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Uccidete gli emigranti italiani

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Il pregiudizio contro gli italiani, anche detto antitalianismo, fu un fenomeno di discriminazione etnica contro gli italiani e l'Italia. Il fenomeno si attestò, ed in alcuni casi si attesta, soprattutto nei paesi del Nord America, dell'Europa centro-settentrionale e della Scandinavia. Le cause possono essere attribuite all'emigrazione italiana di massa di fine XIX secolo ed inizio XX secolo, ad alcuni eventi storici di natura bellica ed alle ostilità nazionalistiche e/o etniche.
Ultimamente è tornata sugli scudi una vignetta razzista e, palesemente, anti-italiana pubblicata originariamente dal quotidiano di New Orleans The Mascot nel lontano 1888. l'illustrazione s'intitola per quanto riguarda gli italianie mostra scene di vita dell'immigrazione italiana in Lousiana ed alcuni consigli su come liberarsi dell'ingombrante presenza, tra cui spiccano l'arresto e l'uccisione.
Perché è importante New Orleans nel quadro dell'emigrazione italiana negli Stati Uniti?
New Orleans fu la prima città americana ad accogliere un grande numero di emigranti italiani, ancora prima che l'Italia fosse realmente una nazione. In questo contesto di povertà estrema, gli italiani spesso prendevano il lavoro dagli afroamericani che venivano liberati dalle catene dell'orrenda schiavitù cui furono soggetti per molti secoli. Durante la seconda metà del XIX secolo, a New Orleans si recarono molti siciliani grazie ad una rotta che collegava Palermo e New Orleans. Le comunità di emigranti italiani erano chiuse, e particolarmente isolate, perché la maggior parte di loro presumeva di lavorare qualche anno negli Stati Uniti prima di fare ritorno nell'amata isola. A New Orleans si sistemarono in un quartiere specifico della città che prese il nome di Little Palermo.
In questo ambiente prese vita la vignetta del quotidiano The Mascot, probabilmente come espressione di un'intolleranza verso l'emigrante italiano.
Analizzando la vignetta possiamo notare che si divide in tre immagini con altrettante didascalie. Nella prima parte si notato delle persone sedute su un marciapiede, definite come una seccatura per i pedoni, delle persone che dormono in una stanza affollata, definita come la loro camera da letto, ed un gruppo di uomini che litigano con coltelli e bastoni, analizzato come un passatempo pomeridiano.
La prima parte inferiore della vignetta disegna degli uomini in gabbia che altre persone stanno cercando di calare in mare da un molo, descritta come il modo di liberarsi di loro.
La seconda parte inferiore riporta dei poliziotti armati di manganello che arrestano gli italiani, definita come il modo di arrestarli.
La vignetta è un lampante esempio del sentimento anti-italiano che scorreva nelle vie di New Orleans. Purtroppo negli anni che seguirono la pubblicazione della vignetta accaddero importanti fatti di sangue nella città della Lousiana.
Uno dei primi fatti è noto con il termine di linciaggio di New Orleans. L'evento si verificò il 14 marzo del 1891, tre anni dopo la pubblicazione della vignetta razzista.
Cosa avvenne quel maledetto giorno di marzo?
Nel 1890 a New Orleans si trovava un cospicuo numero di italiani: su una popolazione totale della città di quasi 275.000 persone ben 30.000 (circa) erano italiani, e la maggior parte di loro erano siciliani. Purtroppo con gli onesti si spostarono anche i criminali. Sulle sponde del Golfo giunsero la mafia e la criminalità quotidiana. Non bastasse la delinquenza, a rendere ancora più forte il disprezzo degli americani verso gli immigrati furono le affermazioni di alcuni antropologi, Giuseppe Sergi, criminologi, Cesare Lombroso, e sociologi, Alfredo Niceforo. Questi studiosi diedero un'immagine arretrata del popolo italiano, soprattutto dei meridionali della penisola.
Nell'ambito della criminalità organizzata vi erano due famiglie che si contendevano il controllo della città: i Provenzano e i Matranga.
In questo contesto una scintilla fu sufficiente a scatenare l'incendio.
A seguito di un agguato ai danni dei Matranga da parte della famiglia rivale, iniziarono una serie di violenti scontri in città. Il sovraintendente della Polizia, Hennesey, decise di arrestare 2 membri della famiglia Matranga annunciando la propria intenzione di testimoniare a favore dei Provenzano durante un processo. Hennesey era personalmente legato alla stessa famiglia. La notte del 15 ottobre 1890 Hennesey fu raggiunto da alcuni colpi di fucili da caccia mentre tornava alla propria abitazione. Il poliziotto cercò di reagire sparando in direzione degli assalitori. Alcuni conoscenti, attirati dal rumore degli spari, cercarono di prestare aiuto e soccorso a Hennesey. Non ci fu nulla da fare. La polizia nei giorni seguenti interrogò quasi esclusivamente appartenenti alle famiglie italiane. Molti di loro furono arrestate malgrado fossero completamente estranee ai fatti di sangue. Alla fine della retata gli arrestati erano 19, tutti italiani. Undici di loro furono accusati di aver ricoperto un ruolo diretto nell'omicidio del sovraintendente. La stampa locale, già indirizzata nella direzione del razzismo verso gli italiani, e gli amministratori locali decretarono la colpevolezza degli arrestati ancora prima che un regolare processo fosse iniziato. Nel marzo dell'anno successivo, 1891, otto degli undici imputati furono giudicati non colpevoli, malgrado i biechi tentativi di costruire prove inesistenti. Gli imputati furono tenuti agli arresti in attesa di un verdetto che avrebbe ribaltato la sentenza precedente.
Il popolo di New Orleans si sentì tradito dall'esito del procedimento che fu giudicato come un processo-farsa. Il malcontento sfociò rapidamente nella violenza. Il sindaco della città, dal cognome illustre ovvero Shakespeare, definì gli italiani come “individui abbietti, più pigri, più depravati, più violenti e più indegni che esistono al mondo, peggiori dei negri e più indesiderabili dei polacchi”.
Fu come versare benzina sul fuoco della rabbia popolare.
Un gruppo di manifestanti si riunì in una piazza di New Orleans. Alla guida della folla vi era un avvocato, William Parkerson. La folla, armata e surriscaldata, si avviò verso la locale prigione dove erano trattenuti gli italiani. La polizia cercò d'impedire l'assalto alle celle utilizzando la diplomazia. Purtroppo il grande numero di persone e l'agitazione delle stesse comportò l'assedio degli emigranti italiani. Due furono impiccati sul posto, gli altri uccisi a colpi di fucile.
Le conseguenze politiche non si fecero attendere. L'ambasciatore italiano fu richiamato dal presidente del Consiglio, allora Antonio Starabba. A porre rimedio alla difficile situazione fu il presidente degli Stati Uniti, all'epoca dei fatti Benjamin Harrison, che decise per un risarcimento alle famiglie delle vittime italiane.
La cifra della vita di undici persone?
125.000 franchi.
Questo triste episodio non rimase isolato. Sempre in Lousiana, a Tallulah, nel 1899 furono linciati 5 italiani, tra cui tre fratelli, accusati di aver ferito il dottore del paese dopo che l'uomo aveva ucciso una capra appartenente ai fratelli.
Tra folla e follia l'unica differenza è una vocale.

Fabio Casalini

Bibliografia
Il Post, La vignetta razzista anti-italiana del 1888, 15 giugno 2015

Il Post, I linciaggi degli italiani in Lousiana, 26 giugno 2015

America Oggi, Frank Maselli parla dell'emigrazione italiana a New Orleans, 16 agosto 2013

Daniele Fiorentino, Gli Stati Uniti e il risorgimento d'Italia, Gangemi.2013

Stefano Luconi, La rappresentazione degli italiani nell'immaginario statunitense, 2010

Patrizia Salvietti, Corda e sapone, Donzelli editore

FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.

Con gli occhi di Dianora, la strega di Corcinesco

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Ho sempre guardato il mondo con gli occhi incantati di quando ero bambina, di quando andavo nel bosco con mia nonna a cercare le erbe mentre lei mi raccontava storie fantastiche  di un tempo lontano e misterioso. Vorrei avere ancora quello sguardo, vorrei tornare a quei giorni, libera e felice a Graniga, in val Bognanco, senza paura, senza dolore. Vorrei cancellare questi ultimi mesi, in cui tutto è diventato difficile e greve. Ma non è possibile, non posso tornare indietro, non posso più essere quella donna che sapeva aiutare gli altri, che sapeva guarire chi a lei si rivolgeva. Guardo la mia immagine riflessa in una bacinella di acqua ormai sporca, la sola che ,mi hanno lasciato per bere e per lavarmi. Vedo un volto che non conosco, segnato dalla sofferenza, macchiato del mio stesso sangue, pallido e scarno, con la testa rasata. Vedo un volto che non è il mio, eppure sono io. Sono quella in cui mi hanno trasformata dopo giorni di torture e accuse. Domani è il giorno. Tutto finirà. Mi taglieranno la testa e io sarò libera di nuovo, di vagare per i boschi, di correre da lui, dal mio amore, da quell’uomo dai capelli rossi che tutti chiamano “l’eretico frescante.” Guardo il mondo da una piccola finestra, la sola della cella in cui mi hanno rinchiusa. Vedo il cielo, le nuvole farsi infuocate mentre il sole scompare inesorabile dietro le montagne.  Sarebbe bello vedere un altro tramonto, guardare la luna diventare piena.  Non voglio morire. Non è giusto. Non merito quello che mi è accaduto. Mi hanno arrestata, trascinata via da casa, come un’assassina. Mi hanno caricata su un carro, dentro una gabbia in legno, come si fa con le bestie feroci. Ho pianto, supplicato, urlato, fino a quando il carro si è fermato. Mi hanno portata in un castello, nelle prigioni, in un paese che si chiama Vogogna. Mi hanno buttata in una cella, come uno straccio. Fa freddo, la notte non passa mai. Il giorno è un calvario di dolore e umiliazione. Il silenzio è rotto solo dai lamanti di altri sventurati come me, chiusi qui in attesa di morire. Ho solo una candela a farmi compagnia, a ricordarmi che sono ancora viva. La sua fiamma mi da sollievo, mente il buio arriva lento e sinistro a tingere di nero ogni cosa. Ma non arde tutta la notte. Quando smette di brillare l’oscurità mi avvolge e mi rende invisibile al mondo, come vogliono loro. Sono Dianora Farnese, la strega, la malvagia, colei che qualcuno ha deciso di cancellare da questa terra, perché so “guastar le bestie, so fare malefici. Al mio passaggio tutti chinano la testa perché hanno paura di incrociare i miei occhi che ammaliano, che incantano, che nascondono i segreti della notte, quando vago per i boschi in cerca del mio demoniaco sposo, che sono neri e profondi come l’abisso in cui la mia magia può far cadere chi coraggiosamente li fissa. Sono Dianora, la senza Dio, la concubina di Satana, la vendicativa, colei che scatena il temporale, che fa soffiare forte il vento, che ammaestra la notte e le sue creature. Sono tutto questo? Sono davvero tanto potente, tanto abile da soggiogare uomini, bestie e natura? Guardo le mani della “strega” appoggiate alle sbarre della finestra. Le guardo e mi accorgo che sono le mie. Sono sporche, coperte di sangue, con le unghie strappate. Sono mani che hanno lottato, molto, che hanno vissuto, che hanno amato e che ora si dovranno arrendere alla morte. Le guardo e sento la bocca distendersi in un sorriso. Come possono credere tutto questo di me? Sono solo una donna, che conosce la natura grazie agli insegnamenti di sua nonna, che usa le erbe per fare unguenti e infusi, per lenire il dolore, per curare i malanni. Nonna mi diceva che ho un dono, che il mio cuore è puro e posso aiutare gli altri. Non conosco il male, non capisco le accuse che mi fanno. La vita mi ha resa dura, ma il mio cuore batte ancora forte. Non dovrei essere qui, sola al freddo, col corpo dolorante, calpestata nella mia dignità di donna, violata. Mi hanno rasato la testa, il corpo, in cerca del segno del demonio. Quel neo mi condanna. Mi hanno picchiata, legata, interrogata per giorni e ora sono qui in attesa del sollievo della morte. Questa non è giustizia. Il sole è tramontato.  Ho molti pensieri che affollano la mia mente. La mia casa. I figli di Leone che mi hanno sempre odiata. Giacomo, con la sua arte e la sua delicata follia. La mia infanzia con al nonna. Mio padre e mia madre, il loro rifiuto. I miei studi sulle erbe, il mio custodire la conoscenza che mi era stata tramandata, trasportata nel tempo. La diffidenza della gente, i loro sguardi a metà fra paura e disprezzo.  Nulla importa più, inizia la mia ultima notte.  Non voglio dormire, voglio solo ricordare le cose belle e quelle brutte. Voglio vedere la luna, che mi ha fatto compagnia tante volte mentre nel bosco raccoglievo le erbe. Voglio vedere sorgere il sole, sentire la mia amica natura svegliarsi e continuare a vivere. 
Mi sdraio. Penso alla sola persona che da bambina mi ha amata, nonna Elisabetta. Ho visto la luce nel 1531. Mia madre Domenica e mio padre Giovanni avevano già una figlia femmina. Speravano che fossi un maschio per aiutare nei campi e per accudire gli animali. Dopo di me altri due maschi e una femmina. Eravamo in tanti in quella casa. Mamma aveva sofferto molto per mettermi al mondo. Nonna le era rimasta accanto tre giorni e tre notti, dandole infusi per lenire i dolori del parto, recitando preghiere e litanie. Era levatrice e guaritrice, benvoluta dalla maggior parte delle persone. Durante la notte del terzo giorno, mia madre, stremata e debole, mi ha partorita sotto gli occhi speranzosi di mio padre. Era l’8marzo 1531. Alla mia vista la sua gioia si spense, avrebbe avuto un’altra bocca da sfamare. Mamma era troppo stanca per dire qualcosa. Rimase tra morte e vita una settimana, poi lentamente si riprese. Solo nonna fu felice del mio arrivo. Mi raccontò una volta che non piansi appena venuta al mondo, ma le strinsi forte il dito indice della mano destra. Guardandomi con amore si accorse che avevo una voglia a forma di lenticchia,  sulla spalla sinistra, proprio come lei. Ero io la predestinata a seguire le sue orme, per diventare la custode. La mia infanzia fu per pochi anni serena, nonna mi portava sempre con se, nei boschi, nei prati, a casa delle persone che la chiamavano in caso di bisogno. Io ascoltavo le sue parole e imparavo quel sapere che le era stato tramandato da sua madre e così via, da donna a donna, fino ad arrivare ad un tempo tanto lontano che nessuno ricorda più. Guardavo i gesti che compiva, come conservava le erbe e le radici, come le mischiava. Catalogava tutto con cura, e precisione. Sapeva cosa usare in ogni occasione, per ogni malanno aveva il giusto rimedio. In diversi periodi dell’anno raccoglievamo insieme foglie, fiori e frutti. La nonna riconosceva ogni germoglio: il biancospino per calmare l’ansia, l’epatica per curare lo stomaco, il non ti scordar di me per lenire l’infiammazione agli occhi, l’ortica  per curare la gotta. Il tempo passava e io crescevo. Quel nostro girovagare per i boschi impensieriva  i miei genitori. I tempi erano cambiati, bastava un pettegolezzo per far apparire una buona azione come malvagia. Non avevo ancora 6 anni quando mia madre decise di chiudermi in casa per far cessare le voci su me e nonna Elisabetta. Piansi, giorni interi. Mi disperai, nonna venne per portarmi via, ma la violenta opposizione dei miei genitori rese tutto inutile. Non ci incontrammo per mesi. Ogni tanto, senza potermi avvisare, veniva al limitare del bosco dietro casa nostra. Io sentivo che sarebbe arrivata. Quel filo invisibile che ci teneva legate era sempre più forte. Correvo alla finestra e la guardavo illuminata dalla luna. Lei  mi sorrideva. Restavo immobile senza dire nulla fino a che qualcuno in casa si accorgeva che ero lì, a contemplare la notte. Nella  mia testa sentivo la sua voce che mi parlava. La mamma diceva che ero strana, come sua madre, che prima o poi mi avrebbero accusata  di essere una strega, una sposa del demonio. L’eco delle accuse rivolte alle guaritrici nelle altre valli era arrivato fino a noi. Tutto si fece più difficile. La religione cattolica cercava di mettere radici sempre più salde anche nelle nostre valli, dove gli antichi culti sopravvivevano immutati da secoli. Chi un tempo era chiamato a guarite uomini e animali, usando la medicina della tradizione, in quei giorni era accusato di agire per conto del maligno. L’inasprirsi della repressione verso questo antico sapere aveva creato un clima pesante, di sospetto e paura. Papà era davvero preoccupato per la mia sorte, ma soprattutto per quella della famiglia. Io nel frattempo crescevo; nonna, nelle poche occasioni in cui riuscivamo a vederci, continuava a trasmettermi insegnamenti. Avevo anche imparato a comunicare con gli animali, suscitando ulteriore apprensione nei miei genitori.  Nel 1549, a 18 anni, papà mi cacciò di casa. Ero stata ripudiata. La mia famiglia mi stava rifiutando. Come poteva non farlo l’intero paese? Fu così che io e nonna ce ne andammo a vivere lontano. Lei era ormai vecchia e stanca, ma decise di seguirmi per non lasciarmi sola. Ci stabilimmo in un bosco vicino al piccolo paese di Calasca, in valle Anzasca. Eravamo al sicuro, al riparo da calunnie e maldicenze. Dopo pochi mesi nonna mi lasciò sola. Era estate, una sera particolarmente luminosa grazie alla luna che splendeva piena nel cielo. Nonna Elisabetta era sul letto. La sua stanza aveva una finestra che guardava il monte Rosa. Mi chiamò e mi chiese di aprirla. Obbedii come sempre. Mi disse: «E’ ora piccola mia, il mio viaggio finisce qui. La mia anima volerà via. Andrò sulla grande montagna e da lì ti guarderò. Fai tesoro di ciò che ti ho insegnato, siamo le custodi del sapere, tocca a te ora usarlo nel modo giusto e trasmetterlo alla prescelta. »  L’ho sepolta nel bosco sotto a un nocciolo, la sua sapienza resterà per sempre a guidare il mio cammino. 
In quel luogo isolato ho potuto dedicarmi al mio sapere, migliorare la mia conoscenza delle erbe, restare in contatto con la natura. La gente del paese veniva da me solo se aveva bisogno di aiuto. Non mi davano confidenza, non cercavano di conoscermi. Nel 1553 decisi di tornare a Graniga, per vedere la mia famiglia. Arrivai inattesa come il vento di primavera. Quando giunsi davanti a casa mi accorsi che nulla era cambiato, il tempo si era fermato. Mia madre era solo più consumata dalla vita, mio padre più curvo su se stesso. Quasi non mi riconoscevano. Ero partita come un a ragazza in lacrime, tornavo come una donna fiera e sicura di me. La vita in questo piccolo borgo non era cambiata molto. Tutto scorreva lento come un tempo, lo scarso entusiasmo dei miei genitori fu pari a quello degli abitanti del paese. Ai loro occhi ero sempre la ragazzina che preferiva stare nel bosco e parlare con gli animali piuttosto che con gli uomini.  Quel giorno per la prima volta incontrai l’uomo che sarebbe diventato mio marito, Leone Negro di Corcinesco. Non era un uomo bellissimo, ma del resto neppure io lo ero. Di me lo colpì il mio portamento fiero e quell’aria di mistero che mi accompagnava da sempre. Era vedovo, con 4 figli maschi: Lucio, Nunzio, Petruccio e il piccolo Bartolomeo, ancora bisognoso delle cure di una donna. Diventammo amici. In me vedeva un aiuto per crescere i suoi bambini. In lui vedevo la possibilità di una vita stabile e di conquistare quella rispettabilità che mi mancava. Ci sposammo il 26 aprile 1554. Non lo conoscevo, ma poco importava. Lasciai l’isolamento del bosco a Calasca, quella che era stata la mia casa e la nonna. Ci stabilimmo a Corcinesco, un piccolo borgo lontano da tutti nell’abitato di Trontano, in Ossola. Leone era benestante. Non ci mancava nulla. La casa era grande, avevamo terreni con qualche cascinale e alcune bestie da accudire. Quando andai a vivere con la sua famiglia immaginavo che insieme avremmo avuto una vita serena. Fin da subito mi accorsi che non sarebbe stato così. I suoi figli, tranne il più piccolo, mi fecero capire fin da subito che non ero ben accetta. Non volevano che prendessi il posto della loro mamma. Il passare del tempo non migliorò i nostri rapporti. Ad appesantire la situazione si aggiunse la consapevolezza che forse non sarei mai stata madre. La nostra sterile unione fu per me motivo di grande tristezza. Anche a Corcinesco mi dedicai allo studio delle erbe e al perfezionamento del loro impiego. I figli di Leone crescevano e con loro aumentava il rancore verso di me. Ogni tanto ci capitava di andare in visita da alcuni conoscenti di mio marito nell’abitato di Montecrestese. E questo mi permetteva di allontanare la mente dai problemi quotidiani. Era la primavera del 1563. Lo ricordo molto bene quel giorno. I primi fiori di campo prendevano il posto della neve, il sole riscaldava i nostri corpi ancora avvolti in abiti invernali. Io e Leone eravamo soliti andare a messa nella chiesa del paese. Entrammo e, dopo un primo momento di abbagliamento, mi accorsi che un uomo stranamente vestito si accingeva ad ascoltare la messa in ginocchio. Quando gli passai accanto vidi che indossava una tunica con una croce rossa cucita sul petto. Incrociammo lo sguardo. Un attimo mi bastò per riconoscere nei suoi occhi lo stesso abisso che vedevo nei miei. Riconobbi la notte. Leone mi prese per un  braccio e mi portò a sedere distante. «Chi è quell’uomo?» chiesi. «Un notaio caduto in disgrazia perché luterano, tale Giacomo da Cardone.» Ero persa. Tornammo a casa quella stessa sera. Il mio pensiero correva a quella figura sconosciuta, a quell’uomo penitente. Passarono giorni e poi settimane. Nel frattempo in paese la gente, venuta a sapere della mia fama di guaritrice, mi chiamava ogni tanto per curar qualche bestia malata. Capitò anche di aiutare qualche amico di mio marito, piccole cose che contribuirono  a farmi conoscere come guaritrice e a farmi soprannominare la “Balda”. Non tutti però approvavano il mio agire. C’era chi mi guardava con sospetto, chi con grande ammirazione. Questo vociare intorno  ame  non rendeva felice la mia famiglia. La salute di Leone intanto peggiorava. Gli inverni rigidi e le difficoltà della vita costrinsero i suoi figli a partire in cerca di fortuna. Rimasi sola ad occuparmi di tutto. La mia rinnovata indipendenza, lontano da occhi indiscreti, mi permise di tornare  spesso a Montecrestese, per curare gli interessi della famiglia. Durante queste visite sempre più frequenti, ebbi modo di instaurare una tenera amicizia con Giacomo e di conoscere la sua terribile vicenda. Nel 1561 era stato accusato di essere un eretico, di essere luterano. Lo avevano torturato e costretto ad abiurare. Scoprii standogli accanto che era anche un pittore molto bravo. Aveva affrescato la chiesa di Montecrestese e quella di un lontano paese in un’altra valle. Stare con lui mi faceva sentire bene. Ero libera dal peso di quella vita che non mi apparteneva.  Mi guardava negli occhi senza giudicarmi, vedeva solo Dianora la donna, non la guaritrice. Dei figli di Leone non seppi più nulla per molti anni. Accudire  lui e i suoi averi mi stava logorando. Finalmente nel 1566 Giacomo ormai divenuto parte della  mia vita, fu riabilitato e poté tornare alla sua attività. Non smettemmo mai i nostri incontri settimanali, neppure quando Leone si aggravò. Era l’inverno del 1579. Ricordo che fu uno dei più rigidi  da quando abitavo a Corcinesco. Era mattina presto. Mi alzai e andai nella stanza dove Leone dormiva. Entrando sentii  un‘aria gelida venirmi incontro, sentii come se l’inverno fosse entrato dalla finestra per avvolgermi. Capii subito. Mi voltai, uscii, mi vestii e andai in paese a chiamare il parroco. Quando tornammo e rientrammo nella stanza mi accorsi che anche lui aveva sentito quel freddo improvviso. Eppure la stufa era accesa. Lo vidi stringere forte il crocifisso che aveva  in mano e farsi il segno della croce. Bisbigliava qualcosa che non capivo. Si avvicinò per benedire il corpo, guardò il comodino  e mi chiese: «Cosa c’è in quella tazza?» «Una tisana» risposi. Capii subito cosa aveva pensato. I giorni successivi furono tutti un vociare  sul contenuto di quella coppa. Ero la Balda, quella che guariva ma che sapeva anche “guastar le persone”. La mia fama, nel bene o nel male, aveva raggiunto anche i paesi vicini. Quel mio saper usare le erbe, il mio girovagar per boschi di notte, spaventava e incuriosiva. Venivo chiamata sempre più spesso per aiutare chi soffriva. Capitava che ci trovassimo allo stesso capezzale io e il prete, lui a recitar preghiere, io a dar tisane e unguenti. La mia amicizia con Giacomo divenne sempre più forte e chiacchierata. Al nostro passaggio molti si scansavano, il luterano e la strega incutevano timore. Perché alla fine, come fu per nonna Elisabetta, la mia conoscenza era considerata da molti come un potere datomi dal maligno, non una dote che avevo saputo accrescere negli anni.  Passammo insieme qualche inverno isolati nel podere di Corcinesco. Anche Giacomo, da tempo rimasto vedovo, non disdegnava la solitudine di quel luogo. Mi aiutava con gli animali. Vivevamo con poco ma felici. Era la primavera del 1586 quando tutto cambiò nuovamente. Un giorno, senza preavviso, i figli di Leone fecero ritorno a Trontano. Lo venni a sapere per caso. Avevano fatto fortuna, non si sa bene come. Tornarono più ricchi e desiderosi di riveder il padre. La notizia del loro arrivo fu per me motivo di rabbia. Tornavano forse per reclamare la loro proprietà? Il tempo aveva mandato quasi tutto in rovina. Io da sola non ero in grado di gestire ciò che possedevo. Il nostro primo incontro non fu pieno di affetto. Mi chiesero conto della morte di Leone, delle voci che incessanti ancora giravano sulla tisana che gli avevo preparato. Il degrado in cui trovarono il podere fu motivo di ulteriore astio. Quelli che seguirono furono giorni difficili. Io ero sola, Giacomo era partito, loro erano in quattro, sostenuti dalle maldicenze del paese che rendevano il clima sempre più teso. Ero ospite non gradita sulla loro terra, nella loro casa. I quattro fratelli decisero, senza interpellarmi, che avrebbero costruito al confine con Corcinesco una casa fortificata, per andarci a vivere. Mi stavano sfidando. Non li volevo li, avrebbero controllato e giudicato ogni mio movimento, ogni azione. Le voci sulla mia attività di guaritrice dalle eccezionali doti, li fecero infuriare ancora di più. Decisero di colpirmi con la calunnia, la peggiore delle armi. Fecero giungere all’orecchio del prevosto di Vogogna e a quello di Malesco, in valle Vigezzo, la voce che in zona avvenivano cose strane, incontri al chiaro di luna la sera nel bosco, guarigioni inspiegabili, malattie improvvise. Il seme del sospetto era stato piantato. La presenza di Giacomo al mio fianco contribuì ad alimentare il fuoco della menzogna.  Nell’autunno del 1590, dopo anni passati a difendermi da infondate accuse, arrivò da Milano la notizia che il Capitano di Giustizia della città aveva comunicato all’arcivescovo, all’epoca Gaspare Visconti, la richiesta di procedere con indagini accurate a mio carico, allo scopo di dimostrare, senza ombra di dubbio, che io fossi una potente strega. Fu così che nell’estate del 1591, un frate inquisitore dalla città giunse a Montecrestese e si stabilì a casa di Giacomo, poiché era il personaggio più in vista del paese. In quel luogo, protetto dall’immagine di San Rocco, dipinto dallo stesso Giacomo per punizione durante gli anni di penitenza, l’inquisitore iniziò le sue indagini. Per la nostra tenera amicizia fu un duro colpo. Non potemmo più incontrarci. Non potevamo rischiare di destare sospetti nei suoi confronti, che già aveva patito le pene dell’inquisizione. La raccolta delle prove fu semplice. I figli di Leone fecero di tutto per farmi apparire malvagia e senza Dio. Offrirono persino del denaro per creare testimoni a mio carico.  Il 24 settembre del 1591 fui arrestata presso le rive del rio Graglia, con l’accusa di essere una strega in grado di “guastar uomini, animali e fantolini, di scatenare tempeste e di far seccare le messi al mio passaggio”. Mi portarono a Vogogna e mi gettarono dove ancora mi trovo. La prima notte mi lasciarono al buio. Le ore scorrevano lente e l’incertezza sul mio domani mi paralizzava. Rimasi tutta la note a fissare la finestra, sapevo che per me non c’era speranza. 
Il mattino seguente entrarono in cella, di buon ora, un frate domenicano, dall’aria severa, e due uomini sconosciuti. Mi trascinarono come uno straccio lungo un corridoio con altre celle, da cui flebili mi giungevano i lamenti di altri sventurati. Entrammo in una stanza illuminata solo dalla luce di un camino acceso e di una consumata candela, con un tavolo pieno di arnesi e delle corde appese al soffitto. In breve capì a cosa servivano quei ferri. Dopo avermi legata, mi straziarono il corpo per un tempo infinito. Mi picchiarono. Mi ripetevano di continuo che le prove raccolte a mio carico erano tante e che la sola cosa che avrei potuto fare per abbreviare lo strazio a cui ero destinata, era confessare la mia colpa. Su di me trovarono il segno del demonio, quella voglia a forma di lenticchia sulla spalla sinistra, era la conferma che ero la strega di cui tutti avevano timore. Confessai quello che volevano sentirsi dire, quando le loro mani conobbero le mie intimità. Ero niente per loro, solo un male da cancellare dal mondo. Seguirono altri giorni di patimento e umiliazione. Poi rimasi sola. Il 12 ottobre, il tribunale dell’inquisizione allestito nel castello, mi condannò a morte per decapitazione.  La notte è finita. È mattina. Il sole sorge. Per me giunge la fine. Guardo le montagne e la valle sotto di me. La vita continua, io mi fermo qui. Il mio pensiero corre a te Giacomo, compagno e amico nella solitudine, al mio bosco a Corcinesco, alla luna piena, a nonna Elisabetta che riposa sotto il nocciolo.  Oggi muoio senza colpa, ma la mia storia, quella di Dianora Farnese la Balda., sopravvivrà al tempo ed alle calunnie della gente.  Ora sono libera.   

Rosella Reali

Si ringraziano di cuore Nicola Sgrò per il materiale e Stefania Pelfini per le fotografie.

ROSELLA REALI
Sono nata nel marzo del 1971 a Domodossola, attualmente provincia del VCO. Mi piace viaggiare, adoro la natura e gli animali. L'Ossola è il solo posto che posso chiamare casa. Mi piace cucinare e leggere gialli. Solo solare, sorrido sempre e guardo il mondo con gli occhi curiosi tipici dei bambini. Adoro i vecchi film anni '50 e la bicicletta è parte di me, non me ne separo mai. Da grande aprirò un agriturismo dove coltiverò l'orto e alleverò animali. 
Chi mi aiuterà? Ovviamente gli altri viaggiatori.
Questa avventura con i viaggiatori ignoranti? Un viaggio che spero non finisca mai...

La piramide di Ball, il faraglione più alto del mondo

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La piramide di Ball, Ball's Pyramid in inglese, è il faraglione più alto del mondo. Un faraglione è uno scoglio roccioso a forma di picco che emerge dall'acqua nei pressi della costa, ed è causato dall'azione erosiva del moto ondoso delle acque poco profonde. La piramide di Ball si trova nel mar di Tasmania, nell'Oceano Pacifico, ed appartiene all'Australia. Fa parte del continente quasi completamente sommerso della Zeelandia di cui la Nuova Zelanda è la parte emersa più visibile. La Zeelandia affondò dopo essersi staccata dall'Antartico in un periodo compreso tra gli 85 ed i 130 milioni di anni fa e dall'Australia circa 85 milioni di anni fa. Un'ipotesi prevede che il continente sia quasi completamente sommerso da circa 23 milioni di anni. La maggior parte di essa, il 94% circa, giace ancora al di sotto dell'oceano Pacifico. Il faraglione, disabitato, è alto 562 metri e si trova al largo dell'isola di Lord Howe, che fa parte dello stato australiano del Nuovo Galles del Sud.



La piramide prende il nome dal tenente della Marina Reale Henry Lidgbird Ball, che nel 1788 riferì di averlo scoperto. Nel medesimo viaggio, Ball riportò anche la scoperta dell'isola di Lord Howe. Nel resoconto dell'istituzione delle colonie di Port Jackson e dell'isola di Norfolk, del 1789, il governatore Arthur Philipp scrisse che “circa quattro miglia dalla parte sud-occidentale della piramide, si trova uno scoglio pericoloso, che si eleva poco oltre la superficie dell'acqua e sembra non essere più grande di un'imbarcazione. Il luogotenente Ball non ha avuto l'opportunità di valutare se ci sia un passaggio sicuro tra le due“. Si ritiene che il primo, occidentale, a scendere a terra sia stato Henry Wilkinson, geologo del Nuovo Galles del Sud.



L'attracco con relativa passeggiata avvenne nel 1882, quasi un secolo dopo il primo avvistamento da parte del tenente Ball. Nel 1964 un gruppo di avventurieri di Sidney, tra cui Dick Smith, cercò di salire sino alla cima del faraglione. Dopo 5 giorni furono costretti a desistere per la mancanza di cibo ed acqua. La prima scalata avvenne l'anno seguente: il 14 febbraio del 1965 una squadra di arrampicatori, composta da John Davis, Bryden Allen, David Witham e Jack Pettigrew, riuscì a raggiungere la vetta della piramide di Ball.



Nel 1979 l'avventuriero Dick Smith, non pago del fallimento del 1964, tentò nuovamente di scalare la vetta del faraglione. Lo accompagnarono John Worral e Hugh Ward. Questa volta, per la gioia di Smith, l'impresa riuscì. La scalata aveva un obiettivo preciso, quello di reclamare la piramide di Ball come territorio australiano, formalità che a quanto pare non avvenne nella precedente spedizione. Smith e soci sventolarono una bandiera del Nuovo Galles del Sud appena giunti in vetta. 
Dal 1982 le arrampicate sono vietate. 
Dal 1986 tutti gli accessi all'isola sono banditi.



Dal 1990 si è assistito ad un certo rilassamento del governo australiano nei confronti della Piramide di Ball, infatti a partire da quell'anno ha previsto di consentire alcune arrampicate in determinate condizioni: tra queste la richiesta al ministro competente. 
Nel 2014, due scalatori, supportati da yacht, hanno effettuato con successo un'ascesa non autorizzata. L'impresa fu compiuta in un solo giorno. I due bivaccarono 80 metri sotto la vetta e riportarono la notizia che durante la notte riuscirono a vedere degli insetti vivi.


Perché è importante la descrizione degli insetti? 
Sulle rocce della piramide di Ball vive l'ultima popolazione selvatica conosciuta di insetto stecco dell'isola di Lord Howe. 
L'ultimo avvistamento nell'isola di Lord Howe dell'insetto stecco avvenne nel 1920. Da quel momento si riteneva la specie estinta. La prova della sopravvivenza sulle rocce della piramide di Ball avvenne nel 1964 con il tentativo di scalata di Dick Smith. Gli avventurieri produssero fotografie dell'insetto morto. Durante gli anni seguenti furono scoperti molti altri esemplari morti. I tentativi di trovarne vivi non ebbero mai successo sino a quando, nel 2001, una squadra di entomologi e ambientalisti sbarcò sulla piramide di Ball per mapparne flora e fauna. Come avevano sperato, scoprirono una popolazione di insetti stecco dell'isola di Lord Howe vivi. La specie viveva a circa 100 metri d'altezza sotto un unico arbusto. La popolazione era estremamente piccola poiché era composta da 24 individui. Due coppie di insetti furono trasportate in Australia continentale allo scopo di farle riprodurre in condizioni protette. L'obiettivo fu raggiunto dopo un breve periodo e gli insetti furono reintrodotti nell'isola di Lord Howe. 
Gli insetti avvistati dagli arrampicatori non autorizzati nel 2014, presumibilmente, non appartengono alla stessa specie di insetto stecco. Questo evento suggerisce che la gamma di insetti della Piramide di Ball potrebbe essere maggiore di quanto preventivato sino ad ora.

Fabio Casalini


Bibliografia

Smith, Dick (2015). Balls Pyramid, Climbing the world's tallest sea stack. Dick Smith Adventure Pty Ltd


Smith, Jim (2016). South Pacific Pinnacle, The exploration of Ball's Pyramid. Den Fenella press

Philip, Arthur (1789). "The Voyage Of Governor Phillip To Botany Bay With An Account Of The Establishment Of The Colonies Of Port Jackson And Norfolk Island" 

Hutton, Ian (1998). The Australian Geographic Book of Lord Howe Island. Australian Geographic


FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.

Helgoland, la presunta Atlantide del Mare del Nord

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Helgoland è un piccolo arcipelago del Mare del Nord le cui isole, che videro prima la bandiera danese ed in seguito quella inglese, appartengono alla Germania. Alla fine del 2016 l'arcipelago contava una popolazione di 1127 persone. Sono le uniche isole tedesche non nelle immediate vicinanze del continente. Oltre al tedesco la popolazione locale, che appartiene all'etnia dei Frisoni, parla la Heligolandic, un dialetto della lingua frisone chiamato Halunder. 

Un tempo questo arcipelago era noto come Heyligeland, o terra santa, probabilmente a causa dell'associazione delle isole con il dio Forseti, nella locale lingua colui che presidia. Forseti era il dio della giustizia, della pace e della verità. Era considerato il più saggio e il più eloquente fra gli dei. Nel corso dei secoli sono state proposte diverse teorie alternative per dare un riscontro al nome dell'arcipelago. Queste idee si legano al nome di un re danese, Heligo, o alla parola frisone Hallig, che significa isola della palude salata. L'Encyclopedia Britannica del 1911 suggerisce l'etimologia Halligland, ovvero terra di banche, che copre e scopre. L'area intorno all'isola è nota per essere abitata fin dalla preistoria. Strumenti di selce furono recuperati dal fondo del mare che circonda le due isole che compongono l'arcipelago. Scavi archeologici hanno riportato alla luce manufatti e scheletri. Inoltre lastre di rame preistoriche sono state rinvenute sott'acqua nei pressi delle isole. 
Correndo nel tempo giungiamo all'anno 697 quando Radbod, l'ultimo re frisone, si ritirò nelle Helgoland dopo la sconfitta subita dai Franchi, stando a quanto si può leggere nella Vita di Willebrord di Alcuino. Nel 1231, Helgoland fu elencata come proprietà del re danese Valdemar II. Nei secoli successivi l'arcipelago rappresentò un ottimo punto di partenza per le imbarcazioni da pesca, soprattutto dedite alla cattura delle aringhe. Di conseguenza sino al 1714 la proprietà dell'isola mutò più volte. Nel 1714 la Danimarca ottenne la sovranità che durò sino al 1807. Il giorno 11 settembre del 1807, durante le guerre napoleoniche, l'ammiraglio Thomas Macnamara Russel annunciava la capitolazione di Helgoland ed il suo passaggio definitivo all'Inghilterra. L'annessione di Helgoland fu ratificata dal trattato di Parigi del 30 maggio 1814. 
Nel 1826 Helgoland divenne una stazione balneare, molto popolare all'interno dell'alta classe europea. L'isola attirò artisti e scrittori, in modo particolare dalla Germania e dall'Austria. Uno scritto di quel periodo ricorda che “era una terra dove non ci sono banchieri, avvocati, crimine, dove tutte le mance sono severamente vietate, le padrone sono oneste”. La Gran Bretagna abbandonò le isole nel 1890, in seguito al trattato di Helgoland-Zanzibar. La Germania, preoccupata di proteggere l'isola e l'ingresso al canale Kiel, iniziò importanti opere militare sulle coste di Helgoland. Il motivo dell'interesse tedesco al controllo di queste isole, tanto da concedere molto in cambio, risiedeva nella loro posizione strategica, che avrebbe permesso a chi le occupava di dominare e controllare gli accessi ai principali porti tedeschi sul Mare del Nord. Infatti la marina germanica provvide immediatamente a fortificare pesantemente queste isole, trasformandole in un punto di difesa chiave contro eventuali attacchi da parte della flotta britannica in caso di guerra. 
Lo scoppio della prima guerra mondiale comportò la totale evacuazione della popolazione civile verso la terraferma. A guerra finita, gli abitanti tornarono alle proprie case sperando in un periodo di pace e prosperità. La tranquillità durò sino allo scoppio della seconda guerra mondiale. All'inizio del conflitto Helgoland fu marginalmente interessata ai bombardamenti che avvenivano sul territorio tedesco. La situazione mutò radicalmente con l'avvicinarsi della fine della guerra. Tra il 18 ed il 19 aprile del 1945, con due diverse ondate di attacchi, 1000 aerei della Royal Air Force britannica scaricarono sul territorio di Helgoland circa 7000 bombe. La maggior parte della popolazione civile riuscì a salvarsi grazie ai rifugi antiaerei. Nei bombardamenti perirono circa 280 persone, per la maggior parte marinai tedeschi e militari delle postazioni antiaeree. A seguito di questi eventi, l'isola risultò instabile e la popolazione civile fu evacuata, nuovamente, verso la terraferma. 
Dal 1945 al 1952, le isole disabitate di Helgoland furono utilizzate come obiettivo di bombardamenti. Il 18 aprile del 1947, la Royal Navy fece detonare 6.700 tonnellate di esplosivi, operazione conosciuta come Big Bang o British Bang, creando una delle più grandi detonazioni non nucleari della storia. Il motivo di tale attacco era la distruzione completa delle fortificazioni militari. L'esplosione scosse l'isola principale cambiandone la forma. Agli inizi degli anni cinquanta nacque un movimento per la restituzione delle isole alla Germania, che trovò il sostegno del parlamento tedesco. Il 1 marzo del 1952, Helgoland fu restituita alla Germania e gli abitanti furono autorizzati a tornare. Le autorità tedesche dovettero svuotare le munizioni ancora esistenti sull'isola e ricostruire le case prima che la popolazione potesse tornare ad animare Helgoland. 
Attualmente Helgoland è un rinomato luogo di villeggiatura che gode di una status particolare di esenzione fiscale da parte della UE. L'isola è esclusa dall'area di applicazione di determinate imposte, di conseguenza gran parte dell'economia si basa sul commercio di sigarette, bevande alcoliche e profumi per i turisti che visitano l'isola. 
Perché questo interesse per un piccolo arcipelago tedesco? 
Il motivo risiede nella possibile localizzazione di Atlantide con una terra affondata vicino ad Helgoland. 
Il Mare del Nord è conosciuto per contenere nel proprio ventre delle terre che un tempo erano emerse: la città medievale di Dunwich, per esempio, si sbriciolò in mare in seguito a diverse manifestazioni naturali tra il 1200 ed il 1300; un secondo esempio è quell'area conosciuta come Doggerland, tra Inghilterra e Danimarca, che affondò nel 6200 aC a causa di una frana sottomarina al largo della Norvegia. 
Tra le diverse teorie sulla reale esistenza, e collocazione, di Atlantide una merita una citazione per fantasia.
Il pastore tedesco Jurgen Spanuth nel 1953 suscitò grande sensazione con la teoria sulla collocazione di Atlantide vicino all'isola di Helgoland, da lui individuata grazie a certi presunti resti archeologici. Merita una menzione la trovata del pastore per superare lo scoglio dei novemila anni su cui erano naufragate tante ipotesi: Spanuth leggeva il testo di Platone “novemila mesi” anziché anni, collocando così la distruzione di Atlantide intorno al 1253 aC. La data proposta da Spanuth era meglio gestibile dal punto di vista storico. L'autore sostenne fortemente l'opinione che l'Atlantide del Mare del Nord fosse affondata durante l'età del bronzo, per riemergere parzialmente durante l'età del ferro. Inoltre questa datazione permetteva a Spanuth di connettere questo evento con la comparsa dei popoli del mare che minacciarono il Nuovo Regno dell'antico Egitto più o meno in quel periodo storico. Ma il pastore-archeologo-scrittore non si fermò qui. Un esame accurato, secondo lo stesso Spanuth, delle raffigurazioni egizie gli permetteva di affermare l'origine nordica, anzi germanica, degli invasori.  In Germania, l'enorme successo del ciarlatano Spanuth costrinse seri studiosi di varie materie a dire la loro sulla sua strampalata ipotesi. (Pietro Janni , Miti e falsi miti: luoghi comuni, leggende, errori sui greci e sui romani)
Su Atlantide chiunque può scrivere quelle che gli pare e le voci che smentiscono, facilmente, i deliri e le idee più strampalate, restano poco ascoltate poiché espresse da pesanti studiosi privi di una qualsiasi scintilla di fantasia.

Fabio Casalini

FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.

Jean-Claude Romand e le verità nascoste

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Le origini
La famiglia dei Romand, vive da diverse generazioni nel borgo di Clairvaux-les-Lac nella regione francese del Giura. La famiglia, da cui tutto ha inizio, è quella degli amministratori forestali del luogo austeri e caparbi lavoratori la cui parola vale più di un contratto scritto che hanno due figli: Claude e Aimé. Quest’ultimo, sposa Anne-Marie, donna schiva e probabilmente con una severa forma depressiva, con la quale nel 1954 concepiscono il loro unico figlio: Jean-Claude.
L’infanzia, la giovinezza e gli studi
Jean-Claude si distingue subito negli anni delle elementari come un bambino coccolato, giudizioso, preparato, gentile ed educato. Forse troppo, qualcuno dice. Al liceo era un timido adolescente un po’ impacciato, poco portato per lo sport e per niente con le ragazze.
Si iscrive ad agrotecnica per cercare di calcare le orme del padre ma lui in realtà sogna un’ascesa sociale e dopo un breve periodo passa alla facoltà di medicina. L’ altro motivo che lo spinse ad imboccare quella strada era Florence, sua futura moglie, una lontana cugina di Annecy, bella sportiva, piena di vita e che amava le uscite in compagnia. Luc Admiral, rampollo di una storica famiglia di medici a Lione, era il migliore amico di Florence e Jean-Claude, che lo ammirava molto, si era conquistato la sua stima passandogli impeccabili appunti delle lezioni universitarie.
L’estate del 1974 passò malinconica e un po’ triste per Jean-Claude anche se non ne avrebbe avuto motivo visto che, nonostante un esame non passato e rimandato alla sessione di settembre, aveva sufficienti punti per iscriversi al 3° anno. Alla fine del primo quadrimestre universitario Jean-Claude confida a Luc e ad alcuni amici, di avere una rara forma di linfoma pregandolo di non farne menzione a Florence. La malattia invece rinsaldò ulteriormente il legame tra i due fidanzati che proseguirono gli studi frequentandosi. Nel 1977 i percorsi di studio di Jean-Claude e Florence si divisero nuovamente quando quest’ultima fu bocciata all’esame di ammissione del 3° anno decidendo di cambiare facoltà passando a Farmacia.
Il lavoro, la famiglia e il tradimento
Entrambi ottennero la laurea, ciascuno nella propria specialità, e nei primi anni 80 finalmente convolarono a nozze coronando il loro sogno con la nascita dei loro figli: la primogenita Caroline nel 14 Maggio del 1985 e il più piccolo Antoine, Titou come amavano chiamarlo, il 2 febbraio 1987. Jean-Claude era un affermato medico dell’ OMS, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, era molto impegnato nel suo lavoro, faceva convegni in giro per il mondo e aveva conoscenza altolocate. Visti gli incalzanti impegni, le soffocanti riunioni, i duri studi sull’arteriosclerosi Jean-Claude separava in maniera netta il lavoro dalla vita personale. La vita della sfera personale gravitava prevalentemente intorno alle famiglie di Luc Admiral, dei Cottin e di alcune altre coppie con cui Florence aveva simpatizzato: persone quasi coetanee della coppia con professioni e redditi simili e figli della stessa età. Nonostante il suo ragguardevole stipendio come funzionario di un ufficio governativo tanto prestigioso, la famiglia Romand conduceva una vita piuttosto modesta. Dopo un po’ di insistenze, si convinse che la sua famiglia meritasse una vita migliore trasferendosi in una zona più esclusiva in una casa più grande. Sul finire degli anni 80 Jean-Claude perse la testa per Corinne, moglie di uno degli amici della compagnia che ricambiò le sue attenzioni. Jean-Claude che avrebbe desiderato mantenere sia il rapporto con la moglie che la relazione con l’amante. Preso dai rimorsi si confidò parzialmente con Luc il quale lo esortò a rompere questa relazione. Jean-Claude si convince e i due amanti, almeno momentaneamente, si lasciano promettendosi però di mantenere un forte legame di amicizia. Improvvisamente il linfoma di Jean-Claude si risveglia, le cure e la malattia lo sfiniscono minando la sua tranquillità famigliare. In uno dei giorni in cui era a casa a riposarsi, Jean-Claude telefonò a Corinne. I due si parlarono lungamente e la passione si riaccese a tal punto che i rapporti si rinsaldarono nuovamente e gli incontri con relative uscite negli alberghi e nei ristoranti di Parigi si intensificano. Nel 1992 Florence era vicepresidente del comitato genitori della scuola frequentata dai figli, Jean-Claude venne coinvolto come volontario in questa iniziativa. In quell’anno accadde che il direttore della scuola, sposato e padre di 4 figli, s’invaghì e allacciò una relazione con una maestra anche lei sposata. Naturalmente in una scuola cattolica la notizia fece scalpore e la quasi totale maggioranza dei genitori si schierarono contro il preside allontanandolo dalla scuola prima dell’inizio dell’anno scolastico per evitare lo scandalo. Jean-Claude però proprio non ci stava e gridava alla congiura difendendolo a spada tratta supportato da Florence che si commosse dell’atteggiamento del marito, disposto a rinunciare alla tranquillità pur di non rendersi complice di tale ingiustizia. La battaglia si concluse con l’allontanamento del preside e un certo distacco tra la famiglia dei Romand e gli amici.
La tragedia
Arriviamo al 9 Gennaio 1993: è mattina presto verso le 4. I netturbini sono per le strade a raccogliere le immondizie dai cassonetti quando qualcuno scorge un incendio nella casa dei Romand. Tutti si precipitano, i pompieri arrivano e prontamente cercano di avere la meglio ma ormai le fiamme hanno aggredito le travi del tetto. Finalmente un rumore che arriva dalla camera da letto: i vetri delle finestre si infrangono e un pompiere riesce a portare in salvo Jean-Claude intossicato, ustionato su tutto il corpo ma vivo. Per tutto il resto della famiglia non c’è purtroppo più nulla da fare: giacciono ciascuno nel proprio letto sorpresi dall’incendio. L’amico Luc viene avvisato poco dopo l’accaduto, si precipita sul luogo e fa appena in tempo a vedere la straziante scena dei piccoli corpi dei figli rinchiusi nei sacchi di plastica grigia sigillati. Florence era coperta da un cappotto, questo gli permise un ultimo suo gesto di affetto nei confronti dell’amica e fu così che si accorse di qualcosa di strano. Scostando i capelli e girandole con cautela la testa vide appena sopra la nuca una piaga aperta: quando chiamò il pompiere per mostrargliela fu evidente che la causa fosse una trave visto che la quasi totalità del soffitto era crollata. Luc si abbandona in un triste pianto e sconsolato scorta sull’ambulanza Jean-Claude all’ospedale: l’unico sopravvissuto della famiglia benché versasse in gravi condizioni. Luc, ancora incredulo, era in ospedale ad interrogarsi sull’accaduto quando gli viene comunicato che i genitori di Jean-Claude erano stati trovati morti nella loro abitazione uccisi da alcuni colpi di arma da fuoco. Tutto questo non parve possibile e cominciarono le indagini.
Le verità nascoste
Questa è la storia che hanno vissuto tutti i protagonisti: quella che sono stati in grado di interpretare un po’ per fiducia, un po’ per destino. Per scoprire la verità dobbiamo ritornare a quel lontano 1954 e vedere con gli occhi di Jean-Claude quello che realmente (o almeno così ha raccontato) è successo e cosa lo ha portato ad essere accusato di omicidio plurimo della famiglia e dei genitori.
Le origini
Jean-Claude era figlio unico, i genitori avevano cercato altri figli purtroppo senza riuscirvi a causa di due gravidanze extrauterine che, portano la madre in ospedale minando la già instabile salute mentale. Queste assenze, malamente giustificate dal padre aggiunte ai mormorii di paese, inducono Jean-Claude in entrambi i casi a credere che la madre fosse morta e il padre glielo stesse nascondendo. Quando vedeva le altre famiglie piene di vita e di figli comprendeva che la sua era evidentemente diversa e intuiva che dietro quella scelta di avere un unico figlio si nascondeva un segreto. Sebbene fosse stato educato a non mentire, la difficile situazione famigliare porta ben presto Jean-Claude a nascondere le verità per non impensierire troppo i genitori.
L’infanzia, la giovinezza e gli studi
Al liceo, prima di fidanzarsi con Florence, dice a tutti di essersi fidanzato con una tale Claude ma non c’è una persona che si domandi come mai nessuno l’abbia mai vista nemmeno in fotografia.
A pochi giorni dal fidanzamento, Florence chiede a Jean-Claude di smettere di frequentarsi per concentrarsi meglio sugli esami. A questo rifiuto Jean-Claude reagisce male e il giorno dopo non si presenta per uno degli esami del 2° anno venendo così rimandato a settembre. Durante l’interrogatorio dopo il suo arresto cerca di giustificare questo sua atto mancato con la ricezione la sera prima di una lettera di una sua spasimante che lui non conosceva. Nella lettera questa ragazza gli comunicava che se ne sarebbe andata da questa vita perché innamorata di lui e non ricambiata perché priva di coraggio nel dichiararsi. Le indagini non trovarono riscontro a questa storia, nessuno identificò una potenziale fidanzata e sui giornali dell’epoca veniva non riportata una storia di suicidio del genere.
Dopo aver simulato di aver passato l’esame a settembre, Jean-Claude si rinchiuse per un periodo di 3 mesi nell’ appartamento di Lione negandosi a qualsiasi visitatore fingendo di non esserci. Passò il tempo recluso in quei pochi metri quadri senza più pulire, senza curarsi di se stesso e nutrendosi di scatolette: tutto sembrava fermo a quel giorno in cui non si era presentato all’esame preso dai sensi di colpa e dalla vergogna per questo “incidente di percorso”. Dalla reclusione volontaria fu liberato da Luc che un giorno, insistendo alla porta, riuscì a farsi aprire e per giustificare il suo bizzarro comportamento Jean-Claude si inventò di avere un cancro. Un linfoma per l’esattezza che, nonostante la sua gravità, era una malattia imprevedibile che poteva utilizzare per meglio ingannare il prossimo e uscire da situazioni imbarazzanti.
Il lavoro, la famiglia e il tradimento
Così Romand fece credere di aver terminato il percorso di studi laureandosi in Medicina. Per gli esami Jean-Claude si faceva vedere nell’atrio all’inizio e alla fine della sessione contando sulla ressa all’uscita finendo per passare inosservato. Per la presenza obbligatoria nei reparti Jean-Claude dichiarava di aver frequentato sempre ospedali della provincia, ogni volta che parlava con qualcuno poteva fingere di aver lavorato in un reparto diverso dal suo interlocutore. Incredibilmente non capitò mai di trovarsi in contraddizione tra due persone che avrebbero potuto incastrarlo.
Quando si sposò con Florence fece credere di aver ottenuto un prestigioso lavoro presso l’OMS evitando qualsiasi forma di contatto tra la famiglia e il lavoro, che ovviamente non aveva. Per essere più credibile ai compleanni dei bambini non faceva mancare prestigiosi regali inviati dai colleghi dell’ OMS ai quali Florence scriveva lettere di ringraziamento senza neppure conoscerli. Per disguidi burocratici poté iscriversi per 11 anni all’università che gli servì da una parte a dimostrare che stava frequentando, e dall’altra ad evitare di presentare la dichiarazione dei redditi giustificandosi con la moglie dicendo che le tasse le aveva pagate tutte in svizzera, essendo un lavoratore frontaliere, e null’altro era dovuto al governo francese.
Ogni mattina Jean-Claude prendeva la macchina e si allontanava da casa: talvolta andava nella biblioteca dell’ OMS come se fosse un visitatore con tanto di tesserino e ci rimaneva fino all’ora di chiusura. Altre volte passava interi pomeriggi girovagando senza meta nelle foreste del Giura oppure presso il parcheggio di qualche stazione di servizio sempre diversa. Altre ancora si fermava a un edicola sufficientemente lontana da casa comprava un fascio di quotidiani e riviste che andava a leggere in un bar dove si fermava tutto il giorno prima di rientrare. Come alternativa si avventurava a passeggiare per le strade di Bourgen-Bresse, a Bellegrane a Gex ma soprattutto a Lione dove si trovavano la FNAC e Flammarion le sue librerie preferite. Il giovedì – giorno in cui diceva di fare lezione a Digione - passava a trovare i genitori: era un appuntamento fisso, non mancava mai.
Quando diceva di andare in trasferta comprava una guida del luogo meta del viaggio. Salutava tutti come avrebbe fatto chiunque prima di un viaggio, affittava una camera di albergo nei pressi dell’aeroporto di Ginevra dove rimaneva alcuni giorni a guardare la TV. Alla sera chiamava a casa riassumendo la sua giornata e chiudendo la telefonata dicendo loro che gli mancavano molto, li pensava sempre e li abbracciava. Prima di rincasare studiava meticolosamente le guide acquistate per poter raccontare ogni minimo dettaglio sul luogo in cui diceva di essere andato, portava regali comperati nei negozi dell’aeroporto e si coricava per riposarsi dal fusorario.
Per poter sostenere una doppia vita del genere, visto che non lavorava, servivano molti soldi: come prima cosa mise in vendita il suo appartamento di Lione da cui ricavò circa 300.000 Franchi.
Successivamente si inventò, grazie alla sua posizione, di poter accedere a degli investimenti molto vantaggiosi che poteva estendere ai suoi parenti ma rigorosamente a nome suo e con denaro contante. Le prime vittime di questa truffa furono proprio i Romand che, nonostante vedessero l’estratto conto assottigliarsi ogni mese non se ne preoccuparono, anzi benedicevano il figlio che, nonostante tutti gli impegni, trovava comunque il tempo per occuparsi anche di quelle cose.
Nel 1987 toccò al padre di Florence, Pierre Crolet, il quale affidò circa 400.000 franchi frutto della sua liquidazione e risparmi di una vita. Quando però chiese di disinvestire parte dei soldi per spese personali il 23 Ottobre 1988, Pierre cadde dalle scale di casa: era solo con il genero e morì in ospedale senza mai riprendere conoscenza. Jean-Claude durante il processo affermò che si era effettivamente trattato di un incidente: l’unica affermazione che fece durante il processo fu: “Se l’avessi ucciso lo direi. Al punto che sono uno in più uno in meno ……” Dopo questo incidente la sig.ra Crolet mise in vendita la casa diventata troppo grande per una persona sola e affidò il ricavato, 1.300.000 Franchi a Jean-Claude.
Nello stesso periodo Jean-Claude gettò l’esca alla sorella di Pierre Crolet, zia di Florence, offrendo un vaccino sperimentale per suo marito colpito da una grave forma tumorale. Dopo un po’ di reticenze e grazie all’intercessione dei Florence si fecero convincere: 150.000 Franchi in poco tempo e l’anno successivo lo zio morì. La difesa di Jean Claude in questa circostanza fu improntata su quattro punti: 1) l’idea della cura era stata di Florence che aveva sentito parlare di questa cura miracolosa (non si sa bene da chi e non fu ovviamente possibile chiederlo dato che l’aveva uccisa), 2) Jean-Claude non l’aveva presentata come una cura miracolosa ma come un placebo e che se non avrebbe fatto bene certo non avrebbe fatto nemmeno male (ma a questo punto ci si chiede come mai costasse così tanto), 3) Non aveva mai dichiarato che faceva parte del gruppo di ricerca ne tantomeno aveva tirato in ballo il suo capo all’ OMS tanto più che una donna come Florence non avrebbe potuto credere che un medico della sua fama vendesse farmaci sottobanco, (ma tant’è), 4) Si era limitato a fare da intermediario con una terza persona che trafugava le capsule da laboratorio: interrogato sull’ identità del fantomatico ricercatore chiuse l’argomento dicendo che non se ne ricordava il nome. Fu a quel punto che cambiò casa per distogliere la moglie da quel lutto e nello stesso periodo s’innamorò di Corinne che andava a trovare una volta alla settimana a Parigi e passava con lei serate in alberghi e ristoranti di lusso La scusa, che abilmente poteva rifilare ad entrambe, era quella di un importante esperimento presso l’istituto Pasteur che stava conducendo. La relazione con la donna diventò molto intensa al punto tale che il freddo affabulatore stava per cedere. Si era talmente invaghito che mai e poi mai avrebbe sopportato di mentirle ma era ugualmente innamorato di Florence che i tradimenti lo destabilizzavano. Chissà se fu mai sul punto di dire la verità a una delle donne: non lo sapremo mai tant’è che alla fine non lo fece e continuò a mentire ad entrambe fino a quando Corinne si decise a confessargli che non lo amava perché lo trovava “troppo triste”. Questa decisione lo portò sul baratro, durante il processo racconta della volta che si recò nelle foreste del Giura fino a un burrone con la volontà di buttarsi ma non trovò il coraggio. Anzi si buttò ma dei rovi lo trattennero e lui si graffiò in vari parti del corpo ….. o ancora si buttò ma non ricorda come aveva fatto a salvarsi. Per uscire da quella situazione non gli venne in mente nulla di meglio che mentire nuovamente: telefonò a Florence dicendo di avere avuto un incidente d’auto nella strada di ritorno. Alla reazione comprensibilmente spaventata di Florence di fiondarsi all’ospedale di Lione per assisterlo Jean-Claude, più spaventato di lei di venir scoperto, minimizzò l’accaduto e la sera stessa rientrò a Prevessin dalla moglie guidando la propria auto. Del fatto non se ne parlò più in famiglia. Un giorno Corinne, con cui si sentivano solo sporadicamente per telefono dopo quella separazione, gli chiese se avrebbe potuto consigliarle un modo per investire i 900.000 Franchi che aveva ottenuto dalla vendita dei beni dopo la separazione. Ma certamente che aveva un modo: Quai des Bergues, a Ginevra: 18% all’anno, cos’altro altrimenti? Prese subito l’aereo si recò a Parigi, fece ritirare la somma da Corinne che meticolosamente ricontò banconota per banconota come nei film. Riprese l’aereo di ritorno alla volta di Ginevra per depositarli sui suoi conti personali. Nessuna ricevuta, nessuna traccia. Unica condizione di Corinne era quella di poter ritirare il capitale a suo piacimento, naturalmente rispettando i tempi tecnici della banca per metterli a disposizione. In pochi anni aveva accumulato un capitale di oltre 3 milioni di Franchi ma la vita che conduceva richiedeva uno sforzo finanziario non indifferente. Ormai il cerchio si stava chiudendo e l’imbroglio sarebbe stato scoperto era questione di tempo, mesi, settimane forse solo giorni: passò l’ultimo anno ossessionato da questo terrore. In autunno Florence smise di prendere la pillola perché, come testimonierà la sua ginecologa, stava pensando di avere un terzo figlio. Nello stesso periodo i rapporti tra la famiglia Romand e i loro più stretti amici si raffreddano per il caso scoppiato con il preside della scuola innamorato della maestra. Luc cercò di riallacciare i rapporti per caso una domenica in chiesa, dove Florence era sola con i figli. L’avvicinò dicendo che gli sembrava sciocco non parlarsi più per un argomento così frivolo. Florence non attendeva altro che riappacificarsi con gli amici, in quella occasione Luc aggiunse che se Jean-Claude non era d’accordo ne potevano riparlare. A questo punto Florence prese a far domande e mano a mano che Luc ripercorreva le fasi del fatto Florence sbiancava, a un certo punto non osava più nemmeno ribadire perché più proseguiva con il suo racconto chiarificatore più notava dentro Florence l’apertura di una voragine: forse in quel momento, per la prima volta, si era resa conto che Jean-Claude le aveva mentito.
Ormai tutto giocava contro di lui, prima di tutto il tempo, poi lo sguardo diverso con cui Florence lo guardava era evidente che sospettasse qualcosa e come se non bastasse la gente del paese che parlava più insistentemente di lui e Corinne che gli aveva chiesto di ritornare in possesso del suo capitale.
La tragedia
Durante le feste di Natale Jean-Claude bruciò un paio scatoloni pieni di taccuini che lui stesso in decenni aveva scritto con testi vagamente autobiografici a cui dava una forma romanzesca per sviare Florence se per caso li avesse trovati ma sufficientemente aderenti alla realtà per avere il valore di una confessione. Passarono il Natale in famiglia, mentre il capodanno a casa di amici e i giorni immediatamente successivi a sciare sulle innevate piste del Colle de la Faucille. L’ultima settimana la trascorse quasi come un automa, confuso e con un gran mal di testa, qui di seguito i fatti.
Lunedì 4 Gennaio 1993
Jean-Claude riceve dalla una telefonata da sua madre per uno scoperto di 40.000 Franchi: lui la rassicura dicendo che era un disguido e tutto si sarebbe risolto con un bonifico. Riattaccò con calma senza aggiungere altro. Jean-Claude passò il resto della mattinata a studiare “Suicidio: modo d’uso”, passò in farmacia per comprare barbiturici e antiemetici. Alla sera la figlia di Luc, Sophie, passò la notte a casa dei Romand e Jean-Claude raccontò delle fiabe ai bambini tenendo la figlioccia sulle ginocchia.
Martedì 5 gennaio 1993
Si alzarono tardi perché la sera prima erano rimasti svegli a lungo. Jean-Claud si recò a Lione ed entrò in un’armeria per acquistare dissuasori elettrici, bombolette lacrimogene, cartucce e un silenziatore per carabina. Alla domanda durante il processo se si rendesse conto che stava vivendo con moglie e figli con il pensiero che li avrebbe uccisi il dottor Romand rispose che il pensiero lo aveva sfiorato ma che cercava di allontanare quel proposito ingannandosi con altri pensieri anche se, di fatto, poi comprò le pallottole con le quali avrebbe trafitto il cuore dei propri figli e dei genitori.
Mercoledì 6 Gennaio 1993
Jean-Claude in mattinata fece visita ai genitori ma i ricordi sono inesistenti: vede i suoi che gli aprono la porta e poi il nulla fino alla loro morte. La ricostruzione più probabile è che prima freddò in camera da letto suo padre con la carabina silenziata, poi toccò a sua madre sul divano del soggiorno. Nemmeno il cane venne risparmiato. Finito il massacro, lavò la carabina, la ripose nella rastrelliera, si cambio d’abito (che si era premurato di portarsi dietro) e passò dagli Admiral a riportare le ciabatte che Sophie aveva dimenticato a casa loro la sera prima.
Giovedì 7 gennaio 1993
Jean-Claude accompagna i bambini a scuola e mentre Florence è occupata in altre commissioni lui si reca al supermercato e compra due taniche e probabilmente un mattarello. Ritorna a casa si trova con Florence, ma di quello che è successo dice di non ricordarsi nulla, l’ultima immagine è quella di lui che tiene tra le braccia Florence per consolarla seduti sul divano , poi il vuoto. Racconta di essersi risvegliato con il mattarello sporco di sangue che ha accuratamente lavato per fare sparire qualsiasi traccia.
Venerdì 8 Gennaio 1993
La famiglia si sveglia, tranne Florence che giace morta nel letto, Jean-Claude chiede ai bambini di non fare rumore perché la mamma dorme. Fanno colazione e si siedono insieme una mezz’ora sul divano a vedere la videocassetta dei tre porcellini: a lui era chiaro che di li a poco li avrebbe ammazzati.
I bambini salgono in camera, lui li raggiunge e prima uccide Caroline con alcuni colpi di carabina silenziati e subito dopo Antone. Li adagia ciascuno nel proprio letto e li copre con le lenzuola in un ultimo gesto di pietà. Alla sera Jean-Claude va a letto come se nulla fosse e si risveglia il mattino successivo.
Sabato 9 Gennaio 1993
Jean-Claude di buon ora è già sulla strada per Parigi perché si era messo d’accordo con Corinne per vedersi alla sera dove le avrebbe restituito il denaro dopo un’ultima cena da Kouchner.
Mentre si recano al ristorante Jean-Claude si scusa dicendo di non avere fatto in tempo a passare a Ginevra ma che lo avrebbe fatto il lunedì, cosa che lasciò Corinne piuttosto contrariata. A quel punto jean-Claude cerca di temporeggiare sbagliando appositamente più volte la strada per il ristorante fino a quando, fingendo di dover cercare un biglietto con l’indirizzo esatto e le indicazioni, fa il gesto regalarle una collana, Corinne accetta.
Non fa a tempo a scendere dalla macchina che sentì il bruciore della bomboletta lacrimogena sul volto, cerca disperatamente di divincolarsi ed entrambi caddero a terra. Jean-Claude le scarica il dissuasore elettrico sul corpo: a quel punto Corinne sa che poteva essere la fine e in un ultimo tentativo scongiura Jean-Claude di non ammazzarla e di pensare alle sue figlie. Incrociare lo sguardo di Romand fu sufficiente a fermarlo, lui rimase disorientato e lei paralizzata dal dolore e dallo spavento. Jean-Claude in un primo momento cerca di convincere Corinne che aveva cominciato lei ma dopo un attimo di smarrimento ed esitazione lei ripercorre il fatto e spiega pazientemente che invece era stato lui.
Durante il viaggio di ritorno, che durò molto perché Jean-Claude guidava molto piano , Corinne ebbe paura che Romand potesse venir colto da un altro raptus quindi cercò di distrarlo sfoderando le sue migliori doti di psicologa. Fu in quei momenti che Corinne si rese conto di non aver mai visto nessuna collana quello che piuttosto aveva notato era una cordicella flessibile di plastica fatta apposta per strangolare. Lui cercò nuovamente di giustificarsi tirando in ballo nuovamente il cancro che lo stava facendo impazzire fino a quando finalmente lasciò Corinne verso l’ una di notte sotto la sua casa parigina facendosi promettere di non dire niente a nessuno perché non era nulla di premeditato e che se avesse voluto veramente uccidere lei e le sue figlie lo avrebbe fatto nel suo appartamento.
Romand arrivò a Prevessin alla mattina presto stravolto dalla vicenda con Corinne e dal viaggio e si buttò sul divano a riposare. Registrò per circa 3 ore decine di canali della televisione: diversi programmi frammentati da uno zapping frenetico di cui Jean-Claude dice di non ricordarsi nulla. L’ipotesi più probabile è che su quella cassetta vi fossero incisi i migliori ricordi della sua famiglia e lui abbia voluto cancellarli per sempre come aveva già fatto con le vite dei suoi cari. Da quando rientrò non salì mai al piano superiore perché sapeva benissimo cosa avrebbe trovato, lo fece solo verso le 3 della mattina quando versò la benzina contenuta nelle taniche sui suoi famigliari e un po’ in giro per l’appartamento. Si cambio, indossò il pigiama appiccò il fuoco subito dopo aver ingerito dei barbiturici scaduti perché quelli appena acquistati non li trovava più (almeno così dichiarò) e si adagiò nel letto accanto a Florence ad attendere la fine, che non arrivò!
Secondo gli inquirenti era tutto lucidamente premeditato: aveva cominciato ad appiccare il fuoco a partire da tetto affinché i netturbini, che sapeva in servizio verso le 4 dell
a mattina, potessero scorgerlo per tempo e dare l’allarme, stessa cosa per i barbiturici scaduti che lo intontirono ma non lo uccisero: e così fu. Al suo risveglio dal coma cercò di negare tutto, si inventò di un uomo che si era introdotto furtivamente sparando ai famigliari, ricordò il secondo comandamento che vietava di uccidere il padre e la madre, in una delirante lucidità. Gli psicologi che lo visitarono rimasero impressionati dal fatto che la sua unica preoccupazione in quella situazione così grave fosse quella di fornire di se un immagine positiva.
Romand aveva mentito a tutti i suoi famigliari per ben 18 anni conducendo due vite completamente diverse cercando di mantenere il controllo su tutto quello che faceva, il destino aveva fatto la sua parte evitando tutto quello che si poteva evitare per accendere anche il minimo sospetto in tutte le persone che gravitavano intorno alla sua vita. I suoi famigliari hanno pagato per il loro troppo amore nei suoi confronti perché diventati scomodi testimoni di una vergogna troppo grande da ammettere. Jean-Claude ci ha sempre tenuto a dire, durante tutto il processo, che la sua vita è stata una menzogna ma l’amore per i suoi famigliari era genuino: difficile da credere dopo quello che è successo.
Romand fu condannato all’ergastolo ma dal 2015, secondo le leggi francesi, può fare richiesta per essere liberato con la condizionale. Per il momento i suoi legali non si sono avvalsi di questo diritto dell’imputato ma, secondo i media francesi, esiste la possibilità che il Dottor Romand possa presto uscire di prigione.

Marco Boldini

Bibliografia
L’avversario di Emmanuel Carrère – edizioni Adelphi
Articoli e immagini di repertorio da https://www.ledauphine.com

MARCO BOLDINI
Nato nel 1969 sposato, 3 figli e il gatto Balthazar, 47 anni ma in realtà ventisettenne con vent’anni di esperienza, cittadino del mondo e milanese di nascita ma miazzinese e, più recentemente, tainese di adozione. Volubile e curioso cerco quando posso di fuggire dalla noia e dalla routine, ho potenzialmente sempre la valigia aperta, pronto a passare da un aeroporto all'altro, a conoscere lingue, persone, culture e paesi diversi che ritraggo in maniera dilettantistica con la macchina fotografica. Amo in uguale maniera la montagna, che ti parla con i suoi silenzi e ti regala indimenticabili albe e romantici tramonti; da qui forse l’interesse per questo blog.

La bestia del Gévaudan, un grande enigma della storia

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Correva l'anno 1728 e per le strade di Milano circolava uno strano manifesto, ad opera di Gaetano Bianchi, con la seguente didascalia: “ritratto della Fiera Bestia veduta sul contado di Novara dove ha fatto e sta facendo strage di uomini e donne di ogni età, particolarmente nel territorio di Olegio, di Ghemine, di Momo e di Barengho, già come si è ragguagliato da lettere e notizie riportate nella pubblica Gazzetta di Milano numero 26 del 30 giugno 1728”.
La popolazione di Milano, sgomenta ed impaurita, pensava a quei poveri contadini delle terre novaresi, tutti i paesi citati dal Bianchi si trovano nella pianura in provincia di Novara, sbranati da una bestia che sembrava uscita dai peggiori incubi. La fiera bestia aveva la testa di cinghiale ed il corpo di cane, e le dimensioni potevano essere quelle di un vitello o di un torello.
Tra la fine del medioevo e l'inizio dell'epoca moderna nacque la leggenda del porcocane, animale leggendario che trovò in quei secoli la giusta collocazione dopo aver subito infinite trasformazioni nel corso dei secoli. Il porcocane fu il risultato finale di un incubo ricorrente nella mente delle popolazioni. La fiera bestia nasceva, in epoca medievale, come un animale gigantesco munito di grandi corna, grandi creste e pelle corazzata a squame
Vassalli, analizzò questa figura leggendaria nel libro la Chimera. Lo scrittore, tra il serio ed il faceto, concluse l'analisi sottolineando che “noi oggi possiamo riderne, ma all'epoca della nostra storia, cioè i primi anni del seicento, la fiera bestia faceva ancora veri danni con vere vittime”. (Sebastiano Vassalli, la Chimera, capitolo XIX).
Purtroppo gli avvistamenti, e le morti che ne conseguirono, non furono isolate alla sola pianura padana. Un caso scosse le coscienze della Francia del Settecento: la bestia del Gévaudan.
Il Gévaudan designa un'antica provincia francese, esistita come tale sino alla Rivoluzione francese, allorché essa divenne il dipartimento del Lozère, mantenendone all'incirca i confini. Si trova nell'attuale regione della Linguadoca-Rossiglione.
Nell'aprile del 1764, la regione fu scossa da un avvenimento che sembrava voler risvegliare gli incubi della popolazione contadina: una giovane ragazza fu assalita da una bestia enorme e sopravvisse grazie al provvidenziale intervento delle mucche che stava dirigendo al pascolo. La giovane descrisse il predatore come un enorme lupo dalla folta peluria nera e con 2 grossi canini che sporgevano dai lati della bocca.
Purtroppo alla fine del mese di giugno dello stesso anno, la bestia fece la prima vittima: un giovane ragazzo di 14 anni.
Tra l'estate e l'autunno del 1764 furono molte le vittime, in prevalenza giovani donne e fanciulli, causate dall'attività predatoria della bestia senza nome.
Le autorità francesi decisero di inviare uno squadrone di 56 dragoni nella regione del Gévaudan. Durante il XVII secolo un dragone era tradizionalmente un soldato addestrato al combattimento a piedi, ma che si muoveva a cavallo. Il nome deriverebbe dall'arma principale che utilizzava, una carabina o moschetto corto chiamato dragon per il fumo che emanava al momento dello sparo.
I dragoni furono affiancati da circa 400 miliziani dei volontari di Clermont, che erano di stanza nei pressi della provincia del Gévaudan. Al comando di questo piccolo esercito vi era Jean Boulanger Duhamel, che disse d'aver avvistato più volte l'animale senza mai riuscire ad ucciderlo. Il comandante confermò la testimonianza della prima ragazza aggredita, aggiungendo che il grosso lupo aveva la stazza di un vitello.
Dato che la fiera bestia imperversava sulla popolazione, nel 1765 il re di Francia, Luigi XV, decise di inviare il famoso cacciatore di lupi d'Enneval, che scoprirono essere anche un grande bugiardo, nel Gévaudan per liberarsi del predatore. Il nobile normanno, famoso per aver impallinato decine di lupi, dichiarò più volte, e con lui molti accompagnatori, d'aver ucciso o ferito mortalmente la bestia. Purtroppo l'animale puntualmente tornava a mietere vittime innocenti. All'epoca dei fatti il nobile d'Enneval era tenuto in grande considerazione, tanto che tra la popolazione iniziò a farsi largo la superstizione che la fiera bestia godesse di poteri magici e che fosse immortale.
Purtroppo il predatore di Gévaudan continuò a collezionare vittime innocenti.
Chi non credette alle parole del nobile normanno fu Luigi XV che decise di sostituire d'Enneval con Francois Antoine, il Gran portatore di archibugio del Re e rappresentante massimo dell'associazione francese Grand Louvetier, nata nel secolo XIV con l'obiettivo di eliminare le bestie feroci. Antoine si recò nella regione accompagnato dal figlio e da una dozzina di guardiacaccia. L’uomo uccise un grosso lupo dal pelo nero.
Purtroppo il predatore di Gévaudan continuò a sterminare vittime innocenti.
La disgrazia nella regione si arrestò nel giugno del 1767 quando un uomo, l'oste Jean Chastel, uccise, probabilmente, la vera bestia. Si presume che fosse il predatore senza nome poiché dopo questo evento non si verificarono altri attacchi alla popolazione inerme. Un particolare che dovrebbe farci riflettere attiene al figlio dell'oste, Antoine. Di questo ragazzo si disse che possedesse delle iene nella tenuta di famiglia.
Agli occhi di un contadino della Francia del settecento, e anche di qualche cacciatore in cerca di fama, una iena potrebbe apparire come una fiera bestia uscita dal peggior incubo?
Chastel non si limitò ad uccidere la bestia. La prese, la imbalsamò e la portò al re di Francia con l'intento di chiedere una lauta ricompensa per la cattura. Luigi XV credeva il mostro del Gévaudan morto nel 1765 per mano di Antoine per cui non acconsentì alle richieste economiche dell'oste che si trasformò in eroe popolare. L'animale, banalmente imbalsamato, fu immediatamente distrutto per mano del re.
I resoconti italiani su questo incredibile evento, spesso, omettono informazioni sulla famiglia di Chastel.
Torniamo all'agosto del 1765 quando due guardiacaccia, che accompagnavano Antoine nelle ricerche del predatore di Gévaudan, si imbatterono in Chastel, accompagnato dai suoi due figli. Uno dei guardiacaccia, dopo esser caduto da cavallo, chiese alla famiglia se il luogo che dovevano attraversare nascondeva delle torbiere. I contadini risposero che potevano attraversare tranquillamente quella pianura. I due guardiacaccia avanzarono con i cavalli che immediatamente restarono impantanati nel terreno infido e scivoloso. I Chastel iniziarono a ridere della buffa scena. I due guardiacaccia reagirono immediatamente catturando il figlio minore. Jean imbracciò il fucile che aveva con sé, puntandolo in direzione dei due uomini al servizio di Antoine. Uno dei due riuscì a disarmare Jean Chastel. L'alterco finì davanti al Gran portatore di archibugio del Re che decise di arrestare colui che un paio di anni dopo diverrà l'eroe della popolazione locale. Il processo si concluse con l'affermazione di Antoine: “lasciateli uscire dal carcere solo quattro giorni dopo la nostra partenza da questa provincia”.
A difesa di Jean Chastel dobbiamo dire che non esiste certezza che i Chastel menzionati nella sentenza di Antoine siano Jean ed i suoi due figli. Le fonti storiche hanno sempre ripreso la tradizione senza apportare modifiche.
A confermare la tesi che fosse la stessa persona esiste il passato di Jean Chastel. In vita era conosciuto con il soprannome di stregone. Già negli anni trenta del settecento i contadini locali sospettavano i Chastel di essere addestratori di lupi e che commettessero omicidi per puro sadismo o per giustizia privata.
Alcuni storici hanno notato una chiara diminuzione degli attacchi della bestia di Gévaudan nel periodo in cui i Chastel soggiornavano presso le patrie galere.
Esistono molti argomenti a conferma della possibilità che i Chastel fossero realmente gli addestratori di questi lupi, o iene come detto da alcuni testimoni, che uccidevano le persone della regione del Gévaudan.
Ma quante persone morirono in seguito agli attacchi della, o delle, bestia del Gévaudan?
Il totale delle vittime accertato fu di 136, su almeno 270 attacchi, 14 delle quali decapitate dalla trazione esercitata sul collo dalla bestia per trascinare i cadaveri.
Con molta probabilità le vittime furono molte di più. Alcuni storici azzardano l'incredibile cifra di 500.
Come mai questa discordanza nei numeri?
Ad un certo punto si smise di conteggiare i morti per ordine di Luigi XV.
Lo stesso ordine fu esteso ai curati per quanto riguardava gli atti di morte.
Come scrisse Vassalli, in riferimento al nostrano porcocane “noi oggi possiamo riderne, ma all'epoca della nostra storia, cioè i primi anni del seicento, la fiera bestia faceva ancora veri danni con vere vittime”.

Fabio Casalini

Bibliografia 
Buffiere, Félix (1994), La bête du Gévaudan, une grande énigme de l'histoire

Chantal, René : de (1983), La fin d'une énigme, la Bête du Gévaudan, La Pensée Universelle

Chevalley, Abel (1972), La Bête du Gévaudan, Editions J'ai Lu

Delort, Robert (1987), L'uomo e gli animali dall'età della pietra a oggi, Roma-Bari, Laterza

Fabre, Francois (2000), La bête du Gévaudan: édition completée par Jean Richard, De Borée

Louis, Michel (2001), La bête du Gévaudan : L'innocence des loups, Perrin

Penati, Lino (1976), Verità e leggende sul lupo europeo, in Storia Illustrata, n. 229, dicembre 1976

Poucher, Abbé (1996), Histoire de la Bête du Gévaudan, Laffitte Reprints

Pourrat, Henri (1985), Histoire fidèle de la bête en Gévaudan, 2. ed., Jeanne Laffitte

FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.

Il massacro di Mountain Meadows

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Immagine tratta dal film September dawn del 2007
Maggio 1859 in località Mountain Meadows, Utah, la Compagnia K dei Dragoni di Fort Tejon rinviene e seppellisce un numero imprecisato di resti appartenenti a uomini, donne e bambini massacrati a sangue freddo 2 anni prima. Sopra il tumulo in roccia viene eretta una croce in legno di cedro con la scritta “La vendetta è mia, dice il signore”. 
11 settembre 1857, in una valle dell’altopiano del Colorado denominata Mountain Meadows, a circa 35 miglia a sud ovest di Cedar City nello Stato dell’Utah, la carovana Baker – Fancher composta da numerose famiglie di pionieri provenienti dall’Arkansas e dirette in California (oltre 140-150 persone tra uomini donne e bambini) fu attaccata e letteralmente massacrata da una cinquantina di miliziani Mormoni travestiti da indiani, con la complicità di veri indiani Paiute meridionali. Quali motivazioni si celano dietro questa efferata strage del far west? Per comprendere il terribile episodio è necessario analizzare il contesto storico in cui i fatti maturarono. La Chiesa Mormone (Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli ultimi giorni) fondata nel 1838 nella città di Fayette (New York) da Joseph Smith, si diffuse prevalentemente nell’area del mid west fino a quando, con l’assassinio del profeta fondatore da parte di fondamentalisti protestanti (1844) gran parte dei seguaci intrapresero sotto la guida di Brigham Young un lungo e insidioso esodo verso ovest, in pieno territorio indiano, fondando dopo innumerevoli sofferenze e perdite umane la nuova città di Salt Lake City (1847) nel territorio dell’Utah. L’immensa terra arida, compresa nei territori del sud ovest già di dominio del Messico, era all’epoca rivendicata dagli Stati Uniti (guerra Messico – USA 1846-1848) per cui Brigham Young decise di colonizzarla organizzandosi in relativa autonomia rispetto allo Stato federale che, al termine delle ostilità, ne era diventato virtualmente proprietario (trattato di Guadalupe Hidalgo). Il tentativo di Brigham Young di sganciarsi dal Governo di Washington per fondare uno Stato teocratico, sfociò nella “Guerra dell’Utah” (1857-1858) anche chiamata “guerra senza sangue” poiché i miliziani Mormoni e le truppe Statunitensi non si impegnarono mai in battaglie campali. Il pretesto per il confronto si ebbe quando alcuni rappresentanti del Governo federale nell’Utah restarono coinvolti in alcuni scandali di corruzione e, una volta rimossi dai loro incarichi, negarono gli addebiti affermando di essere stati cacciati con la forza dai coloni Mormoni che stavano tramando la ribellione contro Washington. 
Esodo dei Mormoni ad ovest con i carri condotti a mano
Era il 29 giugno 1857 ed il Presidente degli Stati Uniti Buchanan, allo scopo di ribadire la propria giurisdizione sullo Stato dell’Utah, ordinò alle truppe federali di scortare il neo-Governatore territoriale Alfred Cumming perché si insediasse a Salt Lake City. La spedizione armata forte di 1.500 uomini partì verso ovest dopo aver sospeso in via precauzionale ogni servizio postale da e verso quel territorio. Per Brigham Young tale prova di forza era una vera e propria sfida per cui ordinò alle varie comunità Mormoni sparse in altri territori di tornare in fretta verso Salt Lake City, preparandosi a difendere la Terra Promessa dagli invasori. Memore delle persecuzioni patite solo pochi anni prima dal proprio popolo, Brigham Young pose l’Utah sotto legge marziale, progettò degli espedienti per rallentare l’arrivo delle truppe federali ed organizzò la popolazione per una difesa ad oltranza, preoccupato che la Storia potesse ripetersi. Molti suoi seguaci, che ricordavano chiaramente gli stenti e la violenza subiti quando erano stati espulsi dal Missouri e dall’Illinois, erano ferocemente determinati a non farsi cacciare ancora una volta dalle loro case. Le scorte di grano vennero nascoste in appositi anfratti tra le montagne, ogni commercio fu interrotto, tanto da sorprendere le diverse carovane di emigranti che in quei giorni stavano transitando normalmente in quel territorio per raggiungere la California. Questi convogli si trovarono tutto ad un tratto nella difficoltà di reperire viveri, grano e munizioni, le mandrie di bovini al loro seguito erano improvvisamente in competizione con il bestiame degli allevatori locali, anch’essi a corto di mangime ed acqua. La guerra dell’Utah si risolse alla fine pacificamente, ma fu questa l’atmosfera di tensione con cui la cittadina di Cedar City accolse nell’agosto 1857 la ricca carovana guidata da John T. Baker e Alexander Fancher, partita dall’Arkansas nell’aprile dello stesso anno e diretta in California con circa 140-150 tra uomini, donne e bambini, 40 carri, centinaia di cavalli e oltre 1.000 capi di bestiame. I rappresentanti di Cedar City - ultimo avamposto utile prima di impegnare il deserto del Mojave, indispensabile per macinare il grano e comprare provviste - si dichiararono subito non disposti a vendere a prezzo ragionevole i beni necessari alla comunità in movimento, generando frustrazioni e crescenti tensioni con i migranti, stanchi e stressati dal lungo viaggio. 
Carovana di pionieri
Al culmine degli scontri verbali, il Marshal di Cedar City provò ad arrestare alcuni emigranti con l'accusa di ubriachezza pubblica e blasfemia: uno di loro, in evidente stato di ebbrezza, si era vantato di possedere la pistola che aveva ucciso il profeta Joseph Smith, mentre altri avevano minacciato addirittura di unirsi alle truppe di Dragoni in avvicinamento se non fossero riusciti a concludere gli acquisti di viveri. Gli animi si scaldarono e, a quel punto, i componenti del convoglio si opposero con vigore ad ogni azione punitiva facendosi strada con la minaccia delle armi fino a portare i carri e le famiglie fuori città. Il presidente “di Palo” (funzionario locale della Chiesa Mormone) Isaac Haight, deciso ad inseguire la carovana e derubarla per far pagare l’affronto, convocò una milizia formata da cittadini di Cedar City, prendendo altresì contatti con l’Agente Indiano della Contea di Iron, Maggiore John Doyle Lee, perché convincesse i “suoi amici indiani” a partecipare al saccheggio contro gli emigranti. I Capi Paiute, generalmente pacifici, rimasero riluttanti a farsi coinvolgere senza un motivo valido in un attacco deliberato contro una carovana così numerosa, ma alcuni guerrieri, allettati dai saccheggi e dalle razzie di bestiame promessi, seguirono il piano di Lee. L’Agente Indiano, d’accordo con il Vescovo Haight, ordinò ai miliziani di travestirsi da indiani, ben sapendo che in caso la razzia fosse andata male, le colpe dell’azione sarebbero ricadute sulle tribù di nativi. Mentre Lee muoveva una quarantina di uomini in direzione della carovana, Haight sottopose il piano in anteprima ai leader religiosi di Cedar City, spiegando loro che era in progetto un attacco punitivo ai pionieri nei pressi del Canyon Santa Clara, il cui saccheggio avrebbe anche favorito le difficili condizioni economiche in cui versava la cittadina a causa della legge marziale. Tale notizia suscitò tuttavia accesi dibattiti e diffuse contrarietà, tanto che Laban Merrill, autorevole membro della comunità chiese e ottenne che della faccenda fosse preventivamente consultato il Presidente Brigham Young. Il Vescovo Haight scrisse così una lettera per il profeta dei Mormoni, ma prima che la stessa fosse inviata alla volta di Salt Lake City, John Doyle Lee – che non era presente alla riunione - anticipò i tempi e riunì la milizia nella Mountain Meadows Valley, 12 miglia a nord del Santa Clara Canyon, a ridosso della carovana ivi accampata. 
L'agguato in una stampa dell'epoca
Per Lee era il luogo giusto per attaccare. Il 6 settembre avvenne lo scontro, grazie al fattore sorpresa caddero immediatamente 7 emigranti mentre altri 16 rimasero feriti, ma la carovana reagì tempestivamente mettendo i carri in cerchio e scavando una trincea di difesa. Ne seguì un assedio di 5 giorni, durante il quale alcuni pionieri riuscirono a forzare il blocco dirigendosi verso est per dare l’allarme. Per Lee la situazione stava sfuggendo di mano: l’Esercito non doveva essere lontano ed i fuggitivi potevano aver riconosciuto i bianchi travestiti da indiani. Il coinvolgimento dei Mormoni sarebbe divenuto di pubblico dominio con conseguenze nefaste per la comunità. Quella che doveva essere solo una dura lezione stava prendendo una piega di non ritorno. Mentre Lee pensava tutte queste cose fu raggiunto da altri rinforzi provenienti da Cedar City guidati da Haight il quale, nel frattempo, aveva ricevuto la risposta scritta da Brigham Young: "… il Signore ha risposto alle nostre preghiere e scongiurerà i progetti contro di noi … riguardo alle carovane di emigranti che passano nei nostri insediamenti non dobbiamo interferire con loro…” (alcune fonti in difesa di Haight riferiscono invece che in realtà il messaggio del Presidente Young arrivò solamente 2 giorni dopo il massacro). Si era comunque andati troppo oltre. Restava un’unica soluzione: uccidere tutti i possibili testimoni e dare la colpa agli indiani. Venerdì 11 settembre, John Doyle Lee vestendo abiti occidentali si avvicinò alla carovana sventolando una bandiera bianca. Dopo essersi qualificato come agente indiano, egli promise ai pionieri di aver convinto i Paiute a ritirarsi e, per rimediare alla situazione, offrì loro di tornare a Cedar City per essere curati e rifocillati. Quale gesto di buona fede ogni emigrante adulto doveva caricare le armi sui carri fino all’arrivo in città. Baker e Fancher erano sospettosi ma i numerosi feriti e le scarse riserve di acqua non lasciavano alcuna scelta: bisognava accettare. Come suggerito da Lee, i bambini sotto i 6 anni ed i feriti lasciarono per primi il cerchio difensivo a bordo di due carri carichi di armi, seguiti a piedi da donne e bambini. Gli uomini e i ragazzi più grandi sarebbero usciti per ultimi, ognuno di essi scortato e protetto da un miliziano armato. La processione proseguì per circa un miglio, fino a quando, al segnale prestabilito, ogni miliziano si girò sparando all'emigrante accanto a lui, mentre i guerrieri Paiute fino ad allora nascosti balzarono allo scoperto trucidando senza pietà donne e bambini terrorizzati. Sui due carri in prima linea vennero contemporaneamente uccisi tutti gli adulti feriti. 
Il massacro in una stampa di fine Ottocento
Circa 120 persone, uomini, donne e bambini, caddero uno ad uno fino a quando gli spari cessarono, il silenzio e l’odore del sangue rimasero gli unici testimoni del pianto dei 17 bambini risparmiati dalla follia omicida, forse perché ritenuti troppo piccoli per raccontare la terribile esperienza, forse perché gli assassini non se la sentirono di arrivare a tanto. Dopo aver dato una sommaria sepoltura alle famiglie trucidate, la milizia rubò ogni avere dalla carovana, portando gli infanti a Cedar City ove furono adottati da famiglie Mormoni. Un patto scellerato riunì per diversi anni tutti i colpevoli: la responsabilità doveva ricadere solamente sugli indiani Paiute. Probabilmente anche a Brigham Young fu raccontata, almeno inizialmente, tale versione dei fatti. Solamente nel 1859 alcuni dei bambini sopravvissuti vennero reclamati e riportati in Arkansas dai parenti delle vittime, venuti nel frattempo al corrente della strage. Nello stesso anno, sempre su sollecitazione dei parenti delle vittime, un drappello di Dragoni guidati dal Maggiore James Henry Carleton rinvenne a Mountain Meadows i poveri resti di una quarantina di componenti della carovana, dando loro cristiana sepoltura. Non è dato sapere cosa notò sul posto l’Ufficiale: da profondo conoscitore delle tribù ostili dell’ovest probabilmente si insospettì nel vedere che i corpi delle vittime erano parzialmente seppelliti mentre nessuna traccia era rimasta dei carri né dei suppellettili anche di poco valore (due comportamenti non usuali tra i nativi americani). Fatto sta che qualcosa sulla dinamica della strage lo convinse ad avviare più approfondite indagini, redigendo più volte, negli anni successivi, dettagliati rapporti al Maggiore Mackall, Assistente Aiutante Generale dell’Esercito, di base a San Francisco in California. Ci vollero però altri 10 anni per arrivare alla verità: solo nel 1870 infatti la Chiesa Mormone riconobbe le responsabilità dei suoi membri sui fatti procedendo alla scomunica di Lee e Haight. Bisognerà attendere però fino al 1874 – anno in cui venne ridimensionato per legge il controllo Mormone sul sistema giudiziario territoriale - perché John D. Lee venisse scovato, arrestato e processato secondo le leggi federali dalla 2^ Corte distrettuale di Beaver. Alle risultanze del Maggiore Carleton si unirono anche le testimonianze di alcuni miliziani Mormoni che dichiararono di essere stati “obbligati ad eseguire gli ordini poiché a quell’epoca erano sottoposti a legge marziale”; anche alcuni bambini sopravvissuti, ormai cresciuti, aiutarono la giuria a capire la dinamica dell’eccidio. Fu il caso, soprattutto, delle sorelle Elizabeth “Betty” Baker (anni 5) e Sarah “Sallie” Baker (anni 3) che furono risparmiate quel giorno insieme al fratellino William (9 mesi) e, contrariamente a quanto avevano pensato gli assalitori, ricordarono nel dettaglio tutto l’incubo vissuto, rilasciando dichiarazioni accusatorie. Il 28 marzo 1877, John D. Lee, per ordine del giudice Boreman, fu portato a Mountain Meadows, sulla tomba delle sue vittime, di fronte alla croce in legno di cedro ed ivi giustiziato da un plotone di esecuzione. 
John D Lee seduto sulla propria bara pochi minuti prima dell'esecuzione
Il massacro è stato raccontato nel tempo in diversi libri e dei fatti si è occupato anche Hollywood con il film “September dawn” (2007) senza però riuscire ad esorcizzare pienamente l’efferato episodio: i fantasmi di Mountain Meadows hanno continuato ad aleggiare tra le comunità dell’Utah per oltre 150 anni. Le reciproche accuse ed i reiterati tentativi di riconciliazione tra i discendenti delle vittime e quelli degli assalitori, si trascinano ancora oggi. Alcuni storici sostengono che John D. Lee, unico giustiziato per i crimini di Mountain Meadows, non fu altro che il capro espiatorio di una ben precisa decisione, partita dai vertici della Chiesa, forse addirittura dallo stesso Presidente Young. Altri ricercatori invece hanno giustificato i 10 anni di silenzio e la mancanza di altri condannati a morte nel processo del 1874 con l’amnistia generale concessa dal Governatore Cumming nel giugno 1858 grazie alla quale, al termine della “Guerrra dell’Utah”, furono condonati tutti gli atti ostili commessi in quegli anni contro gli Stati Uniti. La parola fine è stata forse pronunciata durante la cerimonia commemorativa dell’11 settembre 2007, allorquando l’Apostolo Henry B. Eyring, alto funzionario della Chiesa Mormone, ha letto per la prima volta una dichiarazione ufficiale esprimendo tutto il rammarico dell’Istituzione religiosa “per l'indebita e indicibile sofferenza vissuta dalle vittime allora e dai loro parenti fino ad oggi” nonché per il “popolo Paiute che ha ingiustamente sopportato per troppo tempo la principale colpa di ciò che è accaduto durante il massacro”. Da quel giorno forse le 120 vittime di Mountain Meadows riposeranno in pace. 
L'attore John Voight nel film September dawn
“I miei ricordi di bambina? Come puoi dimenticare l’orrore di vedere morire tuo padre mentre gli tieni le braccia al collo. Come puoi dimenticare i colpi di pistola tutto intorno a te, le urla degli altri bambini e delle donne agonizzanti sotto i colpi delle asce indiane. Come puoi dimenticare la vista di tua madre che si accascia nel carro accanto a te, mentre sul suo vestito una grossa macchia rossa diventa sempre più grande” (Sarah “Sallie” Baker).

Sergio Amendolia
Sitografia
legendsofamerica.com;
smithsonianmag.com;
mtnmeadowsmassacredescendants.com;
it.mormon.wikia.com

SERGIO AMENDOLIA
Nato 55 anni fa a Genova, sposato con 2 figli, 2 gatti e un cane, ho sempre guardato con stupore l'orizzonte e tutto ciò che quella linea rappresenta e contiene, convinto che dove il cielo finisce si celano sempre spazi e tempi lontani, spesso inesplorati o conosciuti poco e male. Forse per questo mi attira l'impostazione di questo blog ed i veli della Storia che gli articolisti provano spesso a sollevare, perché conoscere è importante e aiuta a capire ciò che siamo e come lo siamo diventati. Oltre alla nostra bella Italia ed alla sua impareggiabile ricchezza di arte e storia, mi affascinano molto gli scenari mozzafiato dell'Ovest Americano. In questi ultimi anni ne ho percorsi alcuni, ancora una volta cercando di varcare orizzonti i cui contorni sfuggono in continuazione, dimensioni che ho provato a malapena ad intuire nei volti dei nativi che ancora oggi si incontrano nelle riserve: a volte duri, scolpiti e aridi come i monoliti di arenaria rossa, probabilmente gli unici in grado di metabolizzare la sensazione di infinito che pervade quelle terre lontane. Per questo mi piace, quando il tempo libero me lo permette, collaborare con riviste e pagine web, tentando di approfondire le vicende che hanno caratterizzato la storia di quei popoli d'oltreoceano, in particolare l'epopea del West, con un occhio particolare agli uomini e alle donne che la vissero davvero, fuori dai luoghi comuni e dai grandi miti costruiti da Hollywood.



Tomas de Torquemada e la purezza del sangue

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Tomas de Torquemada (Valladolid o Avila 1420, Avila 1498) fu un religioso spagnolo, primo Grande Inquisitore dell'Inquisizione spagnola, priore del convento domenicano della Santa Cruz di Segovia e confessore dei Re cattolici (Isabella di Castiglia e Ferdinando II d'Aragona). Personaggio che come pochi hanno segnato un'epoca. Probabilmente nato a Valladolid nel 1420, giovanissimo divenne frate predicatore nel convento domenicano di San Paolo in Valladolid assumendo il nome di Tommaso, in onore del santo domenicano e filosofo Tommaso d'Aquino. Da subito abbracciò la riforma rigida dell'Ordine, sulle orme del padre generale del convento. La sua carriera fu folgorante: priore del convento di Santa Cruz a Segovia, confessore del tesoriere di Ferdinando II d'Aragona e Isabella di Castiglia ed infine consigliere della stessa Isabella. 
Per cercare di comprendere l'uomo, dobbiamo risalire la linea del tempo spostandoci nella Spagna a cavallo tra XIII e XIV secolo. 

La comunità ebraica, perseguita e poi espulsa dalla maggior parte dell'Europa occidentale, potè godere in Spagna di tolleranza e considerazione. Malgrado non potessero ricoprire cariche pubbliche, gli ebrei diedero un notevole contributo culturale e professionale alla società spagnola. Alcuni divennero famosi come medici, esattori e finanzieri. Furono fattori economici, più che religiosi o razziali, a determinare un cambiamento di atteggiamento nei loro confronti. Protetti da un'esistenza separata e dalla loro ricchezza, riuscirono a scampare alle inquietudini provocate dalla Peste Nera di metà trecento. Tuttavia la loro condizione mutò rapidamente nel corso dei decenni successivi poiché l'indignazione del popolo, per la condizione sociale ed economica degli ebrei, fu alimentata da accese prediche contro di essi. Il furore del popolo trovò la sua compiuta espressione nei pogrom antisemiti che si svilupparono nelle principali città della Castiglia e dell'Aragona nel 1391. 
In seguito ai disordini più della metà dell'originaria comunità ebraica, circa 200000 persone, scelse di convertirsi al cristianesimo. I nuovi cristiani divennero noti come conversos. Nella prima metà del XV secolo gli ex ebrei furono assorbiti da una tollerante cultura cristiana che li considerava al loro pari. Grazie alla protezione reale molti conversos raggiunsero posizioni di rilievo nell'ambito della Chiesa, della Corte e dell'amministrazione. A partire dalla seconda metà del XV secolo, quando la sincera conversione fu vagliata con maggiore attenzione, i conversos furono sempre più emarginati dalla società. Era convinzione diffusa che i convertiti fossero cristiani solo in pubblico, mentre nel privato continuavano a seguire l'originaria fede ebraica. 
Nel 1449, in seguito a nuove tensioni verificatesi a Toledo, a tutte le persone di origine ebraica fu impedito di occupare una carica municipale con una legge civile nota come Sentencia Estatuto. Lo statuto di Toledo stabilì un'importante codice discriminatorio, basato più sulla razza che sulla religione e presto fu adottato da altre istituzione secolari ed ecclesiastiche. Questo codice, noto come Limpieza de sangre (purezza di sangue) confermò la credenza che il converso fosse un sospetto cittadino di seconda classe. 
Nel 1477 numerosi ecclesiastici di rango, tra i quali il confessore del re Tomas de Torquemada, cominciarono a fare pressioni perché si istituisse un'inquisizione spagnola. L'occasione si presentò quando i sovrani si recarono a Siviglia, dove viveva una numerosa comunità di conversos, in visita ufficiale. Torquemada, con il sostegno del cardinale Gonzalez arcivescovo della città, convinse Ferdinando ed Isabella del pericolo rappresentato da quella minoranza religiosa. La regina, donna profondamente pia, rimase turbata dalle rivelazioni sull'infedeltà dei conversos e si convinse della necessità di inaugurare un adeguato sistema secolare per l'individuazione e il castigo dell'eresia. Nel novembre del 1478 papa Sisto IV diede formale assenso a Ferdinando ed Isabella per l'istituzione di un'Inquisizione spagnola, il cui compito era quello di occuparsi della minaccia all'identità cattolica dei regni iberici rappresentata dagli ebrei apostati. Due anni dopo, nel settembre del 1480, l'inquisizione spagnola cominciò ad operare a Siviglia sotto la supervisione di due inquisitori domenicani. Il primo auto de fe, tenutosi il 6 febbraio del 1481, vide la condanna al rogo di sei conversos. 
Mentre i conversos sospettati di riabbracciare l'antica fede erano arrestati, processati e torturati per mano dell'Inquisizione, divenne lampante che la tolleranza verso gli ebrei da parte della società spagnola si stava concludendo. In seguito ad un decreto emanato a Toledo nel 1480, essi furono obbligati a vivere segregati e confinati in ghetti urbani, divenendo vittime di discriminazioni sociali ed economiche. Quando Tomas de Torquemada assunse la carica di Inquisitore Generale, nel 1483, un'espulsione parziale di ebrei fu autorizzata dalle diocesi andaluse di Siviglia, Cordova e Cadice. 
Sotto l'occhio vigile di Torquemada, nel mese di novembre del 1490 ad Avila un gruppo di sei ebrei e cinque conversos fu arrestato e processato per il rapimento e l'omicidio rituale di un giovane cristiano della città di La Guardia, vicino a Toledo. La storia di questo ragazzo, passato alla storia come El nino de La Guardia, non è dissimile da quella di un bimbo di Trento, Simonino, ritrovato morto nei pressi di un torrente. Gli ebrei della città italiana furono arrestati e processati per l'omicidio rituale del bambino. Il culto di San Simonino fu soppresso nel 1965. Tale revisione della Chiesa Cattolica comportò, oltre alla soppressione del culto, la rimozione della salma dalla chiesa di San Pietro che la ospitava e l'abolizione della tradizionale processione rituale per le vie di Trento. Nel 1490 ad Avila, secondo l'accusa, i rapitori volevano strappare il cuore della vittima ed usare il suo sangue a scopo magico per distruggere i cristiani. Il processo rappresentò un caso spettacolare che servì a creare nella fantasia popolare un'immagine sinistra e distorta sia degli ebrei che dei conversos. In un crescendo di odio razziale e discriminazione, il 31 marzo del 1492 fu pubblicato un decreto reale che concesse agli ebrei 4 mesi per lasciare la Spagna. L'alternativa era la pena di morte. 
In questo contesto, un uomo spadroneggiava per la penisola iberica: Tomas de Torquemada. 
Nonostante si sia parlato spesso, a proposito e a sproposito dell'inquisizione, è raro trovare testi che si soffermano a descrivere i protagonisti dell'azione inquisitoriale. Persino riguardo a Torquemada i testi sono estremamente sobri. Uno dei pochi che tentò un ritratto dell'uomo-inquisitore fu Baroja, che nella sua opera il Signor Inquisitore così scrisse: dell'inquisitore in maiuscolo abbiamo già parlato abbastanza. Questo inquisitore può essere Torquemada o il cardinale Cisneros. Dalla fine del quattrocento all'inizio dell'ottocento esso fu un personaggio comune nella vita spagnola. Da dove cominceremo a studiarlo? Dalle sue caratteristiche di funzionario o da ciò che ne fa un uomo, cioè dalla sua personalità? 
L'inquisitore spagnolo del XV e XVI secolo era un uomo che sapeva usare le proprie doti di funzionario per farsi strada nel mondo. La sua caratteristica principale era l'ambizione, insieme alla sete di potere. Per il resto si trattò di una persona come tante altre, egoista, casta e tenebrosa. Si trattò di uomo lontano dall'immagine monastica che di lui si è tramandata. L'inquisitore spagnolo che operava in quei due secoli, era un uomo di mondo, dell'alta società, giurista ed intellettualmente elevato. Dell'uomo, e del giurista, Torquemada abbiamo un ritratto fisico concreto. Questa rappresentazione ci mostra un uomo nobile ma segnato dall'ascesi, calvo, con naso e mento lunghi, labbra sottili ed occhi attenti. 
Eppure Torquemada ancora oggi fa paura.
Magari, anche inconsciamente, il timore è accompagnato dal significato del nome ovvero torque e quemada, torci e brucia. Forse le radici di questa paura debbono essere indagate nell'introduzione di Francisco Pena all'edizione del 1578 del Manuale dell'inquisitore di Nicolas Eymerich: bisogna ricordare che lo scopo principale del processo e della condanna a morte non è salvare l'anima al reo, ma procurare il bene pubblico e terrorizzare il popolo. Nessun dubbio che istruire e terrorizzare il popolo con la proclamazione delle sentenze e l'imposizione del sanbenitos sia una buona azione
Tomas de Torquemada ricoprì la carica di Grande Inquisitore di Spagna sino alla sua morte, avvenuta nel 1498. Nei quindici anni sotto la sua direzione, l'inquisizione spagnola crebbe dal singolo tribunale di Siviglia ad una rete di oltre una dozzina di tribunali. Il suo compito era quello di liberare la Spagna da ogni eresia. Un cronista spagnolo, Sebastian de Olmedo, lo definì il martello degli eretici, la luce della Spagna, il salvatore del suo paese e l'onore del suo ordine. Torquemada operò affinché i condannati indossassero un sanbenito, indumento penitenziale indossato sopra ai propri abiti, con un disegno diverso in funzione del tipo di penitenza che era stata imposta al processato. Un tipo indossato dai condannati a morte presentava disegni che rappresentavano le fiamme dell'inferno e, a volte, demoni o draghi. 
Per quanto concerne il numero delle vittime dell'Inquisizione spagnola durante la presenza di Torquemada come Inquisitore Generale esistono varie e svariate stime. È improbabile che ci siano state più di 2000 esecuzioni per eresia durante i quindici anni in cui ricoprì la carica. Una stima apprezzabile potrebbe giungere dalle parole del segretario della regina Isabella, Hernando de Pulgar, che scrisse che 2000 esecuzioni ebbero luogo sotto il suo regno. 
Impressionante il numero di processi che gli studiosi ritengono generalmente siano stati istituiti nei quindici anni della sua gestione del tribunale: 100.000.
Un numero pari a 18 al giorno. 
Ritenendo attendibili questi numeri, il 2% dei processi si concludeva con la morte dell'eretico. 
Durante i suoi ultimi anni, la mancanza di salute e le continue lamentele per il suo operato, spinsero papa Alessandro VI a nominare quattro inquisitori nel giungo del 1494 per controllare l'inquisizione spagnola. 
Tomas de Torquemada morì nel monastero di San Tommaso d'Aquino ad Avila il 16 settembre del 1498. Nello stesso luogo fu sepolto. 
La sua tomba fu saccheggiata nel 1832, solo due anni prima che l'inquisizione venisse finalmente sciolta. Secondo una teoria avanzata dal libro di Cullen Murphy, God's Jury, the inquisition e making of the modern world del 2012, le sue ossa sono state rubate al fine di incenerirle ripercorrendo gli orrendi auto de fe dell'inquisizione spagnola.

Fabio Casalini

Bibliografia

Helen Rawlings, L'inquisizione spagnola, Il Mulino 2006

Philipp Wolff, The 1391 pogrom in Spain: social crisis or not? In Past and Present, 1971

Natale Benazzi e Matteo D'Amico, Il libro nero dell'inquisizione, Piemme, 1998

Cullen Murphy, God's Jury: the inquisition e making of the modern world, 2012

Duran Maria, Why apologize for the Spanish Inquisition?, Gladkowsi, 2000



FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.



L'appeso dei tarocchi e la pittura d'infamia

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I tarocchi sono un mazzo di carte da gioco la cui origine risale alla metà del XV secolo nell'Italia Settentrionale. All'interno del mazzo una figura attira la mia curiosità: l'appeso o impiccato. Questa raffigurazione è la dodicesima carta degli arcani maggiori, che rappresentano le carte più dense di significato. All'interno dei mazzi più antichi l'appeso è talvolta, non sempre, indicato come il traditore: nella mano dell'uomo raffigurato appaiono due sacchetti di monete a rappresentare il prezzo del tradimento perpetrato. Nelle rappresentazioni moderne è raffigurato come un uomo capovolto appeso per una caviglia al ramo di un albero o allo stipite superiore della cornice, con una gamba piegata dietro l'altra ed i polsi legati dietro la schiena. La posizione dell'appeso è associata ad un antico supplizio pubblico, motivo del mio interesse per questa particolare carta da gioco.
L'appeso sperimenta la dolorosa tortura riservata, in passato, ai debitori e come ebbe a dire il poeta inglese Spencer: egli per i piedi appeso ad un albero, è così deriso da tutti i passanti, in modo che potessero vedere la sua posizione.
L'appeso non rappresentò esclusivamente una tortura fisica poiché, grazie alle raffigurazioni dipinte sui muri delle città, divenne un forte deterrente per tutti coloro che si macchiavano di determinati reati.
Un concetto che deve essere introdotto, per meglio comprendere l'accostamento dell'appeso ad eventuali supplizi fisici o psicologici, è quello della pittura d'infamia, che possiamo considerare come la versione antica dei manifesti raffiguranti i latitanti. La persona che fuggiva dalla città, dopo essersi macchiato di un delitto, era condannato alla vergogna di essere ritratto sulle pareti dei principali palazzi pubblici. In questo strano mondo furono coinvolti anche grandi artisti dell'epoca rinascimentale poiché le autorità gradivano dei ritratti ben fatti, dove il condannato era ben riconoscibile. Nel caso in cui la figura non fosse particolarmente riconoscibile o nota, le autorità facevano apporre una didascalia con il nome della persona sottoposta alla pena. Purtroppo quasi nessuna di queste opere è giunta sino a noi in quanto si trattava di manifestazioni artistiche che avevano una funzione limitata nel tempo.
Per comprendere l'effetto psicologico di tali raffigurazioni dobbiamo soffermarci sull'antico codice d'onore, dove la vergogna era la più significativa forma di punizione sociale.
Questo tipo particolare di pittura nacque nel nord e nel centro dell'Italia per colpire i condannati in contumacia di determinati delitti: il furto, il tradimento, la bancarotta e quei delitti per i quali non esisteva un possibile rimedio legale.
L'immagine di chi si era macchiato di determinati reati era dipinta sui muri esterni degli edifici nelle piazze centrali o sulle porte d'accesso alla città. Uno dei primi resoconti che narrano della pittura d'infamia risale al 1261, quando gli Statuti di Parma introdussero tale pittura tra le pene previste dal codice. Probabilmente per inserirla all'interno di uno Statuto la punizione era già nota da tempo.
Durante il periodo di passaggio dal medioevo all'epoca moderna, la pittura infamante si concentrò soprattutto a Firenze. Uno dei primi esempi della città toscana era inerente alla rappresentazione di Bonaccorso di Lapo Giovanni. Bonaccorso nacque a Firenze, probabilmente, intorno al primo ventennio del XIV secolo, poiché in un documento del 1388 era menzionato come assai vecchio. Nella città toscana doveva essere assai noto se in una novella di un autore, anonimo, del tempo fu riportato un aneddoto che lo riguarda. Nel 1388, anno cui si riferisce la frase dell'assai vecchio in riferimento a Bonaccorso, fu corrotto dall'oro dei Visconti. Scoperto nel novembre dello stesso anno, riuscì a fuggire a Siena. Fu condannato a morte in contumacia e il suo patrimonio confiscato. Bonaccorso di Lapo Giovanni fu rappresentato, sui muri della città toscana, impiccato a testa in giù circondato da diavoli.
Nella Firenze di quel periodo furono molti gli artisti noti che ricevettero, loro malgrado, il compito di rappresentare qualche delinquente sui muri dei palazzi del centrò della città.
Tra i più noti ricordiamo Botticelli, Andrea del Sarto e, soprattutto, Andrea del Castagno, noto come Andreino degli impiccati.
Andrea di Bartolo di Bargilla, noto come Andrea del Castagno, nacque a Castagno nel 1421. Fu uno dei protagonisti della pittura fiorentina nei decenni centrali del XV secolo, assieme a Beato Angelico, Filippo Lippi e Paolo Uccello. Andrea del Castagno, dal nome del paese d'origine, visse buona parte dell'infanzia tra i pascoli dell'Alpe San Benedetto. Giunto a Firenze, fu Cosimo il Vecchio a concedere un'opportunità al giovane: gli commissionò i ritratti d'infamia per gli avversari politici banditi dalla città. Andrea fu talmente bravo nell'immortalare i condannati che il suo nome circolò rapidamente tra le vie della città toscana, tanto che gli fu affibbiato il nomignolo di Andreino, dalla giovane età, degli impiccati. Soprannome che gli resterà vicino per tutta la vita.
Anche il noto Botticelli ricevette un incarico per dipingere l'infamia sui muri di Firenze. Era il 1478 e il grande artista fu pagato per dipingere in Piazza della Signoria le effigi dei partecipanti alla congiura dei Pazzi. Botticelli ritrasse alcuni di essi appesi per la gola mentre i latitanti per un piede. La Congiura dei Pazzi, conclusasi il 26 aprile del 1478, fu una cospirazione ordita dalla famiglia di banchieri fiorentini de' Pazzi, avente lo scopo di stroncare l'egemonia della famiglia dei Medici tramite l'appoggio del papato e di altri soggetti esterni, come la Repubblica di Siena o il Regno di Napoli. La congiura condusse alla morte di Giuliano de' Medici ed al ferimento di Lorenzo, senza riuscire nell'intento di interrompere il potere della potente famiglia fiorentina.
Ancora nei primi decenni del Cinquecento la pittura d'infamia era presente sui muri delle città.
Nel 1529 fu richiesto ad Andrea del Sarto di raffigurare i tre capitani che avevano tradito la Repubblica di Firenze passando tra le fila del nemico. Andrea del Sarto non volle apparire come il reale autore del dipinto, probabilmente consapevole della reputazione di Andrea del Castagno, attribuendo l'opera all'allievo Bernardo del Buda.
Nei decenni successivi la pittura infamante perse completamente il suo significato, andando verso l'estinzione.
Purtroppo nessuna di queste opere è riuscita a giungere sino a noi perché il loro effetto era limitato nel tempo. Per nostra fortuna alcuni disegni preparatori hanno resistito al trascorrere dei secoli. Il ricordo di queste opere ci permette di comprendere che la comunicazione e l'immagine pubblica erano dei pilastri della società anche in epoca rinascimentale.

Fabio Casalini

Bibliografia

Gherardo Ortalli, La pittura infamante nei secoli XIII-XVI, Roma, Jouvence, 1979

Gherardo Ortalli, Comunicare con le figure contenuto in Arte e storia del medioevo, Torino, Einaudi, 2004

FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.


Maifreda da Pirovano, la Papessa

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La Papessa è la seconda carta degli arcani maggiori dei tarocchi, mazzo di carte da gioco la cui origine risale alla metà del XV secolo, di valore immediatamente inferiore all'imperatrice. Questa carta è conosciuta anche come la sacerdotessa, la sacerdotessa di Iside o la Sposa Divina. Nel 1966 una bibliotecaria della New York City Public Library, Gertrude Moakley, formulò per prima l'ipotesi che una donna vissuta a cavallo tra duecento e trecento, Maifreda da Pirovano, fosse la fonte d'ispirazione per l'immagine della Papessa. 
Chi era Maifreda da Pirovano? 
Per conoscere Maifreda siamo obbligati ad introdurre un'altra donna, Guglielma la Boema, che ebbe il grande merito di colorare il cielo meneghino, e non solo, durante il XIII secolo. Guglielma fu una mistica, presunta figlia del Re boemo Ottocaro I, che visse nella Milano della seconda metà del XIII secolo. La mistica giunse a Milano nel 1260, accompagnata da un figlio, decidendo di alloggiare da laica nell'Abbazia di Chiaravalle. La sua fama di guaritrice crebbe sino a dare vita ad un movimento religioso, conosciuto con il nome di Guglielmiti, cui presero parte molte donne e qualche esponente dell'aristocrazia milanese. Morì il 24 agosto del 1281, o dell'anno seguente, e fu sepolta nel cimitero dell'Abbazia. Dopo la morte i monaci proposero la canonizzazione. La cappella che ne ospitava le spoglie divenne un luogo di culto sino a quando non intervenne l'Inquisizione che istituì un processo ai danni di molti presunti eretici, seguaci della mistica boema. 
Tra queste persone, una posizione di spicco fu ricoperta da una donna, Maifreda, di cui non si conosce la data di nascita. Maifreda era una suora dell'Ordine degli Umiliati di Biassono. Quello degli Umiliati fu un ordine religioso proveniente dalla città piemontese di Alessandria. Fu uno dei molteplici movimenti spirituali sorti in contrasto ai costumi rilassati ed alla ricchezza della Chiesa di Roma. Anche questo Ordine proponeva il ritorno alla chiesa delle origini, all'austerità del primo cristianesimo. Maifreda si accostò alla figura della mistica Guglielma la Boema e dopo la morte della donna, tra il 1281 e il 1282, ne divenne il principale punto di riferimento. Incappò nell'inquisizione medievale per la prima volta nel 1284 quando l'inquisitore di Milano, Maifredo da Dovera, istituì un processo ai danni dei Guglielmiti. Uscirono tutti indenni poiché abiurarono la presunta eresia. Il movimento decise di modificare le proprie abitudini adottando misure di prudenza che permisero ai suoi componenti di non scontrarsi con l'Inquisizione sino al 1296. 
Maifreda non era una donna comune poiché era la prima cugina di Matteo Visconti. Matteo era figlio di Tebaldo Visconti e nipote dell'arcivescovo di Milano Ottone Visconti, primo signore di Milano della dinastia Visconti, e di Anastasia Pirovano. Matteo Visconti, detto Matteo Magno, fu un fedele servitore delle zio Ottone nelle battaglie per la conquista del potere su Milano. Nel 1287 lo zio lo fece nominare Capitano del Popolo della città lombarda. Da quel momento, e sino alla morte, Matteo fu Signore di Milano riuscendo a sottomettere l'intera Lombardia, una parte del Piemonte e dell'Emilia Romagna. 
Matteo Visconti e la relativa dinastia saranno importanti per comprendere la nascita della figura della papessa all'interno del mazzo di carte dei tarocchi. 
Torniamo a Maifreda, ed ai suoi problemi con l'Inquisizione, cercando di comprendere quali furono le cause che generarono il conflitto tra i seguaci della mistica boema e i solerti frati al servizio della chiesa di Roma. Guglielma prima, e Maifreda poi, condannarono l'inferiorità della donna all'interno dell'universo cristiano. Il corpo femminile, tollerato in quanto strumento di procreazione, nelle loro mani divenne un mezzo di redenzione e di salvezza. I Guglielmiti sostenevano che Dio avesse creato l'uomo e la donna come due esseri di uguale dignità, pur nella differenza sessuale. Tale visione era condivisa da molti uomini della Milano che si apprestava ad entrare nel XIV secolo. Un ulteriore motivo di scontro era relativo alla visione che i seguaci avevano di Guglielma: costoro erano convinti che la mistica boema fosse giunta su questo mondo per portare la salvezza a tutte quelle persone che erano fuori dal cristianesimo, in particolar modo gli ebrei. Secondo i seguaci di Guglielma, il sacrificio di Cristo non era sufficiente ed una parte dell'umanità era fuori dal percorso di salvezza cristiana. 
Come è facilmente comprensibile tali visioni erano in contrasto con l'ortodossia cristiana. Nel cristianesimo l'ortodossia, corretta opinione, è la piena aderenza a quelli che sono considerati gli insegnamenti autentici di Gesù Cristo e le verità di fede irrinunciabili, come sono presenti nella Rivelazione e sancite dai concili ecumenici. In questo senso ortodosso è il contrario di eretico, o eterodosso.
La situazione precipitò nei giorni della Pasqua del 1300, che cadeva il 10 aprile. Maifreda celebrò il pontificale pasquale con rito ambrosiano assistita da diaconesse da lei investite alla presenza di una moltitudine di fedeli. Pochi giorni dopo, il 19 di aprile, Maifreda fu convocata dall'inquisitore Guido da Cocconato. Il giorno seguente, 20 aprile, fu avviato un nuovo processo nei confronti dei Guglielmiti e di Maifreda da Pirovano. 
Il compito dell'Inquisizione era quello di estirpare l'eresia riportando, se possibile, gli eretici all'ortodossia. Questo percorso, doloroso, comprendeva la tortura e la minaccia di morte. 
Del processo ai Guglielmiti restano 65 dichiarazioni rilasciate da 33 diverse persone. Maifreda fu interrogata il 6 agosto. La donna cercò di scaricare colpe e responsabilità su un uomo, Andrea Saramita, affermando che fosse lui il vero eresiarca che manteneva vivo il culto di Guglielma la Boema. Il Saramita era un appartenente laico all'ordine degli Umiliati, molto vicino alla mistica boema. Questa affermazione trovò riscontro nel fatto che la stessa Guglielma lo chiamava il primogenito. La preminenza del ruolo dell'uomo all'interno della comunità dei Guglielmiti fu ulteriormente comprovata dal fatto che l'inquisitore impose a lui la cauzione maggiore, pretendendo a garanzia del pagamento l'ipoteca sull'intero patrimonio. Le notizie si Andrea Saramita sono scarse e derivano tutte dai documenti del processo. Probabilmente era un uomo agiato che possedeva una discreta cultura marito di una donna appartenente all'ordine degli Umiliati, Riccadonna, e padre di una suora umiliata, Fiordebellina. Il processo seguì il suo corso sino al 20 agosto quando accadde un nuovo colpo di scena: Maifreda da Pirovano modificò la propria testimonianza, forse perché pressata dall'inquisitore. Raccontò di aver mentito per timore del giudizio e si fece carico della propria parte di responsabilità per quanto concerne il mantenimento e la prosecuzione dell'eresia relativa al culto di Guglielma la Boemia. Andrea Saramita con la testimonianza al processo suscitò, suo malgrado, un contenzioso storico circa le origini regali di Guglielma, che ancora trasmette sensazioni e ipotesi nella mente di alcuni studiosi. Ammise d'aver effettivamente divulgato la notizia della nascita regale di Guglielma e sostenne di aver affrontato con un confratello, Mirano da Garbagnate, un viaggio in Boemia allo scopo di ottenere denaro dai parenti della mistica. Non diede altre informazioni e non citò le fonti da cui apprese delle regali parentele di Guglielma. 
Il processo si concluse senza ulteriori colpi di scena: i Guglielmiti furono riconosciuti eretici e condannati al rogo. 
Maifreda, Andrea Saramita e una suora di nome Giacoma furono bruciati davanti alla chiesa dedicata a Sant'Eustorgio, a Milano, tra il 22 agosto e il 9 di settembre. Con loro furono bruciate anche le spoglie di Guglielma, che erano state precedentemente prelevate dal luogo di sepoltura ovvero l'abbazia di Chiaravalle. Vista la mancanza di molti documenti inerenti il processo, non è possibile avere certezza sulla data del rogo purificatore. Si presume che i tre siano stati arsi di fronte al pubblico tra il 22 agosto, giorno dell'ultimo interrogatorio di Andrea Saramita, e il 9 settembre, quando lo stesso uomo fu citato come deceduto nella testimonianza della moglie, Riccadonna. 
Dove si conclude la vicenda umana e religiosa di Maifreda, si apre quella leggendaria. Per comprendere questo secondo aspetto dobbiamo tornare ai tarocchi ed alla figura della Papessa. Maifreda, che era prima cugina di Matteo Visconti, diede ispirazione, secondo alcune ipotesi, all'arcano maggiore della Papessa, nome con cui era conosciuta dai seguaci quando percorreva le strade di Milano. La donna fu immortalata nel mazzo di Tarocchi, dipinti da Michelino da Besozzo, per ordine di Filippo Maria Visconti in occasione del suo matrimonio con Maria di Savoia. Queste informazioni derivano dallo studio della bibliotecaria di New York, Moakley, che ipotizzò una relazione diretta tra alcune carte e i membri delle famiglie Visconti-Sforza. 
Dal 1966, anno in cui uscì il saggio della Moakley sui tarocchi Visconti-Sforza, molti studiosi hanno dubitato che Maifreda potesse rappresentare la fonte d'ispirazione per la figura della Papessa. Il pensiero moderno ritiene che questa figura possa essere un'immagine allegorica di Fides, la Fede, della Sapientia, Saggezza, o Ecclesia, Santa Madre Chiesa.
Anche questo passaggio della storia non presenta certezze.
Dalle origini regali di Guglielma sino alla possibile raffigurazione di Maifreda come la Papessa dei Tarocchi, tutta questa vicenda è avvolta dalle tipiche nebbie lombarde. 
Ripensando ad una famosa canzone di Fabrizio De André, Una storia sbagliata, non posso che concludere ricordando che tutto cominciò con la luna sul posto e finì con un fiume d'inchiostro.

Fabio Casalini

Bibliografia
Luisa Muraro, Guglielma e Maifreda. Storia di un'eresia femminista, La Tartaruga, 2003



Marina Benedetti (a cura di), Milano 1300 - I processi inquisitoriali contro le devote e i devoti di santa Guglielma, Milano, Libri Scheiwiller, 1999


Marina Benedetti, Io non sono Dio. Guglielma di Milano e i Figli dello Spirito Santo, Biblioteca Francescana, Milano, 1998


Claudio Rendina, Storia segreta della santa Inquisizione, Newton Compton Editori, 2013


Daniela Ferro, Le grandi donne di Milano, Newton Compton Editori, 2011

FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.

La morte di Raffaello Sanzio

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Il 6 aprile del 1520, Venerdì Santo, alle tre di notte moriva Raffaello Sanzio, dopo 15 giorni di malattia iniziatasi con una febbre continua ed acuta, causata probabilmente da eccessi amorosi, inutilmente curata con ripetuti salassi. Uno dei testimoni, che volle raccogliere i propri pensieri in alcune lettere, fu Marcantonio Michiel che, desideroso di rammentare il grande artista, narrò il dispiacere di tutte le persone ed anche del Papa. Lo stesso Michiel non mancò di sottolineare gli straordinari segni che si registrarono nei momenti successivi alla morte di Raffaello: si crearono delle crepe all'interno dei palazzi vaticani ed i cieli si agitarono. Probabilmente, ma di minore impatto emotivo, le crepe furono causate da un piccolo terremoto che scosse le pareti dei magnifici palazzi di Roma ed un temporale oscurò il sole del mattino. Gli scritti di Michiel rappresentano la visione comune dei contemporanei di Raffaello che lo consideravano divino, tanto da paragonarlo a Cristo. Come lui era morto di Venerdì Santo e, addirittura, nacque in un altro Venerdì Santo. Peccato che la data di nascita di Raffaello fu a lungo distorta ed alterata per farla coincidere con quella di un venerdì Santo. 
Secondo il Vasari nacque l'anno 1483, in venerdì santo, alle tre di notte, da un tale Giovanni de' Santi, pittore non meno eccellente, ma si bene uomo di buono ingegno. Secondo un'altra versione, contenuta in una lettera che Michiel inviò ad Antonio Marsilio, la data del giorno e dell'ora di morte di Raffaello, apparentemente coincidente con quella di Cristo, le ore 3 del 6 aprile, venerdì prima di Pasqua. E' facilmente comprensibile che l'alterazione della data di nascita era in stretta relazione con la visione quasi divina che i contemporanei nutrivano per il pittore giunto da Urbino. Per meglio comprendere la relazione tra la morte dell'artista e lo scuotimento delle anime, e delle menti, che si verificò nelle ore successive la scomparsa di Raffaello, dobbiamo fare riferimento ad una lettera che Pandolfo Pico della Mirandola inviò a Isabella d'Este. In questo scritto Pandolfo disse che il Papa per paura dalle sue stanze è andato a stare in quelle che fece fare papa Innocentio. Altri scritti potrebbero aiutarci nella comprensione della visione dei contemporanei. Pietro Paolo Lomazzo scrisse che la nobiltà e la bellezza di Raffaello rassomigliava a quelle che tutti gli eccellenti pittori rappresentano nel nostro Signore. 
In questo elenco di illustri personaggi del cinquecento non poteva mancare il Vasari che scrisse di Raffaello: di natura dotato di tutta quella modestia e bontà che suole vedersi in coloro che più degli altri hanno certa umanità. Di natura gentile, aggiunta a un ornamento bellissimo d'una graziata affidabilità.Certo il Vasari non mancò di sottolineare gli eccessi sessuali del grande artista urbinate, mettendoli in relazione con la morte prematura.
Come abbiamo potuto comprendere, la morte del pittore fu salutata con estremo cordoglio da tutta la corte pontifica. Il suo corpo, come richiesto dallo stesso Raffaello, fu sepolto nel Pantheon.
Sepolto l'artista le voci si rincorsero. Quale fu la causa della morte?
Secondo il Vasari, Raffaello era persona molto amorosa affezionata alle donne e ai diletti carnali. Aggiunse che faceva una vita sessuale molto disordinata e fuori modo. La morte fu una conseguenza dei suoi eccessi amorosi, infatti dopo aver disordinato più del solito tornò a casa con la febbre. Se dovessimo prendere per buone le parole del Vasari, cadrebbe il mito dell'amante focoso di una singola donna, la fornarina, poiché si dilettava con diverse ragazze. Chi era la fornarina che secondo la leggenda rapì il cuore dell'artista urbinate? Spostiamoci a Palazzo Barberini, sempre a Roma. All'interno del palazzo un ritratto di donna rapisce l'attenzione: è quello della fornarina. La ragazza è nuda e cerca di coprirsi il seno, inutilmente, con un velo trasparente. Porta un bracciale con scritto: RAPHAEL VRBINAS. Si tratterebbe di un dipinto privato fatto da un amante alla sua amata. L'opera fu realizzata nel 1520, pochi mesi prima della scomparsa di Raffaello. Quella donna mirabilmente ritratta era Margherita Luti, figlia di un senese di professione fornaio che svolgeva il proprio lavoro nel quartiere di Trastevere. La ragazza suggestionò l'immaginario collettivo e nell'ottocento fu considerata la vera musa ispiratrice del grande artista. Margherita, stando su uno stretto sentiero a metà strada tra storia e leggenda, poco dopo la morte dell'amato si ritirò in un convento nel cuore del quartiere dove era cresciuta. Esiste un documento, rinvenuto nel 1897 da Antonio Valeri, che attesta il ritiro nel convento di sant'Apollonia di Margherita Luti con le seguenti parole: al di 18 agosto 1520, oggi è stata ricevuta nel nostro conservatorio madama Margherita, vedova e figliola di Francesco Luti di Siena.
Quel termine utilizzato nel documento, vedova, lascerebbe intendere che Margherita e Raffaello si fossero sposati poco prima della morte dell'artista. Quindi quello stretto sentiero tra leggenda e storia si è ancora ridotto, e noi camminiamo in punta di piedi.
Potrebbe esistere una visione meno romantica del termine fornarina con fu identificata e conosciuta Margherita Luti. Questa visione vorrebbe la fornarina una prostituta ed i termini utilizzati, pane da infornare e forno, delle allusioni sessuali.
Ritengo credibile questa visione poiché Raffaello era dedito ai piaceri carnali e potrebbe aver contratto qualche malattia a trasmissione sessuale che comportò la famosa febbre con cui tornò a casa, inutilmente curata con ripetuti salassi.
I dubbi però esistono.
Dalle cronache del tempo le cause della morte non risultano chiare.
E se non fosse morto in seguito ai sui eccessi amorosi?
Ripartiamo dalla notte del 6 aprile 1521.
Alle ore 3 della notte Raffaello moriva. Il grande pittore lavorava alla Trasfigurazione quando si ammalò. La tavola incompiuta fu collocata a capo del letto funebre. Il Vasari scrisse: la quale opera nel vedere il corpo morto e quella viva, faceva scoppiare l'anima di dolore.
Quest'opera potrebbe essere alla base della morte?
C'era qualcuno che aveva interesse ad uccidere Raffaello?
In quel periodo il clima a Roma era rovente, basti pensare a Baldassarre Peruzzi, architetto che collaborò alla stesura del progetto della Basilica di San Pietro. Il Peruzzi morì avvelenato. Utilizziamo il Vasari come fonte: morì vecchio, in grande povertà, con una numerosa famiglia da mantenere e probabilmente avvelenato da rivali professionali. Un altro caso illustre è quello del Masaccio che morì in giovanissima età, a 27 anni. Secondo il Vasari esisteva il sospetto che fosse stato avvelenato. Un caso leggermente posteriore alla morte di Raffaello è quello relativo al Rosso Fiorentino. Le cronache riportano la morte per suicidio, ma alcuni divulgarono la versione dell'omicidio.
L'ambiente in cui viveva Raffaello pullulava di artisti invidiosi della carriera, in grandissima ascesa, del pittore urbinate.
Torniamo alla domanda iniziale: chi poteva avere interesse ad uccidere Raffaello?
Non esistono certezze, come abbiamo ampiamente compreso dalla narrazione di questa vicenda. Un evento potrebbe indirizzarci verso coloro che nutrivano astio nei confronti di Raffaello. Intorno al 1515 lo stile di Sebastiano del Piombo divenne una valida alternativa a quello di Raffaello. In quegli anni nacque un'accesa competizione tra i due. Alla fine del 1516 il cardinale Giulio de' Medici commissionò due pale d'altare: una a Raffaello, la Trasfigurazione, ed una a Sebastiano, la Resurrezione di Lazzaro. Esiste una documentazione di questa particolare competizione: la corrispondenza tra Leonardo Sellaio e Michelangelo. Nel 1517 Sellaio scriveva che Raffaello metteva sottosopra il mondo perché lui non la faccia per non venire a paragoni. Verso la fine dello stesso anno riportò che Sebastiano fa miracoli di modo che ora mai si può dire abbia vinto. Lo stesso Sebastiano scrisse a Michelangelo che aveva rallentano nella lavorazione della pala d'altare perché non voleva che Raffaello vedesse la sua prima che gli avesse sottoposta la propria. L'opera di Sebastiano del Piombo fu esposta la prima volta all'interno dei palazzi Vaticani nel 1519. La seconda volta il 12 aprile del 1520, sei giorni dopo la morte di Raffaello. In questa occasione vi fu il confronto con l'incompiuta Trasfigurazione del pittore marchigiano. 
Sebastiano del Piombo comunicò la notizia della morte di Raffaello a Michelangelo solo il 12 aprile, 6 giorni dopo l'avvenimento. Nella stessa lettera si raccomandò per ottenere la decorazione della Sala dei Pontefici in Vaticano. Sebastiano del Piombo non riuscì ad ottenere quella commissione. Poco dopo questo accadimento, accettò di lavorare nella chiesa di Santa Maria del Popolo, a Roma. Doveva decorare cappella Chigi, sotto le figure di Raffaello. Sebastiano del Piombo indugiò a lungo prima di iniziare i lavori, tanto da stancare gli eredi di Agostino Chigi che affidarono l'incarico al Salviati. In quei mesi a Sebastiano nacque un figlio, cui Michelangelo fece da padrino. Perché potremmo pensare che Raffaello fu avvelenato? Nel 1722, all'epoca della riesumazione, il suo corpo fu rinvenuto quasi incorrotto. L'arsenico, assunto in massicce dosi, può preservare il corpo dal decadimento. Siamo sempre nel campo delle supposizioni. Probabilmente non sapremo mai la reale causa della morte e ci atteniamo alle parole del Vasari secondo il quale faceva una vita sessuale molto disordinata e fuori modo. La morte fu una conseguenza dei suoi eccessi amorosi, infatti dopo aver disordinato più del solito tornò a casa con la febbre.
Quella febbre che tolse al mondo, ancora in giovane età, uno dei suoi più grandi artisti.

Fabio Casalini

Bibliografia
Paolo Franzese, Raffaello, Mondadori Arte, Milano 2008

Pierluigi De Vecchi, Raffaello, Rizzoli, Milano 1975

Enzo Gualazzi, Vita di Raffaello da Urbino, MIlano, Rusconi, 1984

Girogio Vasari, Le vite de' più eccellenti pittori, scultori e architettori, Vita di Raffaello da Urbino, Firenze 1568


Fotografie
1- Autoritratto / Autoritratto nella Scuola di Atene

2- Presunto autoritratto giovanile, indicato da alcuni studiosi: si tratti di un disegno a carboncino conservato all'Ashmolean Museum di Oxford, datato intorno al 1504

3- L'Autoritratto di Raffaello è un dipinto a olio su tavola (47,5x33 cm), databile al 1504-1506 circa e conservato nella Galleria degli Uffizia Firenze.

4- La Fornarina è un dipinto a olio su tavola (85x60 cm) di Raffaello Sanzio, databile al 1518–1519 circa e conservato nella Galleria Nazionale d'Arte Antica di Palazzo Barberini a Roma. È firmato sul bracciale della donna: RAPHAEL VRBINAS.

5- La Velata è un dipinto a olio su tela (82x60,5 cm) di Raffaello, databile al 1516 circa e conservato nella Galleria Palatina di Palazzo Pitti a Firenze.

6- Sebastiano del Piombo, Ritratto di prelato (autoritratto?), Venezia, Coll. Cini Guglielmi.

7- L'Autoritratto con un amico è un dipinto a olio su tela (99x83 cm) di Raffaello Sanzio, databile al 1518-1520 circa e conservato nel Museo del Louvre a Parigi.

FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.

La strage di Villarbasse, l'ultima condanna a morte

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È il 20 novembre 1945, una giornata tardo autunnale come tante a Villarbasse, in provincia di Torino, un piccolo paese di antichissime origini, probabilmente risalenti all’anno 1000. 
Il suo nome deriva dal latino villar, attribuito ai villaggi non eretti a municipalità, e abbatiarum, ossia "delle abbazie", intendendo con esse quella di San Michele, la Sacra e quella di San Solutore Maggiore a Torino. 
L’Italia in quel periodo si stava ancora riprendendo dalla devastazione della grande guerra. 
Un uomo, l’avvocato Massimo Gianoli, originario di Ghemme, paese in provincia di Novara, decide nel 1920 di acquistare proprio a Villarbasse una casa padronale circondata da vigneti in cui andare a vivere. Il podere si chiama Cascina Simonetto. All’epoca dei fatti, l’avvocato, dirigente di Agip Piemonte fino al 1940, ha 65 anni. 
Ora di cena. L’avvocato sta cenando servito dalla sua domestica Teresa Delfino. Con lui a tavola altre 9 persone, il fattore Antonio Ferrero, la moglie Anna Varetto, il genero Renato Morra, due donne che aiutano in casa, Rosa Martinoli e Fiorina Maffiotto, un nuovo bracciante Marcello Gastaldi, venuto per festeggiare l’assunzione, e una bambina di due anni. Si chiacchiera, si ride, si racconta la giornata. 
La nebbia della sera stende un fumoso manto su ogni cosa. La campagna è silenziosa. Il buio arriva presto nel periodo invernale. Alle 20.30, quando ormai la cena è stata consumata, quattro uomini, Francesco La Barbera, Giovanni Puleo, Giovanni D'Ignoti e Pietro Lala, decidono di entrare alla cascina con l’intenzione di compiere una rapina. 
Qualche mese prima Pietro Lala si era fatto assumere come lavorante stagionale con il falso nome di Francesco Saporito. Aveva così avuto modo di studiare le abitudini degli abitanti del casale. 
I quattro fanno irruzione in casa con il volto coperto da tovaglioli. Prendono in ostaggio tutti i presenti e cominciano a cercare tutto ciò che possa avere un valore, ma soprattutto la cassaforte, nella quale pensano di trovare molti contanti. Si racconta in paese che l’avvocato è solito tenere in casa grosse somme di denaro, e Lala che ha lavorato lì la pensa allo stesso modo. Tutto sembra andare bene, fino al momento in cui uno dei rapinatori, il Lala stesso, perde la pezza che gli copre il volto. Viene immediatamente riconosciuto dal Morra, che non maschera il suo disappunto. 
È Francesco Saporito, ha lavorato presso di loro fino a pochi giorni prima della rapina. 
I rapinatori, inesperti e spaventati decino di eliminare tutti i testimoni. 
Gli legano le mani dietro la schiena con del filo di ferro e lasciano la bambina da sola a piangere in una stanza. 
Li portano tutti nel cortile, ad uno ad uno. Lì c’è una grossa cisterna per la raccolta dell’acqua piovana. Il più grosso dei quattro, un vero gigante, Giovanni Puleo, aspetta le vittime sul bordo con un bastone in mano. Un colpo secco alla testa e giù, nell’acqua, vivi o morti non importa, mentre ancora la piccola piange al piano superiore. Il solo che tenta di difendersi è il Morra, ex partigiano, che durante la colluttazione ferisce al volto La Barbera. Ma non serve a molto. Occultare il corpo dell’avvocato, molto corpulento e con la pancia prominente, costringe i quattro a ricorrere ancora al bastone, per farlo passare dal buco della cisterna, troppo piccolo per le sue dimensioni. 
Il tempo passa. Non vedendo tornare le loro mogli, Gregorio Doleatto e Domenico Rosso, mariti delle due domestiche, Rosa Martinoli e Fiorina Maffiotto, vanno alla villa per cercare di capire il motivo del loro ritardo. Sorpresi dai quattro, fanno la stessa tragica fine, uccisi a bastonate. 
Compiuti gli omicidi, i quattro malviventi possono rientrare in casa per rubare. Il loro bottino è di 200.000 Lire, un paio di orecchini, dei salami, calze, fazzoletti e altre cianfrusaglie. 
Escono dalla casa, protetti dalla notte e dalla nebbia. Si dividono. Giovanni D'Ignoti, Francesco La Barbera e Giovanni Puleo, continuano come se nulla fosse accaduto a vivere a Torino. Pietro Lala, alias Francesco Saporito, torna a vivere in Sicilia, a Mezzojuso, in provincia di Palermo. 
Il giorno dopo i braccianti arrivano alla cascina all’alba. Non vedendo nessuno chiamano i carabinieri, in quella casa qualcosa deve essere accaduto. Ma gira voce che in realtà l’avvocato sia partito per un viaggio con destinazione sconosciuta, forse non serve allarmarsi. Verso le 8 della mattina un giardiniere, dipendente della cascina, insiste suonando al cancello. Nessuno risponde. Insiste ancora, fino a quando sente il pianto di un bambino arrivare dalla casa. È la piccola che dalla sera prima vaga sola e infreddolita. L’uomo decide di scavalcare il cancello. Arrivato al casale si accorge subito che qualcosa di terribile deve essere accaduto. 
Corre a dare l’allarme a Villarbasse. Le ricerche iniziano subito. Durano otto giorni, passati a girare nelle campagne, a controllare i canali, i casolari abbandonati. Le ricerche si spingono fino alle montagne. La tesi dall’allontanamento volontario è subito scartata, nessuno nella casa avrebbe abbandonato la bambina. In un primo momento si pensa ad un rapimento. 
Ispezionando meglio la cascina carabinieri e volontari si accorgono che le tracce di un eventuale delitto sono molte. Uno dei contadini trova un cappello macchiato di sangue, altre macchie sono rinvenute in cantina, fra le vigne viene raccolta una giacca intrisa di sangue, con un’etichetta sul bavero con scritto Caltanissetta. 
Il 28 novembre un mugnaio di nome Enrico Coletto, dipendente anche lui dell’avvocato, si ricorda della cisterna posta sotto il pavimento dell’aia. Andando a controllare si accorge che dal coperchio escono fili d’erba, forse del grano. Strano, visto che la funzione della cisterna è quella di raccogliere acqua piovana, che si presume pulita. Come mai la botola non è ben chiusa? Decide di aprirla e di controllare. Un cattivo odore lo accoglie improvviso. Infila un rastrello, cercando qualcosa, forse sperando di non trovare nulla. Lo tira verso di sé e pesca un grembiule di donna. Chiama subito i carabinieri che arrivano accompagnati anche dai pompieri. Non possono far altro che mettersi all’opera per recuperare i corpi delle persone che stanno cercando. Dall’acqua emergono 10 cadaveri in stato di decomposizione, gonfi e tumefatti. Dai primi rilevamenti sembra chiaro che sono stati uccisi a bastonate. L’autopsia farà emergere una verità inquietante: alcune delle vittime sono state gettate nella cisterna ancora vive, i loro polmoni contengono acqua, sono morte annegate. Le loro mani sono legate dietro la schiena, ai piedi hanno dei pesi. Chi può aver commesso un delitto tanto atroce? Chi può aver usato tanta crudeltà? 
Iniziano le indagini per trovare uno o più assassini. Passano quattro mesi, di interrogatori, di arresti sbagliati, di perquisizioni, di sospetti. Finisce in manette perfino il fratello del Morra, una delle vittime. Una svolta al caso sembra darla la cattura di un ex partigiano, probabilmente compagno d’armi del Morra stesso, tale Carmelo Filadanca. Ha vissuto a Villarbasse e non era in buoni rapporti con il Morra. Dopo pochi giorni la pista si rivela infondata. 
Si segue anche un’altra traccia. Fra le varie cose rinvenute durante le ricerche c’è un frammento di tessera annonaria che gli inquirenti fanno risalire a Giovanni D'Ignoti. Le manette scattano ai suoi polsi il 4 marzo 1946. In cella gli viene fatto credere di essere stato l’ultimo ad essere arrestato e che i suoi complici hanno già raccontato la loro versione. Ci mette poco il D’Ignoti a dire la sua, fa nomi e cognomi, mettendo i carabinieri in condizione di chiudere il caso. Vengono tutti arrestati e condotti al carcere di Venaria Reale, per poi esser trasferiti a Le Nuove a Torino. Tutti tranne uno, Pietro Lala. Tornato in Sicilia continua a delinquere, probabilmente mettendosi contro a qualche mafioso locale che lo fredda a colpi di lupara per pareggiare i conti. Il suo corpo viene ritrovato l’11 aprile a Mezzojuso. 
Il processo inizia il 3 luglio 1946 e termina il 5, con la condanna a morte dei tre imputati. Il ricorso in Cassazione non serve. Il 29 novembre dello stesso anno le condanne sono confermate. La difesa fa appello per ottenere la grazia all’allora capo dello stato Enrico De Nicola, che oppone un netto rifiuto. Deve dare soddisfazione all’opinione pubblica indignata per la ferocia di quel delitto. Solo Palmiro Togliatti esprime la sua perplessità sulla pena di morte. Ma serve a poco. 
È la mattina del 4 marzo 1947. Ore 7.45. Un’altra alba nebbiosa. Il cappellano del carcere, padre Ruggero Cipolla, accompagna i tre al poligono di tiro delle Basse di Stura, a Torino. I tre condannati vengono legati a una sedia, a sua volta fissata a un paletto in legno piantato nel terreno, con la schiena rivolta al plotone di esecuzione, formato da trentasei poliziotti della città. Non tutte le armi sono cariche, alcune hanno pallottole a salve. La sentenza viene riletta. Padre Cipolla legge qualche parola di conforto. Pochi istanti, tutto è pronto. I condannati sono bendati. Viene data loro un’ultima sigaretta. 
All’improvviso un ordine risuona nel silenzio del mattino: «Fuoco!» 
Dalle armi una fiammata, poi tutto tace. Il medico della polizia si avvicina e constata la morte, con una frase pronunciata al Procuratore della Repubblica: «giustizia è fatta». Un’ultima benedizione di padre Ruggero mette la parola fine a questa triste vicenda iniziata il 20 novembre 1946. 
Fra i giornalisti presenti, un giovane e talentuoso Giorgio Bocca. 
I tre assassini di Villarbasse annoverano il primato dell’ultima condanna a morte per crimini comuni comminata in Italia. Il giorno seguente fu eseguita l’ultima esecuzione, con sentenza del maggio 1946, presso Forte Bastia a La Spezia, ma questa è un’altra storia, conclusasi in modo tragico. La Costituzione Italiana, entrata in vigore il 1° gennaio 1948, abolì definitivamente la pena di morte nel nostro paese. La misura venne attuata con i decreti legislativi 22 gennaio 1948 n. 21, Disposizioni di coordinamento in conseguenza dell'abolizione della pena di morte, e n. 22, Ammissibilità del ricorso per cassazione proposto dai condannati alla pena di morte. Quel giorno si aprì un nuovo capitolo per la giustizia italiana. 

Rosella Reali

Bibliografia
Gian Franco Venè, La notte di Villarbasse, Bompiani Editore, Milano, marzo 1987

Gian Franco Venè, Vola Colomba, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, ottobre 1990

Federica Cortegiani, Tre palermitani uccisi per la strage di Villarbasse: 70 anni fa l'ultima condanna a morte in Italia, Giornale di Sicilia, 04 Marzo 2017 

Giorgio Bocca, Pena di morte quell'ultima volta nell'Italia ' 47, la Repubblica.it, 04 marzo 2007

ROSELLA REALI
Sono nata nel marzo del 1971 a Domodossola, attualmente provincia del VCO. Mi piace viaggiare, adoro la natura e gli animali. L'Ossola è il solo posto che posso chiamare casa. Mi piace cucinare e leggere gialli. Solo solare, sorrido sempre e guardo il mondo con gli occhi curiosi tipici dei bambini. Adoro i vecchi film anni '50 e la bicicletta è parte di me, non me ne separo mai. Da grande aprirò un agriturismo dove coltiverò l'orto e alleverò animali. 
Chi mi aiuterà? Ovviamente gli altri viaggiatori.
Questa avventura con i viaggiatori ignoranti? Un viaggio che spero non finisca mai...

Il pellicciaio e la berretta da prete

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A Piacenza, intorno alla metà del cinquecento, un uomo, con uno strano cappello nella mano, si affaccia sulla piazza principale. Quell'uomo si chiamava Domenico e giungeva sulle rive del Po dopo aver peregrinato per borghi e villaggi, mendicando e predicando la parola del Signore, o almeno quella che lui riteneva fosse la vera fede cristiana. Domenico, ancora giovane e accalorato nel cuore, scrutava le persone che frettolosamente abbandonavano la piazza della città placidamente appoggiata sulle curve sinuose del grande fiume. Appoggiato ad una colonna del Palazzo Grande ammira il giorno diventare sera. Quando la luce estiva abbandona le vie dell'antico borgo, decide d'indossare il cappello che stringeva nella mano. Non era un cappello dozzinale, era una berretta da prete ottenuta mendicando di paese in paese. Domenico inizia parlare, a raccontare, ad attirare la curiosità dei presenti. Inveisce contro la Chiesa di Roma, suscitando vivo interesse. Alcuni cittadini, infervorati nel cuore e nella mente, lo esortano a continuare. Gli indicano la strada per una piazza ancora gremita di persone. In pochi minuti, l'incitamento diviene amicizia. L'amicizia, protezione. Alcuni di essi lo rincuorano, gli assicurano di essere pronti a difenderlo con le armi. Domenico, rassicurato, scalda gli animi degli astanti. Racconta di non essere un prete della Chiesa di Roma, ma di Gesù Cristo. Esclama di non aver ricevuto l'ordine di predicare da un pontefice terreno, ma da Gesù Cristo. Inveisce nuovamente contro la millenaria Chiesa di Roma. Ricorda, al pubblico divenuto numeroso, che ogni membro del popolo cristiano è libero d'indossare quel cappello e di predicare per le strade del mondo.
La sera diviene notte.
Alcuni cittadini gli indicano la strada per una taverna: troverò ristoro ed un letto per riposare. La mattina seguente, come forma di ringraziamento, consegna delle copie di un libro all'oste che l'ha gentilmente ospitato. Trascorre il secondo giorno a Piacenza girovagando per le strade della città.
La sera ritorna nella piazza del giorno precedente. Indossa nuovamente il berretto da prete ed inizia a predicare. Inveisce, nuovamente, contro la Chiesa di Roma. Utilizza parole di fuoco contro il clero e confessione, contro il sacramento della comunione e la messa. Tra i presenti anche due francescani, che nelle ore seguenti troveranno motivo di denunciarlo al vescovo cittadino.
Domenico non vedrà il sorgere del sole da uomo libero.
Gli uomini dell'inquisizione sono già sulle tracce dell'eretico che diffama la vera fede cristiana. Sul fare del mattino è catturato e, prontamente, tradotto nelle carceri cittadine.
In breve tempo compare dinanzi all'inquisitore generale d'Italia, frate Callisto Fornari, ed a un frate domenicano che lo coadiuvava. Frate Callisto non si trovava casualmente a Piacenza. Era stato inviato per estirpare l'eresia dalle sponde del Po e dalle vie dei tanti villaggi che dividevano la città emiliana da Cremona. Domenico non fu aggredito solo dai cani del Signore, anche il podestà volle intervenire, indicando la tortura come l'unica soluzione per appurare la verità.
Durante l'interrogatorio si scoprono i particolari dell'uomo che girava con la berretta da prete e incitava contro la Chiesa di Roma. Quell'uomo dall'aspetto gentile si chiama Domenico Cabianca e svolgeva la mansione di pellicciaio a Bassano. Dopo aver proferito queste poche informazioni, Domenico si chiuse in un ostinato silenzio. Non sappiamo se fu la tortura o le visite dei tanti ecclesiastici, ma Domenico Cabianca dopo qualche ora decise di parlare. Iniziò a raccontare della sua vita, della sua nuova fede e della predicazione itinerante.
Agli inquisitori quest'uomo non pareva troppo pericoloso, era un pellicciaio che avrebbe riscosso scarso successo nelle piazze dei villaggi italiani. Decisero per una pubblica abiura da svolgersi nella piazza di Piacenza, lo stesso luogo ove Domenico aveva predicato contro la Chiesa di Roma. Gli inquisitori però furono scavalcati da un ordine perentorio giunto da Milano: Domenico Cabianca doveva morire.
Il Gonzaga, Governatore di Milano, scrisse al podestà di farsi consegnare dal vescovo il malcapitato, perché era un secolare. Il Gonzaga aggiunse che Domenico Cabianca doveva essere impiccato sulla pubblica piazza di fronte al pubblico festante. Gli inquisitori ed il vescovo nulla poterono. Il podestà mandò a prendere il disgraziato e, dopo averlo fatto confessare, gli pose lo scritto del Gonzaga ai piedi e lo mandò alla forca. I signori decisero di soprassedere nei confronti dei cittadini che aiutarono Domenico, per non guastare gli umori della città.
Così si conclude la storia di un pellicciaio divenuto predicatore, che si aggirava per le vie dei borghi italiani con una berretta da prete.
Una domanda potrà sorgere spontanea: perché questa storia così comune, quasi scontata, nell'Italia del Cinquecento è giunta sino a noi?
Esistono due possibili risposte.
Innanzitutto ogni credo necessita dei propri martiri. Così fu anche per Domenico Cabianca. Il supplizio del pellicciaio giunse presto a conoscenza degli italiani esuli in Svizzera per motivi religiosi. Tra essi anche Francesco Negri, pseudonimo di Francesco Buonamonte, letterato e teologo italiano nativo di Bassano, come il protagonista della nostra vicenda. Negri si affrettò a pubblicare lo scritto De Fanini Faventini ac Dominici Bassanensis morte, Francisco Nigro Bassanensi authore, creando la leggenda del martire che passò di paese in paese. A differenza delle altre fonti bibliografiche, Negri fornì ampia documentazione degli argomenti trattati a Piacenza da Domenico: dalla confessione al purgatorio, dalla compravendita delle indulgenze alla messa. Inoltre Francesco Negri scrisse che Domenico Cabianca non aveva mai ceduto alle intimidazioni degli inquisitori, preferendo morte certa all'abiura. Il libro di Negri circolò per anni, tanto da permettere la salita al rango di personaggio positivo di Domenico Cabianca.
Una seconda possibile risposta attiene alle diverse fonti bibliografiche che narrano la vicenda del pellicciaio di Bassano, in aggiunta a quelle degli esuli in Svizzera per motivi religiosi. Un primo, e fondamentale documento, è il dispaccio di Alfonso Trotti, ambasciatore presso Ferrante Gonzaga, al duca Ercole II. In questo scritto Trotti riporta la sua versione dei fatti. Un secondo documento è quello di un cronista piacentino del tempo, Corvi, che riprese ed ampliò la narrazione presente nel dispaccio.
A noi cosa rimane di questa, e tante altre, vicenda?
L'idea fondamentale che si tratta di una storia sbagliata, iniziata una berretta da prete e conclusa con una corda che stringeva il collo di un uomo libero.

Fabio Casalini

Bibliografia
Dispaccio del 20 settembre 1550, pubblicato da Alfredo Casadei, «Per la storia religiosa dello Stato di Milano durante il dominio di Carlo V», Rivista storica italiana, anno LVIII, p. 188, 1941

Franco Molinari, Il cardinale teatino beato Paolo Burali e la riforma tridentina a Piacenza (1568-1576), Romae: Apud aedes Universitatis Gregorianae, 1957

De Fanini Faventini, ac Dominici Bassanensis morte, Qui nuper ob Christum in Italia Rom. Pon. iussu impie occisi sunt, Brevis Historia, Francisco Nigro Bassanensi authore, [Poschiavo?]: [Dolfino Landolfi?], 1550



FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.

Storia "espressa" del caffè

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«Questa preziosa bibita che diffonde per tutto il corpo un gioconda eccitamento, fu chiamata la bevanda intellettuale, l’amica dei letterati, degli scienziati e dei poeti perché, scuotendo i nervi, rischiara le idee, fa l’immaginazione più viva e più rapido il pensiero. […] Il caffè esercita un’azione meno eccitante ne’ luoghi umidi e paludosi ed è forse per questa ragione che i paesi ove se ne fa maggior consumo in Europa sono il Belgio e l'Olanda. In oriente dove si usa di ridurlo in polvere finissima e farlo all'antica per beverlo turbo, il bricco, nelle case private è sempre sul focolare. […] preso poi la mattina a digiuno pare che la sbarazzi lo stomaco dai residui di una imperfetta digestione e lo predisponga a una colazione più appetitosa» (Artusi, 2012, pp. 417-420).  È con queste parole che Pellegrino Artusi descrive il caffè nella sua celeberrima opera gastronomica La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene. Ma che cosa è, in realtà, il caffè? Sono molti gli aspetti che trascendono la semplice bevanda: il caffè è un rito sociale, ed “andare a prendere un caffè” non vuol mai dire semplicemente andare a sorbire un infuso ottenuto con le bacche di questa pianta proveniente dall’Oriente. Se vogliamo questa frase significa «“uscire” per installarsi in un altro spazio protetto, coniugando l’abitudine e l’istante, la permanenza ed il provvisorio, l’altrove e il qui» ed il bar rappresenta «il luogo privilegiato in cui sperimentare, vivere e ritrovare il rapporto» (Augé, 2016, p. 52).
Ma proseguiamo con ordine: come vari prodotti anche il caffè ha diverse leggende di fondazione. Si racconta che il Kaldi pascolasse le sue capre in Etiopia; un giorno gli animali incontrando una pianta di caffè cominciarono a mangiarne le bacche e a masticarne le foglie. Arrivata la notte, le capre, anziché dormire, si misero a vagabondare con energia e vivacità mai espressa fino ad allora. Vedendo questo, il pastore ne individuò la ragione e abbrustolì i semi della pianta come quelli mangiati dal suo gregge, poi li macinò e ne fece un'infusione, ottenendo il caffè. 
La seconda leggenda tira in ballo addirittura Maometto, il profeta dell’Islam, che, sentendosi male, vide l’arcangelo Gabriele offrirgli una pozione nera creata da Allah, che gli permise di tornare in forze. Ed infine si può citare una leggenda di un incendio in Abissinia di piante selvatiche di caffè che diffuse nell’aria il suo fumo e profumo per chilometri di distanza.
La bevanda si diffuse inizialmente in Medio Oriente, dove troviamo, nel XV secolo, addirittura luoghi deputati al consumo di questa bevanda, con tanto di figura di “capo caffettiere”, il Kahvecibasi, personaggio importante alla corte del Sultano. È Francis Bacon, nel 1627, a fornirci la descrizione di questi luoghi, paragonati alle taverne europee, mentre la prima città italiana in cui fece uso di questa bevanda fu Venezia, a causa proprio della vicinanza e dei commerci con l’Oriente. Le prime botteghe di cui abbiamo notizie certe furono aperte nel 1645, ma si suppone fossero aperte già dal XVI secolo. 
Proprio nel Seicento, in Europa, una libbra di caffè veniva pagata fino a 40 scudi, questo perché gravato da pesanti tasse, che ne destinavano il consumo ai soli aristocratici (cfr Malaguzzi, 2013, p. 36). Ma l’aumento della richiesta portò ad una diminuzione dei prezzi e soprattutto ad una diffusione della bevanda: già nel 1663 a Londra si contavano ben 80 coffehouse, che una cinquantina di anni più tardi divennero 3mila. Ed il primo caffè di Parigi, inaugurato nel 1689, venne aperto da un italiano, tal Francesco Procopio, di origini palermitane (cfr Beccaria, 2017, p. 147). 
I caffè divennero subito luoghi culturali, di nascita e di diffusione di idee liberali, luogo di ritrovo per dotti, politici, filosofi ed artisti. 
Nel Settecento ogni città europea aveva almeno un caffè, mentre negli Usa il primo caffè aprì a Boston: si tratta del London coffee house, aperto nel 1689, seguito nel 1696 dal King’s arms di New York. A partire dal secolo dei Lumi, attraverso i caffè (intesi come luogo), circolano idee, e non solo prodotti esotici! 
Nel 1776 Metastasio, in una lettera indirizzata a Saverio Maffei, descrive la Bottega del caffè come il luogo dove viene servita «la più deliziosa bevanda di quasi tutti i viventi» (citato in Beccaria, 2017, p. 146). E non è un caso che questo nome sia stato utilizzato per indicare un periodico culturale molto importante, Il caffè appunto. Una bevanda che, come descritto anche da Artusi, riesce a rallegrare l’animo, a risvegliare chiunque lo provi, accelerando il moto ed infondendo nel sangue “un sal volatile”: «calda come l’inferno / nera come il diavolo / pura come un angelo / dolce come l’amore», «fortifica lo stomaco ed il cervello, sollecita la digestione, leva il dolor di testa, rarefà il sangue, abbassa i vapori, reca allegrezza, impedisce di dormire dopo il pasto» (Gibelli, 2004, pp. 172-173). In una parola un vero e proprio stimolante per il corpo e per lo spirito! 
Con il passare del tempo i bar sono diventati dei luoghi confortevoli, lussuosi, con specchi, arredi, cristalli, vero e proprio punto di ritrovo per letterati e gente di spettacolo, in cui giocare a carte, a dama, a scacchi o discutere beatamente di filosofia e politica. A Torino, ad esempio, i giacobini si ritrovavano nella Taverna della Giamaica, o al Caffè ‘d Catlina, o al Marsiglia. Il caffè, inteso sia come bevanda che come luogo di incontro, era diventato simbolo di intellettuali e riformisti, coinvolgendo illuministi, risorgimentali, futuristi, avanguardie. George Steiner, saggista francese e docente di letteratura comparata a Princeton, non esita ad affermare che l’unità europea si è formata anche nei caffè metropolitani, luoghi cosmopoliti, di incontro, di discussione e di cultura (cfr Beccaria, 2017, p. 148). 
Scopo di questo volume è proprio quello di fornire una doppia lettura alla “fenomenologia” del caffè, inteso nel suo duplice significato di luogo dove si consuma (e quindi sinonimo di bar), sia di bevanda. E lo sguardo che voglio dare è quello prettamente antropologico, analizzandone le ritualità, piccole e grandi, di quello che potremmo definire un vero e proprio “culto”, in cui, in Italia ad esempio, la macchina espresso rappresenta il sancta santorum. L’idea nasce dall’analisi di Marc Augé, che per primo iniziò ad indagare con uno sguardo molto particolare la contemporaneità, passando dai “non luoghi” ai bistrot.

Luca Ciurleo


Bibliografia 
Ciurleo, Luca 
2018 - 1000 e un caffè - edizioni Landexplorer, Boca


Appadurai, Arjun
1996 - Modernity at large. Cultural dimension of globalization, Minneapolis-London, University of Minnesota Press (trad. it. 2001, Modernità in polvere, Roma, Meltemi)

Artusi, Pellegrino
2012 - La scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene, Giunti editore, Firenze

Augé, Marc
2015 - Un etnologo al bistrot, Raffaello Cortina editore, Milano
2017 - Momenti di felicità, Raffaello Cortina editore, Milano
2018 - Sulla gratuità per il gusto di farlo!, Mimesis / Chiccodoro, Fano

Beccaria, Gian Luigi
2017 - L’Italiano in 100 parole, RCS - Corriere della sera, Milano
Ciurleo, Luca
2013 - Tradizioni di pastafrolla. I biscotti tipici del Vco tra folk, fake ed esperimenti antropologici, Ultravox, Domodossola
2014 - All’ombra del castello, sotto il manto di Re Lupo, Landexplorer, Domodossola

Ciurleo, Luca - Piana, Samuel
2016 - Ciboland - Viaggio nell’Expo tra antropologia ed economia, Landexplorer, Boca

Della Bianca, Luca
2003 - Manuale di Caffomanzia, Hermes edizioni, Roma

Donna Letizia
1982 - Il saper vivere - Arnoldo mondatori editore, Milano

Eco, Umberto
2016 - Pape Satàn Aleppe, La nave di Teseo, Milano

Fabietti, Ugo e Remotti, Francesco (a cura di)
1997 - Dizionario di Antropologia, Zanichelli, Bologna
Goffman, Erving
1967 - Interaction Ritual, Doubleday, Garden City. (trad. it. 1988 - Il rituale dell’interazione, Il Mulino, Bologna)
1998 - L’ordine dell’interazione, Armando editore, Roma

Grimaldi, Piercarlo
2002 - Cibo e rito. Il gesto e le parole nel cibo tradizionale, Sellerio, Palermo

Iacchetti, Giulio (a cura di)
2011 - Italianità, Corraini edizioni, Viadana
EXPO
2015 - Nutrire il pianeta, energia per la vita, Catalogo ufficiale di Expo 2015, Electa, Milano

Gibelli, Luciano
2004 - Memorie di cose - Attrezzi, oggetti, cose del passato raccolti per non dimenticare, Priuli e Verlucca, Torino

Malaguzzi, Silvia
2013 - Arte e cibo - Artdossier, Giunti, Roma

Marino, Matteo e Gotti, Claudio
2016 - Il mio primo dizionario delle serie tv, Beccogiallo, Sommacampagna

Mauri, Chiara
2015 - Il cluster caffè, in Expo 2015, pp. 326-237

Morellini, Mauro
2015 - Expo Milano 2015 for Dummies, Hoepli, Milano

Padovani, Maddalena
2011 - Moka Bialetti, in Iacchetti 2011, pp. 74-77
Segalen, Martine
2002 - Riti e rituali contemporanei, Il Mulino, Bologna

Severgnini, Beppe
2008 - Italiano. Lezioni semiserie, Bur Rizzoli, Milano

LUCA CIURLEO
Luca Ciurleo, classe 1983, laureato in Antropologia culturale ha compiuto, nel corso degli anni, diverse ricerche sulla realtà etnologica ossolana, in particolare sugli alberi rituali, sui falò solstiziali e su alcune comunità, quale Piedimulera e Vogogna. 
Ha al suo attivo una decina di volumi, tra cui “Da Abissinia a Cappuccina” (con Antonio Ciurleo, 2006), “Walter Alberisio: una vita per la poesia” (2007), “Gente di paese, paese di gente” (2010), “Tradizioni di pastafrolla” (2013), “Quarant’anni di Coro Valgarina” (2014). 
Collabora con la Fondazione UniversiCà di Druogno, ha insegnato Antropologia dell’alimentazione alla Scuola Made di Lucca ed ha tenuto diverse conferenze relative all’Ossola, anche ad Expo 2015. Tra le sue ultime ricerche: spunti antropologici nella cultura pop, antropologia dell’alimentazione e nuove prospettive alimentari. Dal 1998 collabora con il settimanale Eco Risveglio. 

Antonietta Longo, la decapitata di Castel Gandolfo

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Quando pensiamo a Castel Gandolfo la prima cosa che ci viene in mente è la residenza estiva dei papi.
Ma non è soltanto questo. Il comune, di circa 9000 abitanti nei pressi di Roma, ospita numerose ville del XVII secolo di pregevole fattura, luoghi di interesse archeologico, artistico e paesaggistico. Comprende infatti nel proprio territorio, quasi tutto l’arco costiero del lago Albano, da alcuni conosciuto anche come lago di Castel Gandolfo. L’orizzonte è definito da una bella vista sul cono vulcanico del Monte Cavo.
Torniamo indietro nel tempo per raccontare una storia che non tutti ricordano.
È il 10 luglio 1955. La giornata è serena e calda, il sole splende e invoglia a fare una gita sulle rive del lago Albano. Due uomini, Antonio Solazzi di professione meccanico e Luigi Barboni, sacrestano, amici di vecchia data, decidono di fare una passeggiata e di fermarsi sulla riva presso la località di Acqua Acetosa. Chiacchierando il Solazzi si accorge che di qualcosa di strano fra la vegetazione. Quando si avvicinano vedono un corpo di donna, in avanzato stato di decomposizione, senza vestiti, con le unghie perfettamente smaltate, con un orologio al polso e la parte superiore del corpo coperta da una copia de Il Messaggero, datata 5 luglio.
I due uomini, presi dal panico, non chiamano le autorità ma riflettono due giorni su cosa sia meglio fare.
Finalmente la mattina del 12 luglio avvisano le forze dell’ordine.
Giunti sul posto, i carabinieri accertano che si tratta del cadavere di una donna di età compresa fra i 25 e i 30 anni. Sul corpo sono presenti numerose coltellate, sia sull’addome che sulla schiena. Tolti i giornali, la visione del cadavere diventa terrificante. Alla donna manca la testa. Probabilmente è stata decapitata nello stesso punto in cui viene ritrovata, dato che il terreno sottostante è impregnato di sangue fino a una profondità di 12 cm.
Il deterioramento del cadavere rende difficile la rilevazione delle impronte digitali. Fortunatamente, grazie all’orologio da polso ritrovato sul corpo si può risalire all’identità della vittima. È un modello particolare, marca Zeus, con il cinturino nuovo, cambiato da poco, prodotto in soli 150 esemplari. Una ricerca incrociata fra gli orafi di Roma e le denunce di scomparsa presentate nelle ultime settimane, consente di indentificare il cadavere con quello di Antonietta Longo, Ninetta per i familiari.
Antonietta è nata a Mascalucia, in provincia di Catania, il 25 luglio 1925. Lascia la Sicilia del dopoguerra in cerca di fortuna e stabilità. Arriva nella capitale con una valigia piena di sogni e belle speranze.
Viene presa come domestica a casa di una famiglia benestante di Roma. Il capofamiglia, il dottor Gasparri, è medico. Assume la ragazza come aiuto della moglie. Ninetta è una brava ragazza, senza grilli per la testa. Lavora, manda i soldi a casa. Per sé compra solo il necessario e il resto lo risparmia. Il 30 giugno da una cassetta fermo posta ritira una lettera il cui contenuto rimarrà sconosciuto. Forse proprio il suo contenuto scatenerà gli eventi che hanno portato al suo omicidio. L’1 luglio, in una serata afosa, alle 20.30 circa, esce da casa Gasparri e sparisce. Ha in mano un biglietto ferroviario per il suo paese. Non ci arriva mai. Il medico ne denuncia la scomparsa.
Il ritrovamento del suo cadavere a luglio lascia tutti sgomenti. Grazie alla comparazione delle impronte digitali con quelle rinvenuta nella casa dove presta servizio, permettono l’identificazione certa. Ma la testa dov’è?
L’autopsia, oltre a rivelare una morte violenta, fa emergere un altro particolare importante: sul corpo di Ninetta ci sono le tracce di un aborto recente. Di chi era il figlio che portava in grembo? Del suo datore di lavoro? Di un altro uomo magari sposato che ha preferito disfarsi del bambino prima e poi di lei?
Le forze dell’ordine cercano di ricostruire i suoi ultimi giorni di vita, nella speranza di poter identificare l’assassino o gli assassini. Dalle indagini emerge che pochi mesi prima Antonietta ha ritirato tutti i suoi risparmi dal conto corrente per depositarli in una cassetta di sicurezza della stazione Termini. Contemporaneamente ha chiesto ai suoi datoti di lavoro un mese di permesso, senza dare spiegazioni in merito. Invece di andare in stazione a prendere il treno, quando esce per l’ultima volta da casa Gasparri, decide di fermarsi in una modesta pensione dove trascorre alcune notti. È sola?
La mattina del 5 luglio spedisce una lettera ai familiari in cui annuncia che si sarebbe sposata entro pochissimo tempo. Nel testo del messaggio scrive: “…… fra poche ore sarò sua…”, ma non fa nomi.
La data della lettera e del quotidiano ritrovato a copertura del suo corpo, convincono gli inquirenti che Antonietta Longo è stata uccisa proprio il 5 luglio. Le indagini proseguono.
Viene identificato un presunto fidanzato della giovane, tale Antonio. A suo carico non ci sono prove sufficienti per portare ad una incriminazione. Qualche tempo dopo, alla stazione Termini, sono ritrovate in deposito le valige della ragazza, preparate con tutte le sue cose e un corredo matrimoniale. Dei soldi ritirati, 331.000 lire, una grossa somma per quei tempi, non c’è traccia.
L’attenzione, anche se per poco tempo, si sposta sul dottor Gasparri. Secondo il patologo forense la testa di Antonietta è stata rimossa dal corpo con una tecnica precisa, chirurgica, da una mano esperta. Ma nonostante questo nessun’altra prova risulta a carico dell’uomo. Anche questa pista viene abbandonata.
Il caso di Antonietta Longo, la decapitata di Castel Gandolfo resterà irrisolto. La sua testa non verrà mai ritrovata. Alcuni referti del caso sono tutt’oggi conservati presso Museo Criminologico di Roma. Resta il mistero sulla fine di questa giovane e sfortunata donna, che inseguiva un sogno e ha incontrato la morte. Il suo corpo è stato tumulato nel cimitero di Mascalucia.
Nel 1987, lungo le rive del lago Albano, o lago di Castel Gandolfo, un pescatore trova un teschio umano. Forse dopo 32 anni la testa di Ninetta è affiorata dal luogo in cui è stata nascosta. Ma non è così, il cranio appartiene ad un uomo. Il mistero continua…

Rosella Reali



Bibliografia

http://www.lastoriasiamonoi.rai.it/puntate/la-decapitata-del-lago 

Enzo Rava, Gli inesplicabili delitti del lago, in Roma in cronaca nera, Manifestolibri, 2005 

http://www.museocriminologico.it/index.php/2-non-categorizzato/118-omicidi-caso-antonietta-longo 

Nunzia Scalzo, Il mistero della decapitata Antonietta, un delitto senza castigo, La Repubblica.it, 12/10/2013

ROSELLA REALI
Sono nata nel marzo del 1971 a Domodossola, attualmente provincia del VCO. Mi piace viaggiare, adoro la natura e gli animali. L'Ossola è il solo posto che posso chiamare casa. Mi piace cucinare e leggere gialli. Solo solare, sorrido sempre e guardo il mondo con gli occhi curiosi tipici dei bambini. Adoro i vecchi film anni '50 e la bicicletta è parte di me, non me ne separo mai. Da grande aprirò un agriturismo dove coltiverò l'orto e alleverò animali. 
Chi mi aiuterà? Ovviamente gli altri viaggiatori.
Questa avventura con i viaggiatori ignoranti? Un viaggio che spero non finisca mai...


Il più grande sacrificio umano della storia

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I Chimú erano gli abitanti del Regno di Chimon, noto anche come Chimor, che aveva come capitale Chan Chan, città adagiata all'interno della Valle Moche in Perù. Chan Chan non era una città per come la possiamo intendere oggi: era un insieme di dieci cittadelle dedicate ad altrettanti sovrani della dinastia. Il Regno di Chimon aveva avuto origine dai resti della civiltà Moche. La certezza di questa affermazione giunse alla fine delle analisi degli archeologici. Gli studi sui resti di questa civiltà riscontrarono che le ceramiche Chimú richiamavano quelle dei Moche. 
Le pratiche religiose erano basate sull'antico culto della Luna, divinità che controllava i fenomeni atmosferici. Durante le cerimonie venivano offerti grandi quantitativi di frutta sino a quando iniziò a prosperare l'usanza del sacrificio di animali o di esseri umani. Il Regno di Chimon fu conquistato dall'impero Inca circa 50 anni prima dell'arrivo dei conquistadores. Gli spagnoli saccheggiarono molte tombe dei regnanti Chimú, giungendo a fondere gli oggetti rinvenuti. Questo è il principale motivo per cui sono giunti sino a noi pochissimi reperti, oggi esposti al Museo de Oro di Lima, di questa antica civiltà.
La fascinazione delle antiche civiltà precolombiane trova maggiore slancio dalla notizia che, recentemente, sono stati trovati resti del più grande sacrificio di massa compiuto nelle Americhe, e forse dell'intera storia del mondo. Il rinvenimento è avvenuto sulla costa settentrionale del Perù. Le ricerche svolte da un gruppo internazionale di studiosi sono tuttora in corso, per cui non sono escluse ulteriori sorprese nei prossimi mesi. Il sito del sacrifico è situato su un basso promontorio a diverse centinaia di metri dall'oceano, nella zona settentrionale del Perù.
Prima di proseguire nella narrazione della recente scoperta, vorrei introdurre alcuni concetti che potrebbero aiutare a collocare questi eventi nella storia dell'uomo. Il sacrificio umano rappresenta il momento più cruento della religiosità dell'uomo, accompagnandone il cammino nel corso della storia. L'omicidio di un essere umano rappresentava un'offerta alla divinità, come parte di un rito molto più complesso. Nelle culture antiche il sacrificio di un essere umano aveva un doppio scopo: da una parte propiziare i favori di un dio e dall'altra di placare le ire della divinità. In entrambi i casi il favore era rivolto alle popolazioni che quell'omicidio perpetravano. Con il trascorrere del tempo il ricorso a queste pratiche diminuì sensibilmente all'interno del continente europeo, rimanendo, e forse trovando ulteriore slancio, in vigore sino alle soglie della colonizzazione da parte degli abitanti del vecchio continente in quelle regioni ove il sacrificio assumeva una ritualità precisa. Nell'ultimo periodo storico, grazie ai ritrovamenti archeologici dei bimbi sacrificati sulle Ande dall'impero Inca, si possono confermare le scritture dei primi evangelizzatori cristiani, che si spinsero sino a questi estremi lembi dell'America meridionale, che diedero diffusamente notizia di questa pratica. 
Una rilevante scoperta, forse la più importante prima di quella attuale sulla civiltà Chimú, avvenne nel 1999 quando furono rinvenute tre mummie in prossimità della cima del vulcano Llullaillaco, in Argentina. I corpi ritrovati erano di bambini di età compresa tra i 6 ed i 13 anni. Il sacrificio avvenne circa 500 anni fa. Il sacrificio umano presso questa popolazione assumeva il nome di Capacocha e prevedeva, spesso ma non sempre, l'utilizzo di bambini. Tra i corpi rinvenuti dalla spedizione archeologica del 1999 vi era una ragazza di 13 anni, la Doncella de Llullaillaco, che probabilmente era il soggetto più importante della cerimonia, nonché il più consapevole di quello che stava avvenendo. I due bambini furono chiamati il ragazzo di Llullaillaco e la ragazza fulmine, poiché il suo corpo fu danneggiato da un fulmine.
Il secondo ed ultimo concetto che introduco attiene al relativismo culturale. Utilizzo la definizione dell'Enciclopedia Treccani per chiarezza: il relativismo culturale è una modalità di confronto con la variabilità e la molteplicità dei costumi, culture, lingue e società. Di fronte a tale molteplicità l'atteggiamento relativistico è incline a riconoscerne le ragioni, ad affermare non solo l'esistenza, ma anche l'incidenza e la significatività. In altre parole i concetti di giusto e sbagliato possono essere specifici per ogni cultura o civiltà.
Il sacrificio di massa della civiltà Chimú, da poco scoperto, avvenne su un promontorio situato non lontano dall'oceano. La civiltà Chimú all'apice del suo progredire dominava su un territorio che si espandeva per quasi 1000 km lungo la costa del Pacifico, dall'attuale Lima all'odierno confine con l'Ecuador. Solo l'impero Inca dominava su un territorio più vasto. Intorno al 1475 gli Inca posero fine alla civiltà Chimú grazie alla loro potenza.
Huanchaquito-Las Llamas, il nome del sito del rinvenimento archeologico, era divenuto famoso nel 2011 quando, durante gli scavi, furono trovati i resti di 76 lama e 42 bambini. Alla fine dei lavori, nel 2016, il numero dei bimbi è salito a 140 e quello dei lama a 200. Le ossa degli animali e quelle dei bimbi mostrano segni di taglio allo sterno e un distacco delle costole. Queste rilevanze hanno condotto gli studiosi a credere che il torace venisse tagliato per rimuovere il cuore. I bambini sacrificati avevano un'età compresa tra i 5 ed i 14 anni. La maggior parte di loro aveva un'età compresa tra gli 8 ed i 12 anni. La maggior parte dei bimbi avevano lo sguardo rivolto verso l'oceano, ad occidente, mentre i lama, tutti compresi entro i 18 mesi di vita, erano interrati e rivolti ad oriente, verso le Ande. Il numero impressionante di bambini ha portato gli studiosi a dichiarare che si tratta del più grande sacrificio umano della storia, che supera nettamente quello avvenuto presso il Templo Mayor della capitale azteca Tenochtitlan. La documentazione di quel sacrificio attesta a 42 il numero delle vittime sacrificali.
Il sacrificio di massa avvenne prima dell'avvento dei conquistadores, per cui non esistono documentazioni scritte dei fatti, ed essendo un evento mai riscontrato prima dagli archeologi ha sollevato la domanda: cosa spinse la civiltà Chimú a compiere questo terribile rituale?
I ricercatori presumono che la civiltà Chimú si imbatté in un evento alluvionale, di dimensioni eccezionali, legato alle piogge che colpiscono quest'area dell'America meridionale in occasione del fenomeno di riscaldamento delle acque dell'oceano. Tale fenomeno è conosciuto con il nome di El Nino. L'alluvione, probabilmente, causò danni irreparabili al sistema di irrigazione utilizzato dalla civiltà Chimú. Haagen Klaus, professore di antropologia alla George Mason University, sostiene che la devastazione provocata da El Nino fu tale da indurre i Chimú a ritenere insufficiente il sacrificio di adulti per placare l'ira della divinità e che decisero di offrire qualcosa di ancora più prezioso: i propri bambini.

Fabio Casalini

Bibliografia
Reinhard Johan, A 6700 metros ninos incas sacrificados quedaron congelados en el tiempo, National Geograpich, Novembre 1999

Zapponi Sara, Dalle mummie degli Inca i segreti dei sacrifici della Capacocha, Focus agosto 2013

Handwerk Brian, I segreti dei bambini inca sacrificati sulle Ande, National Geograpich Luglio 2013

Andrushko, Valerie A.; Buzon, Michele R.; Gibaja, Arminda M.; McEwan, Gordon F.; Simonetti, Antonio; Creaser, Robert A. (February 2011). "Investigating a child sacrifice event from the Inca heartland". Journal of Archaeological Science

Reinhard, Johan; Ceruti, Constanza (June 2005). "Sacred Mountains, Ceremonial Sites, and Human Sacrifice Among the Incas". Archaeoastronomy

Romey Kristin, In Perù i resti di 140 bambini nel più grande sacrificio di massa, National Geograpich 2018
FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.

Acoma Pueblo, la città del cielo

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Gennaio 1998, in una notte senza luna mentre la comunità ispanica di Alcalde nel New Mexico celebra il 400° anniversario del primo insediamento spagnolo nell'ovest americano, un gruppo di indiani Pueblo - Acoma si avvicina furtivamente alla statua di bronzo del primo conquistador, Don Juan de Onate, segandogli il piede destro, stivale staffa e sperone compresi. Al gesto vandalico segue una pubblica dichiarazione dei responsabili ai notiziari locali, perché tutti finalmente conoscano quale infamia gli antichi abitanti della “città del cielo” subirono dal governatore spagnolo nel 1598. Gesti analoghi proseguono negli anni, l’ultimo dei quali l’8 settembre 2017 sulla medesima statua, il cui piede è stato cosparso di vernice rossa indelebile. Perché? 

Juan de Oñatey Salazar nacque nel 1550 a Zacatecas, frontiera settentrionale del Messico spagnolo. Figlio di un ricco encomendero proprietario di diverse miniere d’argento, si distinse in gioventù nelle campagne militari contro le popolazioni Chichimec del nord, incoraggiato dal padre a reclutare schiavi indigeni per le numerose miniere di prezioso metallo che il deserto nordamericano offriva, nonché spronato a cercare gloria e potere dalla splendida sposa Isabel de Tolosa Cortés de Moctezuma, nipote del potente conquistador Hernan Cortes e diretta discendente dell’imperatore azteco Montezuma II. L’occasione arrivò il 21 settembre 1595, allorquando Filippo II d’Asburgo, re di Spagna Portogallo e Algarve, di Sicilia e di Sardegna, gli ordinò d’insediarsi come governatore e capitano generale nei selvaggi territori a nord dell’alta valle del Rio Grande, dopo aver ricevuto notizie dai frati francescani circa il loro crescente lavoro missionario nella zona. A quell’epoca infatti la politica di spietata colonizzazione che la Spagna sosteneva nel Nuovo Mondo mostrava il duplice aspetto della “spada” e della “croce”. Il potere temporale del Vicerè cavalcava dai domini messicani verso nord attraversando il “camino real”, deciso – secondo uno schema ormai collaudato da cento anni di invasione – a piegare senza pietà le popolazioni native al giogo europeo, per poi organizzare, amministrare e difendere le nuove colonie con l’aiuto (e spesso l’ingerenza) del potere religioso, incarnato dal commissario apostolico di Santa Romana Chiesa il quale, attraverso le comunità di frati che accompagnavano e talvolta precedevano le truppe,mirava a convertire, battezzare e cacciare il maligno dalle anime perdute dei miti e stanziali indiani Pueblo, estendendo se possibile la buona novella anche ai bellicosi nomadi di confine: Querècho dell’est, Apache Jicarilla del nord e Navajo dell’ovest.Per Don Juan de Onate il compito si presentava tutt’altro che scontato, fino a quel momento infatti la “tierra nueva” del nord risultava di difficile conquista, ogni metro di terreno insediato costava immani sacrifici, inesorabili e ripetute delusioni per i conquistatori con l’armatura e con il saio: avventurieri in armi annientati, tentativi di evangelizzazione e di colonizzazione abortiti, sogni di ricchezza svaniti. Un bilancio triste e desolante per la superbia spagnola che, dopo essersi appropriata di altri eldoradi, ora si trovava prostrata. Da parte indiana il quadro era ancora più tetro: torturati dal fuoco, dalla spada e dall’archibugio, storpiati ed amputati dagli aguzzini, centinaia di morti, schiavi di ogni età e sesso, villaggi incendiati, un’economia di sussistenza devastata, un intero sviluppo culturale bloccato e una popolazione esasperata.
Don Juan, nel maggio 1598, alla testa di 130 soldati barbuti ed armati, seguiti da preti, famiglie e servi che facevano salire il numero a 400 persone, raggiunse il Rio Grande incontrando i primi villaggi Pueblo. La popolazione nativa doveva essere spaventatissima, non solo per le barbe e per le armature dei cavalieri, ma anche e soprattutto per gli oltre 150 cavalli (animale fino ad allora sconosciuto) uniti ai 62 carri che si muovevano pesantemente tirati da buoi, con al seguito greggi di 7.000 animali domestici tra cui 3.000 pecore da lana, 1.000 montoni e 1.000 capre. La colonia che stava per nascere come provincia della “Nueva Espana de Santa Fe de Nuevo México” stabilì la propria sede nel luglio dello stesso anno fondando il suo primo avamposto, la Villa de San Gabriel (25 miglia a nord del sito dove a breve sarebbe sorta anche la città di Santa Fe) estendendo così il “camino real” di oltre 600 miglia in terre sconosciute. In attesa del lento arrivo della carovana dei coloni, Oñate esplorò l'area circostante e solidificò la sua posizione. Alcuni esploratori si mossero a est, spostandosi oltre il pueblo di Pecos verso l'attuale confine con il Texas; probabilmente raggiunsero le sorgenti del Canadian River, 25 miglia a nordovest dell'attuale città di Amarillo. Un altro gruppo di spagnoli arrivò persino alle montagne San Francisco, in Arizona, dove trovarono miniere d'argento che rivendicarono immediatamente come proprietà del regno di Spagna. Anche i francescani, guidati dal frate commissario Alonso Martínez, si diedero da fare iniziando a reclutare le anime indigene per costruire due missioni a San Francisco (Arizona) e San Juan. Oñate invece, nel percorrere con alcune guide le aride terre ad ovest si imbatté inizialmente in alcuni villaggi Hopi e Zuni, fino a scoprire il magnifico pueblo Acoma: “la città del cielo”. Il pueblo degli indiani Acoma (il cui nome nell’idioma nativo significa popolo della roccia bianca) costruito tra il 1.100 ed il 1.250 d.c. in posizione strategica sulla cima di una mesa di pietra arenaria per difendersi dai predoni nomadi Apache e Navajo, era accessibile solamente tramite una ripida e stretta scalinata scolpita nella roccia. A don Juan de Onate doveva essere subito sembrato il luogo perfetto, inaccessibile e nello stesso tempo in grado di dominare la fertile valle sottostante, coltivata e sapientemente irrigata dagli indigeni. Per secoli il popolo Acoma vi aveva svolto anche commerci, non solo con i pueblos vicini, ma addirittura con le lontane popolazioni Azteche e Maya. In realtà la città del cielo era già stata avvistata dal conquistador Francisco Vasquez de Coronado 60 anni prima, ma questi all’epoca aveva solamente compiti esplorativi a quelle latitudini e, pertanto, preferì mantenere pacifici contatti con i locali per il tempo strettamente necessario alla propria permanenza.
Questa volta invece la situazione era ben diversa, don Juan era stato autorizzato dalla corona a colonizzare quella sconfinata terra, ad accettare la sottomissione degli indiani e a fare in modo che, per il bene delle loro anime, essi rendessero omaggio al re di Spagna ed al Dio cristiano. La maggior parte dei pueblo capitolò quasi subito ai nuovi venuti ma i circa 6.000 indiani Acoma, i fieri abitanti della città del cielo, invece, non lo fecero. Il loro capo Zutacapan infatti si sentiva in posizione vantaggiosa, sospettava che gli spagnoli non si sarebbero accontentati di propagandare le loro verità,temendo che il vero intento fosse piuttosto quello di conquistare la roccaforte per farne un’importante base strategica. Tuttavia il capo indiano evitò di irrigidire troppo le proprie posizioni, accettando di negoziare una soluzione pacifica che avrebbe accontentato entrambe le parti. Il 4 dicembre 1598, il neo-governatore coloniale de Onate, più deciso a saggiare le capacità difensive degli indigeni piuttosto che a trattarne i buoni rapporti di vicinato, inviò alla città del cielo il nipote capitano Juan de Zaldivar, alla testa di un drappello di 11 soldati, con l’ordine di trattare i contatti tra i due gruppi. I conquistadores vennero accolti inizialmente in modo amichevole ed ospitale, rifocillati con acqua, mais e tacchini, tanto che Zaldivar mandò un esploratore a controllare un vicino lago salato descritto dagli indiani Zuni, nonché alcuni giacimenti d’argento che erano stati segnalati in zona da alcuni pastori Hopi. Non è chiaro cosa sia successo ad un certo punto: alcune fonti indiane sostengono che il capitano spagnolo decise di requisire buona parte del grano depositato nei magazzini, necessario alla guarnigione spagnola appena giunta ma indispensabile anche per la sopravvivenza della tribù durante l'inverno; altre riferiscono che, nel corso dei prolungati colloqui tra Zaldivar e Zutacapan, un soldato si sia spinto addirittura a violentare una giovane indiana. Fatto sta che le due fazioni divennero improvvisamente ostili generando una furiosa e incontrollata reazione dei padroni di casa: gli Acoma quel giorno attaccarono i soldati uccidendoli tutti, compreso il nipote del governatore. La risposta di Onate non si fece attendere: il 21 gennaio 1599 il fratello del capitano trucidato, Vicente de Zaldivar, al comando di 70 cavalieri bene armati ed equipaggiati, raggiunse i piedi della mesa ove sorgeva la roccaforte, bloccandone ogni via di fuga.
Gli Acoma resistettero all’assedio per tre giorni, ma nulla poterono pietre, frecce e lance quando l’ufficiale spagnolo ordinò di sparare sul villaggio con un cannone posizionato su uno spuntone roccioso adiacente la mesa. Il massacro era iniziatoe sarebbe continuato per ore. I conquistadores, dopo aver incendiato e distrutto il pueblo a cannonate, fecero irruzione e passarono a fil di spada, tra le pietre diroccate della “città del cielo”, oltre 500 guerrieri e circa 300 tra donne e bambini. Il governatore era deciso a dare un esempio della potenza spagnola a tutte le popolazioni circostanti, per cui oltre 500 sopravvissuti furono deportati in catene fino al pueblo di Santo Domingo (ora noto come il pueblo di Kewa) per essere processati pubblicamente e costituire così un chiaro monito per chiunque avesse covato sentimenti di ribellione. A seguito di un preciso decreto di condanna ogni prigioniero Acoma maschio di età superiore ai 25 anni doveva subire l’amputazione del piede destro ed essere ridotto in schiavitù per un periodo di almeno 20 anni, i maschi e le femmine tra i 12 e i 25 anni dovevano essere resi schiavi anch’essi per 20 anni, mentre tutti i bambini sotto i 12 anni sarebbero stati strappati ai genitori e affidati ai missionari spagnoli per essere cresciuti nella vera fede. In realtà,nella considerazione che uno schiavo zoppo valeva meno di uno schiavo sano, pare che la condanna dell’amputazione venne applicata solo a 24 indiani, mentre la maggior parte dei prigionieri di ogni età e sesso, nei mesi successivi, fu venduta ai commercianti di schiavi oppure dispersa tra le varie dimore di funzionari governativi e nelle missioni dei francescani. Circa 60 giovani ragazze Acoma, dichiarate non colpevoli dei reati di resistenza armata, furono trasferite a Città del Messico per essere trattenute nei vari conventi cattolici. A due indiani Hopi catturati durante la battaglia furono dapprima tagliate le mani e poi, liberati, fu ordinato di recarsi in ogni villaggio della zona per testimoniare ciò che era capitato al popolo Acoma per essersi ribellato alla corona spagnola. Ma l’azione di forza non ebbe i risultati sperati, anzi, nonostante i rinforzi armati inviati dal Messico verso la fine dell’anno 1600, le difficoltà nella gestione della colonia si accentuarono perché, a fronte della temporanea sottomissione di alcune tribù stanziali di Pueblo, Zuni e Hopi, restavano incessanti e sanguinose le scorrerie degli indiani nomadi, in prevalenza Apache e Navajo, bellicosi e non propensi in alcun modo a sottomettersi. Tali precarie condizioni di vita, unite alle difficoltà nel mantenere un adeguato raccolto a causa dell’aridità della terra, spinsero le famiglie coloniche ad abbandonare in massa gli avamposti per tornare a sud. Anche i soldati disertavano numerosi diffondendo notizie sul fallimento della colonia del Nuevo Mexico, tanto che il governo avviò presto un'indagine su ciò che stava accadendo, compreso il trattamento riservato da Onate agli indiani Acoma. Nel 1606 il nuovo re di Spagna Filippo III convocò Oñate a Città del Messico, sollevandolo in via preliminare dall’incarico di governatore coloniale. Nel 1613 don Juan Onate fu processato e accusato di varie violazioni tra cui l'uso eccessivo della forza durante la ribellione Acoma, l'impiccagione di due indiani, l'esecuzione di ammutinati e disertori e infine fu anche ritenuto colpevole del reato di adulterio. Multato e bandito a vita dalle colonie, Oñate tornò in Spagna ove morì nel 1626.
Nel frattempo gli spagnoli, come “gesto di pace” finalizzato a normalizzare e cristianizzare gli indiani Acoma, ricostruirono la “città del cielo” (anzi la fecero ricostruire agli stessi nativi) insediandovi la missione di San Estéban del Rey, che comprendeva una chiesa, un convento e un cimitero. Sotto la guida di frate Juan Ramirez il pueblo fu completato nel 1640 con l’intento di costituirne il centro della riconciliazione tra popoli indigeni ed europei. In verità i continui abusi di potere da parte di autorità religiose e politiche portarono dopo diversi anni alla grande rivolta dei pueblo (1680) allorquando circa 17.000 mila indiani, inclusi 6.000 guerrieri, superando le ataviche inimicizie con i vicini Navajo si coalizzarono insorgendo contro i circa 3.000 coloni, attaccarono le fattorie massacrando in poco tempo intere famiglie di spagnoli. La città del cielo fu temporaneamente riconquistata dai rivoltosi e 22 dei 33 frati presenti furono bruciati vivi sul posto. La chiesa fu però risparmiata e ancora oggi rappresenta una delle poche missioni spagnole seicentesche rimaste intatte negli Stati Uniti. L’odio e la violenza nell’area però erano tutt’altro che terminati, la riconquista degli avamposti spagnoli era solo rimandata e gli scontri sarebbero proseguiti per molto tempo con le scorrerie dei temibili Navajo, i continui contrasti e divisioni tra Stato spagnolo e Chiesa cattolica, spesso antagonisti tra loro nell’accaparrarsi le “anime” dei nativi e gestirne i destini terreni. Gli scontri crebbero in misura ancora maggiore nel XIX secolo, con la fuga degli spagnoli ed il contestuale arrivo dei coloni anglosassoni, fino allo scontro finale con la nascente Nazione Americana. Il villaggio di Acoma resta oggi, insieme alla città Hopi di Oraibi, il più antico insediamento abitato degli Stati Uniti e la tribù indiana degli Acoma Pueblo, riconosciuta a livello federale, possiede un territorio che copre 431.664 acri e ospita 4.800 membri tribali. Meno di 50 famiglie occupano ancora le antiche rovine della “città del cielo”. Alcune di loro praticano l’antica religione. Alcune di loro non hanno dimenticato.
"Infine, se la causa della guerra è la pace universale, o la pace nel suo regno, egli [il principe cristiano] può giustamente dichiarare guerra e distruggere ogni ostacolo sulla via della pace fino a quando essa non viene effettivamente raggiunta".(dichiarazione difensiva di padre Alonso Martinez circa il massacro degli Acoma Pueblo). 

Sergio Amendolia

Approfondimenti




Bibliografia
BeatrizBraniff C. – La civiltà del deserto americano – Jaca Book; 

H.Teiwes / W.Lindig – Il mondo dei Navajo – Jaca Book; 

J.L.Rielipeyrout – Storia dei Navajo (1540-1996) – CDE; 

R.M.Underhill – I Navajo, popolo della terra – Mursia. 

Sitografia






SERGIO AMENDOLIA
Nato 55 anni fa a Genova, sposato con 2 figli, 2 gatti e un cane, ho sempre guardato con stupore l'orizzonte e tutto ciò che quella linea rappresenta e contiene, convinto che dove il cielo finisce si celano sempre spazi e tempi lontani, spesso inesplorati o conosciuti poco e male. Forse per questo mi attira l'impostazione di questo blog ed i veli della Storia che gli articolisti provano spesso a sollevare, perché conoscere è importante e aiuta a capire ciò che siamo e come lo siamo diventati. Oltre alla nostra bella Italia ed alla sua impareggiabile ricchezza di arte e storia, mi affascinano molto gli scenari mozzafiato dell'Ovest Americano. In questi ultimi anni ne ho percorsi alcuni, ancora una volta cercando di varcare orizzonti i cui contorni sfuggono in continuazione, dimensioni che ho provato a malapena ad intuire nei volti dei nativi che ancora oggi si incontrano nelle riserve: a volte duri, scolpiti e aridi come i monoliti di arenaria rossa, probabilmente gli unici in grado di metabolizzare la sensazione di infinito che pervade quelle terre lontane. Per questo mi piace, quando il tempo libero me lo permette, collaborare con riviste e pagine web, tentando di approfondire le vicende che hanno caratterizzato la storia di quei popoli d'oltreoceano, in particolare l'epopea del West, con un occhio particolare agli uomini e alle donne che la vissero davvero, fuori dai luoghi comuni e dai grandi miti costruiti da Hollywood.

I mangiacristiani e la Jena di San Giorgio

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17 marzo 1835, frazione di Sant'Anna nel comune di San Giorgio Canavese.
Un uomo, ritenuto colpevole di crimini orrendi, ascolta con indifferenza la sentenza del tribunale che lo condanna alla pena di morte.
Centinaia di persone si affollano lungo gli stretti vicoli del paese non lontano da Torino.
La folla preme, vuole assistere alla morte di quell'uomo che ha terrorizzato la zona per un tempo troppo lungo e che, purtroppo secondo gli astanti, è scampato al linciaggio di padri e mariti esasperati.
La corda attende, esposta al freddo vento delle Alpi.
L'uomo è pronto.
Un lampo di luce nel cielo nero, e fu la fine.
Chi era quell'uomo e quali orrendi crimini aveva commesso?
Quell'uomo si chiamava Giorgio Orsolano ed era nato a San Giorgio Canavese il 3 giugno del 1803. Non molto tempo dopo la madre rimase vedova e dovette inviare il piccolo Giorgio dal fratello, prete, per fargli ottenere quell'educazione ed istruzione che lei non era in grado di garantirgli. Purtroppo il ragazzo non era in grado di apprendere l'istruzione che, faticosamente, gli era impartita. Questa motivazione fu alla base della decisione del fratello della madre, il disperato prete, di rimandare Giorgio presso la casa natia. Ritornato dalla madre trascorreva le sue giornate tra osterie e vino. All'età di 20 anni, nel 1823, iniziò a commettere i primi reati, gravi. Il primo furto avvenne presso una Confraternita, quella di Santa Maria. Giorgio Orsolano rubò 10 candele. Poco tempo dopo si presentò presso la chiesa parrocchiale del paese, dedicata a Santa Maria Assunta. Uscì dall'edificio sacro con alcuni oggetti, che riteneva di valore. Il suo essere criminale esplose, dirompente, alcune settimane dopo quando rapì una ragazza sedicenne del paese, Teresa Pignocco, imprigionandola presso la propria abitazione per quasi una settimana. In quel lasso di tempo tentò di stuprare la giovane. Il 15 dicembre dello stesso anno Giorgio Orsolano fu condannato alla catena per un anno, per il tentativo di stupro, ed a sette anni per gli altri capi di imputazione.
Il 13 dicembre del 1831, otto anni dopo i primi crimini, Giorgio Orsolano uscì dal carcere. L'anno successivo andò a vivere con una ragazza di 24 anni, Domenica Nigra, già vedova. Nel 1833, il 7 luglio, nasce Margherita, la figlia di Giorgio Orsolano e Domenica. Nell'aprile dell'anno seguente, il 1834, i due si sposarono. Il tentativo di apparire normale trovò una giusta conclusione nell'apertura di una bottega di intagliatore e salsicciaio, che però mai diede i guadagni sperati.
Nel frattempo il Canavese fu scosso da inquietanti fatti.
Il primo evento accadde il 24 giugno del 1832, poco dopo l'unione sentimentale tra Giorgio Orsolano e Domenica Nigra. Quel giorno scomparve una bimba di 9 anni, Caterina Givogre, di cui non si seppe più nulla.
Il secondo tragico avvenimento si verificò nel mese di febbraio del 1833, quando una bimba di 10 anni, Caterina Scavarda, non fece ritorno a casa. Anche di questa Caterina non si seppe più nulla.
La popolazione, e forse anche le istituzioni, per comodità e tranquillità incolpò un branco di lupi, che allora si aggiravano numerosi nel Canavese. Non era la prima volta, e non sarà l'ultima, che il lupo diviene colpevole di delitti contro l'uomo. Probabilmente nel 1833 non si erano ancora spenti gli echi della presenza del porcocane, una bestia enorme in parte lupo ed in parte maiale o cinghiale, nelle pianure milanesi. Un giornale circostanziato di quanto fece la bestia feroce in Lombardia nell'anno 1792 ricorda che: "In questo momento giunge alla notizia della Conferenza Governativa, che la Campagna di questo Ducato trovasi infestata da una feroce Bestia di color cenericcio moscato quasi in nero, della grandezza di un grosso cane, e dalla quale furono già sbranati due fanciulli. Premurosa la medesima Conferenza di dare tutti li più solleciti provvedimenti, che servir possano a liberare la provincia dalla detta infestazione, ha disposto che debba essere subito combinata una generale Caccia con tutti gli Uomini d' armi delle Comunità, col satellizio di tutte le Curie, e colle guardie di Finanza".
Risalendo il corso della storia non è difficile trovare molti altri casi di bambini, donne ed anziani scomparsi improvvisamente a causa della presenza di un branco di lupi, o di una bestia solitaria.
Era assolutamente plausibile che fossero loro.
La popolazione trovò sollievo.
Tutto mutò rapidamente la primavera del 1835.
il 3 marzo di quell'anno Giorgio Orsolano si recò presso il locale mercato per effettuare degli acquisti. Acquistò un considerevole numero di uova da una ragazza di 14 anni, Francesca Tonso. Dopo l'acquisto invitò la giovane a seguirlo a casa dove teneva i soldi per pagare le uova.
Appena la ragazza varcò il portone fu agguantata dall'uomo divenuto belva. La stuprò e la uccise.
Fece a pezzi il cadavere con una mannaia.
Chiuse i resti della povera ragazza in un sacco di iuta.
Giunto nei pressi di un torrente, levò il corpo della giovane dal sacco e lo seppellì lungo la riva. Lavò sé stesso ed il sacco pensando di aver coperto ogni traccia dell'orribile delitto.
La belva, sanguinaria ma sprovveduta, si dimenticò del paio di zoccoli che Francesca indossava al momento del rapimento.
L'assenza della ragazza non passò inosservata ai familiari. La sera stessa iniziarono le ricerche. Alcuni testimoni oculari presenti al mercato abbozzarono un disegno dell'uomo che acquistò le uova da Francesca. Tra di loro anche la zia della ragazza.
L'uomo del disegno somigliava al salsicciaio Giorgio Orsolano.
I genitori di Francesca si recarono presso la sua abitazione per avere informazioni.
Il salsicciaio, divenuto bestia sanguinaria, reagì in modo brusco e cacciò i parenti della vittima. Le forze dell'ordine non poterono intervenire poiché non esisteva nessun collegamento tra la vittima ed il presunto omicida. Nelle ore successive qualcuno scoprì nel giardino di Giorgio Orsolano degli zoccoli ed alcuni brandelli di tessuto. I genitori della vittima riconobbero questi oggetti come appartenenti all'abbigliamento della figlia.
Le forze dell'ordine riuscirono a catturare l'omicida poco prima che si dileguasse tra le montagne e la pianura. Fu condotto al castello di Ivrea. Il breve viaggio risultò molto complesso poiché gli abitanti di San Giorgio Canavese cercarono di linciare il salsicciaio.
Durante la detenzione negò ripetutamente di essere il colpevole degli orrendi delitti di San Giorgio. Una notte fu fatto ubriacare e confessò tutto. Inoltre un ufficiale gli aveva assicurato che se avesse confessato, e si fosse dichiarato pazzo, sarebbe stato assolto dalla pena capitale.
Gli furono attribuiti anche i delitti delle bimbe scomparse nel 1832 e nel 1833. Dopo la lettura della sentenza, secondo un anonimo avvocato presente alla lettura della stessa, Giorgio Orsolano confessò di aver mangiato la carne delle ragazze e di averne fatto prosciutto che aveva rivenduto al pubblico. Aggiunse che avrebbe fatto la stessa cosa con la terza se non fosse stato scoperto.
Interessante notare, secondo una cronaca del tempo, la delusione del pubblico nel trovarsi di fronte un uomo minuto: “restarono tutti delusi e si lamentarono di aver pagato per poi accorgersi che era un uomo come gli altri; era piccolo di statura, la pelle del viso bianco e rosa, peli castagni, ciò che lo deformava un poco era la mancanza di un occhio che cercava di nascondere con un brano di capelli; del resto era di cortesi maniere, civile, grazioso e rispettoso”.
Ieri come oggi è complesso apprendere che il mostro ha le nostre sembianze.
Che la bestia feroce è uguale a noi.
Sull'atmosfera del giorno dell'impiccagione sarà in seguito ricordato che “l’esecuzionedelle sentenze vede accorrere al piccolo paese di campagna più di diecimila persone che i racconti di allora ricordano come una catastrofe per i terreni circostanti e per l’impossibilità di trovare un carretto a noleggio nella città di Torino: tutti volevano assistere all’impiccagione. Il trattato illuminista di Cesare Beccaria (1738-1794) sulla pena di morte non era ancora un modello rieducativo e il principio di redimere un condannato era ancora ben lontano dall’essere radicato nei principi di una costituzione. È vero, una condanna a morte non riporta in vita le vittime, non è un deterrente per reati analoghi, e non costituisce una garanzia di non reiterazione del reato più di quanto potrebbe fare una detenzione efficace, ma sicuramente dona equilibrio a quelle coscienze che sono rimaste sconvolte dalla brutalità di episodi analoghi a questi, e a coloro che sono riusciti a riconoscersi prede pur non essendo vittime.”
Il giorno della sentenza, L'università di Torino inviò tre chirurghi per dissecare il cadavere. I tre esperti prelevarono il capo ed i testicoli, che furono definiti dai medici “più voluminosi del solito”. Il cranio fu trasportato al Museo di Anatomia. Un calco della testa è tuttora conservato al Museo di anatomia Luigi Rolando di Torino.
Giorgio Orsolano divenne la Jena di San Giorgio e gli abitanti del paese del canavese, grazie ad una sorta di eredità leggendaria, divennero i mangiacristiani, soprannome dovuto al fatto che il loro compaesano, il salsicciaio che fece prosciutti con i resti delle bimbe stuprate, si autoaccusò d'essere un antropofago, un cannibale moderno. Il soprannome fu assegnato dagli abitanti di San Giusto Canavese a quelli di San Giorgio durante le cosiddette Lotte per l'indipendenza del Gerbo Grande, il futuro San Giusto, da San Giorgio.

Fabio Casalini

Bibliografia
Atti del processo, tribunale di Ivrea, sentenza del 15 dicembre 1823


Atti del processo, tribunale di Ivrea, sentenza del 13 marzo 1835


Andrea Accorsi e Massimo Centini, La sanguinosa storia dei serial killer, Newton Compton Editori, 2003

Maurizio Bonfiglio e Maddalena Strazio, La Jena di San Giorgio, la vera storia di Giorgio Orsolano. Un serial killer piemontese

    FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
    Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.

    Annarella sul fondo del pozzo

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    Vorrei girarmi, per vedere il cielo.
    Vorrei girarmi per gridare aiuto, sono qui.
    Ho freddo, è buio, l’acqua gelida mi ha tolto il respiro. Il mio futuro finisce oggi sul fondo di questo pozzo dove lui mi ha gettata come uno straccio vecchio, convinto che fossi morta. Invece no, ero viva, ferita ma viva e mi ha lasciata qui a morire annegata, sola, senza il conforto di mia mamma, senza una mano che stringesse la mia.
    Chi sono, da dove vengo, chi mi ha uccisa, i giornali parleranno di me per tanto tempo, perché sono solo una bambina di 13, piena di sogni spezzati, con un vissuto alle spalle, con l’angoscia del vivere quotidiano. Non ho avuto un’infanzia e ora non avrò una vita.
    È il 18 febbraio 1950. Fino ad oggi ho vissuto con mamma e i miei fratelli in via Lorenzo Litta, Lotto 25, scala L, nella borgata Primavalle, vicino a Roma, anche se qui sembra che la capitale sia distante migliaia di chilometri. Non è un quartiere facile per vivere, soprattutto per una ragazzina della mia età, ma ormai sono abituata. Le case sono brutte, misere, tristi.
    Con la mia famiglia facciamo quello che possiamo per arrivare al giorno dopo, per mettere insieme il pranzo con la cena. Papà un giorno se ne è andato, portando via i miei due fratellini più piccoli. Non mi ha voluta con sé, non lo so perché. Mi ha lasciata in quel posto condannandomi a vivere in miseria.
    Mamma, Marta Fiocchi, da quel giorno non è più la stessa. Fa venire in casa molti uomini sconosciuti, anche mentre noi siamo lì con lei. Ci dice di stare in cucina e di lasciarla fare quello che deve, poi va in camera da letto, quella che prima era sua e di papà, e chiude la porta a chiave. Da fuori la sento ridere, sospirare, a volte alzare la voce. Io mi occupo della casa, tengo pulito e in ordine, cucino per tutti e faccio le commissioni.
    Ogni tanto in piazza fanno delle feste con la musica, dove si balla e si può mangiare. Mi piace molto andarci, mi diverto a guardare le persone ballare, mi piace ascoltare le loro chiacchiere.
    È quasi ora di cena. Mamma mi chiede di uscire a comprare il carbone e l’olio. Non ho voglia di andare, è buio e fa molto freddo, ma devo farlo. Da quel momento sparisco.
    Mamma non mi vede rientrare. Non viene a cercarmi, ha altro a cui pensare. Avvisa i carabinieri. Ma anche loro non vengono a cercarmi. Qualcuno pensa che io sia scappata da quella casa, per non vedere più la mamma fare la prostituta, per non essere costretta a farmi “toccare” per pochi spiccioli da qualche cliente. Ma la gente di Primavalle non ci sta. Protesta, fa pressione sui giornali, sulle forze dell’ordine, per le persone della borgata non posso essermi allontanata spontaneamente, qualcosa mi deve essere successo.
    Così cominciano le ricerche, il 23 febbraio, 5 giorni dopo che sono scomparsa.
    Si organizzano squadre, per controllare tutta la zona, si procede con rastrellamenti casa per casa. Le persone interrogate sono moltissime, nessuno sa niente. Un barone facoltoso, toccato dalla mia vicenda, promette una ricompensa di 300.000 lire per chi mi avesse ritrovata. Nulla.
    Ma dove sono finita? Perché nessuno viene a guardare qui?
    Dopo qualche giorno di ricerca, mio fratello maggiore, Mariano, che ha una menomazione a una gamba e di cui io ho paura a causa dei modi un po’ irruenti che ha, ritrova le mie mutandine in un campo. Le porta alla polizia. Questo dettaglio fa spostare le squadre di perlustrazione.
    Una svolta alle indagini viene data da una dichiarazione di mio nonno, che dice alla polizia di avermi sognata in fondo a un pozzo. L’attenzione e i sospetti si concentrano proprio sulla mia famiglia.
    I giorni passano. La sera del 3 marzo un volto compare dalla cima del pozzo. Mi vede.
    Grida: “C’è qualcosa qui.”
    Mi hanno trovata, in aperta campagna, tra via La Nebbia e via della Pineta Sacchetti.
    Sono morta da giorni. Sono in fondo al pozzo dove quell’uomo mi ha gettata, ancora viva. Sono lì a 13 metri di profondità, al freddo, con la testa fracassata da un colpo forte, senza mutandine, senza sottoveste. Ho ferite e graffi in tutto il corpo. Ha tentato di abusare di me, di prendermi con la forza. Mi sono difesa, ho cercato di portare a casa la sola cosa che possiedo, anzi possedevo: la vita.
    Poco lontano da lì ritrovano quello che ho comprato, i miei vestiti e la mia borsetta.
    Nonno incassa la ricompensa. I sospetti verso di lui crescono, ma anche quelli verso la mamma, che non mi ha mai cercata, che non ha mai dato segni di tristezza o preoccupazione. Lo so che è ancora arrabbiata con me, per quello che ho detto contro di lei in seguito alla denuncia di adulterio fatta da papà. Ho raccontato tutto degli uomini e di quel suo amico, il Moroni, sposato con una nostra vicina, ma che viene spesso a farle visita. Che sia una coincidenza che la testimonianza da me rilasciata contro mi madre risalga a tre giorni prima della mia sparizione? I sospetti si concentrano sull’amico di mamma, tutti credono che sia stato lui a farmi del male, a buttarmi nel pozzo. Ma il Moroni ha un alibi.
    Le indagini non portano a nulla. Dopo una settimana dal mio ritrovamento, spunta un altro nome, un certo Lionello Egidi, detto il Biondino di Primavalle, per il colore dei suoi capelli. È un uomo semplice, di umili origini, fa il bracciante. I sospetti cadono su di lui perché mamma gli ha affittato lo scantinato di casa nostra e poi su di lui pendono delle denunce di molestie ad altre ragazzine della mia età.
    Lo arrestano. La moglie che vive con lui, lo difende. Resta 7 giorni in cella, dove probabilmente subisce un trattamento brutale durante gli interrogatori. Non può mangiare, bere o dormire. Prende anche delle botte, molte. Alla fine dei sette gironi confessa: «Sì, ho ucciso io Anna Maria Bracci». Ha il volto tumefatto.
    Racconta che mi ha incontrata la sera del 18 febbraio, poco dopo essere uscita di casa, mentre stavo andando a comprare il carbone e l’olio. Mi segue. Al rientro mi avvicina, cerca di prendermi con la forza, mi strappa la sottoveste, poi le mutandine, ma io lo respingo, lotto con tutte le mie forze. Scappo, mi cadono le cose che ho in mano, la borsetta. Allora mi colpisce alla testa con un bastone, accecato dalla rabbia per quel rifiuto.
    La polizia è soddisfatta di quell’arresto. Primavalle no. Tutta la gente del quartiere vuole trovare il vero colpevole, non crede nella confessione del Biondino.
    Egidi ritratta. Al processo in primo grado, nel 1952, viene prosciolto per insufficienza di prove.
    Nel 1955 si apre il processo di appello, durante il quale un’altra ragazzina come me denuncia Egidi per molestie, che sarebbero avvenute durante una festa campestre. La condanna questa volta arriva, 26 anni di carcere, sia per il mio omicidio, che per tre casi accertati di molestie sessuali.
    Giustizia sembra fatta, ma ancora la gente di Primavalle non crede alla sua colpevolezza. Cercano ancora il mostro che mi ha aggredita, che mi ha rubato la vita. Nel 1957, in ultimo grado, il Biondino di Primavalle viene prosciolto da ogni accusa.
    Nel 1961 Lionello Egidi torna in carcere, questa volta per 8 anni. Primavalle si spacca fra innocentisti e colpevolisti. A portarlo in prigione sono le molestie sessuali ai danni di un bambino di 8 anni. Il Biondino sconta la sua pena, ma si professa sempre innocente. Morirà in miseria.
    Il mio caso resta irrisolto.
    Dal fondo di quel pozzo ho cercato di uscire, di sopravvivere, di tornare alla mia misera vita. Volevo avere una vita. Volevo provare ad andare via da Primavalle. Avevo tanti sogni che resteranno per sempre solo i sogni di una ragazzina di 13 anni uccisa brutalmente da uno sconosciuto.

    Rosella Reali

    Bibliografia
    Curzio Malaparte, Gli assassini siamo noi, "Il Tempo", 7 marzo 1950 

    Pietro Ingrao, È vero, gli assassini siete voi!, "L'Unità", 8 marzo 1950 

    Anonimo, I funerali di Annarella Bracci, “L'Osservatore Romano”, 10 marzo 1950 

    Annarella del pozzo fa piangere Roma, “Europeo”, 12 marzo 1950 (Copertina+articolo) 

    Pier Giorgio Liverani, Cose da dimenticare. 365 giorni di nera, “Il Quotidiano”, 31 dicembre 1950 [Cfr. testo in Bibliografia II] 

    Luchino Visconti, Appunti su un fatto di cronaca, 1951 (commento di Vasco Pratolini. Su tale opera Lino Micciché, Studio su 12 sguardi d'autore in cortometraggio, Lindau, 1995) 

    Giuseppe Bucciante, Processo Egidi: arringa di parte civile per Annarella Bracci, Cacucci, 1952 

    Lionello Egidi rimesso in libertà, “La Settimana INCOM”, nr. 710, 26 gennaio 1952 

    Ezio Taddei, Sia fatta giustizia: il processo Egidi davanti al popolo, Roma 1952 

    Enzo Rava, Il biondino di Primavalle, in Id., Roma in cronaca nera, Newton & Compton, 1987, 2004² 

    "L'Europeo"”, giugno 2001 

    Marco Cicala, Quei peccati di Roma, capitale dei delitti all'ombra del potere, “Il Venerdì di Repubblica”, 3 febbraio 2006 

    Roberto Morassut, Il pozzo delle nebbie, Ponte Sisto, 2014 

    ROSELLA REALI
    Sono nata nel marzo del 1971 a Domodossola, attualmente provincia del VCO. Mi piace viaggiare, adoro la natura e gli animali. L'Ossola è il solo posto che posso chiamare casa. Mi piace cucinare e leggere gialli. Solo solare, sorrido sempre e guardo il mondo con gli occhi curiosi tipici dei bambini. Adoro i vecchi film anni '50 e la bicicletta è parte di me, non me ne separo mai. Da grande aprirò un agriturismo dove coltiverò l'orto e alleverò animali. 
    Chi mi aiuterà? Ovviamente gli altri viaggiatori.
    Questa avventura con i viaggiatori ignoranti? Un viaggio che spero non finisca mai...

    Lago dell'alpe Cavalli, dove l'acqua è color smeraldo

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    La Valle Antrona è una delle valli che diramano dalla Val d’Ossola, in provincia di Verbania. 
    È attraversata interamente dal torrente Ovesca, emissario del lago di Antrona, che confonde le sue acque con quelle della Toce a Villadossola, poco prima della più nota Domodossola. 
    È una valle poco abitata, con una bassa densità di popolazione. Il suo territorio è interamente montuoso. Si sviluppa nelle Alpi Pennine con la Catena dell’Andolla, che con i suoi 3.656 metri costituisce una meta interessante per numerosi escursionisti esperti.
    Una risorsa molto importante in Valle Antrona è costituita dall’acqua. Numerosi sono i torrenti e i lagni che decorano questa parte delle Alpi. Fra i laghi digati ricordiamo quello di Antrona, formatosi in modo naturale in seguito ad una frana nel 1642, quello di Campliccioli, il lago di Cingino, e quello di Camposecco. Fra i bacini naturali una menzione particolare per la loro bellezza meritano i laghi di Trivera, raggiungibili dopo una camminata impegnativa. 
    Vorrei dedicare uno spazio particolare ad un altro lago digato della zona, il lago di Cheggio o lago dell’alpe Cavalli. Una volta che si è percorsa la statale che si dipana come un serpente lungo la valle, si arriva al comune di Antrona Schieranco, costituito nel 1928 dalla fusione di altri due centri, Antrona Piana e Schieranco. Storia e tradizione qui convivono da sempre, lasciando un piacevole ricordo a chi decide di venire a visitare questi luoghi. Anziché proseguire dritti verso il lago di Antrona, occorre svoltare a destra verso la chiesa di San Lorenzo e poi subito a sinistra seguendo le indicazioni che ci portano fino a Cheggio. Da qui in avanti la strada si stringe, percorrendo una valle laterale lussureggiante, dai toni di verde smeraldo che colpiscono gli occhi e il cuore. 
    La montagna nasconde in questo angolo di mondo numerosi alpeggi, frutto di accurate riqualificazioni soprattutto nell’ultimo ventennio. Fiori di tutti i tipi colorano i prati, numerose e variopinte sono le farfalle che si possono ammirare. Larici e pini si alternano lungo la salita, fino ad arrivare al grazioso e tranquillo abitato di Cheggio, le cui abitazioni in sasso e legno rappresentano una gradevole sorpresa per chi arriva per la prima volta. 
    In estate i prati circostanti sono popolati da numerose mucche di razza Pezzata Rossa. Da questi rigogliosi pascoli arriva l’ormai famoso formaggio denominato Cheggio, conosciuto anche all’estero grazie alla sua ottima qualità. 
    In inverno un piccolo impianto di risalita e una pista per bob, consentono agli amanti della neve di poter godere della tranquillità e della bellezza del paesaggio. In fondo all’abitato, si erge la diga Alpe Cavalli. 
    La struttura è stata edificata fra il 1922 e il 1926. È di tipo a gravità, in muratura di pietrame a secco, leggermente curvata. Nel punto più profondo delle fondazioni è alta 41 metri e larga 165. La sua capacità massima è di 8.600.000 mc. Il lago odierno è situato nella conca formata da un antico lago glaciale, che era delimitato in maniera naturale nella parte più a valle da un cordone morenico. A causa dell’erosione di questa barriera spontanea, il lago con il passare del tempo si è asciugato, lasciando il posto ad un pianoro in parte verdeggiante, in parte paludoso, attraversato dal torrente Loranco. In quel punto è stata costruita la diga. Il materiale utilizzato es stato ricavato dall’esplosione, a monte della barriera morenica, di una grossa mina, costituita da esplosivo e materiale proveniente da residuati bellici. A detta dei testimoni l’esplosione è stata “formidabile”. Le acque della diga alimentano la centrale di Rovesca, dopo aver percorso una galleria di derivazione lunga 3600 metri e una condotta forzata lunga 1600 metri. 
    Una volta lasciato alle spalle l’abitato di Cheggio possiamo incominciare la nostra passeggiata, percorrendo il muraglione fino in fondo e costeggiando il lago dalla parte sinistra. Il fresco del bosco accompagna il cammino di chi percorre questo sentiero, fra larici e rododendri, farfalle, gigli martagone, primule, mirtilli e pini. Il percorso è intervallato da cascate e ruscelli laterali che vanno ad alimentare il lago, donando frescura a chi in estate si avventura in questo giro. Giunti al lato opposto della diga, un fitto bosco di larici scende fino alla sponda del lago, creando un piacevole angolo con una spiaggetta che invita alla sosta. Passato il torrente Loranco si sale leggermente fino ad arrivare ad un promontorio che permette la vista completa dello specchio d’acqua, piacevole sia col bello che col cattivo tempo. Il giro del lago è completabile seguendo il sentiero, che diventa un po’ più impegnativo nell’ultimo tratto. Cielo e acqua giocano con riflessi unici, diversi a seconda delle ore del giorno. 
    La valle Antrona offre molto a chi vuole pace e tranquillità. La cosa che più mi colpisce in questi luoghi è come lo stesso cielo si rifletta in modo diverso a seconda del lago che guardiamo. Antrona, Campliccioli, Cheggio, ognuno ha un colore diverso, bagaglio prezioso del viaggiatore che qui si avventura.

    Rosella Reali

    Tutte le fotografie sono di proprietà dei componenti il team dei viaggiatori ignoranti.

    ROSELLA REALI
    Sono nata nel marzo del 1971 a Domodossola, attualmente provincia del VCO. Mi piace viaggiare, adoro la natura e gli animali. L'Ossola è il solo posto che posso chiamare casa. Mi piace cucinare e leggere gialli. Solo solare, sorrido sempre e guardo il mondo con gli occhi curiosi tipici dei bambini. Adoro i vecchi film anni '50 e la bicicletta è parte di me, non me ne separo mai. Da grande aprirò un agriturismo dove coltiverò l'orto e alleverò animali. 
    Chi mi aiuterà? Ovviamente gli altri viaggiatori.
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