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Channel: I Viaggiatori Ignoranti
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L'antro delle dee. Un'interpretazione del sacro in una valle prealpina

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Per chi abita nell’alta provincia di Varese, c’è una terra dal fascino indiscusso, che evoca misteri ed enigmi. È la Valganna, valle di origine glaciale che si estende dall’estremità nord di Varese fino al lago di Lugano e fin dall’antichità importante via di comunicazione tra le Alpi e la pianura. Qui, in uno scenario selvaggio, tra rocce, grotte, torrenti e gole, si intrecciano e si confondono storia e leggende. Il nome di Ganna, il centro più importante della valle, è infatti legato indissolubilmente alla figura di san Gemolo, santo il cui martirio ha “consacrato” queste terre (per la vicenda di san Gemolo rimando al mio articolo Il santo che perse la testa). Cuore pulsante per la venerazione del santo è la badia a lui dedicata ed è questo il luogo su cui vorrei soffermarmi. L’edificio, dalla chiara origine medievale, che si innalza con le sue forme massicce nei pressi delle rive del torrente Margorabbia, è formato dalla chiesa, dai locali abbaziali e dalla foresteria. Quando il terreno umido rilascia nubi di vapore, avvolge la badia in una mistica aura di mistero. Ma non è solo questo che fa della badia un luogo enigmatico. Tutto qui fa nascere tante domande, a iniziare dal chiostro, che qui non ha la consueta pianta quadrata, ma si sviluppa come un pentagono irregolare. Le ragioni di questa scelta a tutt’oggi non sono ancora ben chiare. Anche la stessa chiesa, sempre avvolta in una quieta penombra, ispira una grande suggestione. Proprio nella chiesa si trova un angolo molto particolare, che corrisponde esattamente alla prima campata della navatella destra. Qui si trovano gli affreschi meglio conservati di tutto il complesso. Si passa attraverso un arco a tutto sesto, che nell’intradosso mostra quattro medaglioni quadrilobati con altrettanti profeti, mentre il punto centrale è occupato dal volto di Mosè con le tavole della legge.

La Signora

Richiama subito l’attenzione però, l’affresco della Madonna della Misericordia. L'affresco occupa l'intero spazio della parete a ovest. La cornice, adorna di motivi geometrici, segue le forme della campata e forma uno spazio racchiuso in un arco a tutto sesto. Nella parte superiore sono presenti due spazi romboidali al cui interno si trovano figure antropomorfe alate dalle teste di animale, un'aquila e un leone, simboli dei due evangelisti Marco e Giovanni. Tra i due evangelisti, all'interno di una cornice tonda, è rappresentato il Padre eterno che regge un cartiglio tra le mani. Ai lati della cornice si sviluppano due ghirlande verdi, con frutti simili ad arance. All'interno della squadratura architettonica della cornice si trova l'affresco che ha come figura centrale la Madonna della Misericordia. Nella zona superiore è presente un coro di quattro angeli: due incoronano la Vergine e gli altri due sorreggono il manto blu dall'interno color porpora. Ogni angelo, inoltre, tiene tra le mani un cartiglio con una diversa orazione:


Maria mater gratie Mater misericordie

Regina celi letare alleluia 

Hec est regina mundi et flos virginitatis

Tu es stella maris et fons pietatis

Al centro dell'affresco si erge maestosa la Vergine, dallo sguardo enigmatico rivolto all’infinito, caratterizzato da un colorito pallido che contrasta con il rossore delle guance. L'aureola e la corona richiamano in qualche modo le opere di oreficeria lombarda del '300 mentre, sul capo, un velo bianco fa intravedere una chioma dai riflessi ramati. Il vestito della Vergine, stretto in vita da una cintura azzurra, mostra decorazioni damascate color oro che, insieme alle pieghe, gli conferiscono forti connotati realistici. Le spalle e la braccia sono ricoperte da un grande manto di colore blu allacciato al collo con un medaglione dorato di forma ovale. La parte interna del manto è color porpora, solcato dalle pieghe in chiaroscuro e fa da sfondo alle delicate mani di Maria che reggono altri due cartigli:

Ego sum rosa sine spina peccatorum medicina et flos medicamentorum

Qui adorandam me invenit inveniet vitam et havriet salutem a domino


I piedi della Vergine poggiano su un alto stipite, ma sono coperti da un grande cartiglio sorretto a destra da una donna dalla chioma bionda e a sinistra da un uomo dalla tunica grigia:

Sistus papa [...] / vice XII Milia annos de vera indulgentia [...] / Maria Mater dei Regina celi [...] / Domina mundi Singularis [...] / Tu concepisti Yhesum

A destra di Maria si raccoglie un gruppo di otto uomini, mentre a sinistra sono visibili dieci donne, con acconciature e volti ben caratterizzati. Purtroppo, l’apertura di una porta ha completamente distrutto la parte di affresco con i corpi di queste donne.

Secondo alcuni recenti studi, l'affresco è databile agli anni ‘80 del XV secolo e attribuibile alla cerchia di Guglielmo da Montegrino. Sappiamo certamente che l'affresco è stato commissionato da Leonardo Sforza Visconti, abate commendatario della badia di Ganna dal 1482. Il tema della Vergine della Misericordia rientra all'interno della grande disputa sul dogma dell'Immacolata Concezione di Maria, sviluppatasi tra il 1400 e il 1500, durante il quale si aprirono grandi scontri teologici tra domenicani, che non accettavano il dogma, e francescani-benedettini che invece lo riconoscevano. Nel 1482, papa Sisto IV introdusse a Roma la festa liturgica della Concezione. Con la bolla Grave Nimis ribadiva la dottrina dell’Immacolata Concezione e indicava che fosse data ampio spazio alla professione della dottrina. Inoltre, incoraggiò la recitazione di una preghiera composta appositamente per la Vergine immacolata che concedeva all'orante dodicimila anni di indulgenza. L'abate Leonardo, attraverso la commissione di questo affresco, accettò pienamente le indicazioni di papa Sisto IV e volle dimostrarlo in modo tangibile, in una forma immediatamente comprensibile.

Un inno al femminile

Ma l’interesse non si esaurisce a questa figura. All’altra estremità della campata si trova un arco decorato con le pitture di quattro sante a grandezza naturale. Sulla spalla dell’arco a ridosso della parete sud, c’è una figura femminile vestita di bianco e ammantata di rosso. L’abito, di gusto tardomedievale, ha uno scollo quadrato orlato di verde. La donna porta al collo un medaglione ovale, che ricorda vagamente nelle forme una croce celtica, e un diadema sulla fronte. L’attributo che la rende immediatamente riconoscibile è la grande tenaglia che stringe la mammella che le è stata staccata (la carne viva si intravede appena sopra lo scollo dell’abito). È senza dubbio sant’Agata. Agata, bella e nobile ragazza di Catania, venne destinata a sposare il console romano Quinziano. Rifiutò il matrimonio per seguire Cristo e ma tutti i tentativi di corromperla fallirono. Quinziano volle punirla strappandole il seno, menomazione della quale venne guarita da san Pietro. Agata tuttavia non sfuggì al martirio, che avvenne tramite il fuoco. Il supplizio dell’asportazione del seno fece di Agata una delle sante più venerate, poiché fu decretata protettrice delle balie, delle donne allattanti e delle malattie del petto. Agata è un inno alla vita: celebre è anche l’episodio in cui, mentre era portata presso Quinziano, inciampò e dalla terra arida spuntò un olivastro. 

Nei proverbi popolari si dice che per sant'Agata, festeggiata il 5 febbraio, la terra rifiata, cioè si libera dal gelo per rianimarsi, libera la vita nascosta dei germi in preparazione della primavera. Nel passato la festa di sant’Agata si allacciava con quella della Candelora, la Purificazione, con rituali di luce e fuoco.

Di fronte alla figura di sant’Agata, sul pilastro che divide la navata destra da quella centrale e che costituisce l’altra spalla dell’arco, si trova un’altra figura femminile di cui resta visibile solo il volto, mentre il corpo rimane ancora celato sotto uno strato più recente di intonaco. Tuttavia, a un’osservazione più attenta, si nota che anche questa figura è accompagnata da un attributo, anche in questo caso una tenaglia, che stavolta stringe un dente. Anche per questa figura l’interpretazione è inequivocabile. Si tratta di santa Apollonia, le cui vicende sono collocate dall’agiografia nel III secolo d.C. Apollonia, un'anziana donna cristiana non sposata che aveva aiutato i cristiani e fatto opera di apostolato, venne catturata durante una rivolta. Secondo la tradizione popolare le furono cavati i denti con le tenaglie. Venne poi preparato un gran fuoco per bruciarla viva. La santa si lanciò da sé tra le fiamme, dove morì. Sant’Apollonia è ricordata il 9 febbraio, pochi giorni dopo sant’Agata. È tradizionalmente invocata contro i problemi dentali. Tuttavia, in alcune zone del nostro Paese, la sua festa è ancora celebrata con riti di carattere agreste. Dunque, abbiamo un’altra santa che accompagna il risveglio della terra.

Altre due figure femminili ci osservano dall’alto dell’intradosso dell’arco. Immediatamente sopra sant’Agata, si vede una figura con una veste dorata e motivi damascati di colore rosso. Le maniche sono verdi, parzialmente coperte da un manto scarlatto allacciato al collo, mentre il capo è velato di bianco. Ai piedi della figura, possiamo notare una creatura curiosa, con le ali da pipistrello. Qui l’identificazione potrebbe ricadere su santa Margherita di Antiochia, vissuta nel III secolo d.C. Si dice che mentre pascolava il gregge, fu notata dal prefetto Ollario, che tentò di sedurla. Margherita confessò la sua fede e lo respinse: umiliato, il prefetto la denunciò come cristiana. Nel carcere, Margherita venne visitata dal demonio, che le apparve sotto forma di drago e la inghiottì. Ma Margherita, armata della croce, gli squarciò il ventre e uscì vittoriosa. Dopo questo episodio, venne nuovamente interrogata e torturata. Morì per decapitazione dopo molti supplizi. Grazie all’episodio della liberazione dal ventre del demonio, Margherita è invocata dalle partorienti per chiedere la grazia di un parto senza complicazioni. Anche in questo caso abbiamo una santa legata alla vita e alla nascita.
Per finire, sull’altra metà dell’intradosso si scorge un’altra figura femminile abbigliata con una veste bianca e una sopravveste rossa. Sulle spalle indossa un mantello dorato orlato di verde. Tra le mani regge un cesto, al cui interno si intravedono tre mele e tre rose. L’identificazione lascia pochi dubbi: si tratta di santa Dorotea. Dorotea nacque a Cesarea, città della Cappadocia. Dorotea è associata a Teofilo, prima suo persecutore, poi convertito da lei al Cristianesimo e infine testimone della fede col martirio. Il preside di Cappadocia, Sapricio, sentì elogiare le virtù della giovane e la fece condurre al suo cospetto. Le ordinò di sacrificare agli dei, ma ne ottenne un pronto rifiuto. Sapricio la sottopose a numerosi tormenti, ma lei manteneva la sua serenità. Fu condannata alla decapitazione e, mentre si recava al martirio, passò accanto a Teofilo, un uomo di legge, che la schermì dicendole di portare delle mele che avrebbe trovato una volta giunta nel giardino di Cristo. Quando la santa fu davanti al ceppo, apparve accanto a lei un fanciullo bellissimo che portava un cesto contenente tre mele e tre rose. L'uomo di legge stava ancora scherzando con i colleghi della beffa quando ricevette quel dono inatteso, e subito capì essere qualcosa di soprannaturale. Subito chiese perdono a Dorotea e Sapricio, per timore che il suo gesto potesse convertire altri pagani, lo condannò alla decapitazione. 

Dorotea è sempre rappresentata con i fiori. Si dice persino che l’usanza del bouquet di nozze sia un omaggio alle nozze di Dorotea con Cristo. Dorotea si configura quindi come la santa del mondo vegetale, della vita che sboccia e si rinnova. La sua festa è collocata il 6 febbraio.

Ci troviamo quindi di fronte a una teoria di sante, tutte legate alla vita e alla rinascita, e sorvegliate da Maria, la grande madre. Anche il fatto che la maggior parte queste sante venga festeggiata a febbraio non è un caso. Febbraio è il mese delle grandi madri: Brigida, Maria, Agata. È il mese delle donne allattanti, è il mese della februa, la purificazione in preparazione della nuova vita che arriva. Questa piccola campata dedicata al femminile è una sorta di utero primordiale, una grotta dove si intrecciano i motivi vegetali, potente richiamo alla vita. Le quattro sante sono quattro dee, ma anche sibille. In un dipinto all’ingresso della badia, Gemolo è seduto su un cavallo bianco e raffigurato nell’atto di ricollocarsi il capo mozzato. È circonfuso di luce, come un novello dio solare, un novello Apollo. E le sibille sono le sue leggendarie sacerdotesse con il dono della veggenza. Abitano in grotte accanto a sorgenti e corsi d’acqua, in luoghi molto simili all’aspra Valganna. Infine, queste sibille condividono questo spazio primordiale con i quattro profeti, anche loro veggenti, dell’arco contiguo, a cui si è fatto accenno prima. Sono donne e uomini che, secondo la tradizione, annunciarono e testimoniarono il divino.
Terra sacra

Tutto sembra trovare una sua collocazione. La Valganna è terra di grotte e di acque. La grotta è il ventre della terra, sede di un’energia potente e inarrestabile. L’acqua, bene prezioso perché nutre la vita e purifica, è oggetto di antichi culti. La stessa importanza è attribuita alle sorgenti, dove il prezioso elemento vede la luce, dopo essere rimasta nelle viscere della terra: una sorta di rinascita che si ripete all’infinito. Gemolo, con il sangue della decapitazione, ha risacralizzato la fonte nei pressi della badia e ha consegnato un culto primordiale per la vita all’universo cristiano, che lo ha fatto proprio. 
I templi cristiani ora custodiscono gli antichi luoghi di venerazione. La cappella è un utero, casa di terra segreta e sacra, luogo di potere. La badia di Ganna è una sorta di tempio della natura, della sapienza occulta, un luogo di ingresso nei segreti della Madre Terra, un santuario femminino, acquatico tra montagne magiche e sacre.

Claudia Migliari

Bibliografia
Cattabiani, Alfredo
1993 - Santi d’Italia, Rizzoli, Milano
2002 - Lunario, Mondadori, Milano
2008 - Calendario, Mondadori, Milano

Chevalier, Jean - Gheerbrant Alain
2011 - Dizionario dei simboli, RUR Rizzoli, Bologna

Comolli Benigno
1960 - La Badia di San Gemolo in Ganna, in «Rivista della Società Storica Varesina», Varese
1966 - San Gemolo nella tradizione millenaria, in «La Badia di S. Gemolo e la Valganna», Varese

Comolli Roberto, Zanzi Luigi (a cura di)

1999 - Tracce di storia dell’Abbazia di S. Gemolo in Valganna,Nicolini Editore, Gavirate

Dal Lago Veneri, Brunamaria
2014 - Numina rustica, Edizioni Alphabeta Verlag, Merano

Dallaj, Arnalda
1997 - Orazione e pittura tra «propaganda» e devozione al tempo
di Sisto IV: il caso della Madonna della misericordia di Ganna, in «Revue Mabillon»

Frecchiami Mario
1960 - La Cappella di San Gemolo ed il suo restauro, in «Rivista della Società Storica Varesina», Varese

Panzarino, Rocco - Angelini, Marzia
2012 - Santi & simboli, Edizioni Dehoniane Bologna, Bologna

CLAUDIA MIGLIARI
La storia di Claudia inizia in un giorno di fine aprile del 1980. Il luogo dove è nata e cresciuta, il lago di Lugano, terra di confine e di contrasti, dove l'asprezza e il rigore delle montagne cedono il passo alla dolcezza mediterranea dei laghi, forma il suo carattere poliedrico. Da sempre appassionata di tutto ciò che la può portare in epoche lontane, si butta a capofitto sul disegno, sulla musica, sulla storia. Nel 1999 inizia la sua avventura come guida turistica presso una villa rinascimentale, dove ancora collabora. L'attività la coinvolge tanto, che nel 2005 consegue la certificazione ufficiale di guida turistica. Nel frattempo, conclude i suoi studi di lingue (e, naturalmente, storia delle lingue) e inizia a lavorare come traduttore, sua attuale professione. Ha al suo attivo la traduzione di quasi un centinaio di libri sugli argomenti più disparati, dalle fiabe e dalla narrativa per ragazzi, fino a libri di scultura su pietra e su legno e sulla storia della smaltatura dei metalli. Da marzo 2015, Claudia è segretario della Pro Loco del suo paese, Bisuschio, e continua le sue attività artistiche, prosegue con lo studio del canto lirico e... è sempre in giro per chiese o luoghi storici, purché siano antecedenti all'Ottocento! Per concludere, Claudia ha una fluente chioma ribelle e rossa, vive sola con un gatto nero, ha la casa piena di libri e ama studiare e conoscere i principi curativi delle erbe. Che cosa avrebbe pensato di lei un inquisitore?



La famiglia Ovitz, i nani di Mengele

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19 maggio 1944. È sera ad Auschwitz. Un treno carico con 3500 disperati, per lo più ebrei, si ferma in stazione, per permettere al carico umano, in viaggio da giorni, di scendere dal convoglio per affrontare il proprio destino. Paura, stanchezza, incertezza. I sentimenti di quegli sconosciuti si mescolano alle urla dei soldati che, senza emozione, impartiscono ordini a chi non riesce a comprenderli.  Fra tutti un gruppo si distingue per le sue caratteristiche, che saltano subito all'occhio di chi li osserva. Uno degli ufficiali sa che quel carico è speciale per qualcuno, che sicuramente è merce preziosa che non può essere mandata subito ai forni. “Können sie bitte den Arzt rufen!”, “Chiamate il medico!”, urla a gran voce.  Uno dei soldati si allontana dal piazzale della stazione è va all'alloggio dove dorme il medico che sta cercando. Entra di corsa, percorre il corridoio che porta alla sua stanza. Si ferma, respira a fondo e dopo aver cercato dentro di sé il coraggio, bussa alla porta. Qualche istante di silenzio e una voce all'interno della camera lo invita ad attendere. La porta si apre e il soldato si trova di fronte al dottor Josef Mengele, l’angelo della morte, che dal maggio 1943 presta servizio ad Auschwitz presso il blocco n. 10. 
Pochi minuti dopo il medico e il militare sono nuovamente sul piazzale antistante la stazione. I fari illuminano le persone ammassate, disorientate, i soldati li tengono uniti con l’aiuto di grossi cani lupo, nervosi, abbaianti, minacciosi. Tutti si stringono gli uni agli altri. Tutti tranne un piccolo gruppo. Uno di loro appena sceso dal treno, comincia a distribuire biglietti da visita autografati: sono i Lilliput Troupe, in tutto 10 componenti, tutti fratelli, che da oltre un decennio girano per l’Europa, cantando, ballando e recitando. Solo 7 di loro si esibiscono, 5 maschi e 2 femmine, affetti da nanismo. I 3 di statura media lavorano dietro le quinte, scrivendo i testi, preparando i costumi e come manager per nuovi spettacoli. Tutto va bene fino a che il nazismo si diffonde in Europa e scoppia la guerra. I fratelli Ovitz sono nati nel villaggio di Rozavlea, nel distretto di Maramures, in Transilvania, regione della Romania. Il loro padre, un rabbino e musicista di nome Shimson Eizik Ovitz, era affetto da pseudoacondroplasia, una forma di nanismo. Dal primo matrimonio nacquero Rozika, nel 1886, e Franzika, nel 1889. Entrambe affette da nanismo.
Rimasto vedovo prematuramente, in seconde nozze sposò Batia Bertha Husz, ed ebbe 8 figli: Avram nel 1903, affetto da nanismo, Freida nel 1905, affetta da nanismo, Sarah nel 1907, di altezza normale, Micki nel 1909, affetto da nanismo, Leah nel 1911, di altezza normale, Elizabeth nel 1914, affetta da nanismo, Arie nel 1917, di altezza normale e l’ultima, la memoria storica dei fatti che vi sto raccontando, Piroska o “Perla” nel 1921, affetta da nanismo. 
La soddisfazione nello sguardo dell’angelo della morte è visibile a tutti. Il dottore da disposizioni perché vengano prelevati dal gruppo e condotti al blocco 10. Il resto delle persone scese dal convoglio saranno destinate immediatamente alle camere a gas, ne saranno risparmiati, momentaneamente perché adatti al lavoro, soltanto 400. 
La loro sorte all’interno del campo da quel momento è nelle mani di Mengele, che per loro ha in mente un piano ben preciso. La famiglia Ovitz è perfetta per diventare una famiglia cavia negli esperimenti del dottore inerenti l’eugenetica. Il primo colloquio con gli Ovitz è per lui esaltante. Alla fine esclama compiaciuto: “Ho lavoro per i prossimi venti anni”. 
La maggior parte delle testimonianze di cosa è successo in quei mesi di prigionia, ci arrivano dalla più giovane fra i fratelli Ovitz. Perla all'epoca aveva solo 23 anni.
La salvezza di quella sera, il mancato viaggio verso i forni crematori, secondo quanto stabilito dal serrato programma Aktion T4, è solo frutto della curiosità di Mengele, che li vuole tenere in vita per i suoi scopi, per capire come mai alla stessa famiglia appartenessero soggetti affetti da nanismo e altri no. Altri ebrei del loro stesso paese dichiarano di essere loro parenti, e per questo sono trasferiti con loro. Gli Ovitz mantengono il segreto e così tutti insieme vengono condotti in baracche speciali, gli vengono dati vestiti, non sono rasati, possono avere dei vasini, tolti ai bambini assassinati, in cui fare i bisogni senza andare nelle latrine comuni, hanno il necessario per lavarsi, cibo più abbondante degli altri prigionieri e ogni tanto una zuppa di pane. Godono di privilegi notevoli. La contropartita a questo” benessere” è davvero pesante: torture, prelievi di sangue estenuanti, fino a provocare loro svenimenti e vomito, prelievi di midollo, raggi X, acqua bollente e poi gelata nelle orecchie, denti sani e capelli strappati, sostanze come il fenolo iniettate nell'utero delle componenti femminili, continue misurazioni fra nani e non.
Lo stato di terrore in cui vivono è costante. Un giorno Mengele decide, per terrorizzarli ulteriormente, di far uccidere un papà e un figlio affetti da acondroplasia, forma di nanismo che colpisce solo gli arti che crescono notevolmente meno rispetto al resto del corpo, arrivati al campo circa tre mesi dopo di loro. Ordina di far bollire i cadaveri, per poter ripulire le ossa dalla carne ed esporle al museo di Berlino. Avvisa gli Ovitz che andranno con lui. Fa truccare le donne, sistemare gli uomini. Non ha nessuna intenzione di eliminarli. Infatti a Berlino li espone nudi a un convegno di ufficiali nazisti, esibendoli come trofei. 
Si instaura fra la famiglia e il dottore un rapporto fatto di crudeltà e gentilezza. Passano i mesi, 7 in totale, durante i quali, nonostante le sofferenze indicibili i componenti della famiglia Ovitz si salvano. Solo Arie, di altezza normale, muore nel 1944, in seguito a un tentativo di fuga. 
Gli Ovitz sono rimasti sempre uniti, non hanno mai smesso di sostenersi. Hanno sempre ricordato le ultime parole pronunciate dalla loro mamma in punto di morte: “State insieme. Sempre”. 
Il 27 gennaio 1945 l’armata russa entra ad Auschwitz. Inizia la liberazione e la ritirata delle truppe tedesche che dietro di loro lasciano solo distruzione e morte. Gli Ovitz sopravvivono ancora una volta. Usciti dal campo, uniti, camminano per 7 mesi, per tornare al loro villaggio in Transilvania. Arrivati li, trovano la loro casa saccheggiata, semi distrutta. Quattro anni dopo partono per il nascente stato di Israele, dove ricominciano ad esibirsi, fino al 1955, anno del loro ritiro dalle scene, Successivamente acquistano un cinema. 
Rimangono lì per tutta la vita. Gli uomini della famiglia si sposano ed hanno figli, mentre le donne, a causa degli esperimenti, restano sterili. L’ultima ad andarsene è Perla, nel 2001. Ricordando le fiamme che salivano dai forni crematori era solita dire: “Non lo scorderò mai. Ogni fiamma sembrava un essere umano.” Grazie a lei, al suo coraggio nel rivivere ancora quei tragici giorni, ai suoi ricordi, sappiamo l’incredibile storia della famiglia Ovitz, 10 fratelli indivisibili, che neppure il diavolo nazista ha saputo separare.

Rosella Reali

Bibliografia
Koren, Yehuda; Negev, Eilat (2004). In Our Hearts We Were Giants: The Remarkable Story of the Lilliput Troupe. New York: Carroll & Graf.

The Ovitz Family on the United States Holocaust Memorial Museum website, resources.ushmm.org

Leroi, Armand Marie (2003). Mutants: On the Form, Varieties and Errors of the Human Body. Harper Perennial

The seven dwarfs of Auschwitz, History Documentary hosted by Warwick Davis, published by ITV broadcasted as part of ITV Perspectives series in 2013 - English narration

ROSELLA REALI
Sono nata nel marzo del 1971 a Domodossola, attualmente provincia del VCO. Mi piace viaggiare, adoro la natura e gli animali. L'Ossola è il solo posto che posso chiamare casa. Mi piace cucinare e leggere gialli. Solo solare, sorrido sempre e guardo il mondo con gli occhi curiosi tipici dei bambini. Adoro i vecchi film anni '50 e la bicicletta è parte di me, non me ne separo mai. Da grande aprirò un agriturismo dove coltiverò l'orto e alleverò animali. 
Chi mi aiuterà? Ovviamente gli altri viaggiatori.
Questa avventura con i viaggiatori ignoranti? Un viaggio che spero non finisca mai...

La strage della fonderia

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L'eccidio delle Fonderie Riunite di Modena fu una strage che avvenne il 9 gennaio del 1950. Quel giorno, per impedire l'occupazione della fabbrica da parte dei manifestanti, gli agenti delle forze dell'ordine spararono sulla folla uccidendo 6 persone e ferendone oltre 200. Non è possibile comprendere questo evento senza calarci nell'atmosfera che si viveva, a Modena come in altre città, nei mesi successivi la fine del secondo conflitto mondiale.
Tra il 1947 e la fine del 1949 a Modena furono arrestati quasi 500 persone per vicende legate alla lotta di liberazione. Nello stesso periodo oltre 3000 braccianti furono denunciati per l'occupazione delle terre. L'atmosfera si riscaldò ulteriormente quando gli industriali decisero di aumentare la produzione, al fine di esportare i beni, riducendo il salario degli operai. Le manifestazioni di protesta ebbero come epilogo il licenziamento dei lavoratori legati ai sindacati e ai partiti della sinistra italiana. Gli industriali, per indebolire il potere dei sindacati, introdussero una elevata disparità salariale, legando le retribuzioni all'effettiva produzione. Nel gennaio del 1949 si svolse, sempre a Modena, una manifestazione contro le serrate delle imprese. Quando il segretario nazionale della Cgil finì il discorso si scatenò un violentissimo scontro tra manifestanti e forze dell'ordine. L'ultimo tassello che dobbiamo inserire è rappresentato dalla massiccia presenza della Polizia di Stato ai cancelli delle fabbriche. Gli industriali, per evitare picchetti, chiesero la collaborazione delle forze dell'ordine, che dovettero intervenire oltre 180 volte in due anni.
In questo ambiente, decisamente surriscaldato, avvenne la strage delle Fonderie Riunite di Modena.
Alla fine del 1949 il proprietario dell'azienda, Adolfo Orsi, decise di licenziare tutti i suoi dipendenti, oltre 500, per poter riassumere solo le persone che non erano iscritte ai sindacati, o ai partiti di sinistra. Orsi decise inoltre di effettuare una serrata di un mese, di abolire ogni bacheca sindacale o partitica all'interno dell'azienda, di discriminare le donne chiudendo le stanze dove le operaie potevano allattare i figli ed addebitare il costo della mensa in busta paga. I sindacati non poterono restare inermi e decisero uno sciopero generale per il 9 gennaio del 1950. La Questura di Modena decise di negare l'utilizzo di qualsiasi piazza ai manifestanti.
Ora iniziano i problemi di ricostruzione della vicenda, poiché le fonti sono discordanti su alcuni punti. Sicuramente la delegazione parlamentare, insieme a quella sindacale, ricevuta dal Questore della città, non ottenne l'utilizzo della piazza per la manifestazione. Nei giorni precedenti quel terribile 9 gennaio oltre 1500 rappresentanti delle forze dell'ordine confluirono in città per presidiare le Fonderie Riunite. Alcuni di essi si appostarono sul tetto della fabbrica per gestire la meglio l'ordine pubblico. Malgrado il divieto di utilizzare la piazza, gli operai decisero di effettuare comunque lo sciopero.
Lottavano per un lavoro, per sé stessi, per le proprie famiglie. Lottavano per dare un futuro diverso ai propri figli. La mattina del 9 gennaio 1950 spuntarono le mitragliatrici dal tetto della fabbrica. I dimostranti non occuparono la linea ferroviaria che tagliava in due la città, separando la fabbrica dal centro della città. La ferrovia divenne il limite invalicabile, quello da non oltrepassare per non scatenare la reazione delle forze dell'ordine. Verso le 10 del mattino un esiguo numero di operai decise di avvicinarsi ai cancelli della fabbrica.
All'improvviso un carabiniere sparò un colpo di pistola all'indirizzo di un operaio, Angelo Appiani, che morì sul colpo. Seguendo l'esempio del rappresentante delle forze dell'ordine, i colleghi appostati sul tetto aprirono il fuoco con le mitragliatrici in direzione dei lavoratori che si trovavano nelle vicinanze del passaggio a livello chiuso, poiché si attendeva il transito di un treno. Due persone morirono sul colpo, Arturo Malagoli e Arturo Chiappelli. Molti operai riportarono ferite. Secondo alcune ricostruzioni si assistette a comportamenti criminali da parte dei rappresentati dello stato. In via Santa Caterina un operaio fu circondato dai carabinieri. Roberto Rovatti, questo era il suo nome, fu ucciso con i calci dei fucili. In via Ciro Menotti si presentò un blindato che aprì il fuoco sulla folla. Cadde un lavoratore, Ennio Garagnani il suo nome. Verso mezzogiorno un altro lavoratore, Renzo Bersani, fu ucciso dai carabinieri mentre attraversava a piedi l'incrocio posto alla fine di via Ciro Menotti. Alla fine della giornata si contarono 6 morti e moltissimi feriti: secondo le cifre ufficiali furono 15, secondo i manifestanti oltre 200.
Come si spiega questa incredibile discordanza nei numeri?
Facile presumere che molti operai feriti non si presentarono negli ospedali per paura di essere arrestati e successivamente discriminati nelle rispettive fabbriche.
Le reazioni da parte degli organi di stampa furono durissime. L'Avanti! Titolò “Affoga nel sangue il governo del 18 aprile”, scrivendo che l'eccidio delle Fonderie Riunite di Modena era il più brutale massacro dalla fine della guerra.
L'Unità titolò “Tutta l'Italia si leva contro il nuovo eccidio”.
La piazza rispose come doveva. A Roma accorsero oltre 100.000 manifestanti per confortare i colleghi di Modena. In tutte le grandi città italiane furono organizzate proteste e scioperi. Anche la politica non si risparmiò. La deputata modenese Gina Borellini lanciò le fotografie degli operai morti in faccia al presidente del Consiglio Alcide De Gasperi. Il gesto della Borellini fu compiuto con grande fatica poiché era amputata ad una gamba. Possiamo immaginare la forza con la quale discese dal suo banco per affacciarsi a quelli riservati ai rappresentanti del Governo in carica.
Una voce fuori dal coro, come spesso accadeva, fu quella del padre di Peppone e Don Camillo: Giovannino Guareschi. Sul giornale Il Candido del 22 gennaio del 1950 sostenne la tesi del complotto comunista con le seguenti parole: “Il concentramento rapido di grandi masse reclutate nelle campagne da parte dei trinariciuti ai quali faceva comodo qualche morto per alimentare il già innato odio del proletariato contro le Forze dell'Ordine e quindi contro il Governo”.
Guareschi si spinse oltre scrivendo che “pur essendo la Polizia perfettamente al corrente che i rossi preparavano un'azione in grande stile, quindicimila o ventimila trinariciuti hanno potuto tranquillamente radunarsi e compiere la loro azione di forza”. Rincarò ulteriormente la dose: “L’impeto col quale la massa si è lanciata contro l'esiguo presidio di polizia è stato selvaggio e se i tutori dell’ordine avessero perso la testa (come qualche giornalista indipendente purtroppo ha scritto) ne sarebbe uscito uno spaventoso macello. Gli uomini della Polizia, dopo aver tentato invano di fermare la marcia della mandria scatenata, aggrediti e percossi, per non essere sopraffatti e maciullati hanno dovuto sparare. La colpa è di chi ha organizzato la Marcia su Modena e di chi non ha avuto il buonsenso di stroncarla prima che le colonne provenienti dai paesi arrivassero a riunirsi in città”.
Il termine trinariciuto era un epiteto spregiativo coniato da Guareschi per gli iscritti al partito comunista a causa della loro credulità e sudditanza nei confronti delle direttive del partito. Essendo diversi, quasi di un altro mondo, li raffigurò con tre narici.
Le comunicazioni ufficiali del Ministero parlarono di un “assalto ai reparti di Polizia” e di “reiterata disobbedienza all'ordine legittimamente impartito di disperdersi”.
Il giorno 11 gennaio si svolsero i solenni funerali delle vittime dell'eccidio alla presenza di oltre 300.000 persone.
Nel processo tutti e 34 i lavoratori arrestati furono assolti con formula piena per non aver commesso il fatto. I funzionari di Polizia furono condannati per l'uso troppo frettoloso delle armi. Lo Stato risarcì le famiglie delle vittime di Modena.
Pochi giorni dopo l'eccidio delle Fonderie Riunite, in prefettura, fu trovato l'accordo per la riapertura della fabbrica. Nessun operaio fu licenziato. Unica condizione posta dall'azienda fu quella della gradualità nella riammissione al lavoro di tutti i dipendenti.
Il popolo chiedeva lavoro.
Lo stato rispose con il piombo.

Fabio Casalini

Bibliografia 
La Gazzetta di Modena, Modena: l’eccidio alle Fonderie: un colpo di pistola poi la mitragliatrice sulla folla, 8 gennaio 2018 

La Gazzetta di Modena, Un film racconta Gina Borellini donna coraggiosa, 19 febbraio 2018 

Gianmarco Calore, Modena 9 gennaio 1950: l'eccidio delle Fonderie Riunite, su Polizia nella storia, 31 maggio del 2015 

Lorenzo Bertucelli, All'alba della repubblica. Modena 9 gennaio 1950. L'eccidio delle Fonderie Riunite, Edizioni Unicopli, 2012 

Lorenzo Bertucelli, Sindacato e conflitto operaio. Le Fonderie Riunite di Modena e il 9 gennaio 1950, in Rassegna di storia contemporanea, nº2, 1996 

Eliseo Ferrari, Le Fonderie Riunite di Modena, Roma, Editrice Sindacale Italiana, 1974 

Eliseo Ferrari, Un filo rosso per il lavoro: da quel 9 gennaio 1950, 2ª ed., Modena, il Fiorino, 1997 

Francesco Tinelli, Era il vento, non era la folla: Eccidio di Modena, 9 gennaio 1950, Bébert Edizioni, 2015

Consiglio l'ascolto della canzone "La strage delle fonderie" del gruppo musicale Modena City Ramblers, cui va il mio personale ringraziamento per aver ricordato questo triste evento.

FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.

Unità 731 - l'orrore dei campi di concentramento in Cina

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Molte persone sono convinte di sapere tutto della Seconda Guerra Mondiale. Credono che nulla posso essere raccontato o che sia meglio in certi casi non ricordare cosa accadde.
Io sono fermamente convinta che abbiamo ancora molte lacune da colmare, molti episodi da portare all’attenzione di chi ha voglia di essere informato.
Durante una ricerca inerente una vicenda avvenuta ad Auschwitz nel 1944, mi sono imbattuta in un appunto che alla mia memoria non diceva nulla. Unità 731.  Per curiosità ho iniziato a cercare informazioni, a leggere quello che potevo, per capire chi e cosa si celasse dietro questa sigla.
Spesso parlando della Seconda Guerra, ricordiamo solo nazismo e fascismo, cioè Germania e Italia. Dimentichiamo il terzo grande alleato, il Giappone che non fu certo meno crudele dei propri alleati. Di quelli minori avremo modo di occuparci in altre occasioni, per dare un quadro completo dell’Asse Roma-Berlino-Tokyo.
Ma partiamo dai fatti che avvennero prima dello scoppio della guerra del 1939.
Il 19 settembre 1931 ebbe inizio l’invasione della Manciuria, vasta regione della Cina nord orientale, da parte dell’Armata del Kwantung, importante corpo dell’Esercito Imperiale Giapponese. La crisi fra le due nazioni si risolse momentaneamente con la tregua del 27 febbraio 1932, senza grandi scontri, quando i giapponesi decisero arbitrariamente di insediare il governo fantoccio di Manchukuo nelle zone occupate. La situazione rimase pressoché invariata fino al 7 luglio 1937, quando le truppe giapponesi decisero, inscenando un finto attacco da parte dell’esercito cinese presso il Ponte di Marco Polo, di riprendere l’invasione della Cina, dando il via al conflitto sino-giapponese, che si concluderà solo nel 1945.
Una volta preso possesso del territorio cinese, il governo imperiale giapponese diede  il nulla osta per la creazione del Laboratorio di Sperimentazione dell'esercito per la Prevenzione Epidemica, guidato dal generale Shirō Ishii. Con un gruppo di uomini specializzati, fu costruito il  primo campo di prigionia, Zhong Ma, situato nei pressi del villaggio di Bei-inho, a 100 chilometri al sud di Harbin, adiacente alla ferrovia della Manciuria meridionale, punto strategico per la comunicazione con tutta la regione. L’edificio principale del campo era conosciuto come la Fortezza Zhongma. L’unità di ricerca che qui operava prese il nome di Unità Togo, che aveva il compito di coordinare gli studi biologici e chimici.
Nel 1935, la fuga di un gruppo di prigionieri cambiò drasticamente l’equilibrio che si era instaurato.  Il generale decise di spostare tutta la guarnigione in una zona più remota e sicura. Fu così che a partire dal 1936 e fino al 1945 divenne operativo il campo di Ping Fang, situato a 24 km a nord-est della città cinese di Harbin. Successivamente l’Unità Togo fu divisa in due sezioni, l’Unità Ishii e l’Unità Wakamatsu, con il comando centrale a Hsinking.
Nell'agosto del 1940 le diverse sezioni operative furono raggruppate nel Ministero della prevenzione epidemica e purificazione dell'acqua dell'esercito Guandong, più semplicemente conosciuta come Unità 731, agli ordini diretti del generale Shirō Ishii, medico esperto in batteriologia. Lo scopo ufficiale del gruppo era quello di ideare nuovi sistemi per la purificazione dell’acqua, ma in realtà, in via del tutto ufficiosa, l’incarico ricevuto riguardava lo studio e la sperimentazione di armi batteriologiche e biologiche, al fine di essere pronti e ben equipaggiati per una guerra batteriologica.
L’Unità era costituita da otto divisioni interne: la n° 1 – per la ricerca in materia di peste bubbonicacolera, febbre tifoidetubercolosi, con l’autorizzazione speciale ad impiegare soggetti umani per la ricerca, la n° 2 -  per lo sviluppo della guerra biologica da applicare sul campo, con particolare attenzione per la produzione di strumenti  di diffusione di mezzi e parassiti per diffondere le malattie, la n° 3 –  per la produzione di munizioni contenenti materiale biologico, la n° 4 – per la produzione di agenti patogeni, la n° 5 – per il training del personale dell’unità, le n° 6 –7 – 8 – unità logistiche, mediche e amministrative, che mandavano avanti il campo.
La vera attività dell’Unità 731 doveva rimanere segreta, in quanto violava il protocollo di Ginevra del 1925, per altro ratificato dal Giappone solo nel 1970, anno in cui le suddette armi furono definitivamente messe al bando. Gli anni di maggiore operosità furono quelli fra il 1942 e 1945. Uno dei progetti dell’unità prendeva il nome di codice “Maruta”. Prevedeva appunto l’impiego di esseri umani per la sperimentazione, indicati cinicamente dal personale medico come “pezzi di legno”, in riferimento a come veniva ufficialmente chiamato il campo di fronte agli occhi del mondo, la “segheria”.
Migliaia di prigionieri, il numero esatto non fu facile stabilirlo, soprattutto cinesi, uomini, donne e bambini, finirono nel campo di Ping Fang. Ad essi si unirono anche mongoli, coreani, russi, alcuni inglesi e americani catturati durante il conflitto mondiale, che nel frattempo era scoppiato in Europa per poi diffondersi in tutto il mondo. Il bacino da cui attingere cavie umane era continuamente rifornito.
Secondo alcune fonti, le vittime dell’unità furono fra le 3000 e le 12.000, altre riportano fino a 200.000 individui.
Il generale Shirō Ishii era stato investito di un duplice compito ben preciso: sperimentare nuovi armi batteriologiche di offesa e trovare cure efficaci per i soldati giapponesi contagiati o feriti in battaglia.
La composizione completa dell’unità fu rivelata solo nel 1984, quando il mondo casualmente venne a conoscenza della sua esistenza e della reale natura delle sue sperimentazioni.
La base dell’Unità 731 occupava 6 km², con 150 edifici attivi. Le costruzioni furono realizzate con i più moderni (per l’epoca) sistemi di sicurezza e fortificazione, in modo che anche in caso di bombardamento nemico, sarebbe stato molto difficile abbatterli. Ancora oggi alcuni stabili sono in piedi, adibiti a musei e aperti al pubblico, per ricordare l’orrore di quei giorni.
Alcuni fabbricati erano utilizzati per la conservazione di contenitori di pulci infettate con la peste bubbonica e poi congelate. Ne sono stati rinvenuti, alla fine del conflitto, fino a 4500 per ciascun edificio. Inoltre l’Unità beneficiava, a pieno regime, di 6 caldaie di considerevoli dimensioni per la produzione di sostanze chimiche di vario genere.
Durante questi lunghi anni di ricerca, in diverse zone del nord-est della Cina, furono immagazzinate di nascosto una quantità imprecisata di armi biologiche e chimiche, ritrovate poi a distanza di 50 anni e ancora letali.  
La maggior parte degli esperimenti consisteva nell'impiego su cavie umane di agenti patogeni come quelli della peste bubbonica, del colera, del vaiolo o del botulismo, per studiarne gli effetti ed eventuali rimedi sui soggetti ospitanti. Grazie a questi studi e ad un’idea del generale Shirō Ishii, nel 1938 vennero ideate la prima bomba bacillare defoliante e la prima bomba di parassiti, quest’ultima usata per diffondere la peste. I soldati giapponesi le usarono per contaminare coltivazioni, serbatoi d’acqua e sorgenti nelle aree di loro interesse.
Numerosi altri furono gli esperimenti compiuti per testare il grado di resistenza delle cavie umane, sempre con lo scopo di trovare sistemi di cura più efficienti e veloci per i soldati feriti in guerra.
Gli interventi sui “pezzi di legno”, saldamente legati mani e piedi a tavoli operatori, erano eseguiti senza l’impiego di anestesia, ritenuta causa di alterazione dei risultati o di accelerazione della decomposizione dei tessuti. Le operazioni avevano lo scopo di asportare organi di soggetti infettati da virus di vario genere, per verificarne gli effetti e lo sviluppo, nonché la degenerazione cellulare dei tessuti. I soggetti erano rigorosamente vivi e potevano essere indifferentemente uomini, donne o bambini. Anche le donne gravide erano sottoposte ad interventi di asportazione e spesso erano state fecondate con il solo scopo di studiare gli effetti degli agenti patogeni sui feti.
La ricerca di soluzioni mediche per accelerare la guarigione dei soldati, spinse i medici, anche se non li ritengo degli di tale appellativo, a compiere esperimenti di congelamento, scongelamento e amputazione degli arti. In casi estremi, le parti in cancrena non venivano asportate, con lo scopo di capire gli effetti che questa scelta aveva sul resto del corpo ancora sano e di rilevare le tempistiche di decadimento dei tessuti, che gradualmente avrebbero condotto il soggetto alla morte.
L’impiego di bombe deflagranti o batteriologiche al fronte era prima testato nel campo: venivano fatte detonare vicino a soggetti legati a pali, per capirne la dirompenza. La stessa cosa era fatta prima di impiegare i lanciafiamme. Furono ampiamente studiati anche le conseguenze degenerative di malattie veneree quali gonorrea e sifilide, molto diffuse durante il periodo bellico. Si cercò di capire cosa sarebbe successo al soggetto infettato in assenza di trattamento farmacologico. 
Oltre alla sperimentazione al campo, l’Unità 731 e le altre unità affiliate, come la 1644 e la 100, operavano anche all'esterno, diffondendo su vari obiettivi inermi, vestiti e alimenti contaminati da agenti infettanti che a lungo andare si stima causarono migliaia di decessi. 
Due episodi rilevanti avvennero nel 1940: il 4 ottobre sulla cittadina di Chuhsien nella provincia dello Shantung, e il 29 ottobre su Ningbo, nella provincia dello Chechiang. Un aereo carico con oltre 120 kg di grano contaminato, 70 kg con batteri del tifo e 50 con quelli del colera, insieme a pulci infettate con la peste bubbonica, disperse il proprio carico di morte sui due villaggi. Nello stesso periodo furono avvelenati numerosi pozzi d’acqua. La Cina presentò immediatamente a Londra, tramite il proprio ambasciatore, un atto ufficiale di protesta al Governo Britannico e alla Commissione per la guerra nel Pacifico. La protesta non fu raccolta. Il 4 novembre 1941 un aereo dell'Unità 731 scaricò nel cielo della cittadina di Changde, nella provincia del Hunan, 36 kg di pulci infette, e grano, riso e cotone intrisi di batteri della peste. Ben presto la popolazione iniziò a morire.
Nel 1942 seguì un altro atto di denuncia tramite il Rapporto Qian, che documentava i numerosi attacchi biologici perpetrati sulla popolazione dai giapponesi. Il rapporto, tradotto in diverse lingue e inviato agli organi di stampa, rimase nuovamente inascoltato. L’opinione pubblica riteneva infondate tali accuse.
Nello stesso anno fu impiegata per la prima volta l’antrace nella città di Fuxing, al confine tra le province delle Zhejiang e Jiangxi. Per infettare la popolazione in questo caso furono utilizzati uccelli vivi cosparsi di antrace. Successivamente fu la volta della provincia dello Yunnan. Furono colpite le città di Chongshan, Baoshan, Shangrao. A partire dalla metà del 1942, le bombe ideate dal generale medico, dette bombe Yagi, divennero operative sul campo, causando un numero imprecisato di morti. Nel 1943 toccò alla provincia dello Shandong, poi alle province dell'Hebei e dell'Henan. Qualsiasi mezzo era ritenuto idoneo per diffondere il contagio, anche l’impiego di vaccinazioni false.
Un’altra malattia oggetto di studio fu la tularemia o febbre dei conigli. Si infettarono appositamente dei soggetti, con lo scopo di provare nuovi farmaci che si riteneva potessero essere efficaci.
La resistenza degli individui alle privazioni o alle condizioni estreme era testata nei modi più disparati: alcuni soggetti erano appesi a testa in giù fino al sopraggiungere dell’asfissia, altri erano privati di cibo e acqua, altri ancora erano rinchiusi tempo in camere depressurizzate fino al sopraggiungere della morte. Nei corpi delle cavie umane erano iniettate le più disparate sostanze: urina di cavallo, fenolo, veleni, sangue di maiale, sostanze chimiche, acqua marina al posto di soluzione salina.
Di grande interesse era la differenza fra ustioni da freddo e da caldo, oppure la resistenza di un individuo all'interno di una centrifuga.
Potrei proseguire ancora l’elenco delle atrocità commesse dall'Unità 731, non meno gravi di quelle commesse dai nazisti nei lager europei.
Il 9 agosto 1945, in seguito all'invasione della Manciuria da parte dell’armata Russa, l’Unità fu smantellata. Alcuni edifici furono dati alle fiamme, insieme a numerosi documenti. Sul territorio vennero liberati migliaia di ratti infettati dalla peste, che continuarono la diffusione del virus. Le cavie umane sopravvissute furono fucilate oppure uccise con iniezioni letali, per non lasciare scomodi testimoni. Nell'agosto del 1945 il personale medico dell’Unità fuggì in Giappone.
Nel 1943 anche gli Stati Uniti iniziarono un programma di ricerca sulle armi chimiche e batteriologiche. Quando la guerra finì, venendo a conoscenza degli studi dei giapponesi, gli americani decisero, nonostante i crimini da loro commessi, di ignorarli e di arruolare i medici che avevano lavorato nell'Unità 731, per colmare le lacune che la loro sperimentazione ancora presentava. Questo permise a spietati e sadici assassini di rimanere impuniti, ritornando alla vita civile e potendo ricoprire ruoli prestigiosi in aziende farmaceutiche o chimiche, o nell'ambito politico. 
Il generale Ishii nei primi mesi dopo la fine del conflitto non fu rintracciato dagli alleati. Era molto importante riuscire a trovarlo, per avere quelle informazioni che erano andate distrutte.
Fu individuato, arrestato e interrogato dal 17 gennaio al 25 febbraio 1946, dal Colonnello Thompson degli Stati Uniti d’America. Durante quei giorni il generale si assunse tutta la responsabilità dell’operato dell’Unità 731, assolvendo da qualsiasi accusa l’imperatore Hiroito.
I programmi di ricerca e i risultati ottenuti furono resi segreti. Il 6 maggio 1947, il generale Mac Arthur inviò al Comitato di Coordinamento del Dipartimento di Stato, della Marina e della Difesa, una richiesta ufficiale di immunità per il generale Shirō Ishii e per tutti i suoi collaboratori. In cambio avrebbero fornito tutte le informazioni richieste in materia batteriologica. Il 13 marzo 1948 il ministero della Difesa USA rispose al generale Mac Arthur rilasciando l’autorizzazione all'immunità per tutto lo staff medico dell’Unità 731. Solo 30 membri furono portati davanti al Tribunale di Tokyo, per i crimini di guerra l'11 marzo 1948. 23 di loro furono ritenuti colpevoli, 5 condannati a morte, ma nessuna sentenza fu eseguita. Nel 1958 tutti i condannati furono liberati. 
Dal 25 al 31 dicembre del 1949 furono portati alla sbarra, a Khabarovsk, in Unione Sovietica, nella Siberia orientale, altri 12 membri delle varie Unità mediche, nell'unica inchiesta giudiziaria intentata contro i crimini commessi contro l’umanità. Le prove raccolte e presentate al processo e si basavano su diciotto volumi che raccoglievano interviste e testimonianze di soldati giapponesi collegati alle varie unità di sperimentazione di armi di distruzione di massa. Tutti gli imputati confessarono i reati a loro ascritti e di aver utilizzato negli esperimenti uomini, donne e bambini, anche sovietici e americani. Gli incriminati rivolsero delle accuse pesanti anche all'Imperatore, sostenendo fermamente che fosse a conoscenza della vera attività delle Unità mediche e che a suo tempo aveva dato il benestare all'inizio del programma di guerra.
L’impatto mediatico del processo fu minimo, ma la stampa sovietica diede il molto risalto al fatto che Shirō Ishii e molti suoi colleghi fossero al sicuro e liberi, in Giappone o negli Stati Uniti.
Gli imputati furono condannati a pene detentive che andavano da un minimo di 2 anni ad un massimo di 25. Nessuno fu condannato a morte, malgrado la natura dei crimini e sebbene la legge sovietica prevedesse per quel genere di reati la pena capitale. Nel 1956, anno della morte di Stalin, il gruppo fu tutto rimpatriato. Ancora una volta le informazioni in possesso di questi criminali ebbero un peso determinate sulla vicenda.
Solo il generale Shirō Ishii non andò a ricoprire cariche importanti, ma si ritirò a vivere nella sua casa nella prefettura di Chiba, nelle vicinanze di Tokyo. Morì a 67 anni, libero e tranquillo, di cancro alla gola.
Ancora una volta, come in Europa, la giustizia non era stata applicata. Interessi politici ed economici prevalsero in entrambi i casi, sui milioni di vittime morte per mani di folli che si spacciavano per medici.

Rosella Reali

Bibliografia
Rosanna Carne, Unità 731, Sassari - Roma, Edizioni Igs

Sheldon H. Harris, Factories of Death: Japanese Biological Warfare, 1932-1945, and the American Cover-Up, Revised edition. New York and London: Routledge, 2002. xxx + 361 pp.

Paul Lewis, Sheldon Harris, 74, World War II Historian, Is Dead, in The New York Times, September 4, 2002

Herbert P. Bix, Hirohito and the Making of Modern Japan, New York: Harper Collins, 2001.

ROSELLA REALI
Sono nata nel marzo del 1971 a Domodossola, attualmente provincia del VCO. Mi piace viaggiare, adoro la natura e gli animali. L'Ossola è il solo posto che posso chiamare casa. Mi piace cucinare e leggere gialli. Solo solare, sorrido sempre e guardo il mondo con gli occhi curiosi tipici dei bambini. Adoro i vecchi film anni '50 e la bicicletta è parte di me, non me ne separo mai. Da grande aprirò un agriturismo dove coltiverò l'orto e alleverò animali. 
Chi mi aiuterà? Ovviamente gli altri viaggiatori.
Questa avventura con i viaggiatori ignoranti? Un viaggio che spero non finisca mai...

Caravaggio, ritratto di prostituta

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Germania, 1940, l'obiettivo di Hitler era quello di difendere le principali città tedesche da eventuali incursioni nemiche. Il desiderio si tramutò in realtà con la costruzione delle Flakturme, torri di cemento armato munite di radar ed artiglieria contraerea. Le Flakturme di Berlino erano tre grandi complessi disposti a triangolo in tre zone strategiche della città. Data la straordinaria solidità della costruzione, due di queste torri furono utilizzate per nascondere oggetti, dipinti e sculture provenienti dai musei della città. Nel maggio del 1945, a guerra conclusa, accadde un evento non prevedibile data la solidità di queste costruzioni: la Flakturme Friedrichshain subì un devastante incendio che bruciò per giorni la torre e gli oggetti che custodiva. Il fuoco divampò tra il 5 ed il 10 maggio quando la torre si trovava sotto la custodia dell'esercito russo. L'incendio della Flakturme fu definito il più grande disastro artistico della storia moderna dopo la distruzione del Real Alcazar di Madrid, avvenuta nel 1734. 
A Berlino migliaia di opere d'arte, tra cui dipinti di Caravaggio e Goya, furono distrutte dalle fiamme. Le notizie di questo incendio furono divulgate dallo storico d'arte inglese Christopher Norris, componente della Commissione Alleata per i Monumenti e le Arti. Tra gli oggetti andati perduti anche il quadro di Caravaggio Ritratto di Cortigiana. Si trattava di un ritratto a mezza figura di una cortigiana all'epoca piuttosto famosa, Fillide Melandroni, che frequentava Caravaggio e il suo benefattore, Marchese Giustiniani. Il quadro presentava una figura dai lineamenti piuttosto marcati, stretta nel corpetto ricamato, ornata con fiori sul seno e con un'elaborata acconciatura. La modella di questo ritratto andato perduto potrebbe aver svolto la stessa funzione per altri dipinti di Caravaggio quali Santa Caterina d'Alessandria, la Conversione della Maddalena e Giuditta e Oloferne. 
La prima domanda che nasce dalla curiosità è la seguente: chi era Fillide Melandroni, la cortigiana ritratta da Caravaggio? 
La ragazza nacque a Siena da Cinzia Guiducci ed Enea Melandroni, ultimo discendente di una nobile famiglia senese. Il giorno 8 gennaio del 1581, domenica, la bambina ricevette il sacramento del battesimo al fonte di San Giovanni. Quando partorì Fillide la madre, Cinzia, aveva da poco compiuto i sedici anni di età. La bimba si trasferì insieme alla madre ed al fratello Silvio, figlio di primo letto di Enea Melandroni, a Roma. Un buco nero assorbì le informazioni della famiglia sino all'aprile del 1594 quando riapparve nella storia Fillide che, all'epoca tredicenne, si prostituiva occasionalmente a causa dello stato di indigenza in cui versava la famiglia dovuto, anche ma non solo, ad una malattia della madre. Enea, il padre, non si trasferì a Roma con la famiglia. Le notizie della vita di strada della piccola Fillide sono rintracciabili nel verbale del tribunale Criminale del Governatore del 23 aprile del 1594: donna Fillide d'Enea Senese, in compagnia di due uomini e di Anna Bianchini, romana, era incappata dietro al Monastero di San Silvestro nei birri di ronda. E poiché i quattro andavano in giro a buio e fuor delli luoghi soliti tutti furono presi e menati prigioni in Tor di Nona. Una piccola precisazione prima di continuare la narrazione: il termine “fuor delli luoghi soliti” dovrebbe indicare che la ragazza, insieme all'amica Anna, si prostituiva lontano dal bordello. Nel 1595 morì la madre di Fillide, Cinzia, ad appena 30 anni d'età. La ragazza, quattordicenne, con l'aiuto della zia Piera, che aveva seguito la sorella Cinzia a Roma, e dell'amica di quei giorni, Anna Bianchini, si dovette occupare del fratello più piccolo, Niccolò. L'indigenza e l'emarginazione furono affrontate anche grazie all'aiuto del fratello Silvio, che lavorava come cuoco in una delle tante osterie della città. Sino al 1597 Fillide abitò sotto Trinità dei Monti, in una locanda dove le ragazze intrattenevano, con la compiacenza dell'oste, personaggi ambigui e di malaffare. Alcune circostanze condussero Fillide in prigione, al cospetto dei magistrati di città. La ragazza, grazie all'istruzione ricevuta nei primi anni della sua vita, si rivolgeva con modi corretti ai magistrati, utilizzando un linguaggio che le altre prostitute non potevano nemmeno pensare di copiare. Fillide era diversa, completamente, dalle sue colleghe. Non solo nei modi, anche negli obiettivi di vita. La ragazza visse quel periodo nell'attesa della grande occasione che gli potesse cambiare la vita. 
Nel 1598 tutto mutò nella vita della ragazza. A sedici anni d'età entrò in contatto con dei fratelli originari di Terni, i Tomassoni, che, sfruttando le conoscenze altolocate, gestivano un giro di cortigiane tra notai e cardinali. La vita di Fillide cambiò radicalmente. Si trasferì, con il piccolo Niccolò, in Strada Aragonia, potendo permettersi una serva puttana di nome Francesca. La casa divenne un bordello altolocato, dove si beveva, si giocava a dadi e si consumavano rapporti sessuali. Molti dei visitatori, o amici, di Fillide si presentavano armati presso la sua abitazione, trasgredendo a uno dei tanti bandi del governatore di Roma. Durante una festa, nell'estate del 1598, i birri si presentano a casa di Fillide. Tutti fuggirono dall'abitazione, anche nei modi più disparati, tranne Ranuccio Tomassoni, che rimase al fianco della ragazza per garantirle protezione. Il giorno seguente Fillide e Ranuccio furono rimessi in libertà. 
L'anno seguente, il 1599, fu quello della svolta. 
Ranuccio Tomassoni, protettore della giovane, mise in contatto Fillide con Michelangelo Merisi da Caravaggio. Il pittore prese la ragazza come modella per l'opera raffigurante Santa Caterina d'Alessandria d'Egitto. Nell'epoca immediatamente posteriore al Concilio di Trento l'aver prestato il proprio corpo ad un'immagine pubblica, per di più devozionale, fu considerato più disdicevole rispetto alla vendita quotidiana di quello stesso corpo. Un prete, parroco della chiesa di Sant’Andrea delle Fratte, censì Fillide sul libro delle anime come cortigiana scandalosa. 
La vita riservò nuovamente delle sorprese all'ancora giovane Fillide. 
Nell'estate del 1600 il suo protettore, Ranuccio, s'innamorò di un'altra ragazza, tale Prudenza, allontanandosi dal suo primo amore. Fillide non accettò tale relazione amorosa e si scagliò violentemente contro la nuova ragazza di Ranuccio. Probabilmente non fu solo gelosia ma anche un tentativo di difendere la posizione di predominanza assunta nel giro delle cortigiane dei Tomassoni. La lite che scaturì dopo l'aggressione di Fillide a Prudenza fu di tale gravità che condusse la ragazza senese in carcere. A differenza delle occasioni precedenti nessun uomo si prodigò per evitare il carcere e la condanna. 
Tutto mutò nuovamente. 
Fillide dovette esercitare il mestiere in autonomia, cercando di approfittare dei rapporti con i clienti potenti che aveva conosciuto durante la protezione di Ranuccio Tomassoni. Le brutte sorprese erano in agguato. Nell'estate del 1601 fu arrestata mentre si recava a casa del cardinale Benedetto Giustiniani, in Rione Sant'Eustachio, in compagnia di Ulisse Masetti, novello sposo e collaboratore del cardinale. Durante i giorni seguenti i due ragazzi furono sottoposti a stringenti interrogatori da parte dei magistrati. Entrambi cercarono di evitare di infangare il nome del cardinale e di sfuggire all'accusa di aver sottratto un novello sposo al letto coniugale, per Fillide, e di adulterio, per il Masetti. A due giorni dal loro arresto nessuno aveva pagato la taxa malefici, di 50 scudi, per far uscire i ragazzi dal carcere di Tor di Nona. Furono entrambi rinviati a giudizio. 
Fillide ricadde nell'indigenza e nell'emarginazione dei primi anni romani. 
Decise di chiedere l'aiuto della famiglia. Si ricongiunse con la zia Piera che nel frattempo era restata vedova di un certo Giovanni con il quale si era nel frattempo sposata. Aggressiva più che mai la Melandroni aggredì un'altra cortigiana, Amabilia Antonietti, cercando di malmenare anche la sorella gravida e prossima la parto. Nuovamente arrestata, Fillide rientra nella sfera di protezione dei Tomassoni ma cambiando uomo di riferimento: questa volta ad occuparsi di lei fu Giovan Francesco, il più autorevole dei fratelli. 
Nuovamente la vita della Melandroni mutò, e non solo economicamente. Dal 1604 si occupò delle pratiche devozionali della sua nuova parrocchia di Santa Marta del Popolo. Inoltre risulta essere a capo di un complesso ed eterogeneo nucleo familiare composto dalla zia Piera, dal fratello Silvio, da un servitore, da una cortigiana e da un bimbo di 4 anni, uno dei fanciulli esposti dello Spedale di Santo Spirito in Sassia. Nel frattempo aveva avviato una relazione amorosa con Giulio Strozzi, nobiluomo veneziano e figlio illegittimo di Roberto, notissimo banchiere fiorentino. Il legame tra i due ragazzi è testimoniato dal Ritratto di Fillide che Giulio Strozzi commissionò a Caravaggio. Fillide e Giulio vivono anni di agiatezza economica e tranquillità. Forse la ragazza raggiunse anche un poco di felicità. Tutto però cambiò nuovamente alla morte del padre di Giulio. Il ragazzo entrò in possesso di una cospicua eredità ed i parenti, cercando di scongiurare il matrimonio tra Giulio e Fillide, decidono di rivolgersi al papa, Paolo V. Nella primavera del 1612 si diffonde rapidamente la notizia che “all'improvviso d'ordine del Papa è stata presa una tal Fillide famosa cortigiana e mandata fuori Roma con ordine che non vi debba più tornare”. Dopo aver riparato ad Orvieto e Siena torna a Roma. 
La tormentata esistenza di Fillide si concluse nel 1618. 
Del ritratto che Caravaggio le dipinse un decennio prima su commissione di Giulio Strozzi, che la donna conservò sempre con cura ed affetto nella propria abitazione, dispose la restituzione al perduto amore della giovinezza. 

Fabio Casalini

Bibliografia 
F. Bellini, Dalla figura di una donna all'immagine interiore dell'artista. Per una ricerca sull'ombra, Tesi di ricerca, Siena, Scuola di Specializzazione in Archeologia e Storia dell'Arte dell'Università degli Studi, A.A. 1990-91 

F. Bellini, Caravaggio lo spadaccino e le sue cortigiane, in L'Unità, 9 dicembre 1992 

R. Bassani - F. Bellini, Caravaggio assassino: la carriera di un valent’huomo fazioso nella Roma della Controriforma, Roma 1994 

F. Bellini, Melandroni Fillide, in Dizionario Biografico degli Italiani, volume 73, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 2009

FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.

Hanna Reitsch, l'eroina di Hitler

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Il nazismo non lasciava molto spazio alle donne, se non come casalinghe e madri prolifiche. L’ ideale femminile del Terzo Reich era riflesso nelle tre K iniziali di cucina, casa, bambini. Hanna Reitsch leggendaria aviatrice della Luftwaffe ha costituito una delle poche eccezioni a questa regola. Figlia di un medico oculista e di una poetessa, Hanna Reitsch nacque a Hirschberg, in Slesia nel 1912. Spesso con il fratello Kurt, si recava a far visita a suo padre nella clinica di cui era direttore, e fin da bambina sognava di intraprendere la carriera di medico una sorta di missionario volante, unendo l‘ interesse per il volo con il desiderio di rendersi utile ai bisognosi. Il Trattato di Versailles, che causa la sconfitta della prima guerra mondiale impose alla Germania il completo smantellamento dell’ aviazione, ostacolò questo suo progetto. Si dedicò quindi agli alianti presso l’Aerodromo di Grunau, divenendo in breve tempo una eccellente pilota e conseguendo il brevetto per questo tipo di veivoli. Presto comprese che la strada della sua vita l’avrebbe portata verso il cielo, lasciò gli studi di Medicina per dedicarsi anima e corpo al volo ed in particolare del volo a vela. 

Fin dalla gioventù fu subito una fervente nazista, ricevette diverse decorazioni e fu nominata capitano per la sua intensa attività di collaudatrice di velivoli civili e militari e per la conquista di diversi record mondiali, in particolare nel volo a vela. Nel 1931, quando Hanna era ancora studente di Medicina, stabili il record di volo su un aliante, rimanendo in cielo per ben 5 ore e mezza, primato che venne da lei battuto due anni dopo volteggiando in aria per 11 ore e mezza. Nel 1934 stabilì il record femminile di altitudine arrivando a 2.800 metri, mentre il 1936 la vide conseguire il primato di distanza per alianti, con oltre 305 Km di percorrenza. Il 1937 a soli 25 anni, venne incaricata dal Generale Ernst Udet, responsabile del settore di progettazione e sviluppo della Luftwaffe, del collaudo dei nuovi aerei che la Germania, nel progetto di riarmo voluto da Hitler, Sotto le direttive di Karl Franke, capo dei piloti collaudatori presso il centro sperimentale di Reichlin, la Reitsch divenne bene presto il miglior pilota collaudatore di cui il Reich tedesco disponesse. Dunque prima rivale delle grandi aviatrici americane nell’ ambito delle grandi competizioni internazionali con un ruolo costruito per l’ la propaganda del regime contro quelle donne che figuravano come portabandiere dell’ emancipazione femminile in una società democraticamente evoluta. Poi sfruttata ad uso interno per l’ esigenze dell’ economia di guerra Divenne abile collaudatrice dello Junkers Ju 87 "Stuka", del Dornier Do 17 e del primo elicottero pilotabile. Infatti nel 1937 fece volare da Brema a Berlino il primo elicottero degno di portare questo nome, il Focke-Achgelis FA-61, stabilendo il primato di distanza per voli con elicottero con una percorrenza di oltre 108 Km. L’ FA-61 venne poi ufficialmente presentato nel febbraio del 1938 nel corso del Berlin Motor Show e, durante questo avvenimento, l’elicottero fu fatto volare, in pieno controllo dalla Reitsch, all’interno della Deutschlandhalle Sports Stadium. Il 28 marzo 1941 il Führer in persona volle decorarla con la croce di ferro di seconda classe per il lavoro che svolse nell’ambito dello sviluppo di un progetto che consentiva di tagliare i cavi che ancoravano i palloni degli sbarramenti antiaerei in Inghilterra: fu una delle due sole donne insignite di simile onorificenza. Nel settembre dello stesso anno effettuò il primo volo su quello che sarebbe divenuto il primo caccia intercettore con motore a razzo della storia: il Messerschmitt ME-163, altrimenti noto con il nome di Komet. Durante il primo test, portò in un minuto e mezzo l’aereo a ben 9.150 metri di altitudine alla velocità mai raggiunta di 805 Km/h e con un angolo di cabrata di 65°. I primi voli con i prototipi del Komet erano molto pericolosi, in quanto l’aereo presentava parecchi problemi sia con il propulsore che in fase di atterraggio. Fu appunto durante una di queste prove (la quinta) che subì un serio incidente in fase di atterraggio e che per poco non le costò la vita. Hanna si salva miracolosamente e le sue fratture vengono saldate da abili ortopedici militari ormai abituati a curare arti secondo gli interessi dello stato. Dopo un periodo di riabilitazione in un istituto di ortopedia viene spedita in Costa Azzurra per la convalescenza. 
Dopo la disfatta di Stalingrado le operazioni militari tedesche prendono una brutta china e Hitler si affida alla speranza di nuove miracolose armi per cambiare le sorti del conflitto. Peenemunde una base al nord della Germania è il centro di questi esperimenti. Un giovane scienziato Wenher von Braun è il capo di queste operazioni segrete. Egli ha un illimitata fede nella propulsione a razzo e illude il dittatore di poter riconquistare la potenza aerea perduta dopo la battaglia d’ Inghilterra. Hanna si inserisce come una pedina destinata all’ immaginazione di poter prolungare sopravvivenza del III Reich. Il programma però fin dall’ inizio risulterà un bluff poiché la rappresaglia consiste nello lanciare sull’ Inghilterra 24 tonnellate di esplosivo al giorno mentre i quadrimotori alleati ne scaricano 3000 al giorno sulla Germania. La V1 è un ordigno un po’ goffo, una via di mezzo fra un missile e un aereo, ha una struttura ricavata dai caccia sulla quale come un cannone rovesciato è posto un reattore. Nasce così una versione pilotata che, nelle intenzioni della Reitsch, avrebbe potuto essere utilizzata da piloti suicidi, una sorta di kamikaze tedeschi, progetto che non fu mai realizzato Vi è anche un racconto non confermato dai fatti di un suo collaudo di una V1 modificata e dotata di carlinga con altro drammatico incidente. Hitler commette altre valutazioni errate sulla programmazione di nuove armi. Per esempio l’ Me262 che raggiunge 800 km all’ ora dotato di una spinta ascensionale superiore agli aerei alleati potrebbe difendere la Germania dai bombardamenti a tappeto ma viene trasformato in bombardiere con effetti irrisori. L’ ora decisiva avviene nell’ aprile del 1945, quando Hitler e il suo entourage sono asserragliati nel bunker di Berlino in un atmosfera cupa di un tragico wagneriano crepuscolo degli dei. Ormai deciso a morire si fanno avanti in una lugubre lotta per il potere il suo vicino segretario Bormann e il distante Goering il quale con avventato telegramma richiede pieni poteri di successione. Il Furher istigato da Bormann si inalbera furiosamente per questo fatto e lo accusa di tradimento e convoca il generale Greim per nominarlo nuovo capo della Lutwaffe. Una comunicazione assurda che si sarebbe potuta fare con un radiogramma senza esporre la vita di Greim di Hanna e dei pilota dei caccia che li scortano nella prima parte del viaggio. 
Nella notte fra il 25 e il 26 aprile 1945 un Fisiel Storch decolla dall’ aeroporto di Monaco investito dall’ offensiva alleata, Greim è ai comandi con Hanna a fianco. Atterrano nella base aerea di Reichlin in Pomerania sperando poi di proseguire verso Berlino. Li trovano un solo aereo disponibile un FockerWulf 190 e da li raggiungono l’ aeroporto di Gatow in periferia della città. Da li dovrebbero proseguire fino al centro di Berlino e per farlo si servono di un Fieseler - Storch che porta un solo passeggero oltre il pilota. Lo stesso tipo di aereo usato per liberare Mussolini al Gran Sasso. Hanna innamorata di Greim e decisa a non staccarsi da lui si accovaccia dietro. 
In questo viaggio tentano da soli di superare la barriera dei cannoni russi. Una granata centra l’ aereo e ferisce il generale ad un piede. Mentre stanno precipitando da dietro Hanna afferra i comandi e con straordinaria abilità riesce a mantenere l’ aereo in quota ed a atterrare sull’ asfalto della piazza antistante la porta di Brandeburgo, fra gli edifici sventrati dai bombardamenti. 
Hanna ferma un camion militare e si fa condurre al bunker nei pressi della Cancelleria. Von Greim ricoverato in infermeria sarà l'ultimo generale a ricevere la promozione a feldmaresciallo prima della fine della guerra ed anche l'ultimo comandante della Luftwaffe. A fine serata Hitler fa venire Hanna nella sua stanza e con il volto pieno di lacrime le propone di morire con tutti loro e gli porge due fiale di cianuro, una per lei e una per Greim. Poi il 28 aprile la notizia di un altro tradimento cambia di nuovo il destino di Hanna. Hitler viene a sapere dei contatti di Himmler con gli alleati, e preso da una una nuova crisi di collera fa fucilare Fegelein uomo di Himmler e marito della sorella di Eva Braun. Convoca di nuovo il generale Greim e Hanna e comanda loro di violare il blocco e raggiungere l’ aeroporto di Postdam per organizzare un bombardamento aereo che possa aiutare la ormai fantomatica armata del generale Wenck a liberare Berlino e poi di raggiungere Himmler ed arrestarlo. Hanna cerca di opporsi a questo poiché avrebbe voluto morire con il Furher ma Greim la convince a partire. Militi delle SS con un piccolo veicolo corrazzato portano Hanna e Greim vicino alla Porta di Brandeburgo dove era stato nascosto un Arado 96. Arrivano fra il frastuono delle bombe russe. Hanna si serve del lungo viale come pista di decollo riuscendo a schivare le buche nell’ asfalto ed il fuoco russo e riesce a decollare, un'altra incredibile impresa della sua vita. Riesce poi ad atterrare a Reichlin evitando lo sbarramento dei caccia russi che volteggiavano sulla base. 
Al loro arrivo la radio trasmette il testamento politico del Furher e la notizia del passaggio dei poteri all’ ammiraglio Donitz. Il Furher è morto, il Terzo Reich gli sopravvivrà otto giorni. Da li si trasferiscono a Ploen quartier generale di Doenitz dove incontra Himmler e sfoga su di lui tutta la sua rabbia su di lui per il tradimento verso l’ amato Furher. Poi Hanna e Greim si dirigono in Austria dove in seguito verranno fatti prigionieri dagli Alleati. Greim preferisce morire suicida in una prigione di Salisburgo il 24 maggio 1945, ingerendo una compressa di cianuro di potassio. La madre ed il padre di Hanna non potendo sopravvivere alla fine del Reich si suicidano entrambi. Hanna dopo la fine della guerra, e dopo essere stata trattenuta in prigionia diciotto mesi torna a volare, partecipando a gare internazionali di volo a vela, conquistando medaglie e nuovi record. Nel 1951 scrisse il primo di quattro libri, un'autobiografia dal titolo Fliegen mein Leben. Invitata da Indira Gandhi e Nerhu visitò l'India nel 1959 e vi fondò una scuola di aviazione. Nel 1961 visitò gli Stati Uniti d'America, invitata dal presidente John Fitzgerald Kennedy. Nel1962 si trasferì per quattro anni in Ghana, su invito del presidente Kwame Nkrumah, dove fondò una scuola di volo a vela che accoglieva diversi molti tipi di alianti. Hanna muore a Francoforte sul Meno nel 1979 per un attacco di cuore. 

Luciano Querio

Bibliografia 
Carlo Quintavalle Hanna Reitch L’Eroina di Hitler (Da le donne che hanno vissuto la storia) Istituto Geografico de Agostini 1974 

Silvio Bertoldi Le signore della svastica 1999 RCS libri 

Claudia Koonz Donne del Terzo Reich 1991 Giunti Editore 

William l. Shirer Storia del Terzo Reich 1962 Einaudi 

Antonio Spinosa Hitler Il figlio della Germania 1991 Mondadori 

Hugh Thomas I giorni del bunker 1997 Editori Riuniti 

Silvio Bertoldi Hitler La sua Battaglia 1990 RCS Libri 

Hugh Trevor - Roper Gli Ultimi giorni di Hitler 1994 RCS Libri 

Albert Speer Memorie del Terzo Reich 1995 Mondadori 

Claude Bertin Berlino Ultimo Atto 1988 Melita Editori 

Claude Bertin La fine del III Reich 1988 Melita Editori 

John Lukacs Dossier Hitler 1998 Longanesi 

Joachim C.Fest Hitler 1974 RCS Libri 

Ron Rosenbaum Il Mistero Hitler 1999 Oscar Mondadori

LUCIANO QUERIO
Sono di origine canavesana essendo nato a Cuorgnè nel 1958. Sono sempre stato amante dell’arte, della storia e della filosofia medievale. Nel tempo libero mi diletto a fotografare. Pur amando i viaggi mi sento profondamente radicato alla mia terra. Così parafrasando Cesare Pavese il paese dove sono nato ho creduto da bambino che fosse tutto il mondo. Adesso che il mondo in piccola parte l' ho visitato davvero, ho visto che è fatto di città e di tanti piccoli paesi… perciò da bambino non mi sbagliavo poi di molto...Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, nel fiume e nella montagna che ti guarda dall’ alto c'è qualcosa di tuo che anche quando non ci sei resta sempre ad aspettarti…

Il miracolo dell'ostia sanguinante di Bolsena

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Pietro da Praga, umile sacerdote boemo, nell'estate del 1263 decise di recarsi in pellegrinaggio a Roma per pregare, intensamente, sulla tomba di Pietro. Il motivo del lungo viaggio risiedeva nel trovare sollievo dai ricorrenti pensieri che l'allontanavano da alcuni aspetti della fede. L'uomo di chiesa si arrovellava alla ricerca della reale presenza di Cristo nell'ostia e nel vino consacrati [in teologia la transubstanziazione o transustanziazione è il termine che indica la conversione della sostanza del pane nella sostanza del corpo di Cristo e della sostanza del vino nella sostanza del sangue di Cristo. Questa conversione avviene durante la celebrazione eucaristica, quando il celebrante invoca il Padre affinché mandi lo Spirito Santo che trasformi il pane ed il vino in corpo e sangue di Cristo]. Il soggiorno romano lo rassicurò. Pietro da Praga decise d'intraprendere, nuovamente convinto della vera fede, il viaggio di ritorno. Percorrendo la Cassia decise di fermare il suo cammino a Bolsena. Nell'antico borgo il sacerdote fu nuovamente assalito dai dubbi di fede. Il giorno successivo, malgrado lo scuotimento dell'anima, decise di celebrare messa presso la chiesa dedicata a Santa Cristina. Quello che avvenne durante la celebrazione è un misto di leggenda e storia. Secondo quando tramandato dalla tradizione, al momento della consacrazione l'ostia iniziò a sanguinare sul corporale. Pietro da Praga, impaurito, cercò di nascondere l'evento concludendo regolarmente la messa. Il sacerdote avvolse l'ostia nel corporale. Alla conclusione della celebrazione fuggì in direzione della sacrestia. Alcune gocce di sangue fuoriuscirono dal corporale cadendo sul marmo del pavimento e sui gradini dell'altare [il corporale è un oggetto liturgico utilizzato durante la celebrazione eucaristica dalla chiesa cattolica e da altre confessioni cristiane. E' costituito da un panno di tela di lino inamidato. Il suo nome deriva dal fatto che, ponendovi sopra l'ostia transunstanziata che è divenuta corpo di Cristo, sostiene il corpo di Cristo stesso]. Secondo la tradizione, Pietro da Praga si recò immediatamente da papa Urbano IV, che in quel momento si trovava ad Orvieto, per riferirgli l'accaduto. Il Papa inviò a Bolsena il vescovo di Orvieto per accertare la veridicità degli eventi. Urbano IV, rassicurato dalle parole del vescovo, dichiarò la soprannaturalità dell'evento. Il Papa decise di ricordare il miracolo dell'ostia sanguinante estendendo a tutta la cristianità la solennità chiamata Corpus Domini, nata nel 1247 a Liegi per celebrare la reale presenza di Cristo nell'eucaristia. Il riconoscimento della solennità s'inserì nella contrapposizione tra l'idea predominante, l'esistenza della transubstanziazione, e la tesi di Berengario di Tours, secondo il quale la presenza eucaristica di Cristo non era reale ma simbolica. La storia supera le contrapposizioni, come un torrente che conosce la strada per giungere al lago. Per custodire il corporale fu edificato, a partire dal 1290, il duomo di Orvieto. Urbano IV decise di affidare a Tommaso d'Aquino il compito di preparare i testi per la liturgia delle ore e per la messa della festività. Il Papa decise inoltre che la solennità del Corpus Domini dovesse essere celebrata ogni primo giovedì dopo l'ottava di Pentecoste. 
Quello che divenne famoso come il miracolo di Bolsena era il primo caso di comparsa di sangue sul cibo? Assolutamente no, storicamente sono documentati almeno altri ottanta casi. Nel 332 avanti Cristo i soldati di Alessandro Magno, impegnati nell'assedio di Tiro, furono terrorizzati dalla comparsa di sangue sulle pagnotte. Con l'avvento della cristianità ed il trascorrere dei secoli questo strano evento si manifestò ripetutamente. Sanguinarono le ostie a Parigi nel 1290, a Bruxelles nel 1369 e nel 1379 e a Wilsnack nel 1383. La comparsa del sangue su cibo non si arresto! Sangue sul pane ancora a Chalons, in Francia, nel 1792. Sangue sulle ostie, sul pane e sulla polenta. Nel 1819 a Legnaro, provincia di Padova, la comparsa del sangue sulla polenta nella casa di un contadino comportò un'incredibile manifestazione di timore ed incredulità da parte degli abitanti del borgo. Il fenomeno non si arrestò nell'umile casa di Antonio Pittarello, il contadino, ma il fenomeno si diffuse di casa in casa. Questi eventi accaddero in un periodo un cui la scienza iniziava a possedere strumenti atti a comprendere determinate manifestazioni. Anche la Chiesa decise di intervenire. Padre Pietro Melo fu inviato ad indagare sugli eventi. A differenza dei fatti di Bolsena, da alcuni definito miracolo, il Vaticano volle indagare su una possibile infestazione diabolica. Padre Melo concluse che la sostanza rossa era dovuta ad un prodotto della fermentazione. Il clamore della polenta sanguinante fu tale che anche l'Università di Padova decise d'indagare. Un medico della cittadina di Piove, Vincenzo Sette, giunse alla conclusione che la sostanza simile al sangue era una muffa che cresceva in ambienti umidi e caldi. Nel frattempo un farmacista, Bartolomeo Brizio, intraprese delle indagini private. Il giovane studioso concluse che la sostanza era un organismo vivente che battezzò Serratia Marcescens, Serratia in onore del fisico Serrati e Marcescens perché l'organismo giunto a maturazione marcisce e si decompone velocemente in una massa viscosa. 
Alla luce delle spiegazioni scientifiche è interessante rileggere gli eventi che condussero al miracolo di Bolsena, che miracolo chiaramente non è. Nel procedere mi avvalgo delle parole dell'antropologo Alfonso Maria di Nola che, in un articolo apparso sul Corriere della Sera del 26 marzo del 1995, evidenziò che nel periodo a cavallo tra il 1200 ed il 1300, esattamente lo stesso periodo del fantomatico miracolo di Bolsena, la Chiesa era testimone di una lunga controversia tra domenicani e francescani circa la transubstanziazione, cioè della reale o simbolica presenza di Cristo nel vino e nel pane. Seguendo il percorso dell'antropologo di Nola, la situazione produsse una folla di miscredenti e di dubitanti che alcuni miracoli avrebbero potuto convincere, piegandoli alla resi della reale trasformazione dell'ostia nel corpo di Cristo. Esattamente quello che avvenne secondo Maurizio Magnani: Papa Urbano IV sfruttò l'evento di Bolsena, che noi uomini moderni ed illuminati sappiamo dovuto ad un organismo vivente che velocemente si decompone, per sancire il dogma della reale presenza di Cristo nelle ostie consacrate. 
Urbano IV estese a tutta la cristianità la solennità del Corpus Domini, già festeggiata nella diocesi di Liegi dal 1247. 
Il dogma della transubstanziazione fu fissato nel 1551 dal Concilio di Trento. 
Ritengo utile ricordare che il miracolo di Bolsena fu riprodotto da diversi studiosi, tra cui Johanna C. Cullen e Luigi Garlaschelli, ricercatore del dipartimento di chimica organica dell'Università di Pavia. 
Le reliquie contenute del Duomo di Orvieto sono state oggetto di analisi scientifica? 
Purtroppo la Chiesa non ha mai permesso l'analisi delle reliquie. Nel 1978 il vescovo di Orvieto provò a chiedere che tali reliquie fossero analizzate ma la richiesta fu respinta dal capitolo, un'assemblea di presbiteri e religiosi dotata di autonomia giuridica, della cattedrale di Orvieto. 
Le ripetute analisi e gli esperimenti atti a riprodurre, con successo, gli eventi di Bolsena, e di molti altri luoghi, ci permettono di concludere che ancora una volta la scienza spiega esattamente fenomeni ritenuti miracolosi da una parte della società. 

Fabio Casalini 

Bibliografia 
Andrea Lazzarini, Il miracolo di Bolsena. Testimonianze e documenti dei secc. XIII e XIV, Roma, Storia e Letteratura, 1952 

Filippo Gentili, Il miracolo eucaristico di Bolsena, Torino, Elledici, 2006 

Maurizio Magnani, Spiegare i miracoli. Interpretazione critica di prodigi e guarigioni miracolose, Bari, Edizioni Dedalo, 2005 

Silvano Fuso, Pinocchio e la scienza. Come difendersi da false credenze e da bufale scientifiche, Bari, Edizioni Dedalo, 2006 

Luigi Garlaschelli, Miracoli microbiologici, articolo del 28 marzo 2001 per il sito Cicap.org

FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.

Giuseppe Pellizza, il Quarto stato e il suicidio

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Volpedo è un piccolo comune piemontese sito in provincia di Alessandria. Il paese è conosciuto per aver dato i natali a Giuseppe Pellizza, il famoso autore del dipinto il Quarto Stato. All'interno della sua abitazione ancora oggi è presente la scala a pioli che servì a Giuseppe per togliersi la vita.
Alcune persone potrebbero pensare che il Piemonte conservi qualcosa di malsano dato il numero di letterati e artisti, da Cesare Pavese a quel veneto ma piemontese d'adozione che risponde al nome di Emilio Salgari, che decisero di chiudere anticipatamente il proprio percorso di vita. Casualità, null'altro.
Torniamo a Giuseppe Pellizza da Volpedo e a quella maledetta alba del 14 giugno 1907. L'improvvisa morte della amatissima moglie Teresa, uccisa dalla febbre puerperale, gettò l'artista in un profondo stato di depressione conducendolo sulla strada del suicido. Giuseppe s'impiccò nel suo studio, non ancora quarantenne. La scala a pioli che aiutò la veloce dipartita poggia sulla stessa terra ove trovano luce libri, gessi anatomici e quadri. Una continuità che pare cercata, voluta. Una prossimità che chiede delle spiegazioni, che non possiamo ultimare esclusivamente con la perdita dell'amata moglie.
Risaliamo la linea del tempo.
Giuseppe Pellizza nacque a Volpedo il 28 luglio del 1868, da Pietro e da Maddalena Cantù, in un’agiata famiglia contadina. Apprese i primi rudimenti del disegno grazie alla frequentazione della scuola tecnica di Castelnuovo Scrivia. L'agiatezza della famiglia unita alle conoscenze acquisite grazie alla commercializzazione dei prodotti della terra, permisero al giovane Giuseppe la frequentazione dell'Accademia di Belle Arti di Brera.
Presso la prestigiosa scuola milanese fu allievo di Giuseppe Bertini, pittore e docente italiano del movimento romantico e verista. Bertini fu docente e direttore dell'accademia di Belle Arti di Brera e primo direttore del Museo Poldi Pezzoli di Milano. Contemporaneamente ricevette lezioni private dal pittore Giuseppe Puricelli. Espose per la prima volta a Brera nel 1885. Alla fine del percorso di studi milanese, Pellizza proseguì il tirocinio formativo presso l'Accademia di San Luca a Roma. In seguito decise d'iscriversi alla scuola libera di nudo dell'Accademia di Francia a Villa Medici.
Deluso da Roma decise di trasferirsi a Firenze, dove frequentò la scuola di Belle Arti come allievo di Giovanni Fattori, considerato tra i maggiori pittori italiani dell'Ottocento e tra i principali esponenti del movimento dei Macchiaioli. Alla fine dell'anno accademico tornò a Volpedo allo scopo di dedicarsi alla pittura verista attraverso lo studio della natura. Non ancora soddisfatto della preparazione raggiunta decise di recarsi a Bergamo per frequentare l'Accademia Carrara, dove seguì i corsi di Cesare Tallone. Perfezionò ulteriormente la propria preparazione recandosi all'accademia Ligustica di Genova. Al termine di quest'ultimo tirocinio fece ritorno a Volpedo. Nel 1892 sposò una ragazza del luogo, Teresa Bidone. Nello stesso anno appose per la prima volta “da Volpedo” alla propria firma in calce alle opere. Negli anni seguenti Giuseppe Pellizza adottò il divisionismo, tecnica basata sulla divisione dei colori attraverso l'utilizzo di piccoli punti o tratti. Si confrontò con diversi pittori che utilizzavano questa tecnica, da Segantini a Morbelli, da Longoni a Nomellini.
Nel 1891, esponendo alla Triennale di Milano, si fece conoscere dal grande pubblico. Continuò ad esporre in giro per l'Italia sino al 1901, anno in cui portò a termine il Quarto Stato, a cui aveva dedicato dieci anni di studi. L'opera fu esposta l'anno successivo alla Quadriennale di Torino ma non ottenne il successo sperato, scatenando polemiche presso molti dei suoi amici.
La genesi dell'opera il Quarto Stato fu lunga e complessa. Il Quarto Stato è un'espressione introdotta durante la Rivoluzione francese da alcuni esponenti delle correnti più radicali per designare gli strati popolari subalterni, in contrapposizione alla borghesia (il terzo stato); con lo sviluppo del movimento operaio, la locuzione è stata adoperata, soprattutto nel secolo XIX e nei primi decenni del Novecento, per indicare il proletariato.
Pellizza iniziò a lavorare ad un bozzetto chiamato gli Ambasciatori della fame nel 1891 dopo aver assistito ad una manifestazione di protesta di un gruppo di operai. Il pittore rimase molto impressionato dalla scena tanto da annotare in un diario le seguenti parole: la questione sociale s'impone; molti si son dedicati ad essa e studiano alacremente per risolverla. Anche l'arte non deve essere estranea a questo movimento verso una meta che è ancora un'incognita ma che pure si intuisce dover essere migliore rispetto alle condizioni presenti. Numerose furono le opere intermediarie tra il primo bozzetto degli Ambasciatori della fame e la Fiumana. L'ultima tappa di questo percorso fu la versione degli ambasciatori del 1895 sotto forma di disegno carboncino e gesso. Scrisse Pellizza: Gli ambasciatori sono due si avanzon seri sulla piazzetta verso il palazzo del signor che proietta l'ombra ai loro piedi [...] si avanza la fame coi i suoi atteggiamenti molteplici - Son uomini, donne, vecchi, bambini: affamati tutti che vengono a reclamare ciò che di diritto - sereni e calmi, del resto, come chi sa di domandare né più né meno di quel che gli spetta - essi hanno sofferto assai, è giunta l'ora del riscatto, così pensano e non vogliono ottenere colla forza, ma colla ragione - qualcuno potrà alzare il pugno in atto di minaccia ma la folla non è, con lui, essa fida nei suoi ambasciatori - gli uomini intelligenti [...] Una donna accorso mostra il macilento bambino, un'altra, una terza, è per terra che tenta invano di allattare il bambino sfinito colle mammelle sterili - un'altra chiama impreca.
Il capolavoro a poco a poco prese forma. Pellizza, prima di dipingere la grande tela della Fiumana, decise di realizzarne uno studio preliminare. Rispetto agli Ambasciatori della Fame questa tela rappresenta un punto di rottura poiché in quest'opera la massa di gente è vastissima, tale da formare una fiumana umana, come suggerito dal titolo stesso del dipinto.
Nel 1898 un avvenimento sconvolse l'Italia ed il pensiero di Giuseppe Pellizza da Volpedo: l'inutile strage di Milano.
Nella città meneghina, in seguito all'aumento del prezzo della farina e del pane, il popolo decise di insorgere assaltando i forni per la produzione del pane. In tutta la Lombardia la situazione economica era talmente grave da convincere circa 500.000 persone ad emigrare, nei soli primi cinquant'anni dall'Unità d'Italia. Gli eventi di Milano, passati alla storia come la Rivolta dello stomaco, durarono dal 6 al 9 maggio. La sommossa del popolo fu repressa nel sangue dall'esercito comandato dal generale Bava-Beccaris. Secondo la versione ufficiale si contarono 80 vittime, testimoni oculari parlarono di almeno 300 morti, tra questi molti mendicanti che si trovavano in fila per ricevere un piatto di minestra dai frati di Via Manforte. Su queste inermi persone il generale Bava-Beccaris decise di sparare con il cannone. In seguito a queste eroiche gesta, il generale fu insignito con la croce di Grande Ufficiale dall'ordine Militare dei Savoia. Un mese dopo i fatti di Milano, il Re, che troverà la morte per mano di Gaetano Bresci, Umberto I nominò senatore il coraggioso generale.
Giuseppe Pellizza decise di modificare l'opera, rendendo la fiumana umana più tumultuosa. Nel 1898 stese il cammino dei lavoratori, bozzetto propedeutico alla realizzazione finale. Pellizza entrò nella tempesta socio-proletaria che sconvolgeva il nostro paese con un'opera che resisterà ai cambiamenti economici e politici dell'Italia. La stesura del cammino dei lavoratori richiese circa tre anni. Solo nel 1901 la grande tela soddisfò l'autore che decise di darle un nuovo titolo: il Quarto stato.
Come possiamo leggere nelle pagine del libro Il quarto stato di Aurora Scotti, la telaraffigura un gruppo di braccianti che marcia in segno di protesta in una piazza, presumibilmente quella Malaspina di Volpedo. L'avanzare del corteo non è violento, bensì lento e sicuro, a suggerire un'inevitabile sensazione di vittoria: era proprio nelle intenzioni del Pellizza dare vita ad «una massa di popolo, di lavoratori della terra, i quali intelligenti, forti, robusti, uniti, s'avanzano come fiumana travolgente ogni ostacolo che si frappone per raggiungere luogo ov'ella trova equilibrio».
Il quarto stato fu mostrato per la prima volta al pubblico durante la Quadriennale di Torino del 1902. L'opera non ottenne riconoscimenti e non fu acquistata da nessun museo, come era nelle aspettative dell'autore per sistemare la situazione economica disastrosa nella quale era caduto. Il successo presso il pubblico iniziò grazie alla stampa socialista. Nonostante la censura della critica, l'opera fu stampata in una importante rivista milanese. Trovò ampio spazio nei periodici socialisti come L'avanguardia socialista e l'Avanti!.
Nel frattempo, deluso dal loro comportamento, abbandonò le relazioni con artisti e scrittori della sua epoca. Nel 1906 fu chiamato a Roma dove riuscì a vendere allo Stato una sua opera destinata alla Galleria di Arte Moderna. L'improvvisa morte della moglie gettò Pellizza in una profonda crisi depressiva. Il 14 giugno del 1906 si suicidò impiccandosi nel suo studio di Volpedo, non ancora quarantenne.

Fabio Casalini

Bibliografia
Davide Lacagnina, Pellizza da Volpedo Giuseppe, in Dizionario biografico degli italiani, volume 82, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2015

Gabriella Pelissero, Pellizza per il "Quarto Stato", Torino, 1977

Aurora Scotti, Il linguaggio universale del Quarto Stato, in Oltre, nº 70, Voghera, Edizioni Oltrepo.
Aurora Scotti (a cura di), Il quarto Stato, Milano, Gabriele Mazotta Editore, 1976

FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.

Il delitto di Sarzana e il risarcimento di Mussolini

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4 gennaio 1937. È sera. Nel Collegio delle Missioni di Sarzana, in provincia della Spezia, il silenzio si aggira indisturbato per i bui corridoi. Tutti gli studenti sono nelle loro camere, qualcuno studia, qualcuno chiacchiera, qualcuno fuma di nascosto dai sorveglianti una sigaretta, in attesa della cena.
Sono le 18.18 quando 4 colpi di pistola squarciano improvvisi il silenzio. Due studenti che sono nel corridoio, per andare da un’ala all’altra dell’edificio, sentono i colpi, si guardano stupiti, si interrogano, accorrono all’ufficio di don Umberto Bernardelli, rettore del collegio per capire cosa sia successo. È da lì che gli spari sembrano arrivare. Mentre stanno arrivando in prossimità della stanza, un uomo, dal volto coperto con una sciarpa e con un grosso cappello sulla testa, li vede e non esista a sparare anche contro di loro. Uno cade a terra, ferito gravemente a un fianco. È Leonardo Bassano. L’altro, Alfredo Collini, rimane incolume. La fuga dell’uomo continua, mentre nei corrodi si diffonde il panico. Arrivato alla portineria incontra don Andrea Bruno, coadiutore del collegio. Lo sconosciuto incappucciato, nuovamente senza esitazione, esplode due colpi in direzione dell’uomo, che cade a terra ferito a morte. Fugge indisturbato con un bottino di L. 15.500, mentre urla e voci concitate sostituiscono il silenzio di pochi minuti prima.
Arrivano i soccorritori. Il rettore giace nel suo ufficio, riverso sulla scrivania senza vita. C’è sangue dappertutto. Lo studente ferito è subito soccorso, così come don Andrea, che ancora vivo, sostiene di aver riconosciuto il criminale ma di non ricordarne il nome. Durante il trasporto in ospedale perde conoscenza e dopo pochi minuti muore.
Cominciano le indagini, la stessa sera. Chi può essere entrato senza destare sospetti all’interno del collegio? A chi si riferiva don Andrea in punto di morte?
Nel frattempo a Sarzana si parla del delitto. Ognuno dice la sua. Al bar, per strada, in piazza davanti alla chiesa all’orecchio del vicino perché “spettegolare non sta bene, non si fa”, riuniti davanti al fuoco, a cena. Si parla molto e fra le tante cose dette, una su tutta risulta molto interessante per gli investigatori.
Sembra che il gentile ed irreprensibile don Bernardelli, il rettore, in realtà avesse una doppia vita. Se ci pensiamo, nulla di eccezionale per la cronaca di oggi, ma per quel tempo sicuramente un modus vivendi scandaloso. L’uomo tutto d’un pezzo di giorno, di sera non disdegna la compagnia femminile. Una donna per alcuni, per altri molte, con altrettanti mariti gelosi.
Ma le voci si sa, spesso non portano a nulla. La sola cosa che con certezza si può dire su quell’uomo, è che ha contribuito a rendere grande il collegio, triplicando il numero degli iscritti in pochi anni. Ecco allora che gli inquirenti decidono di far partire le indagini dalle ultime ore di vita del rettore. Scoprono che le ha passate in compagnia di due persone, don Andolfatto, parroco di Castelnuovo Piano, e Vincenzo Montepagani.
Vincenzo è uno studente di ingegneria di 24 anni, non molto capace, che cerca di guadagnare qualche soldo per poter convolare a nozze con la sua fidanzata. Il rettore, mosso forse da buone intenzioni, decide di assumerlo per fare ripetizioni pomeridiane di matematica agli studenti del collegio. Ma il ragazzo ha bisogno di aiuto, così chiede ad una professoressa sua amica per preparare le lezioni insieme a lui. Don Umberto lo scopre e rimprovera aspramente il giovane, più di una volta, e tra i due si crea una situazione di tensione.
Inoltre Vincenzo è altro e robusto come l’uomo che è stato visto sulla scena del crimine. La pista sembra portare a lui. Si difende, giura di non c’entrare nulla con i delitti, che la sera del duplice omicidio, dopo essere uscito dall’ufficio del rettore, è andato a casa per restarci, ma non ha testimoni che possano confermare le sue parole. Tre settimane dopo i tragici fatti, gli investigatori lo accusano ufficialmente di duplice omicidio.
Caso risolto?
Vincenzo Montepagani finisce alla sbarra degli imputati. Il processo inizia 18 mesi dopo il suo arresto. Spuntano dei testimoni a suo favore e grazie all’intervento dell’avvocato difensore Tamburi di Sarzana, il giovane viene assolto per “non aver commesso il fatto”. Interviene direttamente Benito Mussolini che decide di risarcirlo per il carcere scontato con un assegno di L. 25.000 e per mettere a tacere le voci che insistenti accusano gli investigatori di negligenza e inesperienza.
Ricominciano le indagini.
Tutto è rimesso in discussione quando a Ghiaia di Falcinello, vicino a Sarzana, il 2 agosto 1938, all’alba, sono ritrovati due cadaveri. Sono Livio Delfini, 20 anni di professione barbiere, e Bruno Veneziani, 35 anni di professione taxista. I due uomini sono ritrovati morti accanto al taxi del Veneziani, crivellati di colpi da due rivoltelle diverse, un calibro 9 e una 6.5. Ad occuparsi del caso è il commissario Paolo Cozzi, che segue la pista politico sovversiva, su consiglio del Duce, desideroso di chiudere il caso al più presto. Il Cozzi obbedisce, ma segue anche un’altra pista, una sua idea personale che mette in relazione questo duplice omicidio con quello dei sacerdoti del collegio di Sarzana di 2 anni prima. Secondo lui si tratta dell’operato di un killer isolato.
Le indagini continuano, per mesi, ma non portano risultati concreti fino al 29 dicembre 1939, quando viene chiamato all’Ufficio del Registro di Sarzana dal direttore, che all’apertura quella mattina ha trovato il custode, Giuseppe Bernardini, con un’ascia piantata in mezzo alla fronte. Il commissario accorre e nota alcune cose insolite. L’impugnatura dell’ascia è appiccicosa, come se chi l’avesse afferrata non si fosse reso conto di avere le mani sporche, inoltre la cassaforte è aperta, vuota ma non scassinata. Il direttore, Guido Vizzardelli è sconvolto, anche perché è l’unico ad avere la chiave per aprirla.
Come mai? Il direttore è un uomo giusto, retto onesto, non è di Sarzana, ma tutti lo conoscono, lo apprezzano. Non si può sospettare di un uomo così. Il commissario si fa consegnare le chiavi della cassaforte e con grande sorpresasi accorge che sono appiccicose, proprio come il manico dell’ascia usata per il delitto. Come mai?
I sospetti nascono spontaneamente. Cozzi da ordine ai suoi uomini di perquisire l’abitazione del Vizzardelli. Le stanze sono controllate scrupolosamente, ma nulla. Finalmente in cantina un indizio. Su uno scaffale ci sono delle bottiglie vuote, appiccicose. Il proprietario di casa si giustifica dicendo che sono del figlio, che per passatempo distilla liquore. Partono le indagini. Il commissario investiga sul giovane Vizzardelli e scopre cose molto interessanti. Innanzi tutto frequenta l’avviamento commerciale proprio al Collegio delle Missioni. Coincidenza? Inoltre, nel 1936, preso dalla foga giovanile, ha danneggiato proprio all’interno della scuola un ritratto del Re e uno di Benito Mussolini. Azione riprovevole prontamente punita da don Bernardelli. Che fosse nata dell’acredine fra i due?
Il ragazzo viene convocato per un interrogatorio. Nato a Francavilla nel 1922, Giorgio William Vizzardelli, risiede a Sarzana. Lo interrogano per poche ore e finalmente confessa. Ha ucciso don Bernardelli, per vendetta, non sopportava quel rimprovero. Durante la fuga ha pensato solo a mettersi in salvo, ha sparato senza riflettere, senza paura delle conseguenze o di lasciare a terra altre vittime. E Livio Delfini? Casualmente l’uomo ha saputo della sua colpevolezza e lo ha ricattato. Con una scusa il giovane assassino gli dà appuntamento fuori citta, dove lo uccide insieme al taxista, testimone casuale, che lo ha accompagnato.
La sua mente folle, ottenebrata da sogni grandiosi e irrealizzabili, lo spinge a rubare le chiavi della cassaforte del padre, per prendere i soldi contenuti che gli sarebbero serviti per fuggire negli Stati Uniti.
Inizia un nuovo processo. Giorgio William Vizzardelli, nel gennaio 1941 è condannato al carcere a vita. La sua giovane età lo risparmia dalla pena di morte, con grande disappunto del Duce che avrebbe voluto una punizione esemplare. La famiglia sconvolta dagli avvenimenti, si trasferisce. Resterà in custodia per 27 anni, fino al 1968 quando l’allora presidente della repubblica Saragat, gli concederà la grazia.
L’uomo che esce dalla prigione non ha più i sogni della gioventù, non riconosce quell’Italia che nel frattempo è tanto cambiata. Andrà a vivere dalla sorella a Carrara, dove nell’estate del 1973, incapace di ritornare alla vita di tutti i giorni, si toglierà la vita.

Rosella Reali


Bibliografia




Annali della Casa della Missione di Sarzana 

L. delle Pere - La Casa della Missione di Sarzana e il Convitto dei Chierici 

L. Chierotti - Il delitto di Sarzana 26 anni dopo 

"Vita Cristiana” – Bollettino per le famiglie - Dicembre 1933


ROSELLA REALI
Sono nata nel marzo del 1971 a Domodossola, attualmente provincia del VCO. Mi piace viaggiare, adoro la natura e gli animali. L'Ossola è il solo posto che posso chiamare casa. Mi piace cucinare e leggere gialli. Solo solare, sorrido sempre e guardo il mondo con gli occhi curiosi tipici dei bambini. Adoro i vecchi film anni '50 e la bicicletta è parte di me, non me ne separo mai. Da grande aprirò un agriturismo dove coltiverò l'orto e alleverò animali. 
Chi mi aiuterà? Ovviamente gli altri viaggiatori.
Questa avventura con i viaggiatori ignoranti? Un viaggio che spero non finisca mai...

Gianni Rodari e quei libri bruciati dai preti negli oratori

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Gianni Rodari, all'anagrafe Giovanni, nacque ad Omegna, città piemontese posta sulle sponde del lago d'Orta, il 23 ottobre del 1920. Il padre, Giuseppe, svolgeva il lavoro di fornaio mentre la madre, sposata in seconde nozze da Giuseppe Rodari, era commessa nel negozio paterno, sito in una delle principali vie della cittadina. Ad Omegna frequentò le prime quattro classi elementari ma in seguito alla morte del padre, sopraggiunta nel 1929 a causa di una broncopolmonite, la madre decise di trasferirsi nel suo paese natale, Gavirate in provincia di Varese, con Gianni e Cesare, nato nel 1921. Negli anni successivi la madre decise di cedere la quota dell'attività di famiglia la fratellastro di Gianni, Mario, nato dalle prime nozze del padre. Nel 1931, all'età di undici anni, entrò nel seminario cattolico di San Pietro martire a Seveso, in provincia di Milano. La strada non era quella corretta e la madre, nel 1934 a quattordici anni di età, decise d'iscriverlo alle scuole magistrali.
A partire dal 1935 Rodari militò nell'Azione Cattolica; dai verbali delle adunanze di Gavirate si evince che nel dicembre dello stesso anno svolgeva la funzione di presidente. Anche l'ano seguente dedicò molto del proprio tempo all'organizzazione cattolica, pubblicando otto libri sul settimanale cattolico L'azione giovanile. Nel frattempo iniziò una collaborazione con Luce diretto da Monsignor Sonzini. Nel 1937 Gianni Rodari si diplomò come maestro a Gavirate. L'anno seguente fece il precettore presso una famiglia ebrea fuggita dalla Germania a Sesto Calende, sempre in provincia di Varese. Nello stesso anno si allontanò dall'associazione Azione Cattolica, rimettendo la presidenza. Nel 1939 decise d'iscriversi alla Facoltà di Lingue presso la prestigiosa università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Dopo pochi esami decise di abbandonare il corso di studi e l'università. Negli anni successivi insegnò in alcuni paesi del varesotto. Di quel periodo Gianni Rodari ricordò che fu una scuola divertente dove i bimbi utilizzavano la fantasia per correggere gli scritti dello stesso maestro. Poco dopo giunse la guerra a modificare la vita dell'uomo nato sulle sponde del lago d'Orta. Gianni fu esonerato dal servizio militare a causa della salute cagionevole. 
Nel frattempo vinse un concorso come maestro ed insegnò ad Uboldo, non lontano da Saronno. Nel 1943 fu richiamato alle armi dalla Repubblica di Salò ed assegnato all'ospedale milanese di Baggio. Per lo scrittore fu un periodo durissimo poiché perse i migliori amici ed il fratello fu internato in un campo di concentramento in Germania. Decise di prendere contatti con la Resistenza lombarda, gettando l'uniforme ed entrando in clandestinità. Il primo di maggio del 1944 s'iscrisse al Partito Comunista Italiano. Con la fine della guerra iniziò la carriera giornalistica in Lombardia, dirigendo il periodico della Federazione Comunista di Varese l'Ordine Nuovo. Nel 1947 iniziò la collaborazione con l'Unità di Milano, curando la rubrica La domenica dei piccoli. Nel 1950 lasciò la città meneghina per la capitale, dove fondò e diresse con Dina Rinaldi il giornale per ragazzi Pioniere. L'anno prima un decreto del Vaticano, conosciuto con il nome di Scomunica dei comunisti, aveva scatenato fortissime polemiche nel paese. 
La Scomunica dei comunisti è il nome con cui è conosciuto, a livello popolare, un decreto della Congregazione del Sant'Uffizio pubblicato il 1 luglio del 1949. Il decreto dichiarava illecita, a detta della Congregazione stessa, l'iscrizione al partito comunista, nonché ogni forma di appoggio ad esso. La Congregazione dichiarò inoltre che tutti coloro che professavano la dottrina comunista erano da ritenere apostati, quindi incorrevano nella scomunica. In questo clima da guerra fredda, nel 1951, Gianni Rodari pubblicò il suo primo libro pedagogico, Il manuale del Pioniere. Come si legge nel libro di Marcello Argilli, Gianni Rodari - Una biografia, il Vaticano definì lo scrittore e pedagogista come “un ex-seminarista cristiano diventato diabolico”. In seguito a queste accuse, le parrocchie bruciavano nei cortili copie del Pioniere e dei libri di Gianni Rodari. Una testimonianza di questi eventi è riportata da Alba Morsilli: “Una domenica mattina mentre mi apprestavo a fare il mio giro mi vide il parroco e mi strappò tutti i giornali di sotto il braccio e li bruciò. Allora non potevo immaginare che quel gesto era perché Gianni Rodari era stato scomunicato dal clero, e per tale motivo le parrocchie bruciavano i suoi libri e scritti...”. Gianni Rodari collaborò per il giornale per ragazzi Pioniere per una decina d'anni, sino alla cessazione della pubblicazione stessa. Il 25 aprile del 1953 sposò Maria Teresa Ferretti, segretaria del Gruppo Parlamentare del Fronte Democratico Popolare.
Il 13 dicembre dello stesso anno fondò Avanguardia, giornale nazionale della FGCI. Nel dicembre del 1956 fu chiamato da Pietro Ingrao all'Unità, dove resterò sino alla fine del dicembre 1958 prima di passare a Paese Sera come inviato speciale. Dello stesso periodo sono le collaborazioni con la RAI e con la BBC. Tra la fine degli anni cinquanta e la fine dei sessanta, Gianni Rodari si dedicò con passione al lavoro con i bambini. Fu un periodo molto duro per lo scrittore a causa delle condizioni fisiche e della grande mole di lavoro. Sono però anche gli anni della fama e della notorietà, grazie alle pubblicazioni con la casa editrice torinese Einaudi. In questo periodo raggiunse anche la tranquillità economica grazie alle collaborazioni con La via migliore e I quindici. Nel 1970 vinse il Premio Hans Christian Andersen, noto anche come Piccolo Premio Nobel della narrativa per l'infanzia. Si tratta di un premio letterario internazionale conferito ogni due anni come riconoscimento a un contributo duraturo alla letteratura per l'infanzia e la gioventù. A tutt'oggi Gianni Rodari è l'unico italiano ad aver vinto questo prestigioso premio (da non confondersi con l'analogo premio Andersen italiano).
Nel 1973 uscì il suo capolavoro pedagogico, Grammatica della Fantasia - introduzione all'arte di inventare storia. Il saggio era indirizzato ad insegnanti, animatori e genitori. Sino agli inizi degli anni ottanta continuò le sue collaborazioni giornalistiche e partecipò ad innumerevoli conferenze ed incontri nelle scuole italiane. Alcuni suoi testi pacifici furono musicati da Sergio Endrigo, su tutti spicca la famosa canzone Ci vuole un fiore. Purtroppo il 10 aprile del 1980 fu ricoverato in una clinica di Roma per un'operazione alla gamba sinistra dovuta all'occlusione di una vena. Morì il 14 aprile, quattro giorno dopo il ricovero, a causa di un collasso cardiaco. Aveva 59 anni. Le sue spoglie furono sepolte nel Cimitero del Verano.
Per comprendere l'importanza del personaggio, malgrado il maldestro tentativo di cancellare i suoi scritti con il rogo dei libri voluti dai preti, a partire dal 1980 sono state scritte decine di opere che parlano di Gianni Rodari ed esistono centinaia di parchi, circoli, biblioteche e scuole intitolate alla sua memoria. Il Parco Rodari più importante si trova ad Omegna, sua città natale.

Fabio Casalini

Bibliografia
Marcello Argilli, Gianni Rodari. Una biografia, Torino, Einaudi, 1990

Marcello Argilli, Carmine De Luca e Lucio Del Cornò (a cura di), Le provocazioni della fantasia. Gianni Rodari scrittore e educatore, Roma, Editori Riuniti, 1993

Pino Boero, Una storia, tante storie. Guida all'opera di Gianni Rodari, Torino, Einaudi, 1992

Franco Cambi, Collodi, De Amicis, Rodari. Tre immagini d'infanzia, Bari, Dedalo, 1985

Franco Cambi, Rodari pedagogista, Roma, Editori Riuniti, 1990

Mariarosa Rossitto, Non solo filastrocche. Rodari e la letteratura del Novecento, Roma, Bulzoni, 2011

Antonino Russo, Gianni Rodari, Bologna, Poligrafica moderna, 1976

Sitografia

www.giannirodari.it

FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.

Mary Ann Cotton, la vedova nera

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Dopo la morte di Mary Ann Cotton una popolare filastrocca ne rievocò la spaventosa figura: «Mary Ann Cotton è morta e putrefatta, giace nella tomba con gli occhi spalancati. Cantare, cantare, cosa posso cantare? Mary Ann Cotton ha al collo una corda. Dov'è, dov'è? Penzola in aria vendendo manine rinsecchite, un penny al paio». 
Chi era Mary Ann Cotton per meritarsi tale filastrocca per bambini? 
Mary Ann nacque il 31 ottobre del 1832 a Low Moorsley, in Inghilterra, da Michael e Margaret Robson, coppia appartenente alla classe operaia. La famiglia lottò tutta la vita per non affondare nella miseria. Il padre, Michael, lavorava in una miniera di carbone. Era una persona molto religiosa e rigida, amante della disciplina. Sia Mary Anna che il fratello Robert, nato nel 1835, probabilmente subirono molte punizioni corporali. Una seconda sorella, Margaret, morì poco dopo la nascita. Benché il cibo fosse scarso, sulla tavola dei Robson non mancava. Nel 1840, quando Mary Ann aveva otto anni, la famiglia si trasferì in un piccolo villaggio minerario, Murton nella contea di Durham, dove due anni dopo il loro arrivo il padre ebbe un incidente mortale. Il corpo di Michel fu consegnato alla madre in un sacco recante il timbro Proprietà dell'azienda del South Hetton Coal. 
Nell'Inghilterra del XIX secolo per una famiglia della classe operaia la vita era molto dura, ancora di più nel caso dei Robson poiché rimasero senza il padre. Dato che la permanenza nel cottage dove abitavano era legata al lavoro nella miniera, la famiglia rischiò lo sfratto. Per scongiurare tutto questo, o per amore ma non lo sapremo mai, la madre sposò George Stott, minatore. All'età di sedici anni, nel 1848, Mary Ann abbandonò la famiglia per iniziare a svolgere l'attività di domestica, nella casa di un manager dell'azienda mineraria, nel vicino villaggio di South Hetton. Tre anni dopo, quando tutti i figli del manager furono mandati al collegio di Darlington, la ragazza fece ritorno presso la madre ed il patrigno decidendo di voler imparare il lavoro della cucitrice. 
In questo periodo la ragazza conobbe William Mowbray, di professione minatore. I due si sposarono nel 1852, quando Mary Anna aveva 20 anni. Dopo il matrimonio, Mowbray decise di non scendere più nelle miniere ed iniziò a svolgere altre professioni, partecipando tra l'altro alla costruzione di strade ferrate in Cornovaglia e nella contea di Durham. La coppia nel frattempo si era trasferita a Plymouth. Dalla relazione nacquero 5 figli, quattro dei quali morirono per febbre gastrica. Benché la mortalità infantile fosse alta nell'Inghilterra vittoriana, questo fatto potrebbe costituire il primo segnale delle tendenze omicide di Mary Ann. Nel frattempo il marito trovò lavoro sul Newburn, un piroscafo che faceva base a Sunderland. La famiglia si trasferì in questa città. 
Per qualche tempo il vento sembrò girare nel verso corretto per Mary Ann. La coppia ebbe altri tre figli, che morirono tutti in tenera età. Purtroppo nel 1865, dopo un incidente al piede, William Mowbray tornò a casa per farsi curare. Poco dopo fu colpito da un misterioso disturbo intestinale. In pochi giorni morì, lasciando a Mary Ann un'eredità di 32 sterline, ottenute come rimborso per un'assicurazione sulla vita stipulata precedentemente. 
La donna si trasferì a Seaham Harbor dove intrecciò una relazione con Joseph Natrass che terminò quando questi si sposò con la donna con la quale era fidanzato. Mary Ann decise di affidare l'unica figlia ancora in vita, Isabella, alla nonna. Si trasferì nuovamente nel Sunderland dove trovò lavoro come infermiera nel reparto per la cura delle febbri contagiose nel locale ospedale. Conobbe un paziente, Georges Ward, che sposò nell'agosto del 1865. Poco dopo l'uomo cadde ammalato e, nonostante l'intervento di diversi medici, morì nell'ottobre del 1866 dopo diversi attacchi di paralisi e problemi intestinali. 
Chiaramente prima di morire aveva fatto testamento lasciando tutto alla moglie. 
Mary Ann, dopo una meritata vacanza, tornò a Sunderland dove conobbe l'uomo che sarebbe divenuto il suo terzo marito: James Robinson, di professione carpentiere. James, da poco vedovo, decise d'assumere Mary Ann come governante. Un mese dopo un figlio di James, di appena dieci mesi, morì per problemi gastrici. Nel frattempo Mary Ann, incinta di James, si recò dalla madre che si era ammalata. Dopo un apparente miglioramento la donna iniziò a lamentare fortissimi dolori allo stomaco. Si spense all'età di 54 anni, poco dopo l'arrivo della figlia. Mary Ann e la figlia Isabella, tornarono presso la casa di James Robinson. Nel giro di poche settimane morirono sia Isabella che gli altri due figli di James. L'uomo decise comunque di regolarizzare il rapporto con la donna sposandola nel 1867. Nel novembre dello stesso anno Mary Ann diede alla luce una bambina, Mary Isabelle, che si ammalò e morì nel marzo del 1868. Dopo questi eventi il maritò cominciò a diventare sempre più sospettoso: durante il loro breve matrimonio Mary Ann lo aveva assillato con continue richieste di denaro, insistendo sul fatto che l'uomo dovesse sottoscrivere un'assicurazione sulla vita. James rimase spiacevolmente sorpreso quando iniziò a ricevere lettere riguardanti i vari debiti che Mary Ann aveva contratto. Inoltre scoprì che la moglie aveva impegnato buona parte degli oggetti di valore trovati nella casa. Preso dalla collera la cacciò via, salvando la propria vita da morte sicura ed atroce. 
Mary Ann iniziò a trascinarsi per le strade, priva di una fissa dimora e di un letto. Tuttavia la sua indigenza durò poco, poiché trovò impiego come infermiera nel carcere di Sunderland. In questo periodo conobbe un ufficiale di Marina. Mentre l'uomo si trovava in mare, rubò tutti gli oggetti di valore della casa dove era ospitata rendendosi irreperibile in brevissimo tempo. 
In questa situazione Mary Ann divenne amica di Margaret Cotton che le fece conoscere il fratello Frederick, minatore da poco rimasto vedovo e che aveva perso due dei suoi quattro figli. Margaret curava i due piccoli sopravvissuti sino a quando, nel marzo del 1870, morì improvvisamente di una malattia indeterminata collegata allo stomaco. Mary Ann si assunse l'onere di consolare Frederick. L'uomo la mise incinta e la sposò nel settembre del 1870. L'anno seguente la bigama Mary Ann mise alla luce il piccolo Robert. La donna venne a sapere che il suo ex amante, Joseph Natrass, si era trasferito in un villaggio vicino. Inoltre Mary Ann seppe che l'uomo non era sposato. In brevissimo tempo riprese la relazione con lui. Frederick Cotton, che aveva sottoscritto un'assicurazione sulla vita e su quella dei figli, fu inspiegabilmente colpito da una febbre gastrica e morì nel dicembre del 1871. 
Nell'arco di poco tempo anche due dei tre figli di Cotton morirono, tra cui il piccolo Robert nato dalla relazione con la donna. Mary Ann nel frattempo era stata assunta con la mansione di infermiera presso John Quick-Manning, un agente delle imposte. In breve tempo divenne l'amante dell'uomo, che appariva un partito migliore rispetto a Joseph Natrass, restando incinta di quest'ultimo. L'anno seguente, 1872, Natrass morì per febbre gastrica dopo aver fatto testamento a favore di Mary Ann. Dopo la sua morte, la donna riscosse le 30 sterline dell'assicurazione, cominciando a progettare un modo per liberarsi dell'ultimo figlio di Frederick Cotton, Charles di otto anni. Mary Ann decise di non ucciderlo come gli altri ma cercò di farlo ricoverare in un ospizio di mendicità. Durante un colloquio con Thomas Riley, amministratore dell'istituto, seppe che non era possibile ospitare il piccolo senza la famiglia. In risposta Mary Ann Cotton disse che “avrei potuto sposarmi di nuovo, se non fosse stato per il ragazzo, ma tanto non vivrà a lungo e farà la stessa fine di tutta la famiglia Cotton”. Così avvenne. Il piccolo Charles morì poco tempo dopo e la diagnosi fu, naturalmente, febbre gastrica. La donna sarebbe stata così libera di sposare Quick-Manning, se i sospetti non avessero iniziato ad addensarsi su di lei. 
Thomas Riley, l'amministratore dell'ospizio di mendicità, si recò alla polizia per esporre i suoi dubbi sulla morte di Charles Cotton. L'uomo convinse il medico competente a non compilare il certificato di morte sino a quando non fossero chiare le cause del decesso. 
Fu aperta un'inchiesta durante la quale Mary Ann sostenne che Riley l'aveva accusata perché aveva respinto le sue avances. L'inchiesta preliminare concluse che Charles Cotton era morto per cause naturali. La decisione fu aspramente contestata dai giornali che misero in evidenza i numerosi morti per febbre gastrica fra coloro che avevano vissuto per qualche tempo al fianco di Mary Ann Cotton. 
Nel complesso si calcolarono 3 mariti, un amante, un'amica, la madre e circa dodici bambini. Gli inquirenti decisero per una perizia medico-legale che accertò la presenza di arsenico nel corpo del piccolo Charles. Mary Ann fu arrestata con l'accusa di omicidio. 
Per il processo si attese che l'imputata partorisse la figlia di John Quick-Manning, evento che si consumò il 5 marzo del 1873. La piccola in seguito fu adottata. 
La difesa dell'accusata avanzò ipotesi alquanto bizzarre. La prima affermava che Charles fosse morto per aver inalato l'arsenico proveniente dalla tintura verde utilizzata per i parati della casa dei Cotton. Una seconda tesi affermava che l'avvelenamento era dovuto al fatto che Mary Ann utilizzava una mistura di sapone ed arsenico per pulire i pavimenti. 
La giuria non credette a nessuna di queste strampalate ipotesi ed in appena 90 minuti giudicò Mary Anna Cotton colpevole. Quando il giudice Archibald lesse la sentenza di morte, Mary Ann svenne e dovette essere portata fuori dal tribunale da due guardie. La donna continuò a proclamarsi innocente fino al giorno della morte. Scrisse numerose lettere, non soltanto ai suoi sostenitori, ma anche al marito – era ancora legalmente sposata - James Robinson. Cercò di convincerlo a scrivere una petizione per affermare la sua innocenza e chiedere il rilascio. L'uomo rifiutò. Nonostante la vastità e la gravità delle accuse, la donna riuscì a persuadere molti altri a preparare il documento e a farlo circolare. 
Tutti questi sforzi risultarono vani. 
Il 24 marzo del 1873, all'età di quarantuno anni, Mary Ann Cotton fu condotta al patibolo situato nel carcere di Durham. 
Mary Ann divenne una delle prime serial killer della Gran Bretagna, nonché una delle prime donne in tutto il mondo a ricevere il soprannome di Vedova Nera.

Fabio Casalini

Bibliografia
Appleton, Arthur. Mary Ann Cotton: la sua storia e la sua prova . Londra: Michael Joseph, 1973

Shelley Klein - Miranda Twiss, I personaggi più malvagi della storia, Newton Compton Editori, 2002

B. O'Donnel, Mary Ann Cotton - Britain's Mass Murderess, saggio contenuto in Should Women Hang?, London, 1956

Fiandre, Judith. L'invenzione dell'omicidio . Londra: Harper Ress, 2011

FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.

Cenerentola, una favola che ha attraversato la storia

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Cenerentola è un racconto popolare che incarna un mito, basato sull'ingiusta oppressione e sulla ricompensa trionfante, di cui sono conosciute diverse varianti in tutto il mondo. La versione più antica conosciuta della leggenda di Cenerentola è la storia della greca Rhodopis, una cortigiana che viveva nella colonia di Naucratis in Egitto. La storia fu registrata per la prima volta dal geografo greco Strabone nella Geographica, probabilmente scritta intorno al 7 avanti Cristo, anche se le prime notizie di una Rhodopis risalgono ad Erodoto, vissuto cinque secoli prima di Strabone, che narrò la leggenda popolare di una cortigiana non dissimile da quella successiva del geografo greco. Strabone all'interno del suo Geographica ricordò, a proposito di Rhodopis, che “raccontano la favolosa storia che, quando faceva il bagno, un'aquila strappò uno dei sandali della cameriera e lo portò a Memphis; e mentre il re stava amministrando la giustizia all'aria aperta, l'aquila, quando arrivò sopra la sua testa, gettò il sandalo sulle sue ginocchia; e il re, agitato sia dalla bella forma del sandalo che dalla stranezza dell'evento, mandò uomini in tutte le direzioni del paese alla ricerca della donna che indossava il sandalo; e quando fu trovata nella città di Naucratis, fu portata a Memphis, dove divenne la moglie del re”. La medesima storia fu riportata anche dall'oratore romano Claudio Eliano, morto nel 235 dopo Cristo, nella sua Storia Miscellanea, scritta interamente in greco. La storia di Claudio Eliano ricorda molto da vicino quella raccontata dal geografo Strabone, ma aggiunse il nome del faraone in questione, Psammetichus. Claudio Eliano volle ricordare che la storia di Rhodopis rimase popolare in tutta l'antichità. 
Nel XII secolo apparve il poema lirico La Fresne, scritto da Marie de France, che possiamo considerare una variante europea della storia di Cenerentola. I protagonisti principali dell'inizio della narrazione La Fresne sono due cavalieri, e le rispettive mogli. La favola francese prosegue con la moglie di uno dei due che diede alla luce due gemelli, l'altra moglie, quando venne a sapere del parto, dichiarò che per avere due figli contemporaneamente significava che la donna doveva aver dormito con due uomini. Molti considerarono questo commento diffamatorio e non diedero peso alle parole della moglie del secondo cavaliere, considerandola probabilmente gelosa per il parto gemellare dell'altra moglie. Il marito della donna che diede alla luce due gemelli decise di portare la propria famiglia lontano da quelle maledette malelingue. La seconda moglie, quella che commentò il parto gemellare, diede a sua volta alla luce due figlie gemelle. La donna, che non voleva cadere nella cattiveria delle malelingue, progettò di uccidere segretamente una delle figlie per negarne l'esistenza. Un'ancella si offrì invece di nasconderla, per salvarle la vita. La ragazza, decise di adornare il braccio della bimba con un broccato decorato, segno della nascita nobile, prima di lasciarla sotto un albero di frassino appena fuori da un'abbazia. Un facchino trovò la bimba e la chiamò Le Fresne, albero di frassino dal francese, e la consegnò ad una badessa per allevarla. La Fresne divenne una donna straordinariamente bella, tanto che un rispettato signore della zona, Gurun, si innamorò perdutamente di lei. Gurun, come scusa per le continue visite all'abbazia, decise di effettuare numerose donazioni, guadagnandosi segretamente l'amore di La Fresne. I due s'innamorarono perdutamente e la ragazza rimase incinta. Temendo l'ira della badessa, Gurun convinse la giovane a fuggire con lui. I cavalieri di Gurun, preoccupati del fatto che il loro signore potesse sposare una semplice ragazza perdendo le terre e la stirpe alla morte dell'uomo, trovarono una nobildonna molto bella di nome La Coudre (albero di nocciolo). Gli uomini convinsero Gurun che per proseguire la nobile stirpe fosse necessario sposare la nobildonna. La notte precedente il matrimonio La Fresne aiutò a preparare il letto nuziale poiché conosceva i gusti di Gurun. Non trovando il letto nuziale di suo gradimento, aggiunse il broccato con cui era stato cinto il suo braccio al momento dell'abbandono. La madre di La Coudre riconobbe il broccato e scoprì che la ragazza era la sorella gemella di La Coudre. Il matrimonio fu annullato. La
 Fresne e Gurun si sposarono poco dopo. Fu trovato un marito anche per la sorella gemella concedendo un lieto fine alla narrazione.
Non c'è meravigliarsi se questa leggenda, come molte altre, sia presente in tradizioni popolari molto distanti tra loro e apparentemente non comunicanti, tanto che una versione particolare di Cenerentola la ritroviamo in Cina nella storia di Yeh-Shen, raccontata da Tuan Ch'ing-Shih. Tra gli elementi della fiaba, che derivano dalla versione di Ch'ing-Shih c'è quello dei piedi minuti della protagonista, notoriamente segno di nobiltà e distinzione nella cultura cinese. La versione di Ch'ing-Shih enfatizzava il fatto che Yeh-Shen, Cenerentola, avesse i piedi più piccoli del regno. Nelle versioni occidentali che hanno perso questa premessa risulta oscuro il motivo per cui il principe si aspetti che una sola ragazza del regno sia in grado di indossare la scarpina ritrovata. Inoltre in alcuni versioni successive non si tratta neppure di una scarpa ma bensì di un anello o di un bracciale.
In Italia la prima versione della fiaba fu quella di Giambattista Basile, del 1634. La pubblicazione era intitolata La gatta Cenerentola. Diversa da questa fu la versione di Charles Perrault, della seconda metà del XVII secolo.
In cosa la versione di Perrault si differenziava da quella di Basile?
L'autore francese depurò la versione di Basile da molti aspetti crudi per renderla più adatta ad essere raccontata alla corte del re di Francia. La storia di Basile era ambientata nel Regno di Napoli, a quell'epoca importante centro politico e culturale del Sud Italia. Inoltre il racconto era scritto in dialetto napoletano. La versione di Basile narrava le gesta di un'eroina, Zezolla, che si macchiava dell'omicidio della propria matrigna, che fu sostituita da una nuova peggiore della precedente. Un aspetto che non fu modificato da Perrault fu quello relativo al nome: nella versione francese divenne Cendrillon. Il nome, Cenerentola, deriva dalla parola italiana cenere e dipende dal fatto che i servi e gli sguatteri, al tempo di Basile, erano solitamente sporchi di cenere a causa del fatto che vivevano in freddi scantinati e, normalmente, cercavano di scaldarsi seduti vicino al caminetto.
La versione successiva a quella di Perrault la fiaba, chiamata Aschenputtel, dei fratelli Grimm, del 1812. Questa versione è molto più intensa di quella dell'autore francese poiché il padre di Cenerentola non muore e le sorellastre mutilano i loro piedi per adattarli alla scarpetta d'oro. Inoltre non esiste la fata madrina e l'aiuto per l'eroina della storia proviene da un albero dei desideri che la ragazza aveva piantato sulla tomba di sua madre. Le due versioni divergono anche per la sorte delle sorellastre poiché i fratelli Grimm fecero loro subire una terribile punizione per la crudeltà dimostrata.
Esistono molte altre versione della favola di Cenerentola, dalla narrazione persiana chiamata Il vasetto magico a quella russa conosciuta come Vasilisa la Bella.
In conclusione, possiamo affermare che ogni popolo, o gruppo sociale, ha modificato e rimaneggiato alcuni elementi della favola, enfatizzando quelli che riteneva più utili alla propria causa.
La favola di Cenerentola, come la maggior parte delle narrazioni fiabesche, è in continua trasformazione, al pari della realtà che viviamo quotidianamente, ed ancora oggi nascono nuove versioni della fiaba.
Cenerentola è un riferimento estremamente comune nella nostra cultura e ne sono state realizzate centinaia di adattamenti cinematografici e televisivi.

Fabio Casalini


Bibliografia

Aldo Troisi (a cura di), Favole e racconti dell'Egitto Faraonico, Milano, Xenia, 1991

Piera Gioda, Carla Merana e Maria Varano, Fiabe e intercultura, Bologna, Emi, 2002

Claudio Eliano, Storia Varia. Libro XIII, 23

Hansen, William (2017). The Book of Greek & Roman Folktales, Legends & Myths. Princeton, New Jersey: Princeton University Press

Dundes, Alan. Cinderella, a Casebook. Madison, Wis: University of Wisconsin Press, 1988

Maria Tatar, The Annotated Brothers Grimm, p 116 W. W. Norton & company, London, New York, 2004 

Basile, Giambattista (1911). Stories from Pentamerone, London: Macmillan & Co., translated by John Edward Taylor


FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.





La strage del treno 8017, un disastro ferroviario dimenticato

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Alle tre del mattino del 3 marzo 1944 un telegrafista di turno a Potenza trascrisse un messaggio: Tren0 8017 fermo in linea tra Balvano e Bella-Muro per insufficienza forza trazione, attende soccorso.
Sono le prime scarne informazioni di quello che diventerà il più grande disastro ferroviario della storia italiana. Una sciagura che pochi ricordano, accerchiata e vinta dalle notizie riguardanti gli ultimi mesi del secondo conflitto mondiale.
Ricostruiamo i fatti per comprendere cosa sia accaduto al treno 8017.
Il 2 marzo, nel pomeriggio, il treno merci 8017, creato per caricare legname da utilizzare nella ricostruzione dei ponti distrutti dal secondo conflitto mondiale, partì da Napoli con destinazione Potenza. Il treno era molto lungo, motivo per cui fu dotato di una locomotiva elettrica del gruppo E.626 che fu sostituita, a Salerno, da due locomotive a vapore poste in testa al treno. Le due locomotive a vapore furono necessarie per percorrere il tratto dopo Battipaglia, che all'epoca dei fatti non era elettrificato. Il treno giunse a Battipaglia poco dopo le sei del pomeriggio. La linea che conduceva i treni da Napoli a Potenza era utilizzata dai campani per giungere in Basilicata, in fuga dalla fame. Erano i mesi insanguinati dalla battaglia di Cassino, dalla borsa nera e dalla paura. Il tratto che dalla Campania conduceva in Basilicata era percorso sia dai treni passeggeri che dal treno 8017, destinato al trasporto di materiali per la ricostruzione. Il treno 8017 non viaggiava in giorni stabiliti, come i treni passeggeri che partivano due volte la settimana da Napoli in direzione Potenza. Il treno merci viaggiava ad orario libero. Partiva quando vi era occorrenza dei materiali che trasportava. 
Il treno 8017 partì vuoto da Napoli per caricare i materiali destinati alla ricostruzione delle infrastrutture distrutte dai bombardamenti. Nessuno sarebbe dovuto salire su quel treno. Nelle stazioni intermedie, Salerno ma soprattutto Battipaglia, fu preso d'assalto da persone che volevano trasportare beni da scambiare al mercato nero. Il treno ripartì da Battipaglia con il suo carico umano e di merci alle 19.00. Era composto da 47 carri merce ed aveva la ragguardevole massa di 520 tonnellate. La seconda locomotiva, non prevista in origine, fu necessaria per spostare il treno dalla Campania a Potenza, soprattutto per rendere più facile il valico tra Baragiano e Tito. Come tutte le locomotive delle Ferrovie dello Stato di quell'epoca le macchine avevano una cabina aperta ed un equipaggio formato da due persone: il macchinista per la conduzione ed un fuochista per spalare il carbone. Ad Eboli salirono altre 100 persone, tra cui un professore dell'Università di Bari che cercava di fare ritorno verso casa con una decina di studenti. Alla stazione di Romagnano salirono molte altre persone, tanto che il treno contava oltre 600 passeggeri. Molti di questi erano ragazzi provenienti dai grandi centri del napoletano che trasportavano beni, dal caffè ai maglioni, per scambiarli con zucchero, farina e pane al mercato nero di Potenza. Il treno giunse alla stazione di Balvano-Ricigliano verso la mezzanotte. La partenza fu ritardata di oltre mezzora per manutenzione alle locomotive. Il treno 8017 ripartì dieci minuti prima della una del 3 marzo del 1944. Il tratto dalla stazione di Balvano-Ricigliano alla successiva di Bella-Muro prevedeva una notevole pendenza con gallerie molto strette e poco aerate. Il treno 8017 avrebbe dovuto compiere quel tragitto in circa 20 minuti. Alle due e trenta del mattino non era ancora segnalato alla stazione di Bella-Muro.
Cos'era accaduto tra le due stazioni?
Nella galleria chiamata delle Armi, a causa dell'eccessiva umidità, le ruote iniziarono a slittare. Il treno perse aderenza, rallentando sino a rimanere bloccato. La galleria delle Armi è lunga poco meno di 2 km con un pendenza media di quasi il 13%. Il treno si arrestò 800 metri dopo l'ingresso. Solo gli ultimi due vagoni non erano entrati in galleria. Dato che poco prima un altro treno era transitato su quel percorso, all'interno della galleria, dotata di scarsissima aerazione, vi era una significativa concentrazione di monossido di carbonio. Gli sforzi delle locomotive per riprendere la marcia svilupparono grandi quantità di monossido di carbonio, facendo perdere i sensi al personale in cabina. In brevissimo tempo anche la maggioranza dei passeggeri, che stava riposando, fu asfissiata dai gas tossici che non potevano uscire dalla stretta galleria se non attraverso un piccolo condotto di aerazione. Il fuochista che sopravvisse alla disgrazia, Luigi Ronga, dichiarò che il macchinista, prima di svenire, tentò di dare potenza per superare lo stallo e trascinare il treno, con tutto il suo carico umano, fuori dalla galleria. Luigi Cozzolino, che dormiva accanto al figli dodicenne, si svegliò per le urla e si accorse che il ragazzo era morto. Il diciannovenne Ciro Pernace si addormentò sotto una mantella militare, svegliandosi all'ospedale di Potenza. 
Molti altri non furono così fortunati. Alcuni passeggeri morirono senza rendersene conto. Altri cercando di scaraventarsi fuori dalle carrozze. Altri ancora schiacciati dalla folla impazzita. Gli operatori della seconda locomotiva, Matteo Gigliano ed il fuochista Rosario Barbaro, cercarono di invertire la marcia per retrocedere. Nel momento critico i due macchinisti agirono in modo opposto: il primo cercò di avanzare e il secondo di tornare indietro. Inoltre, a complicare ulteriormente la situazione, accadde che il frenatore del carro di coda, Giuseppe De Venuto, rimasto fuori dalla galleria, applicò alla lettera il regolamento che gli imponeva di manovrare il freno manuale per bloccare la marcia. Il frenatore, insieme al fuochista della locomotiva di testa, si salvò e camminando lungo i binari riuscì ad avvisare, alle 5.10 del mattino, il capostazione di Balvano che nella galleria delle Armi era presente un treno con numerosi cadaveri a bordo. Il capostazione di Balvano, alle 5.25, fece sganciare la locomotiva del treno 8025 e dispose una ricognizione alla galleria indicata. I soccorsi appena giunti sul posto si resero conto della gravità della disgrazia. Riuscirono a soccorrere 90 superstiti delle vetture più arretrare, tutti recanti sintomi di intossicazione da monossido di carbonio. Alle 8.40, con l'arrivo di uno seconda squadra di soccorsi, la linea fu liberata e il treno recuperato.
Il bilancio della tragedia fu impossibile da accertare con chiarezza, e fu oggetto di controversie: la stima ufficiale parlava di 501 passeggeri, 8 militari e 7 ferrovieri morti; alcune ipotesi considerano oltre 600 le vittime del disastro. Non tutti i passeggeri furono riconosciuti. I cadaveri furono allineati sulla banchina della stazione di Balvano e sepolti, senza funerali, nel cimitero del paese, in quattro fosse comuni. Gli agenti ferroviari furono sepolti a Salerno. Molti dei sopravvissuti riportano lesioni psichiche e neurologiche.
La disgrazia del treno 8017 è la più grave sciagura ferroviaria italiana ed una delle più gravi al mondo.
Nell'immediatezza degli eventi, come fu raccontata la sciagura?
Il Corriere della Sera parlò “500 italiani periti per asfissia e 49 superstiti in ospedale”. Il consiglio dei Ministri, riunitosi a Salerno, parlò di 517 morti. Aggiunse: “Tutto il personale addetto al treno è deceduto, all'infuori di un fuochista. Tutti gli altri erano viaggiatori di frodo”. Lo stesso consiglio dei Ministri azzardò che la disgrazia era da “attribuirsi alla pessima qualità del carbone fornito dagli alleati”. Anche gli anglo-americani fecero un'inchiesta concludendo che le persone erano decedute a causa di un “avvelenamento da combustione di carbone di pessima qualità”. La Stampa di Torino, pubblicata in quella che ancora era la Repubblica di Salò, scrisse: “le notizie, finora trasmesse con il contagocce dagli inglesi, bastano ad inquadrare il tragico episodio nei sistemi usati dai liberatori nei riguardi dei nostri disgraziati connazionali caduti sotto il loro dominio”.
Molti dei parenti delle vittime intentarono causa alle Ferrovie dello Stato, le quali declinarono ogni responsabilità, sostenendo che su quel treno non avrebbero dovuto trovarsi passeggeri di alcun tipo. Le Ferrovie dello Stato dissero inoltre che non era nemmeno possibile risalire a chi avesse responsabilità della gestione della tratta nella quale si era consumata l'orrenda tragedia.
Per spegnere sul nascere le proteste dei familiari, che avrebbero potuto causare una vertenza che si sarebbe trascinata per anni, il Ministero del Tesoro sancì l'emissione di un risarcimento come se si trattasse di vittime di guerra.
Il risarcimento fu erogato dopo oltre 15 anni dalla tragedia.
Nel 1951 la rivista americana Time scrisse: “il governo alleato si sforzò di occultare l'incidente per evitare l'effetto deprimente sul morale degli italiani”.
Alla fine quello che conta è quanto riportato nella lapide scolpita nel cimitero di Balvano, ovvero che la disgrazia causò 509 morti, 408 uomini e 101 donne.
Forse 509 morti.
Forse furono oltre 600, molti dei quali senza nome, senza possibilità che qualcuno possa un giorno ricordarsi di loro.

Fabio Casalini

Bibliografia
Gianluca Barneschi, Balvano 1944. Indagine su un disastro rimosso, Gorizia, LEG Libreria Editrice Goriziana, 2014

Salvio Esposito, Galleria delle Armi, Napoli, Marotta & Cafiero, 2012

Vincenzo Esposito, 3 marzo'44. Storia orale e corale di una comunità affettiva del ricordo, Salerno/Milano, Oèdipus edizioni, 2014

Gigi Di Fiore, Il treno della morte, Focus storia, Storie d'Italia

Gennaro Francione, Calabuscia, Roma, Aetas Internazionale, 1994

Gordon Gaskill, La misteriosa catastrofe del treno 8017, in Le 33 storie che hanno commosso il mondo, XXIX, nº 166, Selezione dal Reader’s Digest, luglio 1962 

Alessandro Perissinotto, Treno 8017, Palermo, Sellerio Editore, 2003

Patrizia Reso, Senza ritorno. Balvano '44, le vittime del treno della speranza, Maiori, Terra del Sole, 2013


FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti

Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.

La bestia di Cusago, la lupa che divenne antropofaga

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Correva l'anno 1728 e per le strade di Milano circolava uno strano manifesto, ad opera di Gaetano Bianchi, con la seguente didascalia: “ritratto della Fiera Bestia veduta sul contado di Novara dove ha fatto e sta facendo strage di uomini e donne di ogni età, particolarmente nel territorio di Olegio, di Ghemine, di Momo e di Barengho, già come si è ragguagliato da lettere e notizie riportate nella pubblica Gazzetta di Milano numero 26 del 30 giugno 1728”. La popolazione di Milano, sgomenta ed impaurita, pensava a quei poveri contadini delle terre novaresi, tutti i paesi citati dal Bianchi si trovavano nella pianura in provincia di Novara, sbranati da una bestia che sembrava uscita dai peggiori incubi. La fiera bestia aveva la testa di cinghiale ed il corpo di cane, e le dimensioni potevano essere quelle di un vitello o di un torello. 
Tra la fine del medioevo e l'inizio dell'epoca moderna nacque la leggenda del porcocane, animale leggendario che trovò in quei secoli la giusta collocazione dopo aver subito infinite trasformazioni nel corso dei secoli. Il porcocane fu il risultato finale di un incubo ricorrente nella mente delle popolazioni. La fiera bestia nasceva, in epoca medievale, come un animale gigantesco munito di grandi corna, grandi creste e pelle corazzata a squame 
Vassalli, analizzò questa figura leggendaria nel libro la Chimera. Lo scrittore, tra il serio ed il faceto, concluse l'analisi sottolineando che “noi oggi possiamo riderne, ma all'epoca della nostra storia, cioè i primi anni del seicento, la fiera bestia faceva ancora veri danni con vere vittime”. (Sebastiano Vassalli, la Chimera, capitolo XIX). 
Purtroppo gli avvistamenti e le morti che ne seguirono non furono isolate alla pianura novarese. Un caso scosse le coscienze dell'Italia Settentrionale nel settecento: la bestia di Cusago. La bestia, in milanese bèstia de Cusagh, fu una lupa attiva durante l'estate del 1792 nel bosco di Cusago nel Ducato di Milano. L'animale era divenuto antropofago e uccise, divorandole, diverse vittime, sempre bambini. 
Proviamo a ricostruire gli eventi partendo dal 5 luglio del 1792. La prima vittima umana della fiera bestia fu Giuseppe Antonio Gaudenzio di Cusago. Secondo i resoconti dell'epoca, il giorno precedente il ragazzo condusse le vacche, unica ricchezza della famiglia, a pascolare nel bosco di Cusago, villaggio posto tra Milano e Novara. Purtroppo ne perse una facendo ritorno a casa senza l'animale. Il padre, severo, lo riprese e lo mandò nel bosco a cercarla. Al mattino, non vedendolo rincasare, decise di andarlo a cercare. Trovò la vacca ma non il ragazzo. Alcuni giorni dopo furono rinvenuti dei calzoncini lordi di sangue, un cappello ed alcuni avanzi del corpo di un fanciullo divorato. Furono accusati i lupi di aver attaccato e smembrato il corpo del piccolo. Le notizie dell'aggressione al piccolo Giuseppe ancora non erano giunte a Milano quando, il giorno 9 di luglio del 1792, pervenne la segnalazione di ciò era accaduto a Limbiate, paese non lontano da Cusago. Alcuni ragazzi, di ambo i sessi, stavano curando le vacche delle famiglie quando, sul fare della sera, videro avvicinarsi una bestia simile ad un grosso cane. Non sapendo come affrontare l'animale decisero di salire sugli alberi gridando con quanto fiato avessero in corpo. Lontano i contadini non udirono le tremende urla. Dopo alcune ore i ragazzi decisero di scendere dagli alberi. Appena i fanciulli toccarono il suolo la bestia, che si era celata, sbucò dalla macchia. Uno di loro fu afferrato, Carlo Oca di otto anni, per il collo e trascinato nel bosco. I restanti ragazzi riuscirono a raggiungere il villaggio. I contadini iniziarono le ricerche del piccolo Carlo, trovandolo in parte divorato. Furono accusati i lupi dell'aggressione anche se i ragazzi diedero una descrizione dettagliata della fiera bestia che s'allontanava dalla figura del lupo. I contadini attribuirono tale raffigurazione alla spaventata immaginazione. Quando le notizie giunsero a Milano qualcuno ripensò a Bartolomeo Cappellini ed alle sue iene che aveva portato in città rinchiuse in una gabbia di legno e ferro per esporle alla pubblica curiosità. Alcuni osservarono che le gabbie non erano in buono stato e che gli animali avrebbero tranquillamente potuto evadere dalla prigionia umana. Crebbe maggiormente il sospetto quando i milanesi seppero che il Cappellini si trovava a Cremona con una sola iena in gabbia. Quando fu interrogato sulla scomparsa della seconda iena abbozzò risposte vaghe. Bartolomeo Cappellini, vedendo crescere intorno a se l'inchiesta e venuto a conoscenza delle stragi, decise d'abbandonare il milanese per trovare rifugio in Veneto, dove non dimorò a lungo. 
L'opinione che fosse una iena la fiera bestia del milanese scatenò la fantasia di intagliatori in legno, stampatori e naturalisti. Tutti diedero un ritratto della bestia, e le raffigurazioni si vendevano ad ogni angolo di strada. 
Il giorno 12 di luglio, sempre del 1792, a Milano giunse la notizia che a Corbetta, non distante da Limbiate, una fiera bestia aveva rapito ed in parte divorata la piccola Giuseppa Suracchi di anni sei. Il rapimento avvenne quando la fanciulla era in compagnia della sorella maggiore sulla strada che da Corbetta conduceva a Cassina Pobbia. Le sorelle, intente a pascolare gli animali, furono aggredite da una bestia che, veloce, sbucò dalle siepi. La sorella maggiore, impaurita e distrutta per il rapimento della piccola Giuseppa, corse in direzione dei parenti. I contadini accorsero velocemente e trovarono, dopo lunghe ricerche, il corpo della piccola sbranato. Tra le persone crebbe e si consolidò l'idea che la bestia altro non fosse che una iena. I milanesi si convinsero sulla base dei resoconti delle aggressioni che ricordavano che la bestia scannava le vittime partendo dalla gola, quasi a volerne bere il sangue. Altri continuarono ad attribuire ai lupi le insidie ed i mali che colpivano la pianura tra Milano e Novara. 
Per qualche giorno la bestia si acquietò, nutrendosi di polli. Forse di qualche carcassa di cavallo. Nel frattempo la bestia fu veduta in un campo nei pressi di Cesano, non lontano da Milano, sulla strada comasina. Quando i contadini furono avvertiti dell'avvistamento, si armarono e si diressero verso il campo. Per lunghe ore non accadde nulla poi, all'improvviso, la bestia, a grandi balzi, corse nella direzione opposta a quella degli uomini armati, che non ebbero nemmeno il tempo di sparare un colpo di fucile. Gli stessi avvenimenti furono narrati da un gruppo di cacciatori di Cusago. 
Il 14 di luglio fu promulgato dalla Conferenza Governativa il seguente avviso: In questo momento giunge alla notizia della Conferenza Governativa, che la Campagna di questo Ducato trovasi infestata da una feroce Bestia di color cenericcio moscato quasi in nero, della grandezza di un grosso cane, e dalla quale furono già sbranati due fanciulli. Premurosa la medesima Conferenza di dare tutti li più solleciti provvedimenti, che servir possano a liberare la provincia dalla detta infestazione, ha disposto che debba essere subito combinata una generale Caccia con tutti gli Uomini d' armi delle Comunità, col satellizio di tutte le Curie, e colle guardie di Finanza. Al tempo stesso rende inoltre noto, che da questa Tesoreria Camerale verrà pagato il premio di cinquanta Zecchini effettivi a chiunque, o nell'atto della suddetta generale Caccia, o in altra occasione avrà uccisa la predetta Bestia feroce: somma che verrà subito sborsata dal Regio Cassiere Don Giuseppe Porta, in vista del certificato, che rilascierà il Regio delegato della Provincia, nel di cui Territorio la suddetta Bestia sarà stata ammazzata. Milano li 14 Luglio 1792. 
Quando l'avviso fu distribuito crebbe, notevolmente, il numero di cacciatori che aspiravano al premio, ma soprattutto all'onore di aver liberato l'Insubria da tale feroce nemico. 
Il giorno 19 di luglio fu eseguita una caccia generale tramite gli uomini d'armi, ossia contadini della Comunità della Lombardia austriaca che, grazie ad alcuni privilegi, godevano del diritto di tenere presso la propria abitazione un fucile e le relative munizioni e del dovere di servire, all'occorrenza, il Regio Cancelliere del distretto. Gli uomini d'armi percorsero le campagne dove la bestia era solita aggredire i bambini. La caccia generale fu inutile poiché nessuno vide la fiera bestia. Fu allora deciso d'utilizzare gli uomini d'armi come sentinelle, accoppiandoli ai ragazzi che conducevano il bestiame al pascolo. 
La Conferenza Governativa emanò un secondo avviso: Per vieppiù animare gli Uomini d' armi, li Cacciatori, e qualunque altra persona a far ogni tentativo per distruggere la Bestia feroce, che infesta alcuni distretti di questo Ducato, la Conferenza Governativa ha determinato di aumentare fino a cento cinquanta Zecchini il premio, che verrà corrisposto a chi avrà uccisa la Bestia predetta. Tale premio sarà corrisposto nel modo, che nell' avviso del 14 andante fu indicato per quello di cinquanta Zecchini, trovato equitativo in allora, che si ordinava pure una generale Caccia, e che ignorandosi per anche l' agilità, e la velocità della stessa Bestia, era da supporsi meno difficile il poterla uccidere. Milano 24 Luglio 1792. 
La bestia, incurante degli avvisi, uccise un'altra vittima il 1 agosto del 1792. La belva feroce attaccò un gruppo dei ragazzi presso Senago, uccidendo la bambina Antonia Maria Berretta, di anni otto. Il giorno 3 di agosto fu ucciso, e parzialmente divorato, Domenico Cattaneo. Il giorno 4 fu uccisa, ad Arluno, Giovanna Sada, bambina di anni dieci. Gli attacchi alle porte di Milano crearono un'isteria collettiva, diffondendo la superstizione che fossero segni di sventura e collegandoli all'intervento austriaco nella Rivoluzione francese. Furono distribuiti fucili e baionette a chiunque si offrisse volontario nella caccia alla bestia. Tutti questi sforzi risultarono vani. Il 16 agosto fu uccisa presso Barlassina Anna Maria Borghi, di anni tredici. Il 21 agosto fu rinvenuto il cadavere di Giuseppina Re presso il bosco di Chiappa Grande. Il giorno seguente la bestia uccise Maria Antonia Rimoldi presso Terrazzano. Il 24 agosto fu approvato un piano, messo a punto dai preti Filippo Rapazzini e Giuseppe Comerio, in cui la bestia avrebbe potuto essere catturata attraverso lo scavo di buche mimetizzate e recintate, con una sola apertura a vista davanti alla quale sarebbero stati posti come esca degli animali. Il 24 settembre 1792, fu annunciata la cattura e l'abbattimento di un lupo caduto in una fossa scavata presso Cascina Pobbia. La carcassa fu mostrata ai superstiti dei suoi attacchi e identificata, sebbene alcuni fossero dubbiosi. Un esame dettagliato del lupo dimostrò che si trattava di una femmina affetta da numerose cicatrici sugli arti, e con canini superiori particolarmente consumati. Siccome non vi furono ulteriori segnalazioni di aggressioni dopo la morte del lupo, il 5 ottobre 1792 fu annunciato ufficialmente che si trattava infatti della bestia di Cusago. La carcassa fu successivamente imbalsamata ed esposta nei locali presso Piazza del Duomo, per poi essere venduta al prezzo di 12 zecchini al museo di storia naturale dell'Università di Pavia. 

Fabio Casalini

Bibliografia
Comincini, M. (2002), L'uomo e la "bestia antropofaga": storia del lupo nell'Italia settentrionale dal XV al XIX secolo, Edizioni Unicopli

Giornale circostanziato di quanto ha fatto la bestia feroce nell'Alto Milanese dai primi di Luglio dell'anno 1792  sino al giorno 18 Settembre p. p. In Milano, A spesa dello Stampatore Bolzani, [1792]


FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.

Il naufragio del piroscafo Sirio, il Titanic del Mediterraneo

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Il 4 di agosto del 1906 il piroscafo Sirio, salpato da Genova due giorni prima, naufragò al largo della costa spagnola, nei pressi della Catalogna. Furono centinaia i cadaveri ripescati dalle acque e, successivamente, allineati sulla spiaggia. Quanti furono i morti non fu mai accertato. Quello che sapevano, e sappiamo, è che la maggioranza dei cadaveri erano di nazionalità italiana. Erano emigranti in viaggio per il Sud America.
La Sirio fu costruita a Glasgow, Scozia, ed inaugurata nel 1883. La nave aveva due fumaioli alti e sottili e tre alberi a goletta, imbarcazione a vela fornita di bompresso e due alberi leggermente inclinati verso poppa ed armati da vele.
La nave lasciò il porto di Glasgow il 19 giugno del 1883 e giunse a Genova il 27 giugno dello stesso anno. Ripartì il 15 luglio con destinazione Plata, in Argentina. Il piroscafo Sirio ero utilizzato per trasportare gli emigranti in Sud America.
Per il suo ultimo viaggio la nave salpò da Genova il 2 agosto del 1906 sulla rotta transatlantica per il Brasile, l'Uruguay e l'Argentina. Le stime parlarono di una nave quasi a pieno carico con 1200 passeggeri. Un centinaio di loro erano alloggiati nelle lussuose cabine di prima e seconda classe. La restante umanità era stipata nelle camerate di terza classe. In maggioranza si trattava di uomini tra i 16 ed i 30 anni, ma erano presenti anche intere famiglie con molti bambini. Provenivano da tutte le regioni d'Italia; in prevalenza dal Piemonte, Veneto, Sicilia e Campania. Un campione perfetto dell'emigrazione italiana di fine ottocento ed inizio novecento. La Sirio proseguì il suo viaggio della speranza passando di fronte a Capo Palos, sulla costa mediterranea della Spagna, il 4 di agosto. In quel punto il promontorio si prolunga sott'acqua per riemergere poco oltre a formare le piccole isole Hormigas. La profondità dell'acqua può essere molto bassa, arrivando in alcune zone dette Bassi ad appena 3 o 4 metri. Le rotte dell'epoca giravano all'esterno delle isole per evitare il pericolo di questi cosiddetti Bassi. Quel pomeriggio d'agosto del 1906 la nave, navigando a tutta forza, si incagliò vicino a Capo Palos poiché manteneva una rotta troppo rasente alla riva. La prora fu vista innalzarsi dall'acqua a causa dell'elevata velocità. Il comandante della nave francese Maria Louise, che assistette all'infausto evento, partecipando successivamente alle operazioni di salvataggio, raccontò il naufragio con le seguenti parole: «Vidi passare il piroscafo italiano Sirio che navigava a tutto vapore. Facevo notare il suo passaggio al collega di bordo quando osservai che esso si era improvvisamente fermato...Vidi la prua alzarsi, inabissando la poppa. Non vi era più alcun dubbio: il Sirio aveva avuto un urto. Subito feci dirigere il Marie Louise verso il Sirio. Udimmo allora una violenta esplosione: le caldaie erano scoppiate. Poco dopo vedemmo dei cadaveri sulle onde, nello stesso tempo delle grida disperate che chiamavano soccorso giungevano alle nostre orecchie».
I sopravvissuti racconteranno in seguito di famiglie intere che si gettavano in acqua senza saper nuotare. Una cantante lirica implorava un'arma da fuoco per suicidarsi ed un arcivescovo benediceva le vittime, in piedi sul relitto, prima di divenire anch'egli un cadavere nel mare di Capo Palos. Le lance di salvataggio furono messe fuori servizio dall'impatto. Secondo la testimonianza dell'ingegner Maggi, passeggero della nave Sirio, l'acqua entrò nelle cabine di prima classe, poi invase il corridoio di destra ed infine lo spazio attorno al boccaporto di poppa e il corridoio a destra della sala macchine. In quel luogo della nave si trovavano numerose donne con bambini che rimasero incastrati senza poter uscire. Il personale di bordo gettò una zattera in mare allontanandosi dalla nave insieme al terzo ufficiale. Rimasero a bordo solo gli ufficiali che persero quasi subito il controllo della situazione. Le cronache della tragedia destarono in Italia grande commozione. Il Corriere della Sera scrisse: «il primo senso di stupore degenerò in un batter d'occhio in un folle panico, producendo una confusione indescrivibile. I passeggeri, correndo all'impazzata e gridando disperatamente, rendevano impossibile l'opera di salvataggio.»

La stampa anglosassone raccontò di scene di feroce lotta per la sopravvivenza: naufraghi che si disputavano con coltelli e bastoni i pochi salvagenti. Gli stessi giornalisti riportano la notizia che alcuni naufraghi furono ricacciati in mare dalle scialuppe di salvataggio cui stavano cercando disperatamente di aggrapparsi. 
Le prime notizie diedero la visione di un comandante imbelle, che si suicidò appena si rese conto del disastro. La stampa anglosassone non perse occasione di dipingere gli emigranti italiani come potenziali delinquenti dal coltello facile. I giornali inglesi misero sotto accusa l'intera marina mercantile italiana, all'epoca in concorrenza con quella britannica. 
Tra le navi che corsero in aiuto del Sirio ci furono il Joven Miguel e il Vicenza Llicano. Il comandante del Joven Miguel fece accostare la sua nave alla Sirio ed imbarcò circa 300 naufraghi. Il salvataggio dei passeggeri da parte della Joven Miguel non fu esente da scene di panico. La nave non aveva carico a bordo per cui la presenza di tante persone minava la stabilità con il rischio di rovesciamento. Dato che i naufraghi non volevano scendere in coperta, l'equipaggio fu costretto a minacciarli con una pistola. Le vittime furono stimate inizialmente in 293 persone. Il computo totale giunse ad oltre 500.
Furono immediatamente aperte diverse inchieste sull'incidente. Le indagini appurarono che il capitano, Giuseppe Piccone, diresse con buon senso e giudizio le operazioni di salvataggio e fu l'ultimo a salvarsi. Le conclusioni delle indagini furono in netto contrasto con le prime informazioni che narravano di un equipaggio in preda al panico ed un comandante non in grado di dirigere le operazioni di salvataggio. Se il comandante fu scagionato per le operazioni seguenti il naufragio, fu ritenuto l'unico colpevole dell'incidente. La commissione d'inchiesta scartò l'avaria ed il cedimento strutturale, imputando ad un errore umano la disgrazia. Il comandante Piccone tentò di giustificarsi accusando le correnti marine e l'influsso delle miniere di ferro presenti sul quel tratto di costa spagnola che avrebbero, secondo la ricostruzione ritenuta poco credibile dalla commissione d'inchiesta, alterato il funzionamento della bussola. 
Piccone morì nella primavera del 1907 senza aver potuto chiarire la propria posizione e senza aver risposto alla domanda principale: perché navigava così vicino alla costa quando poteva tenersi al largo? 
Probabilmente esisteva un traffico di emigranti clandestini per cui la disgrazia fu causata dalla volontà del comandante, e dell'equipaggio, di effettuare soste non ufficiali per imbarcare illegalmente passeggeri senza documenti. Il Sirio aveva già effettuato una tappa sulla costa spagnola, ed altre avrebbe dovuto farne prima di attraversare l'oceano Atlantico. 
Agli inizi del Novecento gli emigranti erano merce preziosa, ma le loro vite valevano poco o nulla. Ai parenti delle vittime fu risarcito il costo del biglietto. 
A Capo Palos è stato dedicato un museo al naufragio del Sirio. Nel museo sono esposti anche i volantini che davano la possibilità di caricare i clandestini in scali non ufficiali. 
I resti del Sirio giacciono a gran profondità: la poppa si trova a circa 40 metri mentre la prua ad oltre 70. 
Dal 1995 la zona del naufragio è considerata una Riserva Marina per cui l'attività subacquea è delegata al Consiglio dell'Ambiente del Governo Regionale della Murcia.

Fabio Casalini

Bibliografia
Gianpaolo Fissore, Un inchino di troppo, Focus Storia 2016

Gian Antonio Stella, Odissee. Italiani sulle rotte del sogno e del dolore, Rizzoli 2004

Gian Antonio Stella, Sirio. Il Titanic degli italiani in cerca di fortuna nelle Americhe. Corriere della Sera del 7 agosto 2006

Blamed for Sirio disaster. Spanish official inquiry inculpates the captain and crew. New York Times del 9 agosto 1906

FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.

Sante Caserio, il fornaio che uccise il Presidente della Francia

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Sante Caserio nacque da una famiglia numerosa e modesta il giorno 8 di settembre del 1873 a Motta Visconti, attualmente in provincia di Milano. Il padre, Antonio, morì di pellagra nel 1887, rinchiuso all’interno di un manicomio. La pellagra è una malattia causata dalla carenza o dal mancato assorbimento di vitamine del gruppo B. Questa vitamina è presente, in genere, nei prodotti freschi come il latte, le verdure o i cereali. E’ una patologia frequente tra le popolazioni che facevano esclusivo uso della polenta d sorgo o di mais come loro alimento base. L’Italia fu il paese maggiormente colpito da questa malattia. In seguito all’Unità d’Italia, un’inchiesta promossa dalla Direzione d’Agricoltura nel 1878 contò 97.855 casi di pellagra in 40 province dello Stato, con picchi in Veneto e in Lombardia. Dal 1881 il governo decise di prendere provvedimenti per contrastare la malattia, finanziando la costruzione d’essiccatoi per la stagionatura artificiale del granturco e di cucine che migliorassero l’alimentazione dei contadini. Il giorno che morì il padre, Sante Caserio aveva 14 anni e non viveva insieme alla famiglia da diverso tempo. Nel 1883, all’età di 10 anni, scappò da casa per non pesare sui genitori, soprattutto della madre cui era molto legato. Il ragazzino Sante, di 10 anni, trovò lavoro a Milano come garzone presso un fornaio. A cavallo tra l’infanzia negata ed una maturità anticipata Sante entrò in contatto con gli ambienti anarchici milanesi. In seguito agli sconti di Piazza Santa Croce in Gerusalemme a Roma, avvenuti il primo maggio del 1891, Sante sentì di dover aderire completamente alla causa anarchica. Poco dopo fondò un piccolo circolo anarchico nella zona di Porta Genova, a Milano, denominato “A pèe” (in dialetto milanese significa “a piedi” ovvero “senza soldi”). 
Di quel periodo milanese resta la testimonianza di Pietro Gori, avvocato e compositore anarchico, che narrava d’averlo visto dispensare ai disoccupati del pane e degli opuscoli, chiaramente inneggianti alla causa anarchica, stampati con il suo magrissimo stipendio. L’anno successivo, il 1892, fu identificato e schedato durante una delle tante manifestazioni di piazza cui partecipava. Sante fu arrestato per aver distribuito opuscoli antimilitaristi a dei soldati. Fu costretto a fuggire in Svizzera, prima di riparare a Lione in Francia. Caserio trovò un paese profondamente ferito dalla povertà e dagli attentati degli anarchici francesi. Il governò reagì duramente alle proteste varando leggi contro quelli che erano chiamati reati d’opinione. Molte persone furono arrestate solo per aver applaudito i responsabili degli attacchi, al cuore dello stato, o per aver partecipato a pubbliche letture di scritti rivoluzionari. L’esecuzione capitale degli anarchici Vaillant ed Henry, ritenuti autori di diversi attentati, provocò un profondo risentimento all’interno dell’ambiente anarchico, compresi gli immigrati italiani in Francia.  Fu soprattutto la condanna a morte di Vaillant che scatenò ondate di proteste poiché il suo attentato dinamitardo, alla Camera dei deputati francese il 9 dicembre del 1893, non aveva causato vittime. Per la prima volta dall’inizio del XIX secolo, i tribunali francesi condannarono a morte un uomo, e fecero eseguire la sentenza, senza che il condannato avesse realmente ucciso qualcuno. Al processo Vaillant dichiarò: “Ho preferito ferire un gran numero di deputati piuttosto che uccidere qualcuno; se avessi voluto uccidere avrei caricato la bomba con dei pallettoni. Ho messo dei chiodi; ho voluto quindi solo ferire. Non posso certo mentire per darvi il piacere di tagliarmi il collo!”.
La mancata concessione della grazia da parte del Presidente francese Carnot, nei confronti di Vaillant, alimentò notevolmente il risentimento di Sante Caserio verso Sadi Carnot. L’anarchico italiano identificava il presidente francese come il principale responsabile della repressione contro gli anarchici e gli immigrati, nonché della miseria del popolo. Carnot, in questa visione, era il rappresentante dell’odiato stato borghese, e prepotente. Inoltre in questa figura s’identificava il responsabile della stretta repressiva avviata, nei confronti degli anarchici e dei manifestanti, con l’approvazione delle nuove leggi poliziesche, chiamate le leggi scellerate. Inoltre nell’agosto del 1893 avvenne il massacro d’Aigues-Mortes. Il luogo fu teatro di uno scontro tra operai francesi ed italiani, tutti impiegati nelle saline di Peccais. Lo scontro degenerò in una vera e propria guerra agli italiani. Il numero finale delle vittime non fu mai accertato con sicurezza: la conta dei morti oscilla tra i 9 dichiarati ufficialmente dal governo ai 50 di cui parlò il Times di Londra. La tensione che seguì questi eventi fece sfiorare la guerra tra i due paesi.
Sante Caserio decise di vendicare tutti i morti che pesavano sulla coscienza della classe politica. Il 24 giugno si recò a Lione dove Sadi Carnot era atteso per l’inaugurazione dell’Esposizione Universale. Acquistò un coltello e lo avvolse in un giornale. Sante attese che il corteo presidenziale transitasse in piazza della Repubblica: quando vide la vettura dove era alloggiato Carnot decise d’agire approfittando della confusione. Si avvicinò al corteo agitando un foglio di giornale. I poliziotti, pensando che dovesse sottoporre una richiesta al presidente, lasciarono che l’anarchico italiano s’avvicinasse a Carnot. Caserio salì sul predellino della vettura e colpì il presidente al fegato con il lungo coltello dal manico rosso e nero. 
Subito dopo l’attentato urlò a squarciagola in mezzo alla folla “viva l’anarchia”.
Nei secondi successivi fu trattenuto dai passanti ed immobilizzato dalle forze dell’ordine. Carnot, gravemente ferito, perse conoscenza e morì poche ore dopo. Fu sepolto solennemente nel Pantheon di Parigi.
L’anarchico italiano fu processato il 2 ed il 3 agosto. Di fronte al tribunale, che successivamente lo condannerà alla ghigliottina, Sante pronunciò la propria accorata difesa difendendo e motivando il gesto. Tra l’altro disse « Se dunque i Governi impiegano i fucili, le catene, le prigioni, e la più infame oppressione contro noi anarchici, noi anarchici che dobbiamo fare? Cosa? Dobbiamo restare rinchiusi in noi stessi? Dobbiamo disconoscere il nostro ideale che è la verità? No!... Noi rispondiamo ai Governi con la Dinamite, con il Fuoco, con il Ferro, con il Pugnale, in una parola con tutto quello che noi potremo, per distruggere la borghesia ed i suoi governanti. Emile Henri ha lanciato una bomba in un ristorante, ed io mi sono vendicato con il pugnale, uccidendo il Presidente Carnot, perché lui era colui che rappresentava la Società borghese. Signori Giurati, se volete la mia testa, prendetela: ma non crediate che prendendo la mia testa, voi riuscirete a fermare la propaganda anarchica. No!.. Fate attenzione, perché colui che semina, raccogli ».
Durante lo svolgimento del processo non negò mai la propria responsabilità per il gesto e non chiese pietà al giudice. Gli fu offerta la possibilità di ottenere l’infermità mentale in cambio dei nomi d’alcuni compagni ma rifiutò pronunciando la celebre frase “Caserio fa il fornaio, non la spia”.
La ghigliottina attendeva Caserio per la mattina del 16 agosto.
Nell’attesa della lama, gli fu mandato il coadiutore di Motta Visconti, don Alessandro Grassi, per confessarlo ed impartirgli l’estrema unzione.
Sante Caserio rifiutò in quanto ateo.
Il 16 d’agosto fu giustiziato. Sul patibolo, un attimo prima di morire, urlò rivolto alla folla: “Forza compagni! Viva l’anarchia”.
Il corpo di Sante fu tumulato presso il vecchio Cimitero di Lione.
L’uccisione di Sadi Carnot provocò svariati atti di violenza ed intolleranza nei confronti degli immigrati italiani, identificati come i compatrioti dell’assassino. Poche ore dopo l’arresto di Sante Caserio, il consolato italiano di Lione subì un assalto da parte dei francesi infuriati; a stento riuscirono a difendere le mura. Molti negozi italiani furono saccheggiati. Per comprendere la dimensione dei disordini occorre ricordare che in poche ore furono arrestate oltre 1000 persone. Il governo francese reagì duramente nei confronti degli italiani, soprattutto di quelle persone che erano identificate come anarchiche. In pochi giorni si registrarono moltissimi licenziamenti e furono oltre 3000 gli italiani rimpatriati. Tra questi anche l’avvocato, musicista e scrittore Pietro Gori, conoscente di Sante Caserio. Nei mesi successivi furono arrestati molti sostenitori dell’anarchico italiano; tra questi anche Alexandre Dumas, figlio.
L’amico Pietro Gori scriverà il testo della famosa “Ballata di Sante Caserio”.
Nell’immaginario collettivo la figura di Sante Caserio è spesso affiancata a quella di un altro importante anarchico italiano: Gaetano Bresci.
Ma questa è tutta un’altra storia.

Fabio Casalini

Bibliografia

Maurizio Antonioli. «Voce Sante Caserio», in Autori Vari. Dizionario biografico degli anarchici italiani, vol. I, ed. BFS, Pisa 2003 

Rino Gualtieri, Per quel sogno di un mondo nuovo, Euzelia editrice, Milano 2005

Gianluca Vagnarelli, Fu il mio cuore a prendere il pugnale. Medicina e antropologia criminale nell'affaire Caserio, Zero in condotta, Milano 2013

FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.

Lo scandalo sessuale dei marianisti di Pallanza del 1904

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Non è agevole rintracciare nella storia del clero cattolico attività riconducibili alla pedofilia. Al pari di tutte le altre attività di tipo sessuale, la sodomia era celata e pubblicamente condannata dallo stesso clero. Ad esempio negli Statuti di Orvieto, XV secolo, redatti da papa Alessandro VI, la sodomia era punita con sanzioni pecuniarie e corporali, di intensità ridotta per l'adolescente, ovvero il minore di 14 anni, rispetto all'adulto. All'epoca la pedofilia non era ancora distinta dalla sodomia. Tali fattispecie di reato costituirono lo spunto per spargere voci contro i personaggi più influenti e di rilievo della Chiesa cattolica. In altri casi, comprovati, esistono documenti processuali o conciliari e resoconti di cronisti e storici che accusano membri del clero cattolico di aver compiuto atti di pedofilia. Nell'estate del 1907 la stampa dell'epoca riportò una serie di abusi sessuali su minori che provocarono in tutta Italia violenti moti anticlericali. Tra questi il caso dei Marianisti di Pallanza, accaduto alcuni anni prima, il cosiddetto “Scandalo Fumagalli”e lo scandalo dell'educatorio di Alassio dove Don Bretoni fu accusato di sevizie sessuali ai danni di un ragazzo tredicenne. 
Ripercorriamo quegli eventi. 
Nel gennaio del 1904 scoppiò uno scandalo nelle estreme frange della santa casta: nel Collegio dei marianisti di Pallanza (oggi Verbania) il sacerdote Eugéne Burg fu accusato di abusi sessuali su due alunni quattordicenni, ovvero di essersi abbandonato ad atti libidinosi secondo le parole dei ragazzi.
Chi sono i marianisti? La Società di Maria è un istituto maschile di diritto pontificio. I membri di questa congregazione clericale, detti marianisti, pospongono al loro nome la sigla S.M. La congregazione fu fondata da Guillaume-Joseph Chaminade. Ebbe l'intuizione di istituire una nuova famiglia religiosa nel santuario di Nostra Signora del Pilar di Saragozza, dove si era rifugiato nel 1797. Tornato in patria, Chaminade organizzò a Bordeaux un'associazione di fedeli intenzionati a ri-evangelizzare la Francia dopo la Rivoluzione. Il 2 ottobre del 1817 i suoi membri si riunirono dando inizio alla nuova congregazione. La Società di Maria ottenne il pontificio decreto di lode il 12 aprile del 1839. Pio IX approvò l'istituto nell'agosto del 1865. Della congregazione esiste anche il ramo femminile delle Figlie di Maria Immacolata, dette marianiste, fondato nel 1816 da Chaminade. Il fondatore della Società di Maria è stato beatificato da Giovanni Paolo II il 3 settembre del 2000.

Torniamo al 1904. Il marinista Burg fu arrestato ed il collegio chiuso.

Il quotidiano Il Tempo fornì una descrizione del marinista Burg: "Chi era padre Burg? Un alsaziano, profugo dalla Francia, dove non avevano voluto saperne dell'opera sua educativa e del suo ordine; nell'abito marianistico, corretto nei modi, gentilissimo sempre, angoloso e acceso nel viso magro, con un leggero tremito costante alle mani, era notissimo ivi e dintorni; delle qualità morali ed educative sue e dell'ordine, al quale egli appartiene, aveva dato ampio affidamento il cavalier Viacci, e perciò nessuno avrebbe mai pensato alla possibilità di un'accusa quale è l'attuale”. Il giornale socialista L'Aurora scrisse che “a Pallanza è successo quello che fatalmente doveva succedere e succederà nello stolido sistema di far educare i figli da tonsurati, i quali nella loro pazzesca libidine trascinano una vita delle più infami”. Ancora Il Tempo titolava “Le infamie del convitto dei marianisti a Pallanza. Le turpitudini innominabili del padre gesuita Burg”. Nel frattempo padre Burg, seguendo il consiglio dei confratelli, fuggì abbandonato il collegio a bordo di una carrozza e di lui si persero le tracce. Sempre il quotidiano Il Tempo scrisse che “mentre il cuore sanguina a vedere giovinetti innocenti così infamemente deturpati da questo assassino di anime giovanili, sfuggito alla pena con una sollecita corsa all'estero consigliatagli dai capi, ci domandiamo quale possa essere per avventura la responsabilità dei suoi colleghi marianisti del Convitto; pur troppo l'interesse fa dire da alcuni che la colpa di uno non offende tutto l'ordine”.
La cittadinanza era offesa per l'accaduto, tanto che i quotidiani titolarono “non trascriviamo le invettive che il popolo lancia contro questi forestieri”. Fu richiesto l'intervento del Consiglio Scolastico provinciale per far si che “l'onore della città sia incontaminato”. Ancora Il Tempo, qualche giorno dopo la chiusura del convitto, che “qui infatti sorge una curiosa questione, nella quale noi auguriamo che l'autorità intervenga a tagliar corto ed a liberare il paese da tutta questa immondizia marianistica”. Tra la popolazione civile la tensione andò crescendo quando fu informata che l'autorità giudiziaria aveva le mani legate poiché mancava la querela di parte. Molti cittadini lessero in questa presa di posizione la volontà di non procedere per mettere tutto a tacere. Quasi ogni giorno venivano organizzate in molte città discussioni e comizi sui fatti di Pallanza, nei quali intervenivano personaggi di ogni estrazione politica a condannare o appoggiare la presenza delle congregazioni religiose nel settore educativo e scolastico del paese.

Lo scandalo dei Marianisti di Pallanza ebbe uno strascico che durò per diversi anni, fino a collegarsi ad altri scandali simili dall'estate del 1907. Il 20 luglio fu arrestato don Carlo Riva per abusi sessuali su una fanciulla nell'asilo milanese gestito da suor Giuseppina Fumagalli, e per questo destinato a passare alle cronache come lo Scandalo Fumagalli. Nel giro di pochi mesi esplosero altri casi tra cui lo scandalo dell'educatorio di Alassio dove don Bretoni fu accusato di sevizie sessuali ai danni di un ragazzo di 13 anni. Pochi giorni dopo scoppiò il caso di Trani dove delle suore furono denunciate al procuratore del Re per maltrattamenti ed inganni. Lo scandalo più eclatante scoppiò il 31 luglio nel collegio dei Salesiani di Varazze sulla base di una denuncia della signora Besson. La donna, dalla lettura del diario del figlio, appurò che all'interno del collegio si svolgevano messe nere tenute in costume adamitico. Inoltre, durante le celebrazioni di questi riti, vi erano atti sessuali tra frati, le suore del vicino collegio Santa Caterina e gli alunni convittori. Lo scandalo assunse proporzioni gigantesche quando giunse al popolo la notizia del tentativo di arresto di don Musso, che nel frattempo si era dato alla fuga, e delle conseguenti proteste della Segreteria di Stato della Santa Sede e Pio X, che accusavano la propaganda massonica e socialista di aver imbastito una campagna contro il Vaticano. Scoppiarono in molte città moti anticlericali che si conclusero con un morto e 20 feriti.

Il 5 agosto la Santa Sede reagì con un comunicato ufficiale nel quale riportava che “da ottima fonte documentata possiamo affermare quanto segue: la presente campagna anticlericale è sostenuta col denaro della massoneria francese. Tra la recente campagna elettorale e quella attuale del teppismo di penna e di piazza contro le case religiose, la massoneria francese ha speso in Italia circa 150.000 lire”. 
Tra il teppismo da penna, o di piazza, ed il reato di abuso di minori vi è una bella differenza. 
Forse a Roma questo non l'hanno ancora capito.

Fabio Casalini


Bibliografia
Massimo Centini, I sacri crimini, Piemme 2018



Enrico Oliari, L'omo delinquente. Scandali e delitti gay dall'Unità a Giolitti, Prospettiva Editrice, cit. in Giuseppe Iannaccone, «Quando gli omosessuali facevano cronaca (nera)»,il Giornale, 9 marzo 2007

Enrico Oliari, Pallanza 1904: il terribile Scandalo dei Marianisti

Il Corriere della Sera del 20 luglio 1907

Il Tempo del 17 dicembre 1904

Il Tempo del 20 dicembre 1904

L'Aurora del 17 dicembre 1904

Claudio Rendina, La santa casta della Chiesa - I peccati del Vaticano - L'oro del Vaticano, Newton saggistica 2013


FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.



I bambini stregone del Congo

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Repubblica Democratica del Congo. Africa centrale. Conosciuta anche come  Repubblica Popolare del Congo, oppure come Congo-Brazzaville. Nel 2010 l’UNICEF porta alla luce un fenomeno dilagante in questo stato e in altri dell’Africa Sub-Sahariana, come Angola, Benin, Camerun, Repubblica Centrafricana.
L’opinione pubblica mondiale scopre l’esistenza dei bambini stregone, enfants sorciers. Ma chi sono? Che cosa fanno?
Sono bambini fra gli 8 e i 14 anni, prevalentemente orfani, con disabilità fisiche o mentali, albini, con caratteri aggressivi, solitari, bambini prematuri, gemelli, particolarmente dotati. Sono bambini abbandonati a vivere in strada, allontanati dalla famiglia. Fare una stima corretta del numero dei bambini stregoni non è facile. Secondo un recente studio, il fenomeno coinvolgerebbe il 60/70% dei minori che vivono in strada, prevalentemente nei sobborghi delle grandi città, come Kinshasa e Lubumbashi. In particolare a Kinshasa ne sono stati censiti circa 23.000, un numero davvero considerevole.
Il fenomeno dei bambini stregone ha inizio in Congo negli anni ’90, quando il proliferare delle sette religiose crebbe di pari passo all’esodo dalle campagne, causato sia dalle difficoltà economiche crescenti che dagli effetti della guerra civile scoppiata nel 1996 e terminata nel 2003. Prima di allora nessuna traccia nel paese dei bambini stregone.
Il fenomeno della stregoneria è ancora molto diffuso in Africa. Legato a quest’ultimo vi è anche la “mattanza degli albini”, mutilati, stuprati, uccisi e venduti come merce preziosa, molto preziosa, per fare dei loro resti amuleti utilizzati durante riti magici o per scacciare la sventura.
Si ritiene che la stregoneria possa dare immenso potere a chi la pratica. Tutti i capi villaggio sono iniziati alle pratiche magiche, per accrescere il loro ascendente sulla popolazione. A loro ci si rivolge per guarire, per curarsi, ma non sempre è questa la loro funzione.
Si ricorre ai cosiddetti stregoni, sia per il “bene”, come una guarigione, sia per il “male”, cioè per influenzare in modo negativo la vita di chi viene ritenuto responsabile della sventura che colpisce una famiglia o la comunità. Lo stregone è considerato un essere soprannaturale, dotato di poteri smisurati che può distruggere una vita, fare sortilegi, evocare uno spirito maligno, provocare malattie misteriose, tormentare la mente delle persone con voci o immagini, causare la morte e la distruzione.
A causa del loro immenso potere, gli stregoni che praticano malefici sono considerati ai margini della società, quasi come dei fuorilegge: la paura delle loro azioni spinge le persone alla diffidenza e spesso, se lo stregone si è rivelato “dannoso per il bene comune”, ad isolarlo per limitare le conseguenze delle sue azioni. Coloro che sono accusati di stregoneria sono sottoposti ad un rituale di purificazione, con il quale si tenta di recuperare la persona e di reinserirla nella società: prima si procede con l’esorcismo, poi con la confessione pubblica degli atti malefici, con il pentimento ed infine con la promessa di non praticare mai più il male e di rifuggirlo, a pena dell’esilio dal villaggio. Un copione già visto.
Chi rifiuta l’esorcismo e il rituale di espiazione viene escluso dalla comunità ed emarginato dalla vita del villaggio. Gli altri membri della collettività hanno l’obbligo di astenersi dall’avere rapporti con il condannato, dal mostrare amicizia o comprensione, compassione o affetto, anche se fosse un componente della famiglia. Questo se si parla di stregoni adulti.
E se si tratta di bambini? Se sono loro ad essere incolpati di essere stregoni malvagi? Su che basi si fondano queste infamanti accuse?
Come si individuano gli enfants sorciers?
I comportamenti che sfuggono alla comprensione degli adulti sono il punto di partenza per individuare un bambino stregone. Ciò che non è ritenuto socialmente accettabile è condannato e stigmatizzato. Ad esempio l’enuresi notturna, l’albinismo, il sonnambulismo, le deformazioni fisiche o il ritardo mentale, lo stomaco gonfio, il carattere ingestibile, la difficoltà ad adattarsi alle regole. Anche l’anemia è indizio di stregoneria: si ritiene che il sangue sia malato, si consumi, perché usato per compiere voli notturni, al fine di diffondere il male, che indeboliscono chi li compie.
Base di tutte queste credenze popolari, prive di fondamento, è la povertà a volte estrema, in cui vivono le persone in queste zone, accompagnata dall’ignoranza e dalla superstizione fortemente radicata.
La mancanza di una soluzione ad una condizione sociale gravissima, unità all’incapacità di cambiare le proprie sorti e alle difficoltà quotidiane oggettive, spingono spesso le persone a cercare di individuare la causa o le cause della loro sventura: si parte alla caccia di un colpevole su cui concentrare rabbia e odio. Follia collettiva.
E se la ragione di tanta sventura fosse causata da un componete della famiglia stessa? Da un figlio magari un po’ “diverso”, i cui comportamenti sono difficili da comprendere, le cui stranezze, spesso frutto dell’età, non sono spiegabili agli occhi dei genitori o dei parenti? E così si comincia a dar credito ai miti, alle storie raccontate davanti al fuoco, si guarda con sospetto un parente, un vicino antipatico, che in un attimo si trasforma in un portatore di sventura, in colui che può fare il male e causare sofferenza, in uno STREGONE.
Nei bambini è facile trovare un sintomo di stregoneria: quale bambino non ha mai fatto pipì a letto? O non ha parlato nel sonno? E se fosse particolarmente vivace o ingestibile? Se fosse nato con una patologia non individuabile a causa delle condizioni di vita precaria in cui vive? È più facile dire che i bambini sono portatoti di sventura.
Negli ultimi anni le persecuzioni nei loro confronti sono notevolmente aumentate, sostenute dal terrore e dalle insensate idee diffuse da sette religiose, di ispirazione cristiana, proliferate senza controllo.
Ad alimentare queste convinzioni popolari sono i pastori delle sette, che vedono la possibilità di arricchirsi grazie al prosperare del business degli esorcismi, a cui le famiglie, disperate e schiacciate dalla povertà e dalle malattie, ricorrono per migliorare la propria vita.
I predicatori “individuano nei bambini la causa di ogni male”, li additano come demoni, come messaggeri del demonio, come strumento di diffusione del male. La loro predicazione è diffusa facilmente tramite i mezzi radio televisivi a loro disposizione, presenti nel paese in numero davvero considerevole: basti pensare che circa 40 canali televisivi e oltre 200 stazioni radio appartengono a chiese evangeliche. Il loro pensiero si diffonde e prolifera tra la gente, che ha bisogno di incolpare qualcuno della propria indigenza.
È così che molti bambini accusati di essere stregoni finiscono a vivere per strada, abbandonati dai genitori, dall’intero nucleo familiare, dal villaggio, da tutti coloro che conoscono. Cacciati, ripudiati, allontanati come appestati. Sono accusati di portare sfortuna, di essere malvagi, di avere poteri negativi, di esser capaci di fare ammalare le persone, anche i familiari, di causare morte e miseria. Li chiamano serpenti.
Nel loro vivere per strada, improvvisamente, sono costretti a spostarsi, con ogni mezzo: a piedi, in camion nascosti nei cassoni o fra le casse di merce, in treno, sui battelli come clandestini, per sfuggire al loro destino fatto di abusi, alla violenza che li aspetta. Molti trovano la morte a causa di incidenti, oppure per le violenze subite. Alcuni sono mutilati o violentati, oppure venduti ai trafficanti di minori.
Per sopportare la solitudine, l’abbandono, fumano hashish, prendono pastiglie, sniffano solventi. Si riuniscono in gruppi, per cercare di creare una “famiglia”, un nucleo che li protegga. Cercano rifugio per la notte dove possono, anche se dormire è un lusso, perché si rischia di essere derubati o uccisi.
I più fortunati sopravvivono facendo piccoli lavori, chiedendo l’elemosina, diventano adulti che vivono, per la maggior parte del tempo, ai margini della società, oppure vengono salvati da qualche ONG e messi in appositi centri, dove trovano riparo e una nuova sistemazione.
Chi non trova aiuto o compassione, chi viene individuato come maligno dalla famiglia o da un conoscente, è sottoposto al rito di “purificazione”, che può essere pacifico, come la preghiera di gruppo, oppure violento, mediante tortura che spesso si conclude con la morte. Nel peggiore dei casi, per purificare gli accusati si ricorre al fuoco: i bambini vengono arsi vivi dopo esser stati cosparsi di liquido infiammabile, sotto gli occhi della famiglia, non sempre consenziente, ma impotente a qualsiasi difesa.
I pastori delle chiese non fanno altro che alimentare questo fenomeno, cercando di individuare ad ogni costo la fonte del male, con lo scopo di acquisire maggiore prestigio agli occhi della comunità e di arricchirsi. Fanno leva sulle famiglie, perché cerchino di recuperare l’anima dei loro figli, ovviamente tramite offerte in denaro, spesso cospicue e la di sopra delle possibilità.
Sostengono di vedere nell’anima dei piccoli, di sapere tutto ciò che pensano, di scorgere il male guardando il colore della loro biancheria intima. Gli estorcono con la tortura la confessione, sottoponendoli a lunghi periodi di digiuno, a percosse, a riti pseudo religiosi, a bruciature con la cera bollente. Poi si procede con l’esorcismo: il corpo del bambino è cosparso di benzina e sale grosso di marca San Michele, che costa 1500 franchi congolesi, una cifra enorme, inciso con tagli simbolici tramite un machete. Dolore. Follia.
Corpi straziati, pieni di cicatrici e poi la strada, perché il recupero non è possibile. Come si può curare qualcuno da qualcosa che non esiste?
La truffa si conclude con l’aspirazione del maligno dal ventre dei piccoli, mentre il predicatore sputa pezzi di carne cruda precedentemente nascosti in bocca. Protetti dalle autorità locali, condannati da quelle internazionali, i predicatori sono uomini malvagi e perversi che abusano i minori di cui si dovrebbero occupare perché abbandonati.
Si stima che ogni mese circa 650 bambini finiscano per strada per i più disparati motivi.
La creazione di centri di accoglienza sta contribuendo, insieme ad una campagna mirata a sensibilizzare l’opinione pubblica sul fenomeno, a contenere il problema, anche se siamo ben lontani dal risolverlo.
Ci sono periodi in cui la persecuzione dei bimbi stregone diventa caccia collettiva, talmente spietata che in un caso la popolazione locale è arrivata a massacrare e bruciare vivi i bambini radunati da una ONG, senza che nessuno dello staff potesse fare qualcosa per fermare la follia collettiva. La superstizione, alimentata dall’alacre predicazione dei pastori della chiesa, crea una situazione davvero pesante da gestire. È difficile in molti casi trovare anche operatori volontari disposti a lavorare con questi bambini, perché infondo temono per la loro vita, perché il tarlo del sospetto è già attecchito anche dentro di loro.
Per porre un freno a questo fenomeno si è cercato di dar vita a campagne di sensibilizzazione e comunicazione da parte delle istituzioni di numerosi paesi, con l’intento di coinvolgere non solo le famiglie, ma anche le chiese, responsabili allo stesso modo di questo folle massacro, diffondendo il messaggio che i bambini vanno protetti e i loro diritti salvaguardati. Per fare un ulteriore passo avanti sarebbe necessario intervenire all’origine delle cause della caccia dei bambini stregone, combattendo povertà e malnutrizione, credenze popolari e superstizione. Ma la situazione generale di questo paese non è facile. Conflitti armati, violenze e migrazioni di massa rendono il paese fortemente instabile. Il 43% circa dei bambini in Congo, secondo i dati UNICEF del 2014, risulta essere malnutrito. Molti di questi, per sfuggire alla povertà e alla vita di strada, vengono arruolati nei gruppi armati, segnando per sempre la loro vita.
Le cifre di questa mattanza sono impressionanti.
L’accusa di stregoneria nella Repubblica Dominicana del Congo è ritenuta oggi illegale.
A Kinshasa è stata istituita una commissione per far rispettare la Convenzione internazionale sui diritti del fanciullo, che purtroppo fino ad ora è rimasta inattiva. 

Non restiamo indifferenti a ciò che accade, non guardiamo altrove perché lontano da noi. Cerchiamo di capire cosa accade, di porre rimedio a questa situazione, restituiamo ai bambini stregone la loro infanzia negata, perché sono solo bambini, magari vivaci, magari complicati, ma restano comunque sempre e solo BAMBINI.

Rosella Reali



ROSELLA REALI
Sono nata nel marzo del 1971 a Domodossola, attualmente provincia del VCO. Mi piace viaggiare, adoro la natura e gli animali. L'Ossola è il solo posto che posso chiamare casa. Mi piace cucinare e leggere gialli. Solo solare, sorrido sempre e guardo il mondo con gli occhi curiosi tipici dei bambini. Adoro i vecchi film anni '50 e la bicicletta è parte di me, non me ne separo mai. Da grande aprirò un agriturismo dove coltiverò l'orto e alleverò animali. 
Chi mi aiuterà? Ovviamente gli altri viaggiatori.
Questa avventura con i viaggiatori ignoranti? Un viaggio che spero non finisca mai...




La beffa delle false statue di Modigliani

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Livorno 1984.
Su pressione della conservatrice dei musei civici livornesi, Vera Durbè, fu dragato il canale dei pressi della zona di Piazza Cavour. Tale dispiego di uomini e mezzi aveva un solo scopo, quello di verificare una leggenda su Amedeo Modigliani risalente al 1909.
Chi era Amedeo Modigliani e quale diceria si cercò di verificare?
Amedeo nacque a Livorno il 12 luglio del 1884 da una famiglia ebraica, ultimo di 4 figli. Il padre, Flaminio, era discendente di una famiglia originaria di Roma, la madre, Eugénie Garsin, era di nazionalità francese, originaria di Marsiglia. Entrambi i genitori erano atei. Quando nacque Amedeo la situazione economica della famiglia era disastrata poiché le aziende del padre, società agricole e minerarie in Sardegna, erano sull'orlo della bancarotta. Fu l'intelligenza e l'intraprendenza della madre a salvare la famiglia dal collasso finanziario. I Modigliani riuscirono ad uscire dalla tempesta grazie ai ricavi provenienti dalla scuola materna ed elementare fondata da Eugénie Garsin e dalle lezioni private, che lei stessa impartiva, come traduttrice e critica letteraria. Sin dalla giovane età Amedeo fu afflitto da gravi problemi di salute: all'età di quattordici anni contrasse la febbre tifoide e a sedici anni fece il suo esordio la tubercolosi, in una forma talmente grave da impedirgli di seguire le lezioni scolastiche; dopo alcuni soggiorni a Capri la situazione migliorò sensibilmente. A causa della salute cagionevole, Amedeo fu spesso costretto a casa. In queste lunghe giornate mostrò passione per il disegno, riempiendo pagine di ritratti tra lo stupore della famiglia che non riuscì a concedergli la possibilità di frequentare corsi adatti alla sua bravura. La vita di Amedeo si modificò durante un violento attacco di polmonite, che poi si convertirà in tubercolosi, quando riuscì a strappare alla madre la promessa di poter lavorare nello studio di Guglielmo Micheli, uno degli allievi di Giovanni Fattori. 
Nel 1898, durante l'apprendimento presso Micheli, Modigliani conoscerà Fattori, rimanendo influenzato dalla sua persona e dalla sua arte. Nel 1902 s'iscrisse alla Scuola libera di Nudo di Firenze e l'anno successivo si spostò a Venezia per frequentare l'istituto delle Belle Arti. Nel 1906 emigrò in Francia, a Parigi, dove fu influenzato dal lavoro di Toulouse-Lautrec e Paul Cezanne. Nel 1912 alcune sculture di Modigliani furono esposte al Salone d'autunno. La tubercolosi di cui soffriva peggiorò sensibilmente a causa delle polveri generate dalle sculture. Abbandonò questa strada per concentrarsi unicamente sulla pittura, passando attraverso le sculture di pietra calcarea e di legno. Il 3 dicembre del 1917 si tenne alla Galleria Berthe Weill la prima mostra personale di Modigliani. Purtroppo il capo della polizia di Parigi rimase talmente scandalizzato dall'immoralità dei nudi di Modigliani esposti in vetrina da far chiudere la mostra poche ore dopo la sua apertura. Lo stesso anno, il 1917, Amedeo ricevette una lettera da una sua ex-amante di nome Simone che lo informò di essere tornata in Canada, sua nazione d'origine, e di aver dato alla luce un figlio. Simone sosteneva che il padre fosse Modigliani. Amedeo non riconobbe mai il bambino come proprio. L'anno successivo, il 1918, Modigliani si trasferì in Provenza insieme a Jeanne, una pittrice alle prime armi, dopo che la ragazza era rimasta incinta. Il 29 novembre del 1918 nacque la bimba a cui i genitori diedero lo stesso nome della madre: Jeanne. 
Durante la permanenza a Nizza, Modigliani riuscì a vendere pochi quadri con un misero ricavato. Malgrado questo inconveniente, il periodo in Provenza fu quello nel quale egli produsse la gran parte dei dipinti, che diventeranno i suoi quadri più popolari e di maggior valore. Purtroppo i pochi soldi che Modigliani riceveva svanivano rapidamente in droghe ed alcool. Un pittore italiano, Gino Severini, di quel periodo ricorderà: «Modigliani non era un vizioso, un ubriacone volgare, un decadente; l'assenzio, se lo prendeva talvolta in doppia dose, era malgrado tutto un “mezzo”, e non un “fine”». Lo stesso artista scrisse a proposito di Modigliani: «Dove sono quegli abusi di cui si è fatta tanta letteratura? E dopo tutto, che credono i borghesi, che si faccia un quadro nello stesso stato di spirito con cui s'infinocchia un cliente? Quanta gente è più volgare senza bere un dito di vino, che non lo fosse Modigliani dopo aver preso due o tre assenzi! Del resto non bisogna credere che Modigliani avesse bisogno di eccitanti per essere brillante, vivo, vivo e pieno d'interesse in qualunque momento della sua vita. Se a Montparnasse tutti gli volevano bene, non è mica per quello che lui era eccezionalmente, quando aveva bevuto, alla sera, qualche assenzio, ma per quel che lui dimostrava di essere usualmente nei suoi rapporti quotidiani coi camerati, e in ogni momento del giorno.»
Nel 1919, in primavera, fece ritorno a Parigi. Nella capitale francese, insieme a Jeanne ed alla figlia, affittò un appartamento in rue de la Grande Cahumière. In quel periodo il suo stile di vita giunse a richiedere il conto e la salute si deteriorò rapidamente. La vita di Amedeo Modigliani precipitò nella tragedia. Una mattina del gennaio del 1920, l'inquilino del piano sottostante controllò l'abitazione e trovò Modigliani delirante nel letto mentre si aggrappava a Jeanne, che era al nono mese della seconda gravidanza. Fu convocato un medico. Purtroppo Amedeo era in preda ad una meningite tubercolare. Ricoverato all'ospedale, circondata dagli amici più stretti e da Jeanne, morì all'alba del 24 gennaio del 1920. Alcuni giorni dopo un grande funerale attraversò le vie di Parigi cui parteciparono tutti i membri delle comunità artistiche.
Torniamo al 1984, centenario della sua nascita.
Perché la conservatrice dei musei civici livornesi spinse per dragare il canale nei pressi della zona di Piazza Cavour a Livorno?
Esisteva una leggenda, poco più che una diceria, secondo la quale nel 1909 Modigliani, tornato temporaneamente a Livorno, aveva scolpito delle sculture che mostrò al Caffè Bardi e ad alcuni amici artisti. Ricevendo derisione per le sue opere ed il consiglio di gettarle in un fosso, Modigliani, in uno scatto d'ira, decise di seguire le indicazioni degli amici, che forse tanto non lo erano, e lanciò le sculture nel canale.
Nel 1984, dragando il canale nei pressi del Caffè Bardi, furono effettivamente rinvenute tre teste, scolpite in uno stile che richiamava quello di Modigliani del 1909. La critica si divise: da una parte Federico Zeri che negò immediatamente l'attribuzione, dall'altra i fratelli Durbè, Vera e Dario, Giulio Carlo Argan e Cesare Brandi che attribuirono con certezza le teste a Modigliani.
Un mese dopo il ritrovamento, tre studenti universitari livornesi si presentarono al settimanale Panorama dichiarando la beffa. I tre presentarono, come prova della falsificazione delle sculture, una fotografia che li ritraeva nell'atto di scolpire una delle teste. I ragazzi ricevettero 10 milioni di lire per la loro dichiarazione. Dopo diversi appelli anche l'autore delle altre due teste si palesò: si trattava di Angelo Froglia, pittore livornese e lavoratore portuale per necessità. Froglia dichiarò che la sua operazione non voleva essere una burla ma «un'operazione estetico-artistica - per verificare - fino a che punto la gente, i critici, i mass-media creano dei miti».
Nel frattempo i tre ragazzi furono invitati in diretta a realizzare un nuovo falso durante uno speciale del TG1: riescono nell'impresa, tra lo sbigottimento di mezza città e la delusione di una parte del mondo della cultura. I tre universitari e Froglia non avevano preso accordi, e realizzarono l'operazione gli uni all'insaputa dell'altro. Casualità. Ad avvalorare la posizione di Froglia esiste un filmato durante il quale scolpiva le 2 teste. Inoltre, lo stesso artista, realizzò un film mentre scolpiva le pietre che suscitò molto interesse al Torino Film Festival del 1984. Ancora oggi il catalogo pubblicato poche ore dopo la scoperta delle teste, e presentato in esclusiva durante la mostra dedicata ad Amedeo Modigliani a Livorno, è in vendita come rarità. Il catalogo, ribattezzato della beffa di Modi, testimonia come il giudizio degli esperti può essere piegato al sensazionalismo della scoperta inaspettata.

Fabio Casalini

Bibliografia 
Modigliani. Livorno-Parigi ultima bohème, Biografia Aldo Santini, giugno 1987

Modigliani. L'ultimo romantico, Biografia Corrado Augias, ottobre 1999

Amedeo Modigliani. Le pietre d'inciampo, la storia delle vere teste di Modigliani, Maurizio Bellandi, 2016

Il viaggiatore alato. Vita breve e ribelle di Amedeo Modigliani, Biografia Corrado Augias, 1998

FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.

Il monaco impiccato

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Arnaldo nacque a Brescia intorno al 1090. Votato alla vita religiosa volle approfondire la teologia e, poco dopo i vent'anni, si trasferì a Parigi. Nella città francese ebbe Pietro Abelardo come maestro. Il giovane Arnaldo si infervorò seguendo le lezioni e le discussioni pubbliche del maestro, del quale si ricorda una relazione con Eloisa, nipote del canonico di Notre Dame, tale Fulberto. Arnaldo quelle voci non le ascoltava, il giovane seguiva con lo sguardo i movimenti del maestro ed ascoltava quella voce suadente affrontare i problemi del XII secolo. Pietro Abelardo si aprì ai giovani raccontando di una Chiesa purificata da qualsiasi deformazione mondana. Il maestro sognava il ritorno alle origini del cristianesimo. Più o meno nello stesso periodo gli fece eco Bernardo da Chiaravalle che ricordava: “sogno di rivedere la Chiesa degli antichi giorni, quando gli apostoli gettavano le loro reti per guadagnare anime e non oro e argento”. Dopo alcuni anni trascorsi a Parigi, Arnaldo fece ritorno a Brescia dove divenne canonico agostiniano con la qualifica di prevosto. Trascorse poco tempo che il giovane mettesse a frutto gli insegnamenti di Abelardo. Intorno al 1119 iniziò una serrata propaganda anticlericale e contro la simonia (il termine è utilizzato in generale per indicare l'acquisizione di beni spirituali in cambio di denaro o prestazioni sessuali e deriva dal nome di Simon Mago, taumaturgo samaritano convertito al cristianesimo, il quale, volendo aumentare i suoi poteri, offrì a San Pietro apostolo del denaro chiedendo di ricevere in cambio le facoltà taumaturgiche concesse dallo Spirito Santo. Il rimprovero che Pietro mosse a Simone è un monito anche per i cristiani odierni poiché la storia della cristianità abbonda di casi di simonia). 
L'atteggiamento di Arnaldo era innovativo per gli inizi del XII secolo. Il canonico agostiniano accusava il clero, ed in particolare il vescovo di Brescia Manfredo, di possedere terre, di interessarsi di vicende politiche e di praticare usura. Inoltre Arnaldo predicava il ritorno alla povertà evangelica, all'elemosina ed alla solidarietà. Arnaldo da Brescia rivolse discorsi in piazza al popolo, infiammandolo sulla mondanità del clero. Il popolo applaudiva a queste tesi entrando in aperto contrasto con l'autorità episcopale. Nel 1138 avvennero scontri tra il popolo, da una parte, ed il clero ed i nobili, dall'altra. Il vescovo Manfredo nel 1139 fece ricorso a papa Innocenzo II che, nel concilio Lateranense, condannò Arnaldo come eretico. Innocenzo II fece condannare anche Pietro Abelardo come eretico. Arnaldo da Brescia rischiò il rogo ma Innocenzo II si limitò ad ordinargli il silenzio cacciandolo dall'Italia. Il canonico agostiniano fece ritorno dal maestro a Parigi che, peraltro, stava passando guai seri per l'amore con Eloisa come egli stesso narrò nel romanzo drammatico Historia: raccontò della folle reazione dello zio di Eloisa, che volle vendicarsi del fatto che la nipote rimase incinta, facendo evirare il protagonista dello scritto al suo ingresso come monaco benedettino nell'abbazia di Saint-Denis. Abelardo scrisse della successiva condanna per eresia, della prigionia e della fuga fino all'assoluzione da parte del nuovo abate di Saint-Denis. Arnaldo da Brescia ritrovò Pietro Abelardo attaccato anche da San Bernardo da Chiaravalle. 
Il santo dei Cavalieri Templari entrò in contrasto con Abelardo, e l'allievo Arnaldo, sull'eterodossia e sulla dottrina trinitaria da loro dibattuta. Bernardo denunciò entrambi all'episcopato francese che decise d'indire un concilio nella cattedrale di Sens, alla presenza del re, per il 2 giugno del 1140. Durante il concilio Bernardo lesse le accuse, chiedendo ad Abelardo ed Arnaldo di riconoscersi colpevoli ed abiurare. I due rifiutarono categoricamente. Bernardo lasciò Sens appellandosi ad Innocenzo II. In estate giunse la condanna al perpetuo silenzio in un monastero. Abelardo si ritirò a Cluny mentre Arnaldo, contravvenendo all'ordine pontificio, decise di tornare a Parigi per continuare a diffondere le idee del maestro. Arnaldo attaccò duramente Bernardo da Chiaravalle, che punto nell'orgoglio decise di fare ricorso al re. Arnaldo ricevette l'ordine di espulsione dalla Francia. Il canonico agostiniano decise di trasferirsi prima a Zurigo e poi in Boemia, nel 1143, dove fu accolto dal legato pontificio Guido di Castello, futuro papa Celestino II. Si recò successivamente a Viterbo dove ottenne il perdono dal nuovo papa Eugenio III. Nel 1145 si recò a Roma per un pellegrinaggio penitenziale dove, con la cacciata del pontefice in seguito alle rivolte del 1143, era stato istituito un libero comune retto da un senato oligarchico.
Arnaldo da Brescia trovò terreno fertile e decise di gettarsi completamente nell'agone politico. I punti fondamentali del suo programma di riforma, collegato alle idee del movimento milanese dei Patarini, erano: la rinuncia della Chiesa alla ricchezza, il suo ritorno alla povertà evangelica, l'abbandono del potere temporale e la predicazione estesa ai laici. Attraversò la città con accalorati comizi e le sue tesi rivoluzionarie, e anticlericali, comportarono la scomunica del papa, nel 1148. Arnaldo era talmente amato dal popolo che non fu mai perseguitato. L'esperienza del libero comune fallì; Arnaldo ed i suoi molti seguaci pensarono di far rinascere uno stato imperiale a Roma rivolgendosi a Federico Barbarossa nel tentativo di convincerlo a scendere a Roma ed instaurarvi un potere laico opposto a quello del papa. Eugenio III, nel tentativo di limitare i danni, riconobbe il Comune come entità politica, ma non riuscì godere della pace instaurata poiché morì poco dopo. Dopo il breve pontificato di Anastasio IV, salì al trono di Pietro Adriano IV, nel 1155, che si schierò violentemente contro la politica di Arnaldo da Brescia in seguito all'assassinio di un cardinale. Inoltre il papa colpì d'interdetto(è una punizione ecclesiastica che ha l'effetto di impedire l'accesso a tutte o a gran parte delle sacre funzioni della Chiesa in un luogo particolare) la città di Roma. Adriano IV promise di revocare la decisione se Arnaldo fosse stato esiliato dalla città. A questo punto i cittadini si schierarono contro il monaco bresciano che si vide costretto a scappare verso il Nord Italia. I romani fecero festa, perché il Papa sciolse l'interdetto e celebrò la Pasqua in Laterano. 
Subito dopo Adriano IV si ritirò a Viterbo poiché non si era ancora fatto vivo il Barbarossa. Arnaldo, nel frattempo, fu catturato nei pressi di San Quiricod'Orcia: l'ambasceria dei cardinali, che si era recata ad incontrare il Barbarossa, ne ottenne la consegna come segno di buona volontà e di alleanza. Intorno al giugno del 1155 Arnaldo fu condannato dal tribunale ecclesiastico all'impiccagione, ed il suo corpo fu arso al rogo mentre le ceneri furono sparse nel Tevere per impedire che i seguaci ne recuperassero i resti mortali.

Fabio Casalini


Bibliografia 
Claudio Rendina, La vita segreta dei Papi, Focus Storia libri, Newton Compton 2008 

Giovanni De Castro. Arnaldo da Brescia e la rivoluzione romana del XII. secolo. Livorno, F. Vigo, 1875. 

Antonino De Stefano. Arnaldo da Brescia e i suoi tempi. Roma, Bilychnis, 1921.

FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.


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