la spregiudicatezza delle sue azioni. Malgrado fosse analfabeta, riuscì a dominare Roma e la Chiesa Cattolica per un ventennio del secolo X grazie all'astuzia ed alla seduzione di cui era portatrice. Forti alleanze ed amicizie potenti permisero l'instaurazione della cosiddetta Pornocrazia: neologismo, ricalcato dal francese pornocratie, che indica una forma di governo caratterizzata dalla forte influenza sugli uomini di potere esercitata dalle cortigiane o favorite. L'elemento caratteristico della pornocrazia non è lo scambio di favori sessuali e posizioni di privilegio, perché questo scambio è tipico di qualsiasi relazione tra potenti e concubine, e nemmeno il ruolo politico o pubblico della concubina ma la capacità della favorita, o delle favorite, di creare un potere personale attraverso la relazione con il potente di turno, che sostituisce il potere del potente e talvolta gli sopravvive. 
Torniamo al nostro Ottaviano. Nel 932 il padre Alberico aveva preso il potere a Roma e vi aveva istituito una signoria de facto destinata a durare oltre vent'anni. Ottaviano sarebbe stato il successore nella carica di princeps, ma era consapevole che la diarchia instauratasi in Roma tra papato e principato poteva persistere solo grazie alla sua forte volontà. Le mire espansionistiche di Ottone di Sassonia avevano spinto Alberico ad unificare il potere spirituale e quello temporale in un'unica figura. Nel 954, poco prima della morte, Alberico fece giurare alla nobiltà ed al clero romano di eleggere Ottaviano al Soglio pontificio non appena fosse morto il papa in carica, Agapito II. L'anno successivo, 955, Ottaviano fu eletto papa malgrado non avesse l'età canonica per diventarlo, all'epoca dei fatti aveva solo diciotto anni. Inoltre possiamo presumere che il ragazzo non avesse nessuna formazione ecclesiastica. Fu consacrato pontefice il 16 dicembre del 955, assumendo il nome di Giovanni XII. Malgrado l'elezione al soglio di Pietro, Ottaviano non mutò le sue abitudini, conducendo una vita lasciva e totalmente estranea allo spirito evangelico. Il palazzo del Laterano divenne la sede delle sue dissolutezze. Gregorovius, storico e medievista tedesco vissuto nel XIX secolo, ne parlò con le seguenti parole: «Venuto in giovinezza immatura al possesso di una dignità che gli dava diritto alla reverenza di tutto il mondo, smarrì la moderazione dell’intelletto, e si gettò nel vortice dei piaceri più sfrenati Le sue case del Laterano diventarono un ridotto di piaceri, un vero harem; la gioventù ragguardevole di Roma diventò sua compagnia favorita; passava tutto il suo tempo in cacce, in giochi, in amorazzi, a mensa col bicchiere alla mano. Un tempo, Caligola aveva fatto senatore il suo cavallo; adesso Giovanni XII dava in una stalla di cavalli la consacrazione ad un diacono, forse in quella che erasi alzato ubriaco fradicio da tavola, dove, con lepidezza pagana, aveva fatto frequenti libazioni ad onore dei numi antichi.» 
Come persona, Giovanni XII si dimostrò totalmente inadeguato alla carica. Nemmeno per un istante pensò di interrompere la vita lussuosa cui si era abbandonato fino all'elezione a papa, seguitando a vivere tra sfrenati piaceri. Il palazzo del Luterano, che alle soglie del nuovo millennio ne aveva viste di scempiaggini, si tramutò in una vera e propria casa di piacere. Ottaviano, divenuto papa Giovanni XII, amò circondarsi di belle donne e bei ragazzi, conducendo una vita depravata, indegna della carica di pastore della cristianità. 
Le fonte coeve e successive si accordano sulla vita di Ottaviano, divenuto Giovanni XII. Il Liber pontificalis, importante fonte per la storia del primo medioevo, fu impietoso nei confronti di questo pontefice: l'incipit riportato all'inizio della sua biografia ricorda che «totam vitam suam in adulterio et vanitate duxit», ovvero il libro riporta l'indicazione che dedicò tutta la sua vita all'adulterio ed alla vanità. Liutprando, vescovo di Cremona, ricordò che: «...dum se cum viri cuiusdam uxore oblectaret, in temporibus adeo a diabolo est percussus, ut infra dierum octo spacium eodem sit vulnere mortuus. Sed eucharistiae viaticum, ipsius instinctu qui eum percusserat, non percepit...» che tradotto risuona come “mentre si apprestava a giacere con la moglie di un tale, fu percosso dal diavolo e nell'arco di otto giorni morì per le ferite. Ma non ricevette il viatico dell'eucarestia per lo stesso istinto di colui che l'aveva colpito”. Prima di soffermarmi sulla morte vorrei ricordare un'altra fonte per inquadrare il personaggio Ottaviano. Gregorovius, malgrado non lesinò critiche feroci alla condotta di Giovanni XII, concluse il suo racconto con una sorta di assoluzione: «... il figlio del glorioso Alberico cadeva vittima delle sue dissolutezze e altresì di quel dualismo che si accoglieva in lui, principe e papa ad un’ora medesima. Però la sua giovinezza, la origine che aveva da Alberico, i tragici contrasti della sua vita gli danno qualche diritto ad una sentenza più mite; né la storia gliela rifiuta.» 
Giovanni XII sperperò gran parte del bilancio dello stato pontificio in campagne militari di conquista per ricostituire lo Stato della Chiesa. Giovanni XII cercò fuori dall'Italia un possibile alleato. Verso il 960 si rivolse al re di Germania, Ottone I, offrendogli la corona imperiale. Ottone, chiaramente, accettò, ergendosi a difensore della Chiesa in memoria degli antichi patti tra i pontefici e gli imperatori carolingi. L'incoronazione avvenne il 2 febbraio del 962 a Roma. Giovanni XII però non seppe tenere fede agli impegni presi con Ottone I, trattando con re Berengario. Nel 963, Ottone scese in Italia per attaccare Berengario, che sconfisse e fece prigioniero. L'imperatore decise di scendere verso Roma per regolare i conti con il Papa. Di fronte alle armate dell'imperatore, le forze romane fuggirono e Giovanni scappò nelle campagne. Ottone prese possesso dell'Urbe e convocò un concilio in San Pietro. Giovanni XII fu deposto e condannato per alto tradimento. Dal rifugio in Corsica, Giovanni XII ideò il ritorno a Roma. Quando Ottone I partì per Spoleto, agli inizi del 964, fece ritorno nell'Urbe. Convocò un concilio per far deporre il nuovo Papa, vendicandosi dei suoi avversari a cui fece tagliare la lingua ed il naso.
Grazie agli scritti di Liutprando, vescovo di Cremona, sappiamo che morì il 14 maggio del 964 a soli 27 anni ,a causa di un adulterio. Risulta molto interessante addentrarci nelle ricerche sulle cause della dipartita di Ottaviano. Secondo alcuni la causa della morte fu un colpo apoplettico. Altri, tra cui Liutprando vescovo di Cremona, riportano una versione diversa della morte, e sicuramente più interessante e pruriginosa. Papa Giovanni XII fu sorpreso in flagrante adulterio con una certa Stefanetta, moglie dell'oste presso cui alloggiava, ed il marito, identificato con il demonio secondo le dicerie popolari, lo gettò dalla finestra. Il colpo non fu mortale all'istante poiché il papa sarebbe rimasto in coma per otto giorno prima di morire. 
Così si concluse la spregiudicata vita di un ragazzo divenuto Papa.


Fabio Casalini

Bibliografia
Louis Marie Olivier Duchesne, Le Liber pontificalis, vol. 2, Parigi, Ernest Thorin, 1892

Ferdinand Gregorovius, Storia della città di Roma nel Medioevo, vol. 2, Roma, Societa Editrice Nazionale, 1900

Liutprando da Cremona, De rebus gestis Ottonis magnis imperatoris 

Gaetano Moroni, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica da S. Pietro sino ai nostri giorni, vol. 31, Venezia, Tipografia Emiliana, 1845

Roland Pauer, Giovanni XII, in Enciclopedia dei Papi, vol. 2, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2000

Claudio Rendina, I Papi - storia e segreti, Roma, Newton&Compton editori, 2005

Bartolomeo Sacchi, detto il Platina, Le vite de' Sommi Pontefici di Bartolomeo Platina cremonese, Venezia, Gio: Maria Turrini-Gio: Pietro Brigonci, 1663

FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.

Angela Romano di anni 9, fucilata dai bersaglieri

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Castellammare del Golfo è una città di oltre 15.000 abitanti in provincia di Trapani. Sicilia. Oggi basa la sua economia sul turismo, sulla viticoltura e sulla pesca. La storia che voglio raccontarvi affonda le sue radici nelle immediatezze dell'Unità d'Italia. La proclamazione del Regno d'Italia fu l'atto formale che sancì la nascita del Regno d'Italia. Avvenne con un atto normativo del Regno di Sardegna con il quale Vittorio Emanuele II assunse per se e per i suoi successori il titolo di Re d'Italia. Il 17 marzo è ricordato annualmente come Anniversario dell'Unità d'Italia. Pochi mesi dopo, il 30 giugno del 1861, anche in Sicilia fu introdotta la leva obbligatoria, autorizzata sui nati nel 1840. La legge era odiata dai siciliani poiché, da un lato, non erano abituati all'arruolamento obbligatorio e, dall'altro, sotto il dominio dei Borbone non esisteva nessuna normativa che obbligava i giovani alla leva. Molti uomini scapparono. Per quanto concerne Castellammare del Golfo, molti giovani si rifugiarono sulle montagne, venendo meno all'obbligo voluto dal nuovo Re d'Italia. La protesta reazionaria contro la coscrizione obbligatoria si manifestò anche nelle province del Regno di Napoli, ma in maniera meno vigorosa rispetto alla Sicilia. 
Per meglio comprendere quanto avvenne, affidiamoci agli scritti di G. De Sivo – Storia delle Due Sicilia dal 1847 al 1861 – che narrano di quei terribili momenti: «…..in molte parti corse sangue: a Castellammare stracciarono i decreti dalle mura; a Licata il dì del sorteggio scagliaronsi sugli uffiziali municipali, e alcuni ne morirono; Canicattì tumultuò sul finir d'agosto 1861, sedato con sangue da accorsi soldati. Non passava dì che non cadessero soldati piemontesi». Malgrado la reazione della politica, i tumulti non si placarono. Nel dicembre del 1861 si verificarono nuovi disordini a Palermo, Adernò, Paternò, Sciacca e Mazara del Vallo. Cui seguirono il primo gennaio del 1862 le dimostrazioni di Catania e Messina. Il giorno successivo insorse anche Castellammare del Golfo. Quattrocento giovani, capeggiati da Francesco Frazzitta e Vincenzo Ghiofalo, entrarono in paese ed assalirono l'abitazione del Commissario di leva e l'abitazione del Comandante della Guardia Nazionale. Le cronache ricordano che il tutto avvenne innalzando una bandiera rossa. I rivoltosi trucidarono i commissari governativi e bruciarono le loro case. Ancora una volta ci affidiamo agli scritti di G. De Sivo: «…..A Castellammare del Golfo, comune di tredicimil'anime, l'anarchia agitando gli spiriti infuriò. Già da' cantoni aveano stracciati i primi decreti per la leva; al censimento della popolazione si fremè; ma quando in dicembre si videro strappare i figli, s'esaltarono l'ire. Al capo d'anno 1862 radunatisi armati in molti al villaggio Fraginesi, s'accostarono sul vespro alla città tirando in aria, e gridando: Abbasso la leva, Fuori Vittorio Abbasso i pagnottisti, Viva la repubblica! Il giudice s'ascose; ma il delegato di polizia Gaspare Fundarò, il comandante Francesco Borruso e certi uffiziali nazionali fecero resistenza; morì il comandante con la figlia e due uffiziali, arse loro case, quelle del medico Calandra e d'Asaro. I sollevati altri uccisero, altri percossero, presero i denari al precettore de'dazii, arsero le carte comunali, del delegato, del giudicato e de' doganieri, strapparono le bandiere e l'arme di Savoia, tolsero a' carabinieri le divise, e inermi li scacciarono via. La dimane, sentendo la necessità d'avere un capo, vollero Pietro Lombardo ottimo cittadino, che non volente, pure accettò, a patto si cessasse ogni delitto; sl ebbero grazia il delegato di polizia e il sindaco, sul punto che al grido di morte a liberali erano immolati. Poscia cantarono il Te Deum per la repubblica. Accostandosi soldati da Alcamo li affrontarono; uccisero Antonino Varvaro comandante i militi a cavallo, un Bocchini sergente, e sei altri; presero feriti un tenente di linea Cesaroni e altri quindici soldati, fugarono il resto».
A questo punto le autorità della Sicilia chiesero aiuti. Il governo inviò nell'isola le truppe della brigata Alpi al comando di Pietro Quintini, generale dei bersaglieri e famoso per i suoi metodi spicci. Il 3 gennaio giunse, via mare, nella zona di Castellammare del Golfo. Dopo aver subito alcune perdite tra gli ufficiali ed i soldati, riuscì, grazie al supporto dell'artiglieria delle navi, a reprimere i tumulti sia a Castellammare del Golfo che a Marsala. A Castellammare del Golfo, le scarne cronache riportano che diversi cittadini furono passati per le armi. La cieca violenza dei bersaglieri di Quintini si abbatté su handicappati e bambini. Vi riporto l'elenco delle vittime di Castellammare del Golfo: Marco Randisi, storpio ed analfabeta, di anni 45. Angela Catalano, zoppa ed analfabeta, di anni 50. Benedetto Palermo, sacerdote, di anni 46. Mariana Crociata, cieca ed analfabeta, di anni 30. Antonino Corona, handicappato, di anni 70. Angela Calamia, handicappata ed analfabeta, di anni 70. Angela Romano, di anni 9.
Angela Romano 9 anni, fucilata dai bersaglieri del generale Pietro Quintini.
Dall'elenco dei caduti per mano del valoroso esercito piemontese, possiamo comprendere che Quintini trovò unicamente persone completamente estranee alle vicende, che – probabilmente – si erano appartate in campagna per non essere confuse con i rivoltosi. E – sempre probabilmente – non trovando nessuno su cui sfogare la rabbia, i bersaglieri uccisero ciechi, handicappati, un prete ed una bambina di nove anni.
Dove non riuscì l'uomo, riuscì la natura.
Pietro Quintini generale dei bersaglieri morì a Terni il giorno 8 febbraio del 1865 in seguito ad una caduta da cavallo.
Vorrei ricordare che Angelina, come gli altri fucilati, non comprendeva la lingua dei soldati che gli puntarono il fucile.
Vorrei ricordare che Angelina, come gli altri fucilati, non comprendeva le ragioni per le quali i rivoltosi erano scesi in piazza.
Erano tutte persone con problemi fisici ed età avanzata, per cui esentate dall'obbligo di leva.
Eppure i bersaglieri fecero fuoco.
Eppure i bersaglieri presero la bambina, la strattonarono, la tirarono ed infine l'appoggiarono al muro.
In seguito fecero fuoco.
Fecero fuoco su una bambini di 9 anni, del tutto estranea alle motivazioni per le quali i bersaglieri, comandati da Pietro Quintini, giunsero in Sicilia.
Questa è una delle tante storie che appartengono a tutti noi.
Angelina Romano vive nel ricordo di molte persone.

Fabio Casalini


Bibliografia
G. Oddo, Il Brigantaggio o la dittatura dopo Garibaldi, 1865 

G. De Sivo, Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861, 1868 

Cesare Cesari, Il Brigantaggio e l’opera dell’esercito italiano dal 1860 al 1870, 1920 

Aldo De Jaco, Il brigantaggio meridionale: cronaca inedita dell'Unità d'Italia, Editori Riuniti, 1969

Gaetano Cingari, Brigantaggio, proprietari e contadini nel Sud (1799-1900), Reggio Calabria, Editori Riuniti, 1976

FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.





La strage della famiglia Einstein

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Albert Einstein fu un fisico e un filosofo tedesco di origine ebraica. Il suo genio, oggi indiscusso e riconosciuto a livello mondiale, non lo mise al riparo dalla persecuzione a cui furono sottoposti tutti gli ebrei in seguito all’ascesa nazista al comando della Germania. Fra il 1933 e il 1939 gli ebrei furono oggetto di oltre 400 fra decreti e regolamenti, che avevano lo scopo di limitare la loro vita, sia in ambito privato che pubblico. Il primo fra i provvedimenti in ordine temporale fu quello del 07 aprile 1933, denominato “Legge per la Restaurazione del Servizio Civile Professionale”, che stabiliva che tutti i funzionari e impiegati pubblici di origine ebraica, oltre che tutti coloro che erano considerati “politicamente inaffidabili”, cioè oppositori del regime, dovevano essere esclusi con effetto immediato da qualsiasi incarico pubblico. 

Albert Einstein fu uno di questi. All’epoca si trovava all’università di Princeton, come ospite. In un attimo si rese conto che la sua vita non sarebbe stata più la stessa. Le sue posizioni politiche durante il primo conflitto mondiale e il suo pensiero spiccatamente ed apertamente contro le idee di Hitler, lo spinsero a lasciare l’Europa per trasferirsi negli Stati Uniti. La sua decisione non fu gradita al Führer. Iniziò una vera e propria campagna denigratoria ai danni del fisico, tanto che i premi Nobel Philipp von Lenard e Johannes Stark cercarono di screditare il suo lavoro, distinguendo fra “fisica tedesca o ariana” e “fisica ebraica”. Quell’uomo geniale e versatile divenne il simbolo dell’opposizione al regime in America, doveva essere annientato. Inoltre, con le sue scoperte, poteva contribuire allo sviluppo tecnologico dei paesi contrapposti al terzo Reich. 
Prima o poi il Führer si sarebbe vendicato, l’occasione sarebbe arrivata e quell’uomo che lo aveva sfidato tanto apertamente, che la campagna diffamatoria nazista non aveva piegato, avrebbe pagato il suo gesto.
Non tutti i componenti della famiglia Einstein lasciarono l’Europa. C’era chi riteneva che sarebbe stato sufficiente comportarsi bene e con obbedienza per riuscire ad uscire indenni da quegli anni di terribile repressione. In Toscana, in una magnifica tenuta nella campagna fiorentina fino al 1944 visse la famiglia di Robert Einstein. 
Robert era cugino in primo grado di Albert, figlio di Jakob Einstein, fratello del padre del noto fisico. I suoi primi anni di vita li trascorse a Pavia, in via Severino Boezio. Frequentò fra il 1895 e il 1896 il ginnasio “Ugo Foscolo”. Si trasferì con la famiglia in Germania quando la ditta del padre e dello zio fallì. Concluse gli studi lì, laureandosi in ingegneria. Nel frattempo conobbe una giovane di origine italiana, Cesarina Mazzetti, per tutti Nina, che sposò appena finiti gli studi. 
La coppia decise di ritrasferirsi in Italia, acquistando la villa “il Foccardo” a Rignano d’Arno, in provincia di Firenze. Dall’unione felice fra Nina e Robert nacquero due bambine: Annamaria e Luce. La loro vita trascorse tranquillamente, fino a quando un evento luttuoso colpì la famiglia Mazzetti: il fratello di Nina, Corrado rimase vedovo. La moglie, Olga Liberati, morì poco dopo aver dato alla luce le loro due gemelle, Lorenza e Paola. L’uomo distrutto dal dolore e incapace di crescere le due piccole, le aveva date in affido a persone di fiducia, che però si rivelarono assolutamente incapaci di svolgere il delicato compito. Dopo varie vicissitudini, in seguito alle insistenze di una zia dei Mazzetti, la famiglia Einstein decise di prender in affido le bambine, che furono accolte alla villa come figlie, diventando parte integrante della famiglia. In quell’angolo di Toscana le leggi razziali, i pogrom, le persecuzioni, la violenza, sembravano cose lontane. L’inizio della guerra segnò la fine di quella vita di spensieratezza. Durante il conflitto la zona fu interessata da una intensa attività bellica. Fra il 1943 e il 1944 i soldati tedeschi compirono numerosi rastrellamenti nelle campagne limitrofe a Rignano. Un brutto giorno arrivarono anche a casa Einstein. Decisero di scegliere la villa come dimora per alcuni ufficiali della Wehrmacht. Il resto dei soldati si stabilì nella tenuta. 
Il conflitto in Italia, dopo lo sbarco degli alleati in Sicilia nel luglio del 1943, era in continua evoluzione. Il fronte di combattimento si avvicinava sempre di più. Robert prese la decisione di lasciar la villa e di rifugiarsi nei boschi vicini alla tenuta, con alcuni amici partigiani della zona. Nina per la prima volta non condivise quella decisione. Preferì restare a casa, non sentendosi minacciata dalla deportazione. L’inesorabile avanzata degli alleati costrinse le truppe tedesche a lasciare la zona. Il 03 agosto 1944 un gruppo di soldati delle SS irruppe nella villa, in cerca di Robert. Urla, spintoni, mitra alla mano. Paola e Lorenza furono chiuse in una stanza, mentre in un’altra Nina, Luce e Annamaria venivano interrogate. 
Pochi istanti di silenzio e poi una mitragliata. A terra rimasero madre e figlie, brutalmente uccise da un commando di soldati mai identificati, che prima di lasciare la villa, appiccarono un incendio, probabilmente per cancellare ogni traccia del crimine commesso. Dal bosco Robert, ignaro dell’accaduto, vide le fiamme e accorse sul luogo con altre persone. Trovò la sua famiglia barbaramente trucidata. Le gemelle furono tratte in salvo, insieme ad un’altra cugina venuta in visita. Furono risparmiate perché non appartenevano direttamente alla famiglia Einstein. Il giorno seguente in giardino fu ritrovato un biglietto che riportava le seguenti parole: «abbiamo giustiziato i componenti della famiglia Einstein, rei di tradimento e giudei.» 
Le truppe alleate giunsero sul posto pochi giorni dopo la strage. Furono indirizzati sul luogo dallo stesso Albert Einstein, che cercava notizie di quella parte della sua famiglia rimasta in Italia. Il 17 settembre, il maggiore della Quinta Armata, Milton Wexler, informò lo scienziato di quanto era avvenuto. Robert, annientato dal dolore, cercò di suicidarsi, ma senza successo, mentre una commissione per i crimini di guerra aveva avviato delle indagini sull’accaduto, per identificare i responsabili. 
Il 13 luglio 1945 Robert Einstein si tolse la vita, nel giorno del 32° anniversario di nozze con la sua amata Nina. Le sue spoglie e quelle della famiglia riposano nel cimitero di Badiuzza, vicino a villa Focardo. La strage di Rignano d’Arno rimase impunita. Negli anni ’90, in seguito all’apertura dell’Armadio della Vergogna, grazie a pressioni politiche, le indagini ripartirono presso la Procura Militare di La Spezia. I responsabili materiali dell’omicidio sono stati individuati nel 104° reggimento Panzergrenadier della Wehrmacht. La Germania ha avviato le pratiche per indagare sulle responsabilità ed individuare finalmente gli esecutori materiali. Chi diede l’ordine di procedere? Credo sia superfluo stabilirlo ora, ognuno si farà la propria idea. Quel giorno si compì la vendetta del Führer, che aveva così colpito al cuore lo scienziato ribelle, mantenendo la sua promessa.

Rosella Reali


Bibliografia
Antifascismo, resistenza, liberazione, ricostruzione. Appunti di storia Rignanese, Rignano sull'Arno, a cura del Comune di Rignano, 2004

Lorenza Mazzetti, Il cielo cade, Firenze, Editore Sellerio di Giorgianni, 1961

Arcuri Camillo, Il sangue degli Einstein italiani, Mursia

provinciapavese.gelocal.it/tempo-libero/2016/01/25/news/la-strage-della-famiglia-einstein

ROSELLA REALI
Sono nata nel marzo del 1971 a Domodossola, attualmente provincia del VCO. Mi piace viaggiare, adoro la natura e gli animali. L'Ossola è il solo posto che posso chiamare casa. Mi piace cucinare e leggere gialli. Solo solare, sorrido sempre e guardo il mondo con gli occhi curiosi tipici dei bambini. Adoro i vecchi film anni '50 e la bicicletta è parte di me, non me ne separo mai. Da grande aprirò un agriturismo dove coltiverò l'orto e alleverò animali. 
Chi mi aiuterà? Ovviamente gli altri viaggiatori.
Questa avventura con i viaggiatori ignoranti? Un viaggio che spero non finisca mai...




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