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La battaglia di Crevola tra folk, fake ed esperimenti antropologici

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Folklore e fakelore sono due termini fondamentali della ricerca antropologica contemporanea. Il primo indica, in estrema sintesi, la "cultura tradizionale", il secondo quella "inventata", ma che vuole essere fatta passare come tradizionale. Il fakelore, termine americano creato nel 1950 da Richard Dorson, viene utilizzato per indicare del folklore inventato presentato come se fosse autenticamente tradizionale, e pu riferirsi sia a storie, e di conseguenza anche a tradizioni, completamente inventate, sia ad antico folklore riadattato ai tempi moderni. 
Gli eventi della battaglia di Crevola, le celebrazioni ufficiali, la retorica di questo evento nei secoli, non possono far altro che rappresentare un classico esempio di fakelore, e proprio le celebrazioni del 525° possono, a mio avviso, dare l'abbrivio per far partire una neo-tradizione che ha due sorti: o iniziare a "camminare con le sue gambe" oppure "estinguersi". Esiste anche una terza via parlando di tradizioni che è quella delle modificazioni, ma, per ora, eviterei di trattare questo argomento. Ma procediamo con ordine: La Battaglia di Crevola e la processione di San Vitale.


Il difficile conto delle vittime tra retorica e patriottismo 

Dalle testimonianze scritte che possiamo ritrovare sull'epico scontro che, secondo alcuni, e su questo tema torner più avanti, diede origine all'Ossola o quantomeno "all'Ossolanità", il bilancio del conflitto fu "miracoloso". Le forze elvetiche, che guarda caso vengono sempre considerate soverchianti di numero e di forze, vennero sconfitte duramente. Il conto delle vittime fu disarmante: due decessi tra gli sforzeschi e ben 2mila morti tra i vallesani. Bazzetta racconta la battaglia con una retorica risorgimentale: "Tutti furono prodi", "Si scambiarono formidabili colpi che risuonavano sugli elmi e sulle corazze percosse", un combattente viene descritto così: "aveva l'aspetto più di belva che di uomo per lo smisurato furore della sconfitta recente". E ancora: "Il Muller coprì la terra sanguinosa colla sua grande persona, rovinando sui cadaveri". Dei vallesani che riuscirono a salvarsi solo pochi, prosegue il Bazzetta, riuscirono a tornare a casa: "alcuni perirono di fame o precipitarono nei burroni ed altri furono uccisi dai valligiani che anelavano vendetta di tante passate dolorose vicende sofferte, e che inferocirono sui cadaveri dei vinti. Le donne stesse furono vedute strappare il cuore ai cadaveri e darlo in pasto ai cani".  Naturalmente il conto delle vittime non fu univoco: secondo gli storici svizzeri furono mille i soldati che non tornarono a casa, secondo quelli italiani duemila e più, tra cui 300 lucernesi, di cui ben 50 di famiglie notabili. Stesso discorso vale per le perdite sforzesche, che variano, a seconda dei documenti, tra i 2 ed i 4.  La percezione della vittoria tra gli ossolani fu senza dubbio quella di un vero e proprio miracolo. Se a questo si aggiunge che la vittoria avvenne proprio il 28 aprile, giorno in cui la chiesa cattolica ricorda san Vitale...

San Vitale 

San Vitale a molti potrà non dire nulla. In realtà è strettamente legato a Domodossola, trattandosi del padre, ma anche in questo caso si tratta di una pura leggenda inventata da sant'Ambrogio e dai suoi discepoli, di Gervasio e Protasio.  San Vitale, che originariamente viene ricordato insieme a sant'Agricola, è un protomartire della chiesa bolognese, sepolto nella cattedrale di san Pietro e che divent celebre nel 409 quando Galla Palcidia ne trasl alcune reliquie nell'oratorio al posto del quale fu poi eretta la basilica. Il culto di questo santo nacque nel bolognese ma ben presto si diffuse a Milano, dove Ambrogio vi port alcune reliquie, Firenze, Nola e Ravenna. Nel 409, dicevamo, Galla Placidia, trasferitasi da Milano e Ravenna, vi port diverse reliquie, non solo di san Vitale e sant'Agricola, ma anche di Gervasio e Protasio, il cui culto era particolarmente caro ad Ambrogio. All'inizio, per dovere di cronaca, l'iconografia di Vitale lo vedeva come il servo di Agricola ma poi il culto di questi divenne meno importante a favore di quello di Vitale, che viene rappresentato come un ricco e nobile romano padre dei Santini domesi. L'iconografia ufficiale, molto vasta, lo ritrae solitamente vestito da soldato a cavallo che solleva uno stendardo, con lancia, spada e mazza, strumento del martirio della sua sposa Valeria, celebrata anch'ella il 28 aprile.  La "parentela" tra Vitale e Gervasio e Protasio è puro fakelore: Ambrogio non aveva alcuna notizia dei due martiri che sarebbero diventati patroni di Domodossola. Nel V secolo troviamo testimonianze di questa mitica parentela nella Lettera sul rinvenimento dei santi Gervaso e Protaso. E' una lettera che proviene dall'ambiente di Ravenna e quindi pone un legame tra i due nuovi martiri e la città.  San Vitale è quindi particolarmente legato a Crevoladossola, insieme ai santi Gervasio e Protasio. Ne troviamo infatti diverse raffigurazioni nella chiesa plebana dei santi Pietro e Paolo. Anche a Domodossola fu dedicata a questo santo la campana maggiore della Collegiata, nel 1488. 

La processione e la sua fine 

Scrive lo storico Giovanni Capis: "L'istesso borgo ed alcune terre fecero voto di erigere un oratorio al Ponte di Crevola luogo della vittoria, sotto il nome dell'antidetto San Vitale, et di visitarlo ogn'anno processionalmente in tal giorno; qual voto tuttavia è osservato". La testimonianza è del 1673, anche se, come afferma più avanti lo stesso Capis, "di questo Voto ancorché presso tutti sia indubitato, non vi ha trovato memoria per scrittura".  Dal 1487 il clero ed il popolo di Domodossola si recavano annualmente all'oratorio di san Vitale, dove veniva celebrata una messa solenne al mattino e la sera vi era il canto dei vespri. Come spiega Bertamini le elemosine raccolte erano consegnate ai fabbricieri di Crevola. L'oratorio serviva quindi ad una sola funzione annuale. Della processione abbiamo tracce fino al 1779, quando il vescovo,Aurelio Barbis Bertone, viet le processioni fuori parrocchia (escludendo naturalmente le Rogazioni, testimonianze di riti pagani di fertilità). 

Ma esiste l'ossolanità? 

Sembra che il legante degli ossolani fu la cosiddetta co-trascendenza: il culto dei santi Gervasio e Protasio, e dei loro genitori Vitale e Valeria. 
Ma, da antropologo che da diversi anni studia dettagliatamente l'apparato folklorico ossolano non posso che chiedermi: esiste l'Ossolanità? O sono tutti come scrissi qualche anno fa, "l'un contro l'altro (metaforicamente) armati"? In un suo saggio pubblicato postumo, dal titolo Tradizioni popolari ossolane: ingiurie, imprecazioni e nomignoli ossolani, Adolfo da Pontemaglio ci offre una valida e colorita descrizione di questi atteggiamenti fortemente etnocentrici, che lui definisce come “ingiurie topiche”1
Si tratta di nomignoli e stereotipi che non interessano solo gli abitanti dei comuni limitrofi, ma addirittura gli abitanti di alcuni quartieri o frazioni dello stesso paese. I domesi vengono così definiti, in generale ed in rapporto agli altri abitanti dell’Ossola, ginevritt e patachitt. Il primo appellativo sembra derivare dall’ignoranza religiosa di questi cittadini, che venivano considerati quasi protestanti. Essendo Ginevra un luogo eminentemente luterano, il lemma ginveritt è divenuto, nel giro di poco tempo, sinonimo di protestante o di persona poco religiosa2. Il termine patachitt, in origine indicante i giovani non ricchi ma vestiti con ricercatezza, arriv a designare gli abitanti del capoluogo ossolano perché questi indossavano sempre dei vestiti migliori rispetto a quelli dei contadini delle vallate circostanti3. Questa specie di “boria” e di altezzosità dei “cittadini” domesi rispetto ai loro vicini riecheggia anche nel modo di dire “tarnaga cum poch sold e tanta blaga”, ovvero ignorante con pochi soldi e tanta baldanza4
E che dire degli abitanti di Crevoladossola? Molti nomignoli sono di matrice zoologica. Gli abitanti di Preglia, Crevola ed Oira (tra frazioni di Crevoladossola) sono detti ghett, perché proprio come i gatti litigano continuamente tra di loro, sbeffeggiandosi continuamente l’un l’altro. 
Si tratta di un discorso molto complesso, e questo non è certamente il contesto per trattarlo. Mi limiter a dire che la concezione identitaria ossolana pu esistere, ma solo in contrapposizione ad un'alterità. Che possono essere gli abitanti di un'altra frazione, di un altro paese, di un'altra valle, di un'altra regione, di un altro stato... 

La processione ed il corteo: prospettive antropologiche 

Arriviamo ora a cercare di leggere antropologicamente quello che accadrà tra poche decine di minuti. Si svolgerà una messa, un momento religioso, e si formerà un corteo con autorità religiose, laiche, gruppi medioevali, associazioni... Una rappresentanza eterogenea del mondo associazionistico di Crevoladossola, della sua collettività, e non solo. Al termine il pranzo, momento conviviale. 
Grande l'impegno dell'amministrazione per organizzarlo quest'anno, in occasione del 525°. Ma l'anno prossimo che accadrà? E tra due anni? E tra 10? Se l'evento, la manifestazione (e se serve chiamiamola pure tradizionale, come la torta Creula proposta dalla pasticceria Cartini, anche se sappiamo che si tratta di un chiaro fake-lore) riusciranno autonomamente a prendere piede, spazio nel cuore dei crevolesi e "ritagliarsi" un angolo nel calendario rituale del paese la festa sopravviverà. E sarà interessante vedere come la festa cambierà e "si adatterà" all'ambiente, notarne le modificazioni e dopo quanto tempo verrà percepita come un qualcosa di realmente "tradizionale", e verrà collocata in quello che potremo definire un tempo mitico, quello stesso tempo mitico "della tradizione". Gli antropologi lo sanno bene che si tratta di un fake-lore, ma non demonizziamo queste "feste inventate", queste "tradizioni" la cui origine vorrebbe perdersi in un tempo antico ma che in realtà è definita a pochi anni or sono. 
Abbiamo lanciato un sasso nel vasto mondo del folklore e delle feste popolari, speriamo che attecchisca. E chissà, magari ci ritroveremo tra 25 anni a trattare della processione della Battaglia di Crevola a San Vitale come uno degli episodi di fede popolare più importanti dell'Ossola o magari del Nord Italia.

Luca Ciurleo

1 Il saggio è contenuto in Ferraris, 1997, pp. 103-122. 
2 Ferraris, 1997, p. 115. 
3 Ferraris, 1997, p. 116. 
4 Ferraris, 1997, p. 109.




Francisco Boix, gli occhi di Mauthausen

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Campo di concentramento di Mauthausen. Francisco Boix sulla sinistra con la macchina fotografica


Il 5 maggio del 1945 il lager di Mauthausen fu raggiunto dalle avanguardie dell'armata americana. Mauthausen fu l'ultimo tra i grandi campi di concentramento ad essere liberato dalle forze di liberazione. Le condizioni dei superstiti erano tali, sia a livello fisico che psichico, che anche dopo l’arrivo degli alleati si assistette ad un'alta mortalità degli ex prigionieri. Le forze di liberazione non erano preparate ad affrontare la situazione con adeguate terapie e profilassi di riabilitazione fisica e alimentare. Alcuni dei sopravvissuti tentarono, con le ultime forze rimaste, di raggiungere il vicino lager di Gusen, alla ricerca di parenti e amici. I deportati rimasti nel campo di Mauthausen cercarono, catturarono e uccisero le guardie delle SS rimaste a controllo del lager. Secondo la ricostruzione dei testimoni oculari, alcune guardie del campo furono massacrate sul terreno del campo di concentramento. Furono riaccesi i forni per gettare al loro interno le ultime guardie sopravvissute. Ancora vive. Dopo la liberazione del lager, il controllo passò dalle mani americane a quelle sovietiche, che lo riconsegnarono alle autorità austriache il 20 giugno del 1947 dietro la promessa di farne un luogo di commemorazione. 
Ingresso delle truppe alleate nel campo di Mauthausen

Il 5 maggio del 1945, tra i liberati del lager di Mauthausen vi era anche Francisco Boix, il fotografo dell'orrore, che si trovava nel campo da 4 anni. Boix ricoprì, e ricopre, un ruolo fondamentale nelle testimonianze dell'orrore compiuto dai nazisti sui prigionieri dei campi poiché fu impiegato dalle SS come fotografo ed operatore del laboratorio fotografico esistente nel campo. 
La domanda che inizialmente dobbiamo porci è la seguente: chi è Francisco Boix e perché si trovava internato a Mauthausen? 
Francisco nacque a Barcellona il 31 agosto del 1920, primo di tre figli di un sarto simpatizzante di sinistra ed appassionato di fotografia. Amori che trasmetterà al figlio tanto che, sin da giovanissimo, Francisco aderì alla Gioventù Socialista della Catalogna. Allo scoppio della guerra civile spagnola, armato di una macchina fotografica regalatagli dal figlio di un diplomatico sovietico, lavorò come fotografo sul campo di battaglia. Nel 1938, all'età di diciotto anni, combatté nella 30a divisione dell'esercito della Seconda Repubblica spagnola. Nel febbraio dell'anno successivo, impossibilitati a proseguire la guerra contro le truppe di Franco, molti repubblicani furono costretti ad esiliare nella vicina Francia. Francisco fu internato come rifugiato nel campo d'internamento di Le Vernet e successivamente in quello di Septfonds. 
Francisco Boix all'interno del campo di concentramento di Mauthausen

Nel 1940 iniziò l'occupazione nazista della Francia. Il 27 gennaio del 1941 Francisco Boix fu catturato ed internato nel campo di concentramento di Mauthausen. Fu identificato con il triangolo blu che contrassegnava i prigionieri politici spagnoli. Durante la prigionia a Mauthausen ebbe modo di visitare anche il vicino campo di concentramento di Gusen, dove ebbe l'occasione di vedere cosa accadeva nella cava di Mauthausen. Le SS decisero d'impiegarlo come fotografo ed operatore dei laboratori fotografici esistente al campo. Boix gestì e visionò migliaia di fotografie riguardanti le nefandezze e le efferatezze compiute dai nazisti nel lager. Nei quattro anni di prigionia riuscì a sottrarre diverso materiale dagli archivi del lager di Mauthausen, fatto che gli permetterà d'essere uno dei principali testimoni nei due grandi processi ai criminali nazisti, quello internazionale di Norimberga e quello americano di Dachau. 
La testimonianza di Francisco Boix al processo internazionale di Norimberga

Dopo la liberazione del campo di concentramento di Mauthausen si trasferì a Parigi dove riuscirà a lavorare come fotoreporter per giornali e riviste. Nel 1951, a soli 31 anni, morì nella capitale francese a causa di una malattia renale probabilmente legata al periodo d’internamento nel lager di Mauthausen. 
Prigionieri nel campo di Mauthausen

La domanda che sorge spontanea è la seguente: cosa accadeva nel campo di concentramento di Mauthausen? 
Il numero totale delle persone che transitarono per il lager ed i suoi sotto-campi è stimato in oltre 200.000 individui, molti dei quali furono impegnati nel lavoro alle cave di pietra. Un riassunto dell'orrore che i prigionieri dovettero subire è rappresentato dal resoconto di una visita di Himmler alla cava del campo. Il gerarca nazista ordinò di caricare una pietra di oltre 40 kg sulle spalle di un detenuto. L’ordine successivo fu quello di farlo correre sino a che morisse. Himmler osservò attentamente l'agonia di quell'uomo e pensò che il metodo si dimostrava efficace nell'eliminazione delle persone indesiderate. Nella cava di Mauthausen si estraeva il granito viennese che era tagliato sul posto in blocchi squadrati. Il lager fu edificato trasportando a spalla migliaia di queste pietre sulla via che collegava la cava al campo di concentramento, situato in cima ad una collina: quella strada fu chiamata Blutstrasse, la via del sangue. Il primo tratto di collegamento tra la cava e la strada per il lager era una scala di pietra, di 186 gradini, che superava un dislivello di oltre 50 metri. La scala era affrontata in composte file da cinque prigionieri, ognuno dei quali portava sulle spalle pesanti massi. Gli internati dovevano compiere, contemporaneamente, un passo alla volta per il necessario equilibrio della fila imposta dai militari del lager. Quel tratto prese il nome di Scala della morte in seguito alla decisione delle autorità del campo di utilizzarla come strumento di sterminio di massa. 
La scala della morte. I prigionieri, nella tipica fila per cinque, salgono sulla scala con gli enormi massi caricati sulle spalle

Come avveniva lo sterminio dei prigionieri? 
Le guardie, avvertite del fatto che serviva spazio in previsione dei nuovi arrivi, spingevano giù i primi prigionieri che avevano raggiunto la vetta della scalinata. Questi cadevano all'indietro con le pesanti pietre trasportate sulle spalle colpendo le file d’uomini che seguivano, che a loro volta cadevano addosso agli altri. La scala si tingeva di rosso del sangue delle vittime. 
La vita e la morte nel lager erano un affare interno, privato. Nessun contatto poteva avvenire tra prigionieri e parenti, sulla base del decreto Nacht und Nebel: «dato che lo scopo di questo decreto è di lasciare parenti, amici e conoscenti all'oscuro della sorte dei detenuti, questi ultimi non devono avere nessun contatto col mondo esterno. Non è quindi loro permesso né di scrivere né di ricevere lettere, pacchi o riviste. Non devono essere date informazioni di sorte sui detenuti a uffici esterni. in caso di morte, i parenti non devono essere informati, fino a nuovo ordine» (Berlino 4 agosto 1942 - Estratto del Decreto Nacht und Nebel (Notte e Nebbia) a uso dei campi di concentramento - f.to dottor Hoffmann) 
Himmler in visita alla cava di Mauthausen

La conclusione della vita e della morte è lasciata alle parole dello scrittore Vincenzo Pappalettera, che ci permettono di respirare il dolore di quelle lugubri giornate: «Le fiamme che escono dai camini, riverberano intorno per chilometri durante la notte e il vento porta lontano il lezzo acre di carne bruciata. Quanto si può resistere? Due mesi, tre mesi? Calcoli inutili. A Mauthausen non esiste il giorno dopo, il solo futuro è l'oggi. Arrivare a sera è uno sforzo tremendo e insieme una fortuna.» (V. e L. Pappalettera, Mauthausen, Golgota dei deportati, op.cit.)

Fabio Casalini


Bibliografia
Lodovico Barbiano di Belgiojoso, Frammenti di una vita, Rosellina Archinto Editore, Milano 1999

Pio Bigo, Il triangolo di Gliwice. Memoria di sette lager, Edizioni dell'Orso, Alessandria 1998

Delfina Borgato, Non si poteva dire di no. Prigionia e lager nei diari e nella corrispondenza di un'internata Venezia-Mauthausen-Linz 1944-1945, Cierre Edizioni, Caselle di Sommacampagna 2002

Silvano Lippi, 39 Mesi - 60 Anni dopo. Nuova edizione ampliata, con allegata videointervista all'autore, Firenze, Multimage, 2012

Gianfranco Maris, Per ogni pidocchio cinque bastonate. I miei giorni a Mauthausen, Milano, Mondadori, 2012

Ferruccio Maruffi, Codice Sirio. I racconti del Lager, Edizioni Piemme, Casale Monferrato 1986

Vincenzo Pappalettera, Tu passerai per il camino: vita e morte a Mauthausen, prefazione di Piero Caleffi, Milano, Mursia, 1965

Mathias Ėnard, Zona, Milano, Rizzoli, 2011

Salva Rubio, Pedro J. Colombo, Aintazane Landa, Il fotografo di Mauthausen, pag.4, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 2018

FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.

Pellegrinaggio laico: i luoghi di Darwin

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Per chi come me si può tranquillamente dichiarare un adoratore di Charles Darwin e del lavoro della sua vita, lavoro scientificamente impeccabile e genialmente intuitivo che ha permesso all’umanità tutta di compiere uno straordinario balzo in avanti sul terreno della conoscenza, va da sé che il massimo modo per rendere omaggio ai luoghi della sua vita sarebbe fare il giro del mondo in barca, toccando gli straordinari luoghi da lui visitati negli anni dal 1831 al 1836.
E questa è la prima considerazione da fare, per i tanti di noi che faticano a muoversi dal cortile di casa e pensano di poter capire tutto senza fare lo sforzo di muoversi ed andare a vedere le cose lì dove accadono. Delle tante, forse questa è la prima lezione che ci ha lasciato Sir Charles: per iniziare a comprendere gli straordinari meccanismi che regolano la vita sulla terra dovette fare il giro del mondo.
Il suo fantastico viaggio a bordo della Beagle gli fece intuire che tutti gli esseri viventi, le loro forme e le loro caratteristiche seguivano delle regole complesse ma precise, chiare, ricostruibili e comprensibili alla mente umana. Senza osservare dal vivo l’immensa varietà della vita sulla Terra non avrebbe probabilmente mai iniziato a pensarci.
Ma poi ci mise vent’anni per capire davvero tutte quelle regole e trovare il modo di spiegarle e dimostrarle all’umanità intera. E furono anni di studi, discussioni, dispute, polemiche, dubbi e ricerche.
Mettendo un attimo da parte il giro del mondo, obiettivamente un po’ più complesso da realizzare, un pellegrinaggio laico nei luoghi della sua vita e della sua meravigliosa parabola scientifica deve ben cominciare da Londra. E tanto per iniziare dalla fine, dal luogo della sua sepoltura.
Dopo una vita passata fra polemiche e contestazioni anche feroci alle sue idee da parte di tanti ambienti accademici e a maggior ragione delle autorità religiose, ebbe poi i funerali di stato e venne sepolto con tutti gli onori nell’Abbazia di Westminster, com’era giusto che fosse.
Non finì lì per una sua presunta conversione sul punto di morte, fake news che fu fatta circolare ma che si dimostrò completamente inventata e smentita dai suoi stessi eredi, ma perché nonostante tutto anche la chiesa anglicana, come tutta l’Inghilterra, riconobbe il suo immenso contributo al progresso del pensiero filosofico e scientifico. Si può quindi andare a trovarlo lì, nella navata centrale, vicino alla famosa tomba di Newton, un altro uomo che, come lui, non ha lasciato l’umanità come l’aveva trovata.
(Le foto sarebbero vietate, ma io non potevo non rubarne almeno una. Anche se uguale a qualunque altra, dovevo avere perlomeno una immagine che fosse solo mia).
L’altro luogo irrinunciabile è la vera “casa” del suo pensiero, l’immenso scrigno che raccoglie le cause e le conseguenze di tutto il suo lavoro, e che vide le discussioni e le dispute provocate dalle sue idee: il Natural History Museum di Londra.
Il museo è giustamente famoso e merita una visita attenta e ammirata a prescindere dallo zio Charles. È una vera miniera di reperti, fossili, scheletri ed esemplari imbalsamati di forme viventi, di specie estinte e di meraviglie zoologiche, botaniche e geologiche. La sala centrale, dove troneggia un gigantesco scheletro di Diplodocus , è un giustamente celebrato capolavoro di architettura neogotica (che è stato anche ispiratore delle scenografie della scuola di Hogward nella saga cinematografica di Harry Potter).
E magnifica è la posizione dedicata alla statua di Darwin: in cima alla scala principale, seduto in posa elegante e pensierosa, scruta con lo sguardo severo e bonario di un padre saggio tutta la sala, i visitatori, l’intero museo, e da lì l’umanità intera. Impossibile non fermarsi davanti a lui tentando di sostenerne lo sguardo, sentendosi inevitabilmente inadeguati ma altrettanto rispettosamente riconoscenti.
E poi, con uno sforzo in più, occorre allontanarsi un po’ da Londra anche se non molto, perché la gran parte di quei vent’anni che passarono dal suo ritorno a casa dopo il giro del mondo alla pubblicazione de “L’Origine delle specie” (la bibbia del pensiero scientifico moderno), Darwin in realtà li trascorse in casa. Nella sua casa e nel suo giardino, in quella che una volta era la contea del Kent ed ora fa parte del distretto londinese di Bromley: Down House.
Ma sbaglieremmo se pensassimo che li trascorse solo a pensare e a scrivere. Nossignore. In quei lunghi anni, in quella casa e in quel giardino, riprodusse in miniatura ambienti naturali e situazioni sperimentali che gli permisero di mettere alla prova, e poi di dimostrare, le teorie che mano mano prendevano forma nella sua mente geniale. Gli esperimenti di Darwin rappresentano la più spettacolare serie di dimostrazioni di quanto anche un piccolo mondo possa contenerne migliaia, e possa rappresentare il tutto partendo dal minimo.
Down House, situata a pochi chilometri da un altro luogo denso di significati storici e letterari (Groombridge, che un giorno racconteremo), oltre ad essere uno dei tanti perfetti esemplari di cottage inglese, è anche il luogo dove tante piccole meraviglie hanno aperto all’umanità la conoscenza di come essa stessa si è sviluppata e ha preso il dominio sul Pianeta Terra.  
Lo studio di Sir Charles, così tipicamente ottocentesco, con la sua scrivania, la sua ricca libreria e soprattutto con i suoi fogli riempiti di parole e di schizzi, pieno di strumenti inequivocabili come lenti e microscopi di ogni tipo, ha visto nascere disegni e schemi come quello dell’albero delle specie, che da solo tutto racchiude e tutto svela.
Ha visto mettere alla prova, smentire e dimostrare sulla carta tutti i singoli problemi che si frapponevano al disegno complessivo della teoria dell’evoluzione delle specie per selezione naturale. E ha visto crescere delle piccole piante mentre con metodica pazienza Charles ne annotava e disegnava tutti i movimenti di crescita per capirne il meccanismo e il motore che li regolava.
E poi naturalmente la sua piccola ma straordinaria serra, dove ha trovato il modo di sperimentare come i semi possano viaggiare in mare per colonizzare isole anche molto distanti tra loro e diffondersi sulla terra.
Dove ha messo alla prova le più spettacolari orchidee per carpirne il segreto che le rendeva impollinabili da una e una sola specie di insetto. Dove ha passato giornate intere affascinato e intimorito dalla apparente insensatezza delle piante carnivore, vegetali che si comportano da predatori, per arrivare poi a comprendere non solo la necessità che le ha fatte capaci di assorbire dalla vita animale le sostanze nutritive che non trovavano nei loro terreni, ma anche gli incredibili meccanismi che erano state capaci di elaborare per arrivare a tanto, e soprattutto dimostrare che non si trattava di piante dotate di sistema nervoso come quello animale ma di piante come tutte le altre, che avevano “semplicemente” adattato gli stessi organi e le stesse cellule  di tutte le altre piante per ottenere funzioni e risultati totalmente diversi da quelli di qualunque altro vegetale (e se vogliamo ammirare magnifici esemplari di Orchidee e Piante carnivore come quelle studiate da Charles, il luogo sicuramente da non perdere è, tornando a Londra, la serra tropicale dei Kew Gardens).
E perché non restassero dubbi su quanto anche un ambiente controllato e familiare potesse rappresentare uno stimolo formidabile per il suo lavoro di genio, è stato capace di far diventare anche il suo piccolo sentiero nel bosco uno strumento indispensabile alla formulazione della sua teoria. E voglio chiudere raccontandovi come.
C’è un viale alberato che gira intorno a Down House. Quasi ogni giorno, sir Charles Darwin percorreva questo viale pensando alla soluzione ai problemi che si poneva. Il suo metodo, da scienziato autentico, era questo: appena aveva un’idea, iniziava a sottoporla a tutte le possibili obiezioni finché non ne trovava tutte le spiegazioni e la poteva considerare a prova di confutazione. È così che si fa.
Questo lavoro lo faceva mentalmente durante la sua passeggiata.
E ad ogni giro del bosco, spostava un ciottolo del sentiero sul bordo della strada.
Quando aveva risolto il problema, guardava quanti ciottoli aveva accumulato, quindi quanti giri aveva fatto pensando alla soluzione. In questo modo catalogava l’importanza e la difficoltà dei problemi che andava affrontando e risolvendo.
Fra le tante, Sir Charles è stato quindi capace di farci capire anche quanto le passeggiate nei boschi possano essere un’attività fondamentale, per ciascuno di noi e a volte anche per la storia dell’umanità.

Alessandro Borgogno


Una parte di questo articolo stata pubblicata anche su www.lakasaimperfetta.it


ALESSANDRO BORGOGNO
Vivo e lavoro a Roma, dove sono nato il 5 dicembre del 1965. Il mio percorso formativo è alquanto tortuoso: ho frequentato il liceo artistico e poi la facoltà di scienze biologiche, ho conseguito poi attestati professionali come programmatore e come fotoreporter. Lavoro in un’azienda di informatica e consulenza come Project Manager. Dal padre veneto ho ereditato la riservatezza e la sincerità delle genti dolomitiche e dalla madre lo spirito partigiano della resistenza e la cultura millenaria e il cosmopolitismo della città eterna. Ho molte passioni: l’arte, la natura, i viaggi, la storia, la musica, il cinema, la fotografia, la scrittura. Ho pubblicato molti racconti e alcuni libri, fra i quali “Il Genio e L’Architetto” (dedicato a Bernini e Borromini) e “Mi fai Specie” (dialoghi evoluzionistici su quanto gli uomini avrebbero da imparare dagli animali) con L’Erudita Editrice e Manifesto Libri. Collaboro con diversi blog di viaggi, fotografia e argomenti vari. Le mie foto hanno vinto più di un concorso e sono state pubblicate su testate e network nazionali ed anche esposte al MACRO di Roma. Anche alcuni miei cortometraggi sono stati selezionati e proiettati in festival cinematografici e concorsi. Cerco spesso di mettere tutte queste cose insieme, e magari qualche volta esagero.

Il matematico e la strega

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Leonberg è una cittadina tedesca, non lontana da Stoccarda. Il suo apparire tranquillo cela, tra le pieghe della storia, l'avventura di una madre accusata di stregoneria e l'intenzione di uno dei figli, famoso matematico e astronomo, di difenderla da quella oltraggiosa accusa. Johannes, il figlio, difendendo la reputazione della madre, difese se stesso e la propria prodigiosa opera intellettuale. Gli attori di questa vicenda sono molti, alcuni illustri altri sconosciuti al mondo e forse anche a loro stessi: il principale, quello da copertina, è lo strano fenomeno mentale chiamato Caccia alle Streghe. Durante il primo periodo della storia moderna, dal 1450 al 1750 circa, migliaia di persone furono processate per il reato di stregoneria. Una grande percentuale delle accusate fu condannata a morte, solitamente il rogo. La grande Caccia alle Streghe in Europa fu essenzialmente un'operazione giudiziaria. L'intero processo di scoperta ed eliminazione delle streghe, dalla denuncia alla condanna, si svolgeva nell'ambito e sotto il controllo del sistema giudiziario. Tale sistema era psicologicamente, e fisicamente, penetrante negli animi degli accusati che tanti di loro decisero di sottrarsi al meccanismo infernale togliendosi la vita. Nel periodo della grande caccia alle donne, accusate di stregoneria, non sempre i tribunali riuscirono a mantenere il controllo sugli abitanti dei villaggi, i quali decisero per la soluzione più sbrigativa: la giustizia sommaria. I cittadini formavano dei comitati di salute pubblica che, in preda all'eccitazione del momento, giustiziavano le donne, e gli uomini, che erano sospettati d'essere collaboratori del demonio. 
In questo contesto inizia la vicenda del matematico e la strega. 
Katharina Guldenmann nacque a Eltingen, all'epoca città distinta da Leonberg, nel 1546. Il padre, Melchior, ricopriva il ruolo di sindaco della piccola cittadina. Sulla ragazza pesò per tutta la vita il dubbio delle malelingue poiché una sua zia fu accusata di stregoneria e, chiaramente, bruciata sul rogo purificatore. Nel 1571, all'età di 25 anni, conobbe Heinrich Kepler, che aveva incontrato grazie all'attività del padre. Poco dopo il matrimonio, il 27 dicembre del 1571, nacque il primogenito Johannes. Le cronache raccontano di una relazione tesa tra gli sposi, forse dovuta, ed incoraggiata, dalla famiglia d'origine di Heinrich che riteneva Katharina una pessima compagnia per il figlio. Il Padre di Heinrich, nonno di Johannes, ricopriva il ruolo di sindaco nella cittadina di Weil Der Stadt, nota per essere la Porta della Foresta Nera. Nel 1574, tre anni dopo il matrimonio, Heinrich Kepler decise di allontanarsi da questa situazione di tensione arruolandosi come mercenario nel vicino Belgio. L'anno seguente Katharina decise di raggiungere il marito per convincerlo a tornare in Germania. I coniugi, nuovamente riuniti, decisero d'acquistare una casa a Leonberg. Il piccolo Johannes, cresciuto in un contesto complesso, fu avviato alla carriera ecclesiastica. Nel 1584, a 13 anni, entrò nel seminario di Adelberg. Nel 1588 iniziò gli studi presso l'Università di Tubinga. L'anno seguente Heinrich, il padre di Johannes, decise di allontanarsi definitivamente dalla famiglia dopo 18 anni di matrimonio. 
Le cronache raccontano che poco dopo la separazione morì, in circostanze terribili, nei pressi della città di Augusta. Katharina rimase in compagnia dei figli nella cittadina di Leonberg. Johannes l'anno seguente iniziò gli studi di teologia presso la stessa università di Tubinga dove insegnavano professori, protestanti, seguaci del grande Copernico. Alcuni di loro convinsero Johannes della validità delle teorie copernicane. Nel 1594 il figlio di Katharina dovette interrompere gli studi teologici perché fu nominato insegnante di matematica presso la scuola evangelica di Graz. Le doti fuori dall'ordinario permisero a Johannes, poco dopo la nomina a professore, d'essere insignito del titolo di matematico territoriale di tutti gli stati della Stiria. Nel 1597 sposò una donna di nome Barbara che gli diede 5 figli, 2 dei quali morti in giovanissima età. Barbara morì nel 1611, lasciando a Johannes il compito di crescere i figli. Nel 1599 Tycho Brahe, l'uomo dal naso d'argento, offrì a Johannes il posto di assistente. La storia del naso d'argento di Brahe, pur intersecandosi marginalmente con la vicenda del matematico e la strega, non può essere ignorata. Tycho quando era ancora studente perse parte del naso in un duello. L'evento si verificò nel 1566 quando Brahe era ancora uno studente. Mentre partecipava ad una danza a casa di un professore ebbe un'accesa discussione con un membro della nobiltà danese. Il motivo del contendere atteneva a chi tra loro avesse il maggior talento matematico. Dopo una furiosa lite i due decisero di lasciare al luccichio delle armi la sentenza. Il duello avvenne la sera del 29 dicembre 1566. Nel buio della sera tedesca Tycho Brahe perse il setto nasale. Per il resto della vita fu costretto a portare una piastra d'argento, almeno questo è quanto affermato dalle cronache del tempo. Nel 1901 fu aperta la tomba del grande scienziato, collocata a Praga all'interno della chiesa di Santa Maria di Tyn. I resti furono esaminati dai medici esperti che scoprirono la cavità nasale bordata di verde, segno di esposizione al rame e non all'argento. Tornando all'epoca della fervente eccitazione contro il maligno, Johannes decise di accettare il prestigioso invito di Brahe, divenendo suo assistente nel 1600. Nell'assumere questa decisione, probabilmente, influirono gli editti contro i luterani emanati dai Re austriaci, convinti sostenitori della controriforma. L'anno seguente Brahe morì e Johannes ne prese il posto. Nel 1609 pubblicò il capolavoro della sua vita, Astronomia Nova. Nel 1613 si risposò con una donna di nome Susanna. La donna gli diede 6 figli, 3 dei quali morti durante l'infanzia. 
Alla fine del mese di dicembre del 1615, quando si trovava a Linz, a Johannes giunse una lettera della sorella che lo informava che la madre, Katharina, era accusata di stregoneria. Non solo, l'anziana madre aveva deciso di citare i detrattori per calunnia. Johannes si recò a Leonberg per comprendere la situazione. Informato dei fatti decise di ricorrere al duca del Wurttemberg per ottenere la possibilità di allontanare la donna dal paese portandola con se a Linz. L'anziana madre, testarda, decise di tornare a Leonberg per affrontare le accuse di stregoneria. I capi d'imputazione erano pesantissimi e numerosi i testimoni disposti a dichiarare che Katharina era una strega. All'alba del 7 agosto 1620 gli eventi precipitarono. L'anziana donna fu avvertita che gli uomini del governatore sarebbero andati a prelevarla presso la sua abitazione per condurla in prigione. Gli uomini di legge, o presunta tale, trovarono Katharina nascosta in una cassapanca. Completamente nuda. Johannes abbandonò Linz, gli studi e la pubblicazione delle sue teorie per trasferirsi in Germania. L'ultimo attore ad entrare in scena è il magistrato di Leonberg, Lutherus Einhorn. La prima accusante era una donna di nome Ursula, cugina del magistrato. La donna dichiarò che Katharina aveva tentato di avvelenarla con un filtro versato in una bevanda. Il secondo accusante era lo stesso magistrato, Einhorn, che dichiarò pubblicamente Katharina una strega. Il fatto avvenne nelle vie della città. Il magistrato, probabilmente ubriaco, incontrò l'anziana donna e senza riflettere sguainò la spada puntandola direttamente alla gola dell'atterrita Katharina. La donna decise di contrattaccare citando entrambi in giudizio per calunnia. Einhorn dichiarò che la donna lo tentò offrendogli del vino e “non appena assaggiato le gambe iniziarono a dolergli. Nel giro di qualche giorno il dolore era così forte da costringerlo a camminare con i bastoni. Poco dopo si era trovato completamente paralizzato”. Ulteriori accuse riguardavano il fatto che Katharina apprese la stregoneria frequentando una zia, che perse la vita sul rogo, e che aveva tentato di condurre una ragazza al sabba cercando di insegnarle i segreti di quella malvagia arte. 
Johannes decise di assumere Christopher Besold, professore di legge all'università di Tubinga, come avvocato difensore della madre. La causa fu trasferita ad un tribunale di grado superiore, a Guglingen, poiché era inusuale un tale dispiegamento di forze e menti per un semplice processo di stregoneria. Dopo molti mesi di attività processuale, mentre Katharina languiva nelle squallide prigioni della città, i difensori riuscirono a presentare una memoria di 128 pagine. L'immenso scritto, redatto quasi completamente da Johannes, confutava tutte le accuse. L'imbarazzo dei giudici fu tale da dover richiedere il parere dell'Università di Tubinga, dove Johannes aveva studiato e Besold insegnava. Malgrado i buoni auspici, il parere fu negativo per i difensori. 
Il 21 ottobre del 1621 Katharina fu condotta dal boia. L'uomo, fieramente, mostrò gli strumenti della tortura. L'anziana donna, per nulla impaurita di fronte a tale spiegamento di armi da taglio, si scagliò verbalmente contro tutti: detrattori, magistrati e sapienti. Poi, senza ulteriori forze che potessero sostenerla, cadde in ginocchio recitando il Padre Nostro. A quel punto il duca del Wurttemberg, presente all'evento, decise che la donna aveva superato l'ordalia senza confessare. Il nobile decise per la liberazione di Katharina. 
L'anziana donna morirà il 13 aprile dell'anno seguente da donna libera. 
Johannes von Kepler, italianizzato in Giovanni Keplero, in disgrazia e povertà si spegnerà pochi anni dopo, a 58 anni, a Ratisbona. Fu sepolto nel locale cimitero. La sua tomba si perderà nel 1632 quando le truppe di Gustavo Adolfo, durante la guerra dei Trent'Anni, distrussero il cimitero. 
Resistette la sola lapide dove, ancora oggi, si può leggere l'epitaffio da lui stesso composto: Misuravo i cieli, ora fisso le ombre delle terre. La mente era nella volta celeste, ora il corpo giace nell'oscurità.

Fabio Casalini

Bibliografia
Johannes Tralow, Kepler und der Kaiser, Berlin, Verlag der Nation 1961 

Paolo Aldo Rossi e Marco Ghione, Il figlio della strega, Aicurzio, Virtuosa-Mente, 2015 

Kurt Baschwitz: Hexen und Hexenprozesse, C. Bertelsmann Verlag, München, 1990 

Berthold Sutter: Der Hexenprozeß gegen Katharina Kepler, Weil der Stadt, Kepler-Ges., 1979 

Bucciantini Massimo, Mia madre non è una strega, Il Sole 24 ore, 9 ottobre 2017 

Rublack Ulinka, L'astronomo e la strega: la battaglia di Keplero per salvare sua madre dal rogo, Hoepli 2015

FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.

Il soldato Wojtek, l'orso combattente

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L'orso delle favole, quello che interagisce amichevolmente con gli esseri umani malgrado la stazza e la natura, è realmente esistito. Si chiamava Wojtek, diminutivo di Wojciech che rappresenta un antico nome slavo ancora in uso presso le popolazioni della Polonia. Il suo nome significa colui a cui piace la guerra o guerriero sorridente. La strana vicenda ebbe il punto più alto nella battaglia di Montecassino, il durissimo scontro dove si fronteggiarono le forze alleate e la Wehrmacht tra il gennaio e il maggio del 1944.
La storia iniziò nel 1941 con la nascita di Wojtek nella zona di Hamadan, città iraniana situata ai piedi del monte Alvand. Wojtek era un orso bruno siriano, la più piccola sottospecie di orso bruno. Questa particolare specie occupa una vasta area dell'Asia occidentale. Purtroppo attualmente la popolazione di orsi bruni siriani è in forte diminuzione a causa del bracconaggio e della progressiva riduzione del suo habitat. La pelliccia di questa specie è molto chiara e non sono rari i casi di esemplari bianchi. Questa particolarità non è catalogabile come albinismo ma è una forma di adattamento alla vita nel deserto tra Siria e Iran. 
A circa un anno di età Wojtek fu adottato da un ragazzo delle montagne iraniane che decise di venderlo, in cambio di un paio di scatolette di cibo, ad alcuni soldati dell'esercito polacco di stanza in quelle zone. L'esercito polacco fu costituito dopo la firma dell'accordo russo-polacco del 14 agosto 1941, due anni dopo l'invasione di quella terra da parte delle stesse truppe russe e di quelle naziste. Il compito di formare questo esercito fu affidato al generale Michal Tokarzewski. L'esercito polacco sarebbe cresciuto nei due anni successivi fornendo il numero maggiore di truppe al secondo corpo d'armata polacco, unità che combatterà nella campagna d'Italia. 
Subito dopo l'acquisto, l'orso bruno siriano fu nutrito con latte condensato versato in una bottiglia di vodka. Questa procedura si rese necessaria poiché Wojtek aveva meno di un anno presentando problemi di deglutizione. La bottiglia di vodka, sicuramente non necessaria, fu sostituita da quella di una birra, bevanda che divenne la preferita dal cucciolo d'orso. Wojtek, essendosi integrato perfettamente nell'ambiente militare, amava fumare e mangiare sigarette. Il cucciolo divenne un'attrazione per i militari e i civili, divenendo la mascotte dell'unità polacca. Wojtek seguì gli spostamenti dei suoi compagni dall'Iraq alla Siria, dalla Palestina all'Egitto. La sua compagnia si unì all'armata britannica per combattere in Italia. Prima di salpare dalla terra delle Piramidi, il cucciolo d'orso fu arruolato come soldato semplice della 22a compagnia rifornimenti d'artiglieria del secondo corpo polacco. Questo comportamento da parte dell'esercito polacco, che non voleva abbandonare l'amico orso in Egitto, si rese necessario per eludere il regolamento che vietava la presenza di animali a bordo delle imbarcazioni. 
Wojtek viveva nelle tende con i soldati, in una speciale cassa di legno trasportata da un camion. 
Il momento più particolare dell'intera vicenda attiene alla battaglia di Montecassino. Wojtek vi prese parte attivamente trasportando casse che contenevano munizioni e granate. Il suo compito era quello di spostare dal camion alle vetture i pesanti contenitori. Durante tutti i suoi servizi non fece mai cadere una sola cassa. Per questo motivo il quartier generale polacco approvò come emblema della 22a compagnia rifornimenti d'artiglieria un orso che trasporta un proiettile. 
Finita la guerra l'orso fu trasportato, insieme ai propri compagni polacchi, in Scozia, nel Berwickshire, dove divenne motivo di attrazione e curiosità da parte della popolazione locale. Nel 1947, all'atto di scioglimento della 22a compagnia rifornimenti d'artiglieria, Wojtek fu alloggiato presso lo zoo di Edimburgo. 
Nella sua nuova casa ricevette molte visite, di curiosi e giornalisti. Sicuramente quelle che gli fecero maggiormente piacere furono quelle dei soldati polacchi in congedo. I compagni di un tempo, non dimenticando le abitudini di Wojtek, quando si recavano alla zoo di Edimburgo gli lanciavano sigarette. 
Nel dicembre del 1963 morì, all'età di 22 anni. 
Al momento della morte pesava oltre 250 chilogrammi ed era lungo oltre 1 metro e 80 centimetri. 
La notorietà di questo particolare esemplare di orso bruno siriano non si spense con la morte. L'attenzione fornita dai media contribuì a mantenere viva la popolarità di Wojtek. Fu ospite in diversi programmi della BBC e gli furono dedicate statue e placche commemorative nello zoo di Edimburgo e all'Imperial War Museum di Londra.
La storia di Wojtek è un momento diverso con cui entrare in contatto con quei terribili momenti della storia noti come la battaglia di Montecassino.

Fabio Casalini

Bibliografia
G. Morgan, W. A. Lasocki, Wojtek soldier bear (testo bilingue italiano inglese), 2010

Anders, Wladyslaw (1949). An Army in Exile, the Story of the Second Polish Corps. London: Macmillan

Kleczkowski, Stefan (1945). Poland's first 100,000: Story of the Rebirth of the Polish Army, Navy and Air Force After the September Campaign. London & New York: Hutchinson

Morgan, Geoffrey; Lasocki, Wiesław A. (1970). Soldier Bear. London: Collins

Dumon Tak, Bibi (2011). Soldier Bear. Grand Rapids, Michigan: Wm. B. Eerdmans Publishing Co

FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.




L'uomo che divenne un lupo mannaro

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Il lupo mannaro, detto anche licantropo, è una delle creature della mitologia e del folclore divenute in seguito tipiche della letteratura dell'orrore e del cinema che da esse ne conseguì.
Secondo la leggenda il lupo mannaro è un essere umano condannato a trasformarsi in una bestia feroce ad ogni plenilunio. La forma che l'essere umano assume è tipicamente quella del lupo, ma non mancano riferimenti all'orso, al bue o al gatto selvatico. I termini lupo mannaro e licantropo non sempre sono sinonimi poiché, nelle leggende popolari, il lupo mannaro è semplicemente un grosso lupo con abitudini antropofaghe, a cui può essere o meno associata una natura mostruosa. Inoltre è doveroso annotare che nel caso di lupo mannaro che cambia forma, mutaforma, si possono distinguere due diverse tipologie: la prima è quella del lupo mannaro che si trasforma contro la propria volontà, la seconda quella relativa al licantropo che si trasforma ogni qual volta lo desidera senza perdere la componente umana. Nel nostro paese il lupo mannaro assume nomi diversi in funzione del luogo ove si è tramandata la leggenda: lupi manari in Emilia Romagna, lupom'nin Puglia, luv ravasnel basso Piemonte (nel cuneese in particolare), lupenari in Campania e lupi pampanu in Calabria. La Sardegna presenta un caso particolare, quello dell'Erchitu, un essere umano che si trasforma, non in un lupo, in un bue dalle corna d'acciaio.
I lupi mannari esistono?
Chiaramente no, sono parte integrante delle tradizioni e del folclore di tutta Europa.
Nella Germania del Cinquecento un uomo divenne lupo mannaro, un accostamento similare a quello di Vincenzo Verzeni che, nell'Italia dell'ottocento, si trasformò da essere umano a vampiro della bergamasca.
Le difficoltà nel raccontare l'uomo-lupo della Germania iniziano dal nome. Quello con cui è conosciuto, Peter Stumpp, non pare essere il nome reale poiché è anche rintracciabile come Peter Stube, Stubbe e Stumpf. Proprio quest'ultimo pseudonimo, Stumpf, potrebbe aiutare a comprendere come l'uomo avesse tutt'altro nome poiché, in tedesco, Stumpf ha significato di moncone, in riferimento alla parte del corpo, esattamente la mano sinistra, che Peter aveva perduto – secondo le accuse che penderanno sulla testa di quest'uomo - durante una trasformazione in licantropo.
Essendo un caso interessante cerchiamo di ricostruire la sua vita.
Peter, per facilità usiamo lo pseudonimo con cui è maggiormente conosciuto, Stumpp nacque in un villaggio nei pressi di Bedburg, nella regione di Colonia. La data di nascita precisa non è conosciuta, facendo seguito alle incertezze sul nome, a causa del fatto che i registri parrocchiali delle chiese locali andarono distrutti durante la Guerra dei Trent'anni, iniziata nel 1618 e terminata nel 1648. Gli storici sono riusciti ad estrapolare alcune informazioni: nel 1580 Peter Stumpp era sicuramente vedovo con due figli a carico, una ragazza di oltre 15 anni, Beele, ed un figlio di età sconosciuta. Secondo le scarne biografie, Peter era un ricco possidente e agricoltore della propria comunità rurale, che possiamo identificarla nel villaggio di Epprath. Salì agli onori delle cronache nel 1589, anno in cui fu giudicato in uno dei più importanti processi della storia dove l'accusa era quella d'essere un lupo mannaro.
Prima di proseguire nel resoconto del processo è necessario fornire alcune informazioni: la fonte più completa sul caso è un opuscolo di 16 pagine pubblicato a Londra nel 159o, che risulta essere la tradizione di una stampa tedesca di cui non sono sopravvissute copie. Di questo opuscolo esistono solo due copie: una è al British Museum e l'altra nella Lambeth Library. L'opuscolo fu riscoperto da un occultista, Montague Summers, nel 1920. All'interno è possibile trovare riferimenti alla vita di Stumpp, al processo ed ai crimini di cui, presumibilmente, si macchiò. Ulteriori informazioni furono estrapolate da alcuni scritti di Hermann von Weinsberg, un consigliere di Colonia, e da un certo numero di fogli illustrati stampati nel Sud della Germania. Questi ultimi, secondo le ricostruzioni storiche, dovrebbero basarsi sulla versione originale tedesca, da cui la copia dell'opuscolo inglese.
Siamo in assenza di documenti originali, ma solo di copie che potrebbero inficiare le vere motivazioni alla base del processo.
Torniamo a quel 1589.
Peter Stumpp, sotto tortura, confessò di aver praticato la magia nera sin da quando aveva dodici anni. Secondo le fonti, Peter sosteneva che il diavolo gli avesse regalato una cintura magica, oggetto che gli permise di “trasformarsi a somiglianza di un lupo avido e divorante, forte e potente, con occhi grandi che nelle notte scintillavano come il fuoco, una bocca grande e larga, con i denti più affilati e crudeli, un corpo enorme e grandi zampe”. A detta dell'imputato, la “rimozione della cintura mi faceva tornare alla forma umana”.
Nessuna cintura fu mai trovata dopo l'arresto di Peter Stumpp.
L'ingresso del diavolo nel processo condusse rapidamente alla stregoneria.
Secondo l'accusa, per 25 anni Stumpp fu un “insaziabile succhiasangue” che si ingozzava di carne di capra, agnello e pecora. Fu altresì accusato di cannibalismo poiché, dichiarò lo stesso imputato, si nutrì di uomini, donne e bambini. Le confessioni giunsero nel momento in cui i giudicanti minacciarono di sottoporre l'uomo a durissima tortura. Peter dichiarò altresì d'aver ucciso e mangiato quattordici bambini e due donne incinte, i cui feti strappò dal ventre per mangiarne il cuore. Uno dei quattordici bambini era il figlio, il cui cervello dichiarò d'aver divorato.
Le accuse non si fermarono al cannibalismo e all'omicidio.
Stumpp fu accusato d'aver intrapreso una relazione incestuosa con la figlia, Beele, e d'essersi accoppiato con una lontana parente, evento che fece giungere sulla testa di Stumpp una seconda accusa di incesto, in base alla legge del tempo.
Peter Stumpp, la figlia Beele e la signora con cui si era accoppiato, furono condannati a morte.
Non una morte qualunque.
Una morte terribile.
L'esecuzione avvenne il 31 ottobre del 1589, alla presenza di un folto pubblico, delle autorità, di alti esponenti del clero e membri dell'aristocrazia locale, evento assolutamente inconsueto, nella Germania del tempo, per un processo, e relativa esecuzione, di un lupo mannaro e due streghe.
Il corpo di Peter Stumpp fu adagiato sulla ruota.
Gli strapparono la carne in dieci punti con delle tenaglie roventi.
Fu macellato con un'ascia per impedirgli di tornare dalla tomba.
Successivamente fu decapitato.
Il corpo, o quello che ne rimaneva, fu lanciato nel fuoco purificatore insieme alla figlia e all'altra donna, che precedentemente erano state scorticate e strangolate.
Come monito per la popolazione, le autorità locali decisero di erigere un palo dove adagiarono la testa mozzata di Peter Stumpp.
Gli storici hanno avanzato molti dubbi su questo processo, sostenendo che fosse un processo politico a malapena nascosto dietro le accuse di licantropia e stregoneria.
Quali le motivazioni di queste supposizioni?
Gli anni in cui si suppone che Stumpp abbia commesso la maggior parte dei suoi crimini, dal 1582 al 1589, furono segnati da una guerra di religione nella regione di Colonia. In quel periodo ci fu il tentativo di introdurre il protestantesimo nella città e nelle zone limitrofe. Stumpp fu quasi certamente convertito al credo protestante.
La guerra di religione causò l'invasione della città e dei villaggi da parte degli eserciti di entrambe le fazioni. Inoltre l'intera zona fu colpita da un'epidemia di peste.
Nel 1587 i protestanti furono sconfitti ed il castello di Bedburg divenne il quartier generale dei mercenari cattolici comandanti dal nuovo signore di Bedburg, Werner conte di Salm-Reifferscheidt-Dyck, fedele cattolico e deciso sostenitore della reintroduzione del credo romano.
Secondo gli storici, esiste la possibilità che il nuovo signore abbia deciso di rimproverare i cittadini della regione di Colonia che si erano convertiti al protestantesimo.
Quali miglior occasione che un pubblico processo con durissima esecuzione capitale?
Se fosse stata una semplice condanna a morte per licantropia e stregoneria, la presenza di nobili, aristocratici e alti prelati, sarebbe sorprendente in riferimento alla vita della regione nel periodo nel quale avvenne il processo.
E' forte la possibilità che Peter Stumpp sia stato condannato in seguito ad un processo politico, il cui scopo fu esclusivamente d'avvisare i residenti della regione di Colonia di cosa sarebbe accaduto al loro corpo in caso di conversione al credo protestante.

Fabio Casalini


"The Bogeyman's Gonna Eat You-- Albert Fish, The Vampire of Brooklyn". "America's Serial Killers: Portraits in Evil" Mill Creek Entertainment, 2009

Anon. A True Discourse. Declaring the Damnable Life and Death of One Stubbe Peeter, a Most Wicked Sorcerer. London, 1590. (original English version)

Homayun Sidky, Witchcraft, Lycanthropy, Drugs, and Disease. An Anthropological Study of the European Witch-Hunts. New York 1997

Peter Kremer, "Plädoyer für einen Werwolf: Der Fall Peter Stübbe", in, Ibd., Wo das Grauen lauert. Blutsauger und kopflose Reiter, Werwölfe und Wiedergänger an Inde, Erft und Rur. Dueren 2003

David Everitt, "Human Monsters: An Illustrated Encyclopedia of the World's Most Vicious Murderers" New York: McGraw-Hill 1993

"El alma está en el cerebro". Eduardo Punset (punto de lectura) 2006 Redes RTVE

Mysterious Monsters Daniel Farson & Angus Hall,Mayflower Books,1975 - pg.53-4. Argues for Peter Stump being innocent

FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.



Ettore Castiglioni, l'alpinista antifascista

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La storia che vi vorrei raccontare oggi è quella di un uomo libero che scelse di morire fra le montagne che tanto amava. Il suo nome era Ettore Castiglioni.
Nato a Ruffrè, un piccolo paese della provincia di Trento, distante circa 2,5 Km dal passo della Mendola, che segna il confine con la provincia di Bolzano il 28 agosto 1901, Ettore Castiglioni fu un alpinista italiano molto dotato. La sua famiglia si trovava lì in vacanza. Forse un segno del destino.
La sua infanzia fu agiata e serena, provenendo da una ricca famiglia del milanese. Ma la vita nella città lombarda gli stava stretta, subiva il fascino indiscusso delle Dolomiti e delle sue crode. Di Milano diceva: «… qui mi sento sempre di passaggio, anche quando vi resto per parecchi mesi. Fra le mie crode mi sento a casa mia…»
A 15 anni le scalò per la prima volta, lasciandosi conquistare inesorabilmente dalla passione per la montagna. A 19 pubblicò il suo primo articolo di alpinismo sulla mensile del Club Alpino Italiano, fondato nel 1863.
Ebbe la possibilità di studiare e di laurearsi in giurisprudenza a 21 anni, non abbandonando mai la sue vere passioni: il pianoforte, la poesia e soprattutto la montagna. Nel suo sangue scorreva il DNA di un vero alpinista, tanto che a lui si deve l’apertura di circa 200 nuove vie. Il suo amore per l’esplorazione e per le scalate lo portarono a redigere numerose guide di grande valore, aprendo percorsi anche di difficoltà non elevata, per appagare la propria sete di scoperta e di conquista.
Numerosi furono i suoi compagni di avventura. Fra i più fidati vi furono Celso Gilberti e Vitale Bramani, con i quali salì lo spigolo ovest della Presolananell'ottobre del 1930 e nell'agosto del 1931 la parete nord-ovest della cima Busazza. A partire dal 1933 trovò un compagno ideale per la scoperta delle Dolomiti del Brenta, in Bruno Detassis. Tra le loro imprese ricordiamo la scalata della parete nord Dos di Dalun e l’ascensione diretta della Torre Gilberti.
Nel 1935 scrisse la sua prima guida alpinistica su Le Pale di San Martino.
Una impresa diversa fu compiuta nel 1937, quando decise di partecipare ad una spedizione in Patagonia guidata da Aldo Bonacossa. Rientrato, in cordata con l’amico Vitale Bramani, conquistò la parete nord-ovest del Pizzo Badile. Grazie al valore dimostrato nel proprio cammino, ricevette la medaglia d'oro al merito alpinistico, un grande onore per lui, uomo semplice e dai lunghi silenzi contemplativi.
L’inizio del secondo conflitto mondiale cambiò la sua vita. Fu richiamato alle armi nel 1942, in qualità di sottotenente degli Alpini e istruttore alla scuola militare alpina di Aosta.
In seguito alla firma dell’armistizio dell’8 settembre 1943, Ettore decise di aderire al CLN, Comitato di Liberazione Nazionale, formatosi a Romail 9 settembre dello stesso anno, con lo scopo di combattere il fascismo e l’occupazione tedesca sul territorio italiano.
Con alcuni ex-commilitoni organizzò, in una malga sull'Alpe Berio, sopra Ollmont,in Valpelline, valle laterale della Valle d’Aosta, un gruppo partigiano, che riuscì a portare in salvo oltre confine, centinaia di ebrei ed antifascisti, fra cui ricordiamo Luigi Einaudi, futuro primo presidente italiano. I fuggitivi che a loro si rivolgevano passavano attraverso la Fenêtre du Durand, un valico tra Valle d’Aosta e Canton Vallese a 2800 metri.
L’esperienza alpinistica e la posizione strategica a ridosso del confine con la Svizzera, solo tre ore di cammino, permisero al gruppo di svolgere una intensa attività.
Per autofinanziarsi Castiglioni e i suoi organizzarono un fiorente contrabbando di forme di formaggio con le stesse guardie svizzere. Approfittando del traffico, era facile far attraversare la frontiera ai fuggitivi.
Durante una di queste operazioni qualcosa andò storto e il giovane alpinista fu arrestato sul confine svizzero, con la pesante accusa di spionaggio e contrabbando.
Dopo 5 settimane di reclusione nelle carceri del Vallese, fu rimpatriato con il divieto assoluto di rientrare in Svizzera. Nel frattempo il suo gruppo di alpinisti contrabbandieri di uomini si era sfaldato, avendo perso il loro capo e guida.
Ma Ettore Castiglioni non poteva darsi per vinto. Doveva continuare nella sua opera perché molti altri avrebbero potuto essere portati in salvo oltre confine. Il rischio era grosso, come quando si apriva una nuova via, come quando si percorreva per la prima volta quello che poi sarebbe diventato un sentiero per molti. L’ 11 marzo del 1944, probabilmente su incarico del CNL, partì con gli sci dalla Capanna Porro, in Valmalenco, per dirigersi a Maloja. Con se aveva un passaporto falso, intestato ad un certo Oscar Braendli, cittadino svizzero. La polizia grigionese si accorse dello scambio di persona e procedette con l’arresto del Castiglioni, che fu rinchiuso al secondo piano dell'Hotel Longhin a Maloja, senza pantaloni, giacca a vento, scarpe e sci, in modo che la fuga gli fosse impossibile.
Ma può un uomo nato libero, che ha fatto della sua passione per la montagna e della conquista di nuovi percorsi una ragione di vita, farsi fermare in questo modo? Aveva una missione da compire e così alle 5 del mattino del giorno seguente, si calò con alcune lenzuola annodate dalla finestra.
Senza vestiti adatti, con addosso solo una coperta, un paio di pantofole di feltro e senza attrezzatura da scalata, si incamminò verso l’Italia, via Orden, Cavloc, ghiacciaio del Forno, passo del Forno. Riuscì a trovare nel villaggio un paio di sci e dei bastoni con i quali si diresse verso le montagne e verso la morte.
Poco dopo uno dei poliziotti svizzeri bussò alla porta della camera dove Castiglioni era stato lasciato la sera prima. Non trovò nessuno, solo la finestra aperta e il fresco del mattino che stava arrivando. L’allarme fu subito dato, ma dell’alpinista nessuna traccia. Le ricerche furono organizzate per arrivare al ghiacciaio del Forno, ma alle 10.45 del 12 marzo 1944 il gruppo decise di abbandonare ogni tentativo di trovare il fuggiasco. Le condizioni erano particolarmente avverse.
L’uomo fuggì, ma quell’ultima scalata verso la libertà, in difesa dei suoi ideali, gli fu fatale. Passò il confine, riuscendo a superare il passo del Forno e ad entrare in territorio italiano. Era a 2600 metri. Quel giorno Ettore Castiglioni sparì. Fu ritrovato il 5 giugno del 1944, tre mesi dopo, a 200 passi dal valico del Forno, con il viso ancora immerso nella neve.
Le vere ragioni di quel suo ultimo viaggio non sono mai state chiarite. Oggi il suo corpo riposa a Trenago, in provincia di Verona, dove la famiglia possiede una villa e dove lui stesso amava rifugiarsi per scrivere le sue guide lontano dal chiasso del mondo.

Rosella Reali


ROSELLA REALI
Sono nata nel marzo del 1971 a Domodossola, attualmente provincia del VCO. Mi piace viaggiare, adoro la natura e gli animali. L'Ossola è il solo posto che posso chiamare casa. Mi piace cucinare e leggere gialli. Solo solare, sorrido sempre e guardo il mondo con gli occhi curiosi tipici dei bambini. Adoro i vecchi film anni '50 e la bicicletta è parte di me, non me ne separo mai. Da grande aprirò un agriturismo dove coltiverò l'orto e alleverò animali. 
Chi mi aiuterà? Ovviamente gli altri viaggiatori.
Questa avventura con i viaggiatori ignoranti? Un viaggio che spero non finisca mai...

I misteri di Alleghe

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Se questo caso fosse un romanzo, non sarebbe difficile accostarlo alla penna di Georges Simenon, noto al grande pubblico per avere dato vita al commissario di polizia Jules Maigret.
Questa storia vera è ambientata ad Alleghe, nel cuore di una vallata delle Dolomiti bellunesi in riva all’omonimo lago. Poche case, qualche esercizio commerciale e alcuni alberghi per accogliere i turisti durante la stagione: tutti si conoscono come normalmente accade nei piccoli paesi.
Prologo
Nella piazza principale di Alleghe esisteva l’Albergo Centrale, di proprietà della famiglia Da Tos: è attorno a questo edificio che ruotano i personaggi della nostra storia. Fiore Da Tos, il patriarca della famiglia, ha sposato per mero interesse la proprietaria dell’albergo Elvira Riva, più vecchia di lui di 11 anni. La coppia ha due figli: Adelinala maggiore che lavora nell’albergo, sposata con Pietro De Biasio, e il figlio minore Aldoche gestisce la macelleria sull’altro lato della piazza.
Tutto ha inizio l’ 8 maggio 1933. Emma De Ventura, la bella cameriera sui vent’anni dell’Albergo Centrale, è seduta nella sua stanza al terzo piano e sta scrivendo una lettera al suo fidanzato. E’ una lettera d’amore scritta con parole semplici di una giovane ragazza del tempo, ma a un certo punto la lettera assume un tono diverso, preoccupato. “ ….. Mi è rimasto espressa il caso che mi è successo ieri e a te solo confidarmi non posso proprio nascondere la verità. Mentre guardavo dalla finestra vidi arrivare una macchina, si fermò un momento ed io conobbi subito che si trattava di …..” qui la lettera si ferma, Emma probabilmente rimette tutto nel cassetto per continuare successivamente: chi aveva visto Emma? Cosa sapeva di così importante da non riuscire più a resistere al silenzio desiderando di parlarne con qualcuno?
Sono le 11:30 del 9 maggio 1933. La tranquillità del luogo viene sconvolta dalle urla di Adelina che, precipitandosi in strada alquanto turbata, chiede aiuto per Emma che si è tagliata la gola con un rasoio, nella camera numero 6. Avventori, curiosi e clienti sono ancora sconvolti quando arrivano i carabinieri, il medico condotto e le autorità del luogo incluso il segretario politico del Fascio Raniero Massi. L’ipotesi che prende subito corpo è quella del suicidio: il volto di Emma è macchiato di tintura di iodio: prima una sorsata di veleno e poi, per terminare la propria agonia, un unico, profondo fendente. Tutto come da manuale se non fosse che più di una persona fa notare come la bottiglietta si trovi appoggiata su una mensola mentre il rasoio è chiuso in un armadio ad almeno sei passi dalla vittima supina sul pavimento in una pozza di sangue. Perché poi uccidersi? L’ipotesi del suicidio per amore vacilla, e non poco. Emma è felicemente fidanzata, appena prima del fatto molti l’hanno sentita canticchiare mentre rifaceva i letti ai piani e qualcuno ha addirittura risposto a un saluto che, timidamente, era solita mandare da uno dei balconi dell’albergo. Nonostante le evidenze nessuno sembrerebbe interessato ad approfondire, le autorità archiviano frettolosamente il caso come suicidio.
Sono le 8:00 della mattina del 4 dicembre 1933. Il freddo pungente di quei giorni ha ghiacciato le acque del lago così due ragazzini decidono di approfittarne per andare a pattinare. Non fanno in tempo ad avvicinarsi all’imbarcadero che uno dei due nota qualcosa che sporge in una parte del lago risparmiata dal gelo. Incuriosito, il bambino si avvicina e gli basta d’uno sguardo per accorgersi che quello che ha visto è il cadavere di donna. Una corsa a perdifiato per chiamare i soccorsi ma ormai è tardi. La gente si accalca sul posto, c’è anche Pietro De Biasio, marito di Adelina Da Tos, che da lontano senza un attimo di esitazione esclama: è Carolina. In effetti si tratta di CarolinaFinazzer, novella sposa di Aldo Da Tos, figlio minore dei proprietari dell’Albergo Centrale. I due, freschi di nozze, il giorno precedente hanno interrotto inaspettatamente il viaggio per richiesta di Carolina che, rientrata visibilmente turbata, doveva incontrare sua madre da lì a poche ore.
Si avanza subito l’ipotesi che Carolina fosse depressa, in più soffre di sonnambulismo. Qualcuno dice addirittura di aver visto una donna la sera prima in vestaglia aggirarsi nei pressi del molo. Suicidio.
Anche questa volta l’ipotesi non convince, soprattutto i famigliari, che fanno notare evidenti incongruenze come il ventre trovato privo d’acqua al suo interno, i denti stretti e gli evidenti lividi sul collo della ragazza. Anche il medico legale li ha notati quei segni ma minimizza dicendo che sono macchie dovute a un inizio di putrefazione. Molto strano, ribadiscono in molti, visto che Carolina è stata ritrovata solo poche ore dopo la sua morte e per di più immersa in acque gelide. Ma anche questa volta nessuno sembra aver voglia di andare oltre le apparenze. Carolina Finazzer, coniugata Da Tos, s’è uccisa. Caso chiuso.
Questi due delitti furono in più occasioni accostati da molta gente del paese, seppur con molta cautela, ad altrettante morti piuttosto misteriose: Paolino Da Rivadetto il Gobbo, il calzolaio, e di Guido Gardenal, garzone del macello di Aldo Da Tos. Il Gobbo, che aveva la bottega proprio davanti al Centrale, si mormorava sapesse troppo e il garzone, sebbene morì sul letto, una volta era stato chiuso nel macello dei Da Tos dove un toro infuriato l’aveva investito ferendolo gravemente.
Il paese piano piano sembra ritornare alla normalità. Dall’ultimo fatto passano giorni, mesi, anni: ne passano ben tredici fino a che succede nuovamente qualcosa.
È il 18 Novembre 1946 è da poco passata la mezzanotte. Luigi Del Monego e Luigia de Toni, Gigio e la Balena come li chiamano “affettuosamente” nel paese, hanno appena chiuso le porte del circolo ENAL che gestiscono e si apprestano a ritornare a casa nei pressi del Vicolo La Voi a pochi passi dal lago. Gigio si attarda all’orinatoio mentre la moglie è poco più avanti. Improvvisamente due spari ravvicinati rompono il silenzio della valle: i due coniugi vengono freddati a poca distanza l’uno dall’altro. Nessuno nel paese si preoccupa all’udire degli spari e nemmeno si prova ad affacciare perché la guerra è terminata da poco e molti hanno ancora armi nelle case che talvolta usano per festeggiare: quei colpi nella notte non destano pertanto particolari sospetti.
Luigi e Luigia Del Monego vengono così ritrovati solo la mattina successiva precisamente alle ore 6:00 da Angelo De Toffol, fruttivendolo e cognato della Balena che stava recandosi in bottega. Anche questo all’apparenza è un caso semplice visto che dalla borsetta manca l’incasso della serata: rapina a carico d’ignoti le conclusioni. Vengono anche fermate un paio di persone tali Fontanive e Verocai su “segnalazione” di Raniero Massi che è sempre risultato presente nelle indagini. I due sospettati vengono però presto rilasciati per mancanza di indizi sufficienti per convalidarne il fermo. Tra l’altro, come per gli altri casi, c’è sempre qualcosa che non torna: gli spari sono stati pressoché simultanei ma i cadaveri si trovano piuttosto distanti l’uno dall’altro, suggerendo un agguato piuttosto che una rapina. “E’ una rapina” si affrettano ad affermare gli inquirenti “a carico di ignoti ma pur sempre di rapina si tratta”. Altro caso chiuso.
Due suicidi e altrettanti omicidi allo scopo di rapina: ecco i misteri di Alleghe che vengono ostinatamente sussurrati da qualche persona del paese ma rimangono soffocati per tanto tempo nelle bocche della maggior parte degli abitanti che sembra sappiano ma sono spaventati a raccontare. Tutto rimane avvolto nel silenzio fino a quando Sergio Saviane, giovane aspirante giornalista che aveva passato molta della sua gioventù ad Alleghe, legge sul giornale dell’assassinio degli amici Gigio e la Balena e decide di saperne di più.
La storia
Quattro sono gli episodi che spingono Saviane a scavare nei misteri di Alleghe e che aiuteranno a districare la complicata matassa e arrivare alla risoluzione del caso.
Il primo una strana storia di rumori notturni e delle campane del vecchio paese sepolto dalla frana del monte Spitz che si diceva suonassero di notte. “Se state attenti, par di sentir qualche rintocco …. Viene da sott’acqua” mormorava la gente: “guardate, nei giorni di bel tempo, quando il lago è limpido ….. sotto …. molto sotto ….. si vede la punta del vecchio campanile …“. Tutte leggende che però, talvolta, sembravano brevi allusioni a fatti accaduti nel passato.
Il secondo è un fatto legato ai soggiorni estivi di Saviane ad Alleghe. Una sera passando davanti all’Albergo Centrale con l’amico Luigi Del Monego che stava riaccompagnando a casa, indicando le finestre dell’albergo gli disse: “questi non hanno la coscienza pulita, …”. Saviane cercò di sapere qualcosa di più ma Gigio rimase in silenzio fino alla porta di casa dove, come di consueto faceva con chi lo portava a casa a notte alta, lo salutò con un bacio.
Il terzo è la dichiarazione che fece il Professor Erler, proprietario della “Villa degli Spiriti” a pochi passi dal lago, che trascorreva l’intera villeggiatura rinchiuso in casa “per non incontrarsi ogni momento con gli assassini dei Del Monego sulla piazza del paese” come ebbe a dire più volte.
L’ultimo, forse il più importante, è la misteriosa lettera anonima che ricevette Eugenio Finazzer, fratello di Carolina sposa di Aldo Da Tos, dove gli veniva annunciato che la scrivente – una donna – conosceva il nome dell’assassino di Carolina ma che l’avrebbe rivelato solo in punto di morte perché aveva timore di incorrere nella vendetta.
Alla luce di quanto sopra Saviane si fece convinto che i delitti fossero tutti collegati e compiuti da una stessa mano: ma quale? Fu proprio l’amico barbiere, Bepi Checchini, che gli disse chiaramente “qui molti sanno …. scrivi, racconta questa storia portala fuori …”. Così dopo un breve incontro con Ugo Indrio, l’allora direttore del Lavoro Illustrato, venne incaricato di fare un’inchiesta e scrivere un articolo mettendo in relazione le 4 morti classificandole come delitti insinuando che dietro quelle morti violente ci fosse un’unica mano ancora libera di colpire di nuovo.
Il 13 Aprile 1952 usci l’articolo dal titolo “La Montelepre del Nord” che ipotizzava l’esistenza di un filo che collegava le morti della cameriera del famoso albergo alleghese, Emma De Ventura, della cognata della titolare Carolina Finazzer e dei due coniugi gestori del bar con esplicito riferimento all’omertà degli abitanti del paese del sud legato al bandito Salvatore Giuliano.
Nel Dicembre dello stesso anno Saviane venne citato in giudizio per diffamazione, querelato dagli albergatori del Centrale cioè Fiore e Aldo Da Tos che, nonostante non apparissero in alcun modo nell’articolo si sentirono stranamente tirati in causa. Il processo costò a Saviane 8 mesi di carcere con la condizionale, il pagamento delle spese processuali e 700.000 Lire come risarcimento ai Da Tos per danni morali.
Dopo questo duro colpo sembra che su Alleghe fosse destinato a richiudersi nuovamente il sipario lasciando che il tempo dissipasse ogni ombra sui delitti. Ma questa volta no, perché l’articolo di Saviane attira l’attenzione di un giovane  brigadiere dei carabinieri, Ezio Cesca, che assieme al suo comandante il maresciallo Domenico Uda della stazione di Agordo, riaprono le indagini seppur sotto copertura.
Il Brigadiere Cesca è un giovane brillante, con molto intuito e particolarmente intelligente ma soprattutto non è conosciuto in paese perché è appena stato trasferito: un ottima occasione per fingersi una persona qualunque senza destare sospetti. Cesca è un ostinato ma paziente investigatore le indagini procedono e il cerchio si stringe, tra l’altro, attorno a tale Giuseppe Gasperin ritenuto ancora un punto oscuro della vicenda.
Durante un colloquio con il suo superiore, in cui riporta le proprie impressioni e il parziale risultato delle indagini, Cesca riferisce che ha scoperto esserci ancora una persona indirettamente coinvolta nel delitto dei coniugi Del Monego: Corona Valt un’anziana signora che ha le finestre che affacciano proprio sul Vicolo La Voi la quale ha riferito a una parente e al parroco di aver visto tutto la notte del delitto dei Del Monego nel Novembre 46 senza però fare i nomi.
Cesca conosce la figlioccia di Corona Valt e chiede al Maresciallo Uda il permesso di corteggiare la giovane per arrivare, suo tramite, all’anziana donna. Uda in un atto di estremo coraggio assumendosi delle responsabilità a cui non era tenuto, visto che il regolamento dei carabinieri non lo prevedeva in alcun modo, acconsente. Cesca comincia il corteggiamento e tra i due nasce un sincero e profondo affetto, ma ben sapendo qual era il suo scopo il brigadiere si controlla per evitare di commettere errori nei confronti dell’innocente ragazza. Ben presto riesce ad entrare nelle grazie di Corona Valt che lo considera un buon compagno per sua nipote e riesce ad entrare così tanto in confidenza da risultare praticamente di famiglia.
Una sera, approfittando dell’assenza della giovane nipote e dopo aver provato diverse volte nei precedenti 6 mesi, riesce finalmente ad aprire un varco nella diffidenza dell’anziana zia che comincia a raccontare “ L’ho visto con questi occhi come se fosse ieri, è scappato proprio sotto qui, io ero dietro le persiane …“e fece il nome di Beppin Boa. Per un momento Cesca rimase stordito perché quel nome gli era completamente nuovo ma quando chiese delucidazioni Corona rispose “Si chiama Gasperin, abita nella casa qui sotto, a due passi …. L’ho visto scappare … “. A questo punto le tessere del mosaico cominciavano ad incastrarsi e il disegno a diventare più chiaro: i conti tornavano!
Quando Cesca provò a chiedere chi fossero gli altri due, Corona non volle dire più nulla se non che aveva visto uno con un cappellaccio scappare per i campi e che il Fontanive e il Verocai erano brava gente e non avevano nulla a che fare con il delitto e il nome dei complici avrebbe potuto chiederlo direttamente a Beppin Boa, così il brigadiere concentra le sue attenzioni su Gasperin.
Con estrema abilità lo avvicina, si procura un lavoro nello stesso cantiere, stringe amicizia e comincia a frequentarlo invitandolo spesso in osteria alla sera per bere insieme un bicchiere di vino e, in mezzo a molti discorsi “inutili”, infila astutamente dei riferimenti ai delitti di Alleghe: Cesca è convinto di avere davanti a se uno degli assassini dei Del Monego ma vuole avere le prove. L’occasione si presenta una sera quando il Gasperin ha bevuto un po’ più del solito, Cesca allora approfitta chiedendo se avesse mai sparato e poi rincara la dose domandando se avesse mai ucciso un uomo. Gasperin, pensando di aver di fronte un compagno particolarmente coraggioso, rivela di averlo fatto parecchi anni fa durante la guerra.
Era la prova che cercava, in accordo con il Maresciallo Uda il giorno successivo con una scusa fece convocare Gasperin alla caserma di Caprile per generiche “comunicazioni”. Non appena Beppin Boa si avvicina alla caserma Cesca si identifica e lo fa arrestare. Dopo un primo vano tentativo da parte di Gasperin di coprire i suoi complici, crolla e non solo fa i nomi delle due persone che insieme a lui avevano partecipato all’uccisione di Gigio e la Balena ma anche di chi sta dietro ai delitti di Alleghe.
Pochi giorni dopo le camionette dei carabinieri arrivano in paese agli ordini del maresciallo Uda e arrestano Pietro De Biasio e Aldo Da Tos. Adelina, ancora in libertà, viene messa sotto pressione da Cesca che quotidianamente la va a trovare in divisa per cercare di convincerla a parlare facendo leva sul fatto che il marito e il fratello stavano ormai raccontando tutti i fatti. Adelina resiste qualche mese ma a Settembre le prove contro di lei sono ormai schiaccianti e le manette scattano anche per l’ultima componente del “clan” Da Tos in quanto il patriarca Fiore e sua moglie Elvira sono ormai morti da tempo: l’accusa è quella di omicidio. Ma perché? Cos’è successo veramente?
Per saperlo dobbiamo tornare a quell’8 Maggio del 1933 quando Emma scrive quella lettera interrotta omettendo il nome di Giovanni Riva. Ma chi è costui? Quando Fiore Da Tos sposa Elvira Riva lei è già incinta di un altro uomo ma Fiore, interessato solamente al patrimonio della sua futura moglie, acconsente comunque al matrimonio. Quando viene il momento di partorire Elvira torna al suo paese, Mirano, a pochi chilometri da Venezia e affida il bambino a degli zii. Fiore fa finta di niente ma la presenza seppur lontana di Giovanni, il veneziano, come lo chiama per disprezzo proprio non gli va giù. Quando il figlio illegittimo, ormai maggiorenne, si presenta d’improvviso all’albergo a chieder conto della propria parte di eredità senza indugio, probabilmente nella cucina da dove vengono udite delle grida, Fiore aiutato da Aldo e Adelina uccidono il “bastardo”. Emma deve avere in qualche modo assistito a questo delitto o scoperto il cadavere inizialmente nascosto nelle cantine dell’albergo quindi andava anche lei eliminata. Voci di paese raccontano tra le altre cose anche di una mano di cadavere umano vista da due anziane signore, qualche giorno dopo il delitto, nel cesto della carne della macelleria di Aldo Da Tos che si sospetta aver tagliato a pezzi il cadavere di Giovanni potendo mascherare il sangue sul grembiule con quello delle bestie.
Il 9 Maggio Adelina si occupa di Emma sorprendendola alle spalle nella camera numero 6 dell’albergo Centrale: le chiude la bocca con un braccio e le taglia la gola poi, assieme agli altri, inscena un suicidio con tutta la semplicità e la sicurezza di chi si crede intoccabile protetto da amicizie potenti come quella di Raniero Massi. Il delitto si profila, in questo caso, anche a sfondo di gelosia e vendetta visto che il marito di Carolina, Pietro De Biasio, non lesinava complimenti alla bella cameriera anche - e soprattutto - in presenza alla moglie che, per quieto vivere, sopportava.
Aldo, considerato dalla famiglia non particolarmente sveglio, debole di carattere e probabilmente destabilizzato da quelle morti violente sta diventando un problema specie quando alza un po’ troppo il gomito. La famiglia teme che possa parlare quindi si adoperano per cercargli moglie nella speranza che la presenza di una donna possa tranquillizzare quel figlio problematico. Fiore con molta diplomazia convince i genitori di Carolina Finazzer a combinare il matrimonio e nonostante la giovane non sia convinta, avendo sentito insistenti voci di paese su quella strana famiglia, alla fine si lascia convincere e sposa Aldo. Durante il viaggio di nozze Aldo, costantemente tormentato da quei pensieri, crede di trovare in Carolina una valvola di sfogo tanto più che ormai la sente come di famiglia e una sera si lascia andare alle confidenze più intime delle malefatte della famiglia sperando di poter parzialmente trovare un appoggio e del sollievo.
Al contrario Carolina si spaventa e vuole tornare immediatamente a casa, arrivata ad Alleghe telefona alla madre e la implora di venirla a prendere il giorno dopo pianificando la fuga. La sera è, però, obbligata a passarla nell’albergo Centrale, e prova a simulare sicurezza: Aldo non è molto sveglio e non capisce mentre per Fiore e gli altri è tutto chiaro. Durante la cena Carolina si trova sola di fronte alla famiglia Da Tos, a loro basta uno scambio di sguardi per convincersi che lei sa e non starà zitta: così firma la sua condanna a morte. All'omicidio viene obbligato a partecipare anche Aldo: quando Carolina sale in camera sua la seguono in tre e, mentre Aldo e Adelina la tengono per le braccia e per le gambe, Pietro le mette le mani al collo e la uccide. Terminato anche questo delitto bisogna sbarazzarsi del corpo: è Aldo che lo dovrà fare visto che ha combinato il pasticcio deve assumersi la responsabilità di gettare il cadavere nel lago mentre ad Adelina viene ordinato di mettersi una vestaglia sopra i vestiti e inscenare una persona in sonnambula sulle rive del lago affinché testimoni possano vedere e riferire.
Aldo si carica il corpo di Carolina sulle spalle e comincia a percorrere la strada che porta al lago, ma accade un imprevisto. Ci sono 5 persone che rientrano alle proprie case dopo esser stati a ballare a una festa di paese dall’altra parte del lago. Arrivati ad Alleghe si salutano, le loro strade si separano: tre vanno da una parte mentre gli altri due entrano in paese in direzione Vicolo La Voi e scorgono, senza essere a loro volta visti, Aldo Da Tos che si dirige verso il lago con in spalla qualcosa di pensante, una massa scura che assomiglia a un corpo. Questi due fidanzati che vedono qualcosa da mettere in relazione con il corpo di Carolina l’indomani al ritrovamento del suo corpo nel lago sono Luigi e Luigia Del Monego. Dopo 13 anni dall’evento forse i Da Tos temono che la coppia voglia rompere il silenzio e rivelare quel particolare scomodo che metterebbe in pericolo tutta la famiglia.
Così Pietro De Biasio, Aldo Da Tos e Beppin Boa quella sera di Novembre del 1946 si danno appuntamento nel vicolo La Voi e tendono l’agguato a Gigio e la Balena freddandoli e inscenando la rapina.
Il processo si tiene nel Marzo del 1960: in un tempo record di 4 mesi e dopo 9 ore di camera di consiglio la corte d’Assise di Belluno condanna i fratelli Da Tos e Pietro De Biasio all’ergastolo e Beppin Boa a 30 anni. L’unico a salvarsi è il Cav. Raniero Massi nonostante il Pubblico Ministero gli dica apertamente che a suo parere egli è coinvolto nei fatti molto più di quello che afferma. Nel 1962 c'è il processo d'appello che conferma la sentenza e chiude definitivamente il caso, almeno sulla base di quanto sono riusciti a trovare, partendo da un articolo di uno scrittore, un coraggioso maresciallo e un ostinato brigadiere (scomparso il 27 agosto 2017, all’età di 88 anni).
Di tutto quanto riportato in questo scritto per chiudere definitivamente il cerchio, all’appello mancherebbe solamente una prova concreta sull’effettiva esistenza di Giovanni Riva, il figlio illegittimo dei Da Tos, di cui, nonostante le insistenti testimonianze di paese, non si è riuscito a trovare nemmeno un certificato di nascita.
Forse l’unico a sapere la verità è il lago che manterrà il segreto nel fondo delle sue acque, sotto …. molto sotto ….. e chissà se un giorno di bel tempo, quando il lago è limpido guardando verso la punta del vecchio campanile si possa sentire un ultimo rintocco che metta definitivamente la parola fine a questa triste storia di delitti.

Marco Boldini

Bibliografia
I misteri di Alleghe di Sergio Saviane (Edizione integrale 1966) – Ed. Mondadori 

Epoca n. 411 del 17 Agosto 1958. Si ringrazia Leonardo e il team di www.petitesondes.net

RAI “Blu Notte - I misteri di Alleghe” di Carlo Lucarelli.

MARCO BOLDINI
Nato nel 1969 sposato, 3 figli e il gatto Balthazar, 47 anni ma in realtà ventisettenne con vent’anni di esperienza, cittadino del mondo e milanese di nascita ma miazzinese e, più recentemente, tainese di adozione. Volubile e curioso cerco quando posso di fuggire dalla noia e dalla routine, ho potenzialmente sempre la valigia aperta, pronto a passare da un aeroporto all'altro, a conoscere lingue, persone, culture e paesi diversi che ritraggo in maniera dilettantistica con la macchina fotografica. Amo in uguale maniera la montagna, che ti parla con i suoi silenzi e ti regala indimenticabili albe e romantici tramonti; da qui forse l’interesse per questo blog.


Parco Nazionale di Yellowstone: sospeso tra realtà e fantasia

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Quando, nel 1869, Charles W. Cook tornando da un'esplorazione di quello che sarebbe diventato il primo Parco Nazionale del Pianeta, presentò un’accurata descrizione delle meraviglie che aveva incontrato per la pubblicazione sulla rivista scientifica “Lippincott's Magazine of Literature, Science and Education” di Filadelfia, ricevette dalla redazione un cortese rifiuto con la risposta: "Grazie, ma noi non stampiamo racconti fantastici".
Il Parco Nazionale di Yellowstone è quell’incredibile parte del territorio americano, più grande dell’Umbria, incastonata nel bel mezzo delle Montagne Rocciose e compresa nella parte nord-occidentale dello Stato del Wyoming, al confine con Montana e Idaho, coperta da sconfinate pianure erbose e ampie foreste attraversate dallo Yellowstone River, il più importante affluente dell’alto corso del fiume Missouri. Tutta l’area rappresenta il nucleo centrale del Greater Yellowstone Ecosystem, uno dei più grandi ecosistemi intatti della zona temperata rimasto sulla Terra, oltre ad essere il più antico Parco Nazionale terrestre (fondato nel 1872 durante la presidenza di Ulysses S. Grant) e la più grande Riserva Naturale degli Stati Uniti, patrimonio dell’UNESCO. Il Parco, visitato annualmente da oltre 4 milioni di persone provenienti da tutto il mondo, vanta dei numeri da capogiro: oltre 300 geyser e più di 10.000 sorgenti calde (200 °C) connesse ad una profondità di 14.000 metri con il più grande "super vulcano" del Pianeta (90 per 55 km circa).
Il geyser più famoso, l’Old Faithful (Vecchio Fedele, per la sua regolarità e frequenza nelle emissioni) arriva a sparare getti d’acqua bollente alti tra i 30 e i 55 metri con un volume d’acqua variabile tra 14.000 e 32.000 litri. Lo Steamboat Geyser (il più alto attualmente attivo nel mondo) arriva addirittura a 91 metri di altezza. Ma vi sono altri geyser con caratteristiche uniche a Yellowstone, come per esempio il Giant Geyser che erutta quasi quattro milioni di litri d’acqua oppure il Great Fountain Geyser che spara acqua bollente in direzione perfettamente verticale sopra una pozza piatta. L’acqua fuoriuscita dalle migliaia di sorgenti calde è ricca di minerali a base di calcio, magnesio e silicati che creano, nei terreni attorno, coni e terrazze dai colori variopinti. L’esempio più famoso è quello del Mammoth Hot Springs dove sono sorti dei cumuli di deposito minerale che toccano addirittura i 90 metri. Esistono anche molte formazioni rocciose bagnate da acque sorgive che assumono connotazioni di veri e propri vulcani di fango. Lo Yellowstone River scorre da nord, dal Montana, scavando un canyon di 32 chilometri di lunghezza con pareti scoscese e due spettacolari cascate, per poi gettarsi nel cuore del parco, costituito dall’enorme caldera del super vulcano, lo Yellowstone Lake, il più grande lago di montagna del Nord America, posto ad un’altitudine di 2.357 metri sul livello del mare.
In tale contesto ecologico, che è stato meno soggetto ad alterazioni umane rispetto ad altri in tutto il mondo, vivono 67 tipi diversi di mammiferi, tra i quali diverse specie a rischio estinzione (sono circa 800 gli orsi grizzly, almeno 13 i branchi di lupi e 5.000 i capi di bisonte americano) oltre 300 specie di uccelli (numerose le aquile, i corvi, i cigni, i falchi pescatori, gli aironi e i pellicani) circa 25 varietà di pesci, rettili e anfibi, un’innumerevole diversità di flora, bacche, muschi e funghi di varie specie (Yellowstone ospita più di 1.350 specie di piante vascolari, di cui 218 sono non-native) in ambienti particolari formati da foreste, steppe, zone umide e idrotermali. Ogni anno circa 200 ricercatori scientifici sono autorizzati a utilizzare i siti di studio all’interno nel Parco mentre molti altri, provenienti da 30 Stati Americani e 8 Paesi stranieri tra i quali l’Italia, vi conducono ricerche per monitorare le importanti variazioni climatiche dell’ecosistema, nonché la continua e mutevole presenza di microrganismi, batteri, virus e ogni altra forma di vita in grado di sopravvivere e svilupparsi in condizioni vulcaniche e idrotermali estreme. Tutto ciò rende il parco di Yellowstone non solo una riserva naturale inestimabile, ma anche un patrimonio di informazioni preziose per l'umanità intera. La natura ancora oggi è padrona a Yellowstone, così come lo è stata per millenni. Ma mentre oggi l’uomo combatte contro sé stesso per riuscire a preservarla intatta, per secoli l’intera area è stata vista con sospetto e timore dalle comunità umane che, sin dall’era glaciale, vi si sono avventurate unicamente per cacciare il cibo, raccogliere piante, estrarre ossidiana, anche usando le acque termali per scopi religiosi e medicinali, ma mai per viverci in maniera stanziale.
Le tribù native americane che vi si sono spinte (prevalentemente Blackfeet, Crow e Shoshone ma almeno 26 diverse tribù vengono oggi associate all’area del Parco di Yellowstone) lo hanno fatto, in genere, mantenendo sempre una certa sacra soggezione verso quei paesaggi così strani ed anomali. Gli uomini rossi generalmente evitavano Yellowstone, ad eccezione di un clan famigliare di pastori, una piccola banda di Shoshone, che risulta abitasse in una valle tra quelle montagne (Lamar Valley) il cui accesso era possibile esclusivamente attraverso antichi sentieri indiani. Quando, nel 1834-1835, il Trapper Osborne Russell giunse in quell’angolo di Paradiso e scoprì la presenza di queste famiglie isolate, le paragonò ad Adamo e Eva nell’Eden. In realtà, già dalla fine del 1700 i commercianti di pellicce francesi, in viaggio lungo gli affluenti del fiume Missouri, vennero a conoscenza di quel mondo nascosto grazie alle informazioni ricevute dalle comunità indiane incontrate nel tragitto con le quali commerciavano. Ma le notizie restarono vaghe ed isolate ancora per molto tempo, neanche la spedizione esplorativa di Lewis e Clark, inviata ad Ovest dal Presidente Jefferson (1804-1806) si addentrò nell’area, preferendo proseguire oltre l’Idaho in cerca di uno sbocco sul Pacifico. William Clark, nel 1809, nell’ambito dei suoi resoconti redatti al termine della spedizione, in ordine a quella parte di montagne rocciose, scrisse:
“… Alla testa di questo fiume i nativi raccontano che spesso c'è un forte rumore, come il tuono che fa tremare la terra, affermano che raramente vanno lì perché i loro figli non riescono a dormire … e credono che quelle terre siano possedute da spiriti contrari al fatto che gli uomini possano sostare vicino a loro…”.
Al ritorno dalla spedizione del 1806, Clark acquisì e catalogò per anni tutte le segnalazioni che, di volta in volta, gli venivano fornite da commercianti di pellicce che si erano spinti in quei luoghi misteriosi. Uno di questi era John Colter, un ex membro della spedizione “Lewis e Clark” che rimase sulle montagne, spingendosi in un’avventura solitaria attraverso un epico viaggio invernale nel cuore della regione di Yellowstone. Colter giunse fin sulle sponde del Lago Jackson e, dopo aver attraversato il Continental Divide, esplorò la valle di Jackson Hole posta alla base del Teton Range. Probabilmente arrivo anche fino al Lago Yellowstone, nei pressi del quale può avere assistito all’eruzione di geyser e ad altre manifestazioni geotermiche. Egli non solo percorse centinaia di chilometri senza guida, in pieno inverno e con temperature di -34 °C, ma dovette anche veder ridicolizzare i suoi resoconti, poiché pochi furono coloro che gli credettero a proposito di spruzzi bollenti e pozze d'acqua fumante. Sostanzialmente, durante tutta la maggior parte del diciannovesimo secolo, Yellowstone esistette nella mente pubblica occidentale come un racconto incantato e leggendario, i cui segreti restavano ben protetti non solo dalle aspre montagne che lo circondavano ma anche dall'incredulità popolare. Esploratori, cacciatori e cercatori d'oro tendevano a scavalcare l'area che gli indiani chiamavano "la cima del mondo". I ricercatori hanno spesso sostenuto che i primi nomi assegnati a certe caratteristiche di Yellowstone: Hell Roaring Mountain (montagna infernale che ruggisce), Devil's Cauldron (calderone del diavolo) e simili, fossero un tributo speciale agli aspetti infernali del paesaggio, anche se la nomenclatura satanica era più che compensata, già nell’800, dalla raffigurazione di geyser e sorgenti termali come "templi", "santuari" e "luoghi sacri".
Dopo le frammentarie e fantastiche notizie portate ad Est da William Clark e da John Colter, altre spedizioni provarono a rivelare i segreti di Yellowstone, tra le quali quella guidata, nel 1860, dal 39enne Capitano William F. Raynolds, ingegnere militare esperto in topografia, incaricato di esplorare un territorio vasto “più del doppio della Gran Bretagna” per accertare “… per quanto possibile tutto ciò che riguarda ... gli indiani che abitano quei territori, le sue risorse minerarie ... la navigabilità dei suoi corsi d'acqua, le sue caratteristiche topografiche e ogni ostacolo che queste ultime possano presentare alla costruzione di ferrovie o strade comuni ...". Il Capitano Rynolds, nonostante le disavventure e le sofferenze della spedizione (che dovette fare i conti anche con diserzioni e tentativi di ammutinamento) si rivelò all’altezza delle aspettative, acquisendo importanti mappature del territorio, poi confermate ed ampliate in quegli anni da altre importanti esplorazioni (Folson-Cook-Peterson del 1869, Washburn-Langford-Doane del 1870, Hayden e Barlow del 1871). Il Presidente Grant, continuamente spinto e sollecitato da interessi scientifici e naturalistici, si convinse quindi dell’importanza unica e delle immense potenzialità che quella parte nascosta delle Montagne Rocciose rappresentasse per gli Stati Uniti, promuovendo un disegno di legge che nel 1871 mutuava quanto già legiferato 7 anni prima per la Yosemite Valley (la Yosemite Act aveva infatti escluso la valle dagli insediamenti privati affidandone il dominio pubblico allo Stato della California). Ma le meraviglie di Yellowstone - mostrate attraverso le fotografie di Jackson, i dipinti di Moran e gli schizzi di Elliot - catturarono a tal punto l'immaginazione del Congresso da far ritenere necessario istituire, nel 1872, un vero e proprio Parco Nazionale, che beneficiasse di una legislazione ancora più restrittiva. Il 1 ° marzo dello stesso anno, il presidente Ulysses S. Grant firmò la legge sulla protezione del parco Nazionale di Yellowstone.
Ovviamente i primi visitatori di quelle zone selvagge dovevano essere necessariamente più esploratori e avventurieri piuttosto che turisti. Gli Stati Uniti infatti erano ancora in guerra con le tribù indiane e, per quanto il Governo si sforzasse di rassicurare le persone desiderose di addentrarsi a visitare quelle terre, il Parco di Yellowstone restava una zona pericolosa e difficilmente gestibile, anche per la presenza di bracconieri e taglialegna non autorizzati. L'estate del 1877 portò a Yellowstone la tragedia dei Nez Percé, allorquando una tribù di 800 uomini, donne e bambini, con al seguito quasi 2.000 cavalli, lasciò la propria terra (odierni Oregon e Idaho) perseguitati dall'Esercito degli Stati Uniti, penetrando nell’area del Parco. La loro guida “Chief Joseph” si era rifiutato di subire la deportazione della propria gente in una riserva, lontana dalla terra ancestrale, capeggiando l’esodo della propria tribù in direzione del Canada. Nell’area di Big Hole, nel Montana, molti guerrieri, donne e bambini Nez Percè furono uccisi in una battaglia contro le unità di cavalleggeri che li tallonavano per trasferirli nei luoghi a loro assegnati dal Governo. I sopravvissuti, nella fuga, penetrarono nel Parco Nazionale il 23 agosto incontrando un gruppo di 25 visitatori bianchi. Ne nacque un violento scontro che provocò la morte di 2 turisti, la presa in ostaggio degli altri, trattenuti per qualche giorno dai guerrieri durante la loro fuga in direzione delle Absaroka Mountains. Rilasciati gli ostaggi, la tribù di Capo Giuseppe fu raggiunta giorni dopo e accerchiata nel Montana, nei pressi delle Bear Mountains, a sole 40 miglia dal confine canadese. Ne seguirono feroci combattimenti tra gli Squadroni dell’Esercito e gli assediati, i quali dopo una strenua difesa non poterono fare altro che arrendersi il 5 ottobre 1877, per essere confinati in un’arida terra in Oklahoma. Il doloroso esodo dei Nez Percè (1.170 miglia) è rimasto nella memoria collettiva fino ad oggi e, nel 1986, è stato tracciato un percorso storico che ne ricorda tristemente le tappe, anche attraverso il Parco di Yellowstone dove, ancora oggi, i discendenti della gente di Capo Giuseppe si riuniscono in cerimonie commemorative.
Da quei terribili giorni ci vollero altri 9 anni perché l’area del Parco diventasse un luogo sicuro, il 20 agosto 1886 l’Esercito entrò in forze nella Valle dello Yellowstone prendendo il comando di tutta l’area, sorvegliando e pattugliando le principali attrazioni naturalistiche da chiunque non fosse autorizzato ad accedervi. Naturalisti come George Bird Grinnell e giornalisti come Emerson Hough, contribuirono non poco, negli anni successivi, a migliorare la difesa dell’ambiente e della fauna di Yellowstone, fino all’approvazione del “National Park Service Organic Act (1916) che prevedeva l’istituzione di un corpo di Rangers specificamente dedicato al controllo del Parco e dei suoi flussi turistici. Dopo molte avventure, il primo Parco Nazionale al mondo, così come lo conosciamo oggi, era finalmente nato.

“… ho guardato nell’abisso … i lati di quel dirupo erano una selvaggia macchia di colore: cremisi, smeraldo, cobalto, ocra, ambra, miele spruzzato di vino di porto, vermiglio, limone e grigio argento … non cadevano a picco, ma erano scolpiti dal tempo, dall’acqua, dall’aria in mostruosi volti di capi, di re … uomini e donne dei tempi antichi ... il fiume Yellowstone scorreva come una striscia di giada ..”.(Note americane, di Rudyard Kipling).

Sergio Amendolia 

Materiale informativo dell’Ente Parco e Fotografie di proprietà dell’autore


SERGIO AMENDOLIA
Nato 55 anni fa a Genova, sposato con 2 figli, 2 gatti e un cane, ho sempre guardato con stupore l'orizzonte e tutto ciò che quella linea rappresenta e contiene, convinto che dove il cielo finisce si celano sempre spazi e tempi lontani, spesso inesplorati o conosciuti poco e male. Forse per questo mi attira l'impostazione di questo blog ed i veli della Storia che gli articolisti provano spesso a sollevare, perché conoscere è importante e aiuta a capire ciò che siamo e come lo siamo diventati. Oltre alla nostra bella Italia ed alla sua impareggiabile ricchezza di arte e storia, mi affascinano molto gli scenari mozzafiato dell'Ovest Americano. In questi ultimi anni ne ho percorsi alcuni, ancora una volta cercando di varcare orizzonti i cui contorni sfuggono in continuazione, dimensioni che ho provato a malapena ad intuire nei volti dei nativi che ancora oggi si incontrano nelle riserve: a volte duri, scolpiti e aridi come i monoliti di arenaria rossa, probabilmente gli unici in grado di metabolizzare la sensazione di infinito che pervade quelle terre lontane. Per questo mi piace, quando il tempo libero me lo permette, collaborare con riviste e pagine web, tentando di approfondire le vicende che hanno caratterizzato la storia di quei popoli d'oltreoceano, in particolare l'epopea del West, con un occhio particolare agli uomini e alle donne che la vissero davvero, fuori dai luoghi comuni e dai grandi miti costruiti da Hollywood.

Formaggio, santi, per non parlare dell'uomo selvatico

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Il formaggio. Uno degli alimenti fondamentali per la dieta alpina, ricco di proteine, dalla lavorazione ricca di tappe, e di relativi sottoprodotti. Panna, burro, formaggio, ricotta… Sono tante le fasi intermedie della lavorazione. Il presente contributo vuole indagare antropologicamente il “ciclo del formaggio”, entrando non tanto nelle differenti tipologie di lavorazione, quanto piuttosto nelle tradizioni correlate al formaggio ed ai suoi derivati: dai santi protettori dell’enarpa e della desarpa, ovvero la salita e la discesa dell’alpeggio, sino a san Luguzzone, “protettore” dei formaggi. Senza dimenticare un fenomeno più “pop”, ovvero l’uso della tradizione e dei suoi “stereotipi” (il carretto del formaggio, le mucche che pascolano libere, la sapienzialità delle antiche ricette) in campo pubblicitario. Dalla Robiola Osella sino al Parmigiano Reggiano ed al Grano Padano, simboli enogastronomici dell’Italia nel mondo.
1 - Breve panoramica di formaggio ossolani

Molto importanti nell’enogastronomia alpina, come avuto modo di accennare precedentemente, sono i formaggi. In Ossola il “re” indiscusso dei latticini - anche per via del suo costo, che arriva a superare i 35€/kg - è il Bettelmatt. Si tratta di un cru pregiato della famiglia delle tome della montagna ossolana. La sua zona di produzione è l’alta valle Formazza, con pochi alpeggi riconosciuti ufficialmente e che possono effettivamente marchiare Bettelmatt, e si prepara con latte vaccino. Presenta una pasta molle ed untuosa, prodotta solo d’estate con una tecnica molto simile a quella del gruvyere. Il latte, scaldato a circa 40°C in caldaia di rame, viene cagliato in 20-35 minuti e rotto in grumi grandi quanto un pisello, lasciata riposare e quindi cotta. Con una tela si raccoglie il deposito, lo si pone in una fascera. lo si fa raffreddare e lo si torchia per 12-24 ore. A questo punto la forma o viene messa in salamoia per 10-15 giorni, oppure viene salata a secco, per essere quindi messa a maturare per minimo un paio di mesi.
Oltre al Bettelmatt da citare la grande famiglia dei grassi d’Alpe, mezzapasta o spress. Anche in questo caso si tratta di un formaggio di latte vaccino, con una pasta tenera ed elastica, ottenuto scremando parzialmente il latte per asciugare il formaggio il più possibile. Si coagula quindi a 30°C. si procede ad una prima rottura della cagliata, si semicuoce la pasta e, quando questa si deposita sul fondo, si procede ad una seconda rottura della cagliata. Dopo questo procedimento la massa va messa nelle apposite fascere, dove viene pressata per alcune ore. La due facce vengono quindi salate a secco e le forme vengono sistemate in locali aereati, ad una temperatura tra i 12°C ed i 15°C. La stagionatura avviene in tre o quattro mesi, ma può arrivare fino all’anno, persino 14 mesi. La differenza di stagionatura ha effetti sulla crosta, che si presenta in diverse variazioni di marrone: da quello più chiaro al bruno. Una piccola e breve considerazione su questo formaggio e sulla sua valorizzazione: negli anni scorsi, grazie ad un progetto della Provincia del Vco, in occasione delle feste si erano aperti, proprio per promuovere questa eccellenza gastronomica, degli “spress-bar”, che giocavano, anche nel nome, con il tipico formaggio ossolano, la velocità del servizio - quasi “e-spress” - e la moda crescente degli aperitivi.
A questo si aggiunge il formaggio Ossolano, che proprio nel 2017 ha ottenuto il riconoscimento della Dop. La sua area di produzione è appunto quella dell’Ossola e delle sue sette vallate laterali: si tratta di un formaggio semigrasso o grasso a pasta dura e semicotto, prodotto con latte intero bovino.Si tratta di un formaggio storico: le sue prime attestazioni risalgono infatti a poco dopo l’anno Mille.
Slow food riconosce anche tra le eccellenze il Caprino ossolano, a pasta morbida e compatta prodotto in tutta l’Ossola. Naturalmente un tempo la produzione di formaggi, un tempo florida in tutta l’area, venne abbandonata sin quasi all’estinzione, fino alla ripresa grazie ad allevatori - casari di origine lombarda che hanno reintrodotto la produzione. Si tratta di un classico caprino di montagna, prodotto da marzo a novembre, facendo inacidire e raffreddare il latte crudo fino a 18°C. Si passa così all’aggiunta del caglio trasferendo la cagliata in formelle per poi procedere alla salatura a secco ed il completo spurgo del siero. la maturazione avviene in tre giorni, quando si forma una buccia sottile bianca o giallo paglierino (cfr Slow Food, 2012).
2 - L’andare in alpeggio

L’alpeggio, o meglio l’andare all’alpe è sempre stato uno degli eventi calendariali più importanti in ambito alpino. Questo perché, come solitamente si spiega ai bambini piccoli, rappresentava un po’ la “vacanza” delle mucche. Vacanza, virgolettato volutamente, perché in realtà corrispondeva ad un periodo di superlavoro per l’alpigiano, che si trovava costretto a seguire i ritmi del bestiame, in mandrie che, spesso, comprendevano gli animali di più famiglie.
Andare all’Alpe era un vero e proprio viaggio, pericoloso sotto certi aspetti. In primis perché si andava nella natura poco antropizzata, pertanto era necessario avere dei santi che facessero “da marca” - ovvero creassero un tempo “benedetto” per compiere questa traversata. E, guarda caso, si tratta di due santi sauroctoni, ovvero che uccidono serpenti - o diavoli -, precisamente san Bernardo da Mentone o da Aosta (canonizzato il 20 giugno) e Michele Arcangelo (29 settembre). Questo era il periodo fausto per potersi recare all’Alpe, per intraprendere il viaggio nella wilderness per portare le mucche a pascolare e nutrirsi di erba migliore. Ed il motivo per cui la salita e la discesa dall’alpe (rispettivamente enarpa e desarpa) è protetta da questi due santi è molto semplice: si tratta della volontà di porsi sotto la protezione di due santi che, nella loro iconografia, “dominano” la natura. San Bernardo, che tiene incatenato, rendendolo quindi innocuo, un diavolo / uomo selvatico / serpente, simbolo della natura selvaggia, dei suoi pericoli. E questi pericoli vengono addirittura uccisi dall’arcangelo Michele, sotto la cui protezione si scende dall’alpeggio per tornare nelle consuete abitazioni: il formaggio prodotto che viene portato a casa verrà venduto o consumato e sarà un ottimo viatico per passare l’inverno. Come una lancia che trafigge il drago inverno.
3 - San Luguzzone

Oltre ai santi sauroctoni esiste anche un santo patrono dei casari, delle mandrie e dei pastori, rappresentato con una forma di formaggio al fianco. Si tratta di san Luguzzone, ovvero il martire Lucio di Cavargna, canonizzato il 12 luglio. La sua storia è molto singolare: secondo la sua agiografia del 1861, sul lago di Como, precisamente a Cavargna, viveva, nel XII-XIII secolo, un pastore di nome Lucio. Un pastore che «non temeva le infuocate canicole, tempi piovosi, ed ogni intemperie delle stagioni; pazientava il salire sui monti, il calare nelle valli, il vivere nei boschi, sempre attento alla guardia commessagli degli armenti; e come se fosse istrutto dalle pecore e dal latte che maneggiava, tal era obbediente e arrendevole alla grazia del suo stato. Faceva in somma tutto ciò con tal esattezza, che in breve anche per una strada abietta poté giungere ad un termine glorioso di cristiana pietà e soda virtù del Vangelo».
Lucio si dimostrò un pastore molto attento anche al contesto sociale: non esitava, infatti, a donare prodotti ai poveri, cosa che gli costò il posto. Non si trattava naturalmente di furto - mai un santo potrebbe rubare! -: era talmente abile nelle sue doti di pastore da riuscire a produrre, con il siero di latte - che normalmente viene buttato - della mascarpa che donava ai poveri. Il suo “padrone”, però, temendo furti, decise di licenziarlo. «Appena scacciato San Lucio dalla prima casa con tanta empietà del padrone - prosegue l’agiografia -, quasi fosse entrata in quella casa la carestia, andava di giorno in giorno impoverendosi l'avaro di pecore e di latte e d'altri suoi averi. All'opposto entrato il santo nella seconda casa con tanta cortesia di quell'altro padrone, quasi in essa fosse entrata con lui l'abbondanza, andava ogni dì arricchendosi; crescevano le sue pecore ne' prati; estratto il latte, si riempivano lor le poppe, coagulando il latte, si ricavava duplicato il cacio, tagliandosi questo in pezzi o ai compratori o ai poveri, le forme si ritrovavano ancora intere: tutto ciò con somma confusione dell'avarizia del primo padrone, in premio della buona grazia del secondo, e in fine a chiara gloria e guiderdone anche temporale della carità del nostro Santo. Collo strepito di un tale miracolo siccome più si accreditava il nome di Lucio presso degli altri, così sempre più contro di lui cresceva il furore del primo padrone, il quale (...) smaniava di sdegno per la sua disgrazia, e si rodeva d'invidia per la buona sorte dell'altro (...) e armato il fianco di coltello omicida, andava in giro per tutti quei luoghi, dove era abitudine del Santo di portarsi».
San Lucio venne martirizzato dall’invidia del suo primo padrone: una morte particolare che non entra nei canoni tipici del martirio - ovvero quando un santo viene ucciso a causa della sua fede o per preservare la sua integrità. Questa la spiegazione che troviamo nella sua già citata agiografia: «Si potrebbe qui cercare se la morte di San Lucio sia vero martirio; perché non fu data in odio del Vangelo, né sostenuta per difesa della Fede. Ma il gran Dottor delle scuole, San Tommaso ne toglie ogni difficoltà, col dir che basta per il martirio il soffrire con intrepidezza la morte, al fine di sostener con essa una di quelle virtù che ci furono raccomandate da Cristo (...). È vero che il barbaro omicida non lo uccise per odio contro la Fede, ma lo uccise però per odio contro il suo santo operare, contro le sue massime, contro la sua carità. (...) siccome il Battista dicesi Martire dello zelo, della pudicizia Agnese, egli a ragione si può chiamare Martire della carità».
L’iconografia del santo è particolare: la prima raffigurazione la troviamo già nel 1280, pochi anni dopo la morte, in un pilastro della cattedrale di san Lorenzo a Lugano e reca in mano un coltello ed una forma di formaggio, suo attributo principale.
4 - Uomo selvatico

Quello che faceva san Luguzzone, ovvero utilizzare e riciclare anche gli ultimissimi scarti della caseificazione trasformando il siero in mascarpa era una peculiarità anche degli uomini selvatici, figure cardine delle tradizioni alpine. Si tratta delle personificazioni delle entità naturali, che sono molto particolari ed ambivalenti. Hanno infatti le fattezze di uomini pelosi - l’iconografia più conosciuta è forse quella dell’Homo salvadego di Sacco in Valtellina -, diffusi in ambito alpino ma anche in tutto il mondo nelle forme di Yeti piuttosto che Bigfoot. Rappresentano la selvatichezza, l’uomo che vive a stretto contatto con la natura non antropizzata, in armonia con essa. La sua figura veniva venerata in passato come divinità della natura e per questo venne sussunta nella liturgia cristiana (pensiamo a san Giovanni Battista, raffigurato vestito di pelli proprio come un uomo selvatico) ed addirittura inglobata nelle chiese, come ad esempio nelle guglie del Duomo di Milano. Il personaggio è entrato molto anche nel folklore, sotto forma di uomo di protagonista del rito della Giubiana di Canzo, l’ultimo giovedì di gennaio, piuttosto che in alcuni carnevali, assumendo la forma di orso (che viene sbarbato, quindi antropizzato), ad esempio a Mompantero dove l’animale - simbolo della selvatichezza - viene cacciato e fatto ballare.
Sono molti gli spunti di riflessione che l’uomo selvatico può fornire, ma un aspetto della sua storia è senza dubbio particolarmente interessante. E’ stato lui ad insegnare agli alpigiani a fare il formaggio e le sue varie fasi di lavorazione. Un sapere che ha trasmesso volentieri ma, a causa del comportamento scorretto degli uomini - solo in parte. Mi spiego meglio: a seconda delle leggende che troviamo l’uomo selvatico si allontana dagli uomini o perché viene scacciato, oppure semplicemente perché - come nella leggende dell’uomo selvatico tramandato in Trentino, nella zona dei Mocheni - gli uomini non volevano conoscere altro. Questa leggenda è particolarmente strana: il personaggio chiede agli uomini se vogliono conoscere altri segreti, ma loro rispondono che l’aver imparato a fare il formaggio è abbastanza. E così l’uomo selvatico se ne va, quasi adirato: «Aveste desiderato di conoscere altro vi avrei insegnato altro, ovvero fare cera con il siero del latte. E così sarei stato liberato». La leggenda, però, non spiega da cosa. E’ lecito ipotizzare che fosse vittima di un maleficio stile La bella e Bestia, ma il folklore non è più specifico.
Aspetto fondamentale e comune a tutte queste tradizioni è il fatto che l’Uomo selvatico è il portatore del sapere caseario, soprattutto dell’ultimo segreto, ovvero quello di trasformare il siero in cera. Un potere stile quello di Re Mida, poiché la cera era un bene molto prezioso, soprattutto in un periodo - quello della tradizione - dove l’ìlluminazione era basata sul fuoco, con candele e lampade.

5 - La musealizzazione

Il timore della perdita della memoria - il cui eponimo, in tempi moderni, è lo zombie (Cfr Ciurleo - Piana, 2016) - è una delle caratteristiche degli ultimi anni del Novecento e di questo inizio millennio. Una reazione, se vogliamo, al “dumping culturale” degli anni ’50 e ’60 del Novecento: due decenni che segnarono la fine di molte tradizioni (e se vogliamo anche la quasi scomparsa del dialetto). Salvo poi la loro rinascita - spesso inaspettata - ad opera in molti casi di giovani, che assumono o riprendono il ruolo di “demiurghi” della tradizione. E spesso ad opera dei giovani - complici anche i finanziamenti regionali o dei bandi delle varie Fondazioni - sono nati, a partire dagli anni ’90, anche numerosissimi musei etnografici (che in alcuni casi a sproposito - ma naturalmente non è il caso di quello del Lago d’Orta - assumono la definizione di “Ecomuseo”). In molti casi i musei, in realtà, non sono veri musei, ma una sorta di “svuotacantine senza possibilità di acquisto”, con attrezzi agricoli (in primis rastrelli) appesi in maniera patologica alle pareti. Ma in alcuni casi, fortunatamente, la ricostruzione è ben fatta ed ha una valenza scientifica piuttosto che collezionistica. E’ questo il caso del museo della Latteria turnaria di Casale: un museo che racchiude reperti proprio inerenti il ciclo del latte. La latteria fu costituita nel 1872, e cessò la sua attività nel 1941 (a causa dell’obbligo di denuncia dei prodotti caseari) per poi chiudere definitivamente i battenti anche a livello formale nel 1995, sciogliendo il consorzio gestore. L’amministrazione comunale decise così di trasformarlo in museo, che venne inaugurato nel 2014. Un museo che conserva anche reperti dell’immateriale, con interviste fruibili in cuffia da alcuni tablet.

6 - Tra carretti della Robiola Osella e mucche infiltrate

Ultimo spunto di riflessione che propongo è quello relativo al marketing, al mondo della pubblicità. La tradizione, come dimostrato più volte (cfr Ciurleo, 2013; Ciurleo - Piana, 2016), è un valore aggiunto che legittima un aumento di prezzo. Il consumatore è “fisiologicamente” disposto a spendere di più per un prodotto che richiama - anche inconsciamente con l’abbinamento dei colori - il mondo della tradizione. 
Questo è stato sfruttato moltissimo in ambito pubblicitario. Analizzerò brevemente solo alcune pubblicità di latticini. Ad esempio una vecchia pubblicità delle mozzarelle Francia, dove il proprietario dell’azienda, seguendo l’esempio di “metterci la faccia” portato avanti con successo da Giovanni Rana, spiega che la produzione delle sue mozzarelle è portata avanti seguendo la tradizione. Tradotto: non meccanizzazione ad oltranza, quanto piuttosto un giusto dosaggi di quel saper fare che rappresenta il valore aggiunto dei prodotti artigianali. Il secondo esempio è quello del Parmigiano Reggiano: siamo sul finire degli anni ’90 e il consorzio del formaggio simbolo dell’Italia nel mondo produce una serie di spot in cui si valorizza il “controllo” delle materie prime - cosa che oggi, a vent’anni di distanza, è diventata un must, pensiamo ad esempio alla linea di prodotti Origine di Coop Italia. Le scenette, divertenti, vedono i goffi tentativi di una mucca di entrare nell’esclusivo “club” delle mucche che producono il latte utilizzato per il Parmigiano. Ma il contadino non le permette di entrare perché “no so cosa mangi”...
Ultimo e breve esempio che voglio citare è quello della Robiola Osella, la cui pubblicità, a distanza di anni, non è significativamente cambiata. A parte il claim e le immagini del prodotto, la pubblicità, da oltre una ventina di anni, si chiude con il passaggio del carretto. Un carretto - a trazione animale - che richiama quel passato mitico della tradizione. E che richiama, se vogliamo, il nonno di Heidi, archetipo dell’alpigiano (e tutti lo conoscono come Vecchio dell’Alpe, un po’ burbero come un uomo selvatico): colui che sa fare il formaggio e portatore di quella sapienzialità antica che permette di conoscere le erbe migliori per far tornare il latte alle bestie (e salvare così Bianchina).

Luca Ciurleo

Bibliografia
Bravo, Gian Luigi, 2001 - Italiani, Meltemi, Roma

Cattabiani, Alfredo, 1993 - Santi d’Italia, Rizzoli, Milano

Ciurleo, Luca, 2013 - Tradizioni di pastafrolla, edizioni Ultravox, Domodossola

Ciurleo, Luca - Piana, Samuel, 2016 - Ciboland, Landexplorer edizioni, Boca

Grimaldi, Piercarlo, 1996 - Tempi grassi, tempi magri, Omega edizioni, Torino

Sitografia

LUCA CIURLEO
Luca Ciurleo, classe 1983, laureato in Antropologia culturale ha compiuto, nel corso degli anni, diverse ricerche sulla realtà etnologica ossolana, in particolare sugli alberi rituali, sui falò solstiziali e su alcune comunità, quale Piedimulera e Vogogna. 
Ha al suo attivo una decina di volumi, tra cui “Da Abissinia a Cappuccina” (con Antonio Ciurleo, 2006), “Walter Alberisio: una vita per la poesia” (2007), “Gente di paese, paese di gente” (2010), “Tradizioni di pastafrolla” (2013), “Quarant’anni di Coro Valgarina” (2014). 
Collabora con la Fondazione UniversiCà di Druogno, ha insegnato Antropologia dell’alimentazione alla Scuola Made di Lucca ed ha tenuto diverse conferenze relative all’Ossola, anche ad Expo 2015. Tra le sue ultime ricerche: spunti antropologici nella cultura pop, antropologia dell’alimentazione e nuove prospettive alimentari. Dal 1998 collabora con il settimanale Eco Risveglio. 

Walter Bonatti, ricordo commosso di un viaggiatore inimitabile

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In un blog dedicato ai viaggiatori e spesso ad un particolare rispetto per le altre culture, mi si permetta un ritratto e un ricordo molto personale di un viaggiatore, esploratore, uomo che rappresentano per me, e spero non solo per me, un esempio e una guida insostituibili. Walter Bonatti è probabilmente il più grande alpinista ed esploratore italiano dell’ultimo secolo, e ancor di più uno degli uomini più integri che abbiamo mai avuto la fortuna di avere, e forse anche uno di quelli maggiormente e ingiustamente avversati dalla sua stessa patria, così spesso ingrata nei confronti dei suoi figli più illustri e meritevoli. Se ne è andato nel settembre del 2011, in modo inaspettato nonostante i suoi 81 anni (tumore fulminante al pancreas), inaspettato perché nonostante l’età godeva ancora di una forma smagliante, quasi sovrannaturale. Personalmente all’epoca ho letteralmente “bucato” la notizia, perché in quei giorni ero in viaggio negli U.S.A. (viaggio assai esplorativo, tanto per restare in tema), e anche dopo averlo saputo, perso l’attimo “caldo” dell’avvenimento, ho dovuto lasciare passare del tempo prima di ricominciare a ricordalo, a scrivenre, a ragionarci su. Ho scoperto quindi poi, quasi a ricercare le poche notizie sparse ancora sulla rete, la natura della malattia, e la decisione tragica e sublime della sua compagna degli ultimi trent’anni, Rossana Podestà, di tenerla nascosta soprattutto a lui, per il timore che la sua vitalità, di fronte alla chiusura certa e rapidissima che lo attendeva, lo portasse ad un gesto estremo, uno di quei gesti sempre estremi ma sempre lucidissimi che avevano caratterizzato la sua intera vita.

E anche, come ulteriore corollario quasi grottesco in una vita continuamente costellata dalle avversità ingiuste e insensate, l’allontanamento della stessa Podestà, compagna di trent’anni, dal suo letto di morte nelle ultime ore, con la motivazione di non essere “unita in matrimonio” con lui. Ennesima dimostrazione di disprezzo e disumanità di un paese incapace di dare anche il minimo dovuto, figuriamoci restituire un minimo di quanto invece è stato a lui donato, dai suoi uomini migliori. Sappiamo però che né queste cose, né altre ancora peggiori, avrebbero in quella occasione, come non hanno mai, intaccato la volontà, la visione del mondo e la posizione di Walter sul pianeta che lo ospitava. Già, perché nulla si potrebbe dire di più di quest’uomo se non che era, ed era sempre stato, un abitante del pianeta Terra, al di fuori di qualsiasi confine di nazione, di stato, di continente, di razza e di popolo. Impossibile ricordare anche solo in parte tutti i motivi che ne fanno una delle figure più straordinarie della nostra intera storia nazionale. Un modo di vivere, raccontare, esprimere con i fatti e trasmettere agli altri la montagna che è sempre stato un riferimento assolutamente irrinunciabile per chiunque, tanto che io, nel mio piccolissimo, trovandomi a dover raccontare le montagne nel mio libro, inevitabilmente ho dovuto rifarmi a lui, citarlo, e per un racconto davvero serio fermarmi e rimandare direttamente ai suoi scritti. Alpinista prima, fra i più grandi in assoluto, riconosciuto da tutto il mondo (e da noi sempre un po’ meno, ovviamente). Radicale e risoluto nella scelta di abbandonare l’alpinismo nel momento in cui stava diventando troppo “competizione e gara fra uomini” e sempre meno “confronto dell’uomo con la montagna”. Esploratore poi, di grandissimo livello, attraverso tutti i continenti, nelle terre più estreme e inanellando imprese e scoperte straordinarie, sempre più conosciute e riconosciute all’estero che in patria. Passando, come disse lui stesso, “dall’esplorazione verticale a quella orizzontale”, si confrontò, quasi sempre in solitaria, con i luoghi più estremi e più inospitali, con le popolazioni più remote e meno conosciute, ripercorrendo viaggi letterari, scoprendo nuovi orizzonti e abbattendo nuovi confini. Difficile ricordarle anche solo parzialmente, ma ci proviamo lo stesso almeno per dare una vaga idea di una vita unica e irripetibile.

1953 – Parete ovest delle tre cime di Lavaredo in scalata invernale 
1954 – Conquista del K2 con la spedizione italiana di Ardito Desio 
1955 – Nuova via sul Petit Dru del Monte Bianco (una delle imprese alpinistiche più clamorose di tutti i tempi) 
1957 - Grand Pilier d'Angle – Monte Bianco 
1958 – Patagonia – prime ascese al Cerro Adela, Cerro Doblado, Cerro Grande, Cerro Luca 
1958 – Cina-Pakistan – Conquista del Gasherbrum IV 
1961 – Perù – prima salita di Cerro Paria -Nord, Nevado Ninashanca, Nevado RondoyNorte 
1965 – Parete nord del Cervino in solitaria invernale (impresa tripla: apertura di una via nuova, prima salita della nord invernale e prima in solitaria) 
1965 – Alaska 
1966 – Tanzania – salita del Kilimangiaro 
1966 – Uganda – salita del Ruwenzori 
1967 – Venezuela – Foreste dell’Orinoco (primi contatti occidentali con la tribù Yanoami) 
1968 – Indonesia – piccole isole della sonda (esplorazione del vulcano esploso di Krakatoa) 
1969 – Polinesia – isole Marchesi – ricostruzione del viaggio narrato da Melville, del quale trova innumerevoli corrispondenze dimostrandone l’autenticità 
1970 – Cile - Salita dell’Aconcagua e Capo Horn 
1971 – Australia 
1972 – Zaire e Congo – Vulcano Nyiragongo 
1974 – Nuova Guinea 
1976 – Antartide 
1978 – Rio delle Amazzoni (alla ricerca delle sorgenti, che trova, dimostrando un errore di una precedente spedizione che ha cementato una targa commemorativa che segnala le sorgenti in un luogo sbagliato) 
1985-86 Ritorno in Patagonia

Occorre fermarsi, sono troppe e sono tutte straordinarie. Per fortuna sono narrate, e narrate in modo splendido, nei suoi libri. E illustrate in modo magnifico dalle sue fotografie, perché Bonatti era anche un grande fotografo (e conto di parlarne in un prossimo articolo), grande come si può essere solo quando, prima di catturare l’immagine di un luogo, si è riusciti ad entrare in contatto con la sua anima più profonda. Ma Walter Bonatti è stato anche un esempio inimitabile di tenacia e di umiltà nella sua interminabile battaglia per ristabilire la verità sulla grande impresa del K2, laddove rischiò la vita, ancora ventiquattrenne, a causa del comportamento assai poco limpido dei suoi compagni di cordata, quelli che poi conquisteranno la vetta a nome di tutti e dell’Italia intera. Bonatti dovette subire, oltre a questo, le calunnie corporative di chi non voleva in nessun modo adombrare la “grande impresa”. Ha combattuto per sessant’anni contro le ipocrisie, i negazionismi, le menzogne e l’indifferenza senza mai arrendersi e senza mai cedere, con la fermezza di chi sa di essere nel giusto ma sempre anche con l’umiltà di chi sa che la verità non deve mai essere sporcata dalla presunzione o dall’arroganza. Una lezione impagabile che si può trovare in ogni sua parola, comprese quelle scritte all’allora presidente della Repubblica Ciampi in occasione di un riconoscimento rilasciato al capo spedizione Ardito Desio nel 2011, che ci piace riportare: “Signor Presidente Ho appena visto al telegiornale la cerimonia svoltasi al Quirinale in onore del prof. Ardito Desio per il suo 104° compleanno. Lei lo ha premiato con un prestigioso riconoscimento che assume il massimo valore proprio perché consegnato dalle Sue mani. Anch'io come tanti rispetto il traguardo anagrafico del professor Desio e la sua opera di studioso; ben diverso credo sia invece il suo merito come Capo della riuscita Spedizione Nazionale Italiana per la conquista del K2, nel 1954. La stimo, moltissimo, Signor Presidente, ed è la ragione per cui mi permetto di inviarLe questo mio libro sperando che trovi il tempo per sfogliarlo: è la storia postuma di questa grande Spedizione Nazionale, di cui ho fatto parte.  Non è tanto la mia vicenda personale che intendo portare alla Sua conoscenza, essendo essa complementare all'impresa, bensì voglio informarLa sul falso storico contenuto, tuttora, nelle relazioni e nei documenti ufficiali della conquista del K2; un falso storico ormai riconosciuto come tale nel mondo intero. Vorrei dunque che una persona come Lei fosse totalmente informata sull'argomento, poiché la posizione ufficiale di questo fatto non fa certo onore al nostro Paese. Grazie per avermi ascoltato. Con il massimo rispetto e ammirazione.” Sapeva bene in chi riporre fiducia, Walter. Il suo gesto nei confronti del presidente Ciampi non fu vano, ma servì insieme ad altri a rimettere di nuovo in moto un processo che alla fine avrebbe portato al ristabilimento di una verità storica aderente ai fatti. L’ammissione di verità da parte delle autorità italiane preposte arriverà, infine, nel 2008, e Bonatti saprà commentare la sua ultima grande vittoria riuscendo ancora una volta dare una lezione a tutti. Scriverà infatti alla Società Geografica Italiana in occasione della dichiarazione di revisione del resoconto dell’impresa: "A cinquantatré anni dalla conquista del K2, sono state finalmente ripudiate le falsità e le scorrettezze contenute nei punti cruciali della versione ufficiale del capospedizione prof. Ardito Desio. Si è così ristabilita, in tutta la sua totalità, la vera storia dell'accaduto in quell'impresa nei giorni della vittoria... Si è [...] dato completa verità e dovuta dignità al grande successo italiano, una affermazione che ha saputo risvegliare, dopo gli anni bui, il vanto e l'orgoglio di tutti noi."

Nessuna vendetta personale, nessuna arroganza del tipo “avevo ragione io”, ma un giusto tributo ad una impresa grandiosa e perfino un elegante ma fermissimo riferimento politico a quegli “anni bui” da cui si era appena usciti all’epoca della spedizione, che erano quelli del fascismo e della guerra mondiale. Bonatti non ha mai barato, e non barava neanche in questo caso. Più volte negli anni, riguardo alla sua incrollabile tenacia riguardo a questa vicenda, aveva sempre ripetuto: “La conquista del K2 appartiene a tutto il Paese. Sarebbe un delitto lasciare che resti sporcata per sempre dalla menzogna.” E anche stavolta, nel momento della vittoria saprà dimostrare che il suo obiettivo era davvero questo, e non altri. Lo dimostrerà esprimendo soltanto la dovuta soddisfazione di chi ha visto raggiunto uno dei tanti traguardi della sua vita, che in questo caso era semplicemente ristabilire la realtà dei fatti e dare la giusta dignità ad una conquista storica che rischiava di restare per sempre offuscata dalla falsità e dalla stupidità di chi ha paura che la verità possa togliere valore alle grandi imprese. Walter Bonatti era un uomo incapace di compromessi, ma aveva scelto consapevolmente di vedersela da solo con se stesso e con il resto del mondo, senza costringere gli altri a scelte che potevano essere solo sue. Così facendo però ha continuato, spesso inconsapevolmente, a regalare emozioni e grandi lezioni di vita a tutti. A regalare scoperte, riflessioni, visioni del mondo e della vita che hanno spessissimo anticipato i grandi temi (sopra tutti, l’ecologia e il nostro rapporto con la natura) su cui oggi tutti noi ci troviamo a fare i conti spesso sentendoci inadeguati e impreparati. E lo siamo, perché di Walter Bonatti purtroppo ne nascono pochi, e forse ne nascono sempre meno. Niente da fare, non riesco a riportare neanche in parte tutto ciò che penso dell’uomo e delle sue imprese, dei suoi comportamenti, di tutto ciò che ha trasmesso all’Italia e al mondo. Troppo lunga e ricca una vita che meriterebbe un romanzo che fortunatamente ha già provveduto lui a narrare nei suoi molti libri. Mi limiterò quindi ad una sola ultima considerazione del tutto personale. Per una strana combinazione che nulla a che fare con il destino ma solo con la causalità e che naturalmente ho scoperto soltanto dopo, Walter se ne è andato nella notte fra il 13 e il 14 settembre 2011. In quel giorno (ed esattamente in quel giorno, perché il fuso orario ha fatto sì che la notte in Europa corrispondesse al giorno dall’altra parte dell’oceano) io mi trovavo in Arizona, affacciato sul Grand Canyon. Difficile immaginare un luogo che sia maggiore espressione di forza della Natura e di orizzonti illimitati. Un luogo che lui avrebbe saputo guardare con uno sguardo ben più ampio e più profondo del mio, un luogo che riunisce montagne, acque, forze immani, cieli immensi e profondità abissali. Un luogo che avrebbe potuto essere, insieme a tanti altri nel mondo, il suo ritratto in forma di paesaggio. Finirà che, oltre ai tanti motivi già presenti per ricordarlo e tenerlo a mente, nella mia memoria sarà associato anche alla mia personale vista di quel luogo unico al mondo. E direi che non mi posso lamentare. Per questo voglio concedermi il privilegio di considerarlo un segnale da cogliere, e perché no, vista l’impossibilità di avere la notizia nel momento in cui ci lasciava, anche di considerarlo, quando voglio, ancora vivo da qualche parte. Essendomi perso l’effetto della notizia in diretta, gli articoli (sicuramente pochi rispetto al dovuto) dedicati alla sua scomparsa, le rievocazioni del momento e le lacrime di coccodrillo di chi in tanti anni non si è mai dato pena di ricordarlo da vivo e vegeto, mi concederò l’impagabile lusso di poter pensare di non vederlo più e di non averne più notizie soltanto perché chissà in quale posto si trova, a guardare chissà quale orizzonte infinito, a scrutare con i suoi occhi vivi e brillanti l’immensità dello spazio e della Natura che lo circonda.

Ciao Walter.
Libri di Walter Bonatti 
1961 - Le mie montagne. 282 pp, Zanichelli Editore (ristampato nel 1983) 
1971 - I giorni grandi. Arnoldo Mondadori Editore (ristampato da Zanichelli nel 1978) 
1980 - Ho vissuto tra gli animali selvaggi. 224 pp, Zanichelli 
1983 - Le mie montagne. 181 pp, Rizzoli Editore 
1984 - Avventura. 253 pp, Rizzoli Editore, Milano 
1984 - Magia del Monte Bianco. Massimo Baldini Editore 
1985 - Processo al K2. 123 pp, Massimo Baldini Editore 
1986 - La mia Patagonia. 227 pp, Massimo Baldini Editore 
1989 - L'ultima Amazzonia. 207 pp, Massimo Baldini Editore 
1989 - Un modo di essere. Dall'Oglio Editore 
1995 - K2 storia di un caso (ristampato nel 2003) 
1995 - Montagne di una vita. Baldini Castoldi Dalai editore 
1997 - In terre lontane. 440 pp, Baldini Castoldi Dalai editore 
1998 - Fermare le emozioni. L'universo fotografico di Walter Bonatti. 171pp, Edizioni Museo Nazionale della Montagna 
1999 - Solitudini australi. 129 pp, Edizioni Museo Nazionale della Montagna 
2001 - Una vita così. 510 pp. Baldini Castoldi Dalai editore 
2003 - K2 La verità - storia di un caso. 282 pp, Baldini Castoldi Dalai editore 
2006 - Terre Alte. 303 pp, Rizzoli Editore 
2008 - I miei Ricordi. 416 pp, Baldini Castoldi Dalai editore 
2009 - Un mondo perduto. 463 pp. Baldini Castoldi Dalai editore 


Alessandro Borgogno

ALESSANDRO BORGOGNO
Vivo e lavoro a Roma, dove sono nato il 5 dicembre del 1965. Il mio percorso formativo è alquanto tortuoso: ho frequentato il liceo artistico e poi la facoltà di scienze biologiche, ho conseguito poi attestati professionali come programmatore e come fotoreporter. Lavoro in un’azienda di informatica e consulenza come Project Manager. Dal padre veneto ho ereditato la riservatezza e la sincerità delle genti dolomitiche e dalla madre lo spirito partigiano della resistenza e la cultura millenaria e il cosmopolitismo della città eterna. Ho molte passioni: l’arte, la natura, i viaggi, la storia, la musica, il cinema, la fotografia, la scrittura. Ho pubblicato molti racconti e alcuni libri, fra i quali “Il Genio e L’Architetto” (dedicato a Bernini e Borromini) e “Mi fai Specie” (dialoghi evoluzionistici su quanto gli uomini avrebbero da imparare dagli animali) con L’Erudita Editrice e Manifesto Libri. Collaboro con diversi blog di viaggi, fotografia e argomenti vari. Le mie foto hanno vinto più di un concorso e sono state pubblicate su testate e network nazionali ed anche esposte al MACRO di Roma. Anche alcuni miei cortometraggi sono stati selezionati e proiettati in festival cinematografici e concorsi. Cerco spesso di mettere tutte queste cose insieme, e magari qualche volta esagero.


Quando eravamo cannibali

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I termini cannibale e cannibalismo derivano dalla parola canniba, riportata per primo da Cristoforo Colombo. Il termine era utilizzato dagli amerindi delle Piccole Antille per designare alcune popolazioni dedite all'antropofagia. Cristoforo Colombo, di ritorno da uno dei suoi viaggi nei Caraibi, utilizzò la parola canniba per indicare i costumi dei nativi delle terre che aveva visitato, gettando le basi per giustificare il massacro di quelle popolazioni da parte dei conquistadores. Grazie all'esploratore genovese, la parola cannibalismo è sinonimo della pratica di mangiare i proprio simili. Il termine antropofagia indica un organismo che si nutre di esseri umani. Cannibalismo è impiegato per indicare l'atto di mangiare membri della propria specie mentre antropofagia è sinonimo di cannibalismo umano. (Giacomo Devoto e Gian Carlo Oli, Dizionario della lingua italiana, Firenze, Edizioni Le Monnier, 1971). 
Cibarsi di carne umana non era prerogativa delle popolazioni indigene dei Caraibi poiché, nel corso del tempo, sono emersi reperti archeologici di ossa umane che sembrerebbero attestare il cannibalismo rituale ad un tempo prima del tempo. Non tutti gli studiosi convengono su questa ipotesi. Un caso celebre è quello dell'antropologo William Arens che negò l'esistenza del cannibalismo, definendolo mito del quale mancano prove materiali concrete. (Tim White, Quando eravamo cannibali, in American Scientific, num. 397, settembre 2001). 
Per quanto si possa dare credito a William Arens, il cannibalismo è esistito ed esiste e si può distinguere in tre categorie: Alimentare, rituale e pseudo-cannibalismo. (Piero Angela ed Alberto Angela, La straordinaria storia dell'uomo, Milano, Mondadori editore, 1989)
Il cannibalismo alimentare avviene in casi di estrema necessità, quello rituale consiste preferibilmente nel mangiare parti del corpo umano considerate simboliche all'interno di un rito magico o religioso mentre l'ultima classificazione, ovvero pseudo-cannibalismo, attiene al culto dei morti che possono lasciare tracce di macellazione sui corpi. Alla luce delle recenti esternazioni di personaggi che non sono in grado di filtrare le informazioni corrette da quelle inventate, il nostro compito è quello di cercare di portare chiarezza sul tema del cannibalismo rituale, considerato un tabù difficile da affrontare. Il cannibalismo rituale è esistito sin dai primordi della storia umana ed i reperti archeologici confermano tale affermazione: la più antica testimonianza di tale comportamento risale a circa 800.000 anni fa ad opera di Homo antecessor. Le ossa ritrovate a Gran Dolina, in Spagna, presentavano tracce di macellazione, scorticamento, rimozione della carne, apertura della scatola cranica e delle ossa lunghe per l'asportazione del midollo. (Tim White, Quando eravamo cannibali, in American Scientific, num. 397, settembre 2001)
Altri resti di ossa umane con segni di macellazione, che fanno supporre atti di cannibalismo, sono state rinvenute in molte località europee, tra cui l'Uomo di Saccopastore in Italia. Queste risultanze archeologiche risalgono all'Homo neanderthalensis. Essendo tornate alla luce anche ossa umane con segni di macellazione del periodo dell'Homo Sapiens, alcuni scienziati hanno avanzato la tesi che la pratica del cannibalismo fosse comune prima del paleolitico superiore, ovvero quel periodo compreso tra 40.000 e 10.000 anni fa. (Tim White, Quando eravamo cannibali, in American Scientific, num. 397, settembre 2001). 
Il cannibalismo rituale scomparve con il progredire dell'umanità? 
Le risultanze archeologiche raccontano di popolazioni dedite a tale pratica, dagli Anasazi agli aborigeni australiani. Quando l'europeo iniziò il suo processo di colonizzazione del mondo entrò in contatto con popoli che avevano usanze, riti e consuetudini diverse da quelle prevalenti nel continente di provenienza. All'inizio dell'epoca coloniale divennero famosi i cosiddetti Niam Niam, parola che significa grandi mangiatori. Il nome Niam Niam, usato sin dal Medioevo nei testi arabi, identificò, nel tempo, varie popolazioni che si succedettero nel bacino del fiume Sue in Sudan. Tutti questi popoli erano noti per l'ostentazione dei loro riti cannibaleschi e per le violente azioni atte allo svolgimento di questi riti. (Giorgetti Filiberto, Il cannibalismo dei Niam Niam, da Africa: journal of the international african institute, num. 2, aprile 1957, Edinburgh university press)
Un caso importante riguarda la società segreta tradizionale degli uomini leopardo (Anyoto/Aniota). Gli adepti di queste società si identificarono misticamente con lo spirito del leopardo indossando costumi, maschere e ornamenti atti a riprodurne l'aspetto. In epoca coloniale, soprattutto nel periodo a cavallo tra il XIX e il XX secolo, queste società segrete del Congo Belga, della Nigeria e della Liberia, si trasformarono in organizzazione violente fondate sull'omicidio rituale. Gli adepti di queste sette furono incoraggiati all'antropofagia. (Cyrier Jeremy, Anioto: mise d'une patte sur la puissance. Hommes de léopard du Congo belge, Michigan, 1999). 
Atti di cannibalismo sono stati documentati anche nel periodo successivo all'epoca coloniale, soprattutto durante conflitti di natura etnica come le guerre civili del Congo, della Liberia, in Uganda e in Ruanda. 
Un fenomeno correlato, anche se sostanzialmente diverso, è l'utilizzo degli organi umani nei rituali di alcuni guaritori. Un esempio lo possiamo trovare in Tanzania, dove si attribuiscono poteri magici agli organi degli albini. 
Da un punto di vista storico e religioso, un caso molto interessante è quello legato alle terre di Nigeria, Benin, Togo e Sierra Leone. Per comprendere i passaggi successivi dobbiamo conoscere un vasto gruppo etnico-linguistico che conta oltre 40 milioni di persone sparsi tra le nazioni sopra citate, gli Yoruba. Nel periodo della tratta degli schiavi molti abitanti di queste regioni furono deportati nelle Americhe, dal Brasile a Cuba. Le persone portarono con se la pratica delle religioni animiste dei paesi di origine. Gli schiavisti, pena la morte, obbligarono coloro che avevano strappato con la forza alle proprie terre di non praticare culti diversi dal cristianesimo. Gli schiavi, non potendo rinunciare alla propria religione, nascosero il culto dei propri dei dietro l'iconografia cattolica. Nacque così la santeria, termine coniato dagli spagnoli per denigrare quella che a loro pareva una devozione eccessiva ai santi da parte degli schiavi. (Nicolas Kanellos, Handbook of hispanic cultures in the United States: anthropology, Arte Publico, 1994)
Il colonizzatore bianco, credendosi superiore allo schiavo africano, non comprese che la figura del santo altro non era che quella di un dio dell'antica religione africana. Gli Yoruba rimasti nelle terre natali? Con il trascorrere del tempo si convertirono, o furono forzatamente convertiti, al cristianesimo o all'Islam. Negli Stati Uniti gli Yoruba convertiti al cristianesimo sono noti per la loro rigorosità al nuovo credo. In Nigeria e Benin, una piccola parte della popolazione ancora ricorre ai culti tradizionali, rivolgendo le proprie attenzioni ai divinatori, noti come padri dei segreti. 
La letteratura e il cinema hanno creato una visione distorta di tutte le religioni animiste africane o centro-americane. Questo fatto si nota con particolare riguardo alla religione Vodu, Vudù. Il termine letteralmente significa spirito o divinità. Il moderno Vodu è la derivazione di una delle religioni più antiche del mondo, presente in alcune zone dell'Africa sin dagli inizi della civiltà umana. Il Vodu modernamente praticato è una sintesi delle varie espressioni spirituali africane e di alcuni elementi cattolici, un perfetto sincretismo nato nelle colonie tra il XVII e il XVIII secolo a seguito della deportazione forzata degli esseri umani dalle loro zone di origine. Nello stesso periodo di formazione della nuova religione come sintesi di altre, il cattolicesimo perseguitò alcuni aspetti del Vodu ritenuti vicini al satanismo, come i sacrifici animali, l'importanza ritualistica del sangue – dimenticando la transustanziazione ossia la conversione della sostanza del vino nella sostanza del sangue di Cristo – e l'utilizzo rituale di alcuni animali che per i cristiani rappresentavano il male – per esempio il serpente. 
In conclusione, il Vodu è un'antichissima religione che rifiuta la pratica dell'omicidio e del sacrificio umano rituale, come dichiarato recentemente dall'antropologo Giorgio Cingolani durante un'intervista al quotidiano il Resto del Carlino. 

Fabio Casalini

Bibliografia
Giacomo Devoto e Gian Carlo Oli, Dizionario della lingua italiana, Firenze, Edizioni Le Monnier, 197

Tim White, Quando eravamo cannibali, in American Scientific, num. 397, settembre 2001

Laurent Dubois, Vodu ad history in comperative studies in society & history, numero 43 del gennaio 2001 

Giorgetti Filiberto, Il cannibalismo dei Niam Niam, da Africa: journal of the international african institute, num. 2, aprile 1957, Edinburgh university press

Cyrier Jeremy, Anioto: mise d'une patte sur la puissance. Hommes de léopard du Congo belge, Michigan, 1999

Nicolas Kanellos, Handbook of hispanic cultures in the United States: anthropology, Arte Publico, 1994

Deren Maya, I cavalieri divini del Vudù, Il Saggiatore, 1997

Piero Angela ed Alberto Angela, La straordinaria storia dell'uomo, Milano, Mondadori editore, 1989

FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.


Monument Valley, il West

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L’immagine tipica e inconfondibile del selvaggio West, nell’immaginario globale, è rappresentata da paesaggi desertici e rossastri intervallati da colonne, guglie, pinnacoli e torri di arenaria dalla caratteristica cima larga e piatta. Sono i paesaggi di un ben preciso luogo del mondo, un luogo abitato dagli uomini fin da tempi molto antichi ma paradossalmente dimenticato per quasi un secolo e riscoperto dall’occidente, e soprattutto dal cinema che ne ha fatto una icona, in tempi molto più recenti. Meno di un secolo fa, a metà degli anni trenta del novecento. 

La storia parte una decina di anni prima, negli anni venti, quando una coppia di “occidentali”, Harry Goulding e sua moglie Leone detta ‘Mike’, decidono di trasferirsi in una zona fra l’Arizona e lo Utah, in territorio Navajo, a quasi cento chilometri dalla più vicina città, per allevare pecore lontani dalla civiltà industriale che sta prendendo il sopravvento nel paese. 
Il loro rapporto con i nativi, che sono in qualche modo nuovamente proprietari del territorio da quando nel 1868 gli fu “concesso” di tornare a vivere nei loro luoghi di origine dopo esserne stati cacciati con la violenza, é di rispetto e collaborazione. I coniugi Goulding imparano ad apprezzare lo stile di vita, la cultura e il rapporto con la natura tipico dei Navajo, e comprendendo le loro difficoltà di sopravvivenza in un mondo sempre più occidentalizzato cominciano a collaborare con loro aiutandoli a sviluppare un buon commercio basato sui loro prodotti artigianali (collane d’argento, tappeti) e si organizzano per fornire loro medicinali e altri generi di prima necessità. Diventano così parte della comunità Navajo, contribuendo a mantenere l’indipendenza, e con essa l’integrità e l’isolamento, di quella popolazione e di quel territorio. Da quando infatti quelle zone, quasi un secolo prima, sono state riconsegnate ai nativi, il mondo occidentale impegnato in tutt’altre faccende se ne è praticamente dimenticato. Pochi le conoscono, pochi ci si avventurano. 
Uno dei pochi e sicuramente uno dei primi, nel 1935, è un fotografo di origine tedesca. Si chiama Joseph Muench, personaggio con una storia che meriterebbe un altro racconto a parte. Inutile dire che rimane incantato dalla selvaggia e monumentale bellezza di quei luoghi. Scatta le sue foto, poi prosegue i suoi viaggi. Harry Goulding se ne ricorderà un anno dopo, quando la depressione che nel frattempo ha messo in ginocchio gli Stati Uniti e una siccità di biblica ferocia (la stessa magistralmente raccontata da Steinbeck in Furore) stanno ormai mettendo a dura prova anche la sopravvivenza della comunità Navajo e di loro stessi. 
Cercando un’idea per risollevare le sorti di quello straordinario angolo di mondo, recupera Muench e le sue foto, e parte per Los Angeles. Lì ci sono gli studi di Hollywood, l’industria dei sogni che macina film e che fra i suoi grandi successi già annovera molte pellicole di un genere tutto americano, il western. 
A questo punto il caso, o forse non solo quello, fa sì che Harry si presenti negli studi della United Artists. Non è una casa di produzione qualsiasi, è stata fondata quasi vent’anni prima da quattro giganti della storia del cinema: Charles Chaplin, Douglas Fairbanks, Mary Pickford e D. W. Griffith. Negli anni trenta, quando Harry Goulding varca i suoi cancelli, la United Artists annovera fra i suoi registi di punta un signore dal nome talmente banale da sembrare inventato per non dare nell’occhio, e che ha al suo attivo già diversi western di una certa fama. Si chiama John Ford. 
È un tipo passato alla storia, oltre che per una sequenza impressionante di capolavori, anche per una leggendaria frase che si dice abbia usato per presentarsi ai suoi produttori, e che riassume in un lampo il suo carattere, la sua chiarezza di idee, la sua (apparente) semplicità e il suo carisma: “Mi chiamo John Ford. Faccio Western.”  In quel periodo lui e il suo staff stanno lavorando su una sceneggiatura tratta da un racconto di Ernest Haycox (Stage to Lordsburg) a sua volta ispirato da un racconto di Guy de Maupassant (Boule de Suif). È la storia di una diligenza e del microcosmo creato dai suoi occupanti, riproduzione in miniatura di una umanità variegata, e del viaggio complesso e pericoloso che avrebbero affrontato attraverso le praterie del selvaggio west. Il titolo del film sarebbe stato Stagecoach, in italiano sarebbe diventato “Ombre rosse”. Semplicemente uno dei pilastri della storia del cinema. 
Harry Goulding, con la sua cartellina piena di fotografie, chiese di parlare con uno dei dirigenti che si occupavano di film western. La segretaria (che per forza di cose immaginiamo occhialuta e antipatica) gli fece capire che ben difficilmente qualcuno lo avrebbe ricevuto, per di più senza un appuntamento. Harry non era arrivato fin lì per rinunciare, e la leggenda vuole che si procurò un sacco a pelo e si piazzò nella sala d’attesa per diversi giorni, finché a un funzionario non fu affidato l’ingrato compito di riceverlo per poi liberarsene in qualche modo. Fatto sta che quel funzionario era quello che si stava occupando di cercare le location per Stagecoach. Harry gli fece vedere le fotografie, e un momento dopo quello chiamava a gran voce John Ford per mostrargliele. Un altro momento successivo e Ford aveva già deciso che gli esterni del film si sarebbero girati lì, dovunque si trovasse quel luogo straordinario. 
Si può ben dire che l’immagine che tutti abbiamo del West è nata quel giorno in quello studio di Hollywood, e da quel giorno la Monument Valley cessò quasi in un istante di essere un deserto semisconosciuto e dimenticato per diventare uno dei luoghi giustamente più famosi del mondo. 
John Ford si trasferì dai Navajo con la sua troupe e girò in soli quattro giorni tutti gli esterni del film (sembra quasi incredibile per un film che si svolge quasi totalmente in esterni). Per la sequenza principale del film, il furibondo attacco alla diligenza da parte dei pellerossa, le riprese furono effettuate da un’automobile lanciata sulle pianure di arenaria a velocità proibitiva. E quei pochissimi minuti di film valgono una cinematografia intera. I Navajo parteciparono alle riprese (e una buona parte del merito va alle loro fenomenali acrobazie a cavallo) e pur non essendo mai stati rappresentati in modo molto lusinghiero né in quel film né in altri successivi dello stesso regista, interpretando di volta in volta Apache, Comanche e altre tribù anche molto diverse dalla propria, il rapporto fra loro e John Ford fu sempre molto buono, crediamo non solo per i soldi che il lavoro nel cinema procurava loro. Fatto sta che anche dopo la morte del grande regista, nel 1973, i nativi della Monument Valley continueranno a ricordarlo come Natani Nez (Tall Leader), il Grande (Alto) Capo, e uno dei punti panoramici più caratteristici della valle si chiamerà per sempre “John Ford’s Point”. 
Il film avrà meritati successi e riconoscimenti, crescenti col passare degli anni. I panorami mozzafiato, la caratterizzazione dei personaggi, le scene d’azione tecnicamente straordinarie, un giovanissimo John Wayne che da quel film in poi diventerà a sua volta icona irrinunciabile del cinema di genere (la sua entrata in scena, con la camera in Dolly che avanza verso di lui piantato a gambe larghe in mezzo al sentiero, è entrata nel mito). E con il film le sue strepitose location conosceranno una popolarità planetaria destinata a rinnovarsi di continuo. Lo stesso Ford tornerà altre volte a girare fra quei panorami, per la bellezza di altri sei film, fra i quali altri autentici capolavori: “Sfida infernale” (My Darling Clementine), “Rio Bravo” (Rio Grande) e il magnifico “Sentieri Selvaggi” (The Searchers). 
Alla fine degli anni sessanta l’altrettanto grande Sergio Leone, dopo aver riscritto coordinate e iconografia del western reinventando i paesaggi della frontiera nella vicina Andalusia spagnola con la sua Trilogia del dollaro, piazzerà anche lui la sua cinepresa nella Monument Valley proprio in occasione del suo addio al western, per il suo monumentale (è il caso di dirlo) “C’era una volta il West”, omaggiando così i veri luoghi di nascita del genere, e innalzando a livelli lirici le sue panoramiche e le sue zoomate grazie alle musiche di un ispiratissimo Ennio Morricone. 
E così il cinema dei decenni successivi avrebbe di continuo riportato il suo sguardo fra quelle arenarie rosse per le situazioni più varie, quando anche storie molto distanti dal genere cowboy necessitavano in un modo o nell’altro di evocare il mito della frontiera. Fra i tanti, “Easy Rider” di Dennis Hooper, “Assassinio sull’Eiger” di Clint Eastwood, “Thelma e Louise” di Ridley Scott, “Forrest Gump” e “Ritorno al futuro III” di Robert Zemeckis. 
Ma, al di là della sua storia cinematografica, la Monument Valley è un luogo totalmente magico, realmente unico al mondo e quasi al di fuori dello stesso. La dominante rossa donatagli dalla spropositata abbondanza di ossido di ferro sembra proiettare il visitatore su un pianeta diverso dal nostro, gli orizzonti sconfinati e le prospettive aeree che offre ad ogni angolo evocano di continuo forze primordiali che quasi si esercitano a plasmare il paesaggio davanti ai nostri occhi, le gigantesche formazioni rocciose sembrano ad ogni istante cambiare dimensioni, innalzarsi o sgretolarsi un attimo dopo che il nostro sguardo si è posato su di loro. 
Il territorio è ancora dei Navajo, gestiscono loro gli ingressi e le attività in quello che ora è diventato un “Tribal Park” facente parte della Navajo Nation Reservation, alcuni gruppi più integrati, altri ancora molto riservati. Sfruttano il turismo a volte anche con prezzi un po’ esosi, ma in qualche modo riescono ancora a sopravvivere sulla loro straordinaria e sorprendente terra senza essere ancora del tutto schiacciati dalla nostra prepotenza chiassosa e poco contemplativa. Tutto sommato il traffico nella valle risulta, e almeno così appariva al momento della mia visita, sopportabile e non eccessivo (la strada sterrata che la percorre permette solo velocità molto basse e non ad ogni tipo di veicolo) e a parte il discusso Hotel che si trova all’ingresso (sempre gestito dai nativi), le altre strutture all’interno della zona sono sporadiche e poco invadenti. Per tutto il resto (nel tempo e nello spazio) domina ovunque quel che deve dominare in un luogo così unico e incomparabile: silenzio, vento, polvere rossa, orizzonti lontani e indefiniti, cavalli e giganti di pietra. 
Un paradiso apparentemente deserto che contiene un mondo intero.

Alessandro Borgogno

ALESSANDRO BORGOGNO
Vivo e lavoro a Roma, dove sono nato il 5 dicembre del 1965. Il mio percorso formativo è alquanto tortuoso: ho frequentato il liceo artistico e poi la facoltà di scienze biologiche, ho conseguito poi attestati professionali come programmatore e come fotoreporter. Lavoro in un’azienda di informatica e consulenza come Project Manager. Dal padre veneto ho ereditato la riservatezza e la sincerità delle genti dolomitiche e dalla madre lo spirito partigiano della resistenza e la cultura millenaria e il cosmopolitismo della città eterna. Ho molte passioni: l’arte, la natura, i viaggi, la storia, la musica, il cinema, la fotografia, la scrittura. Ho pubblicato molti racconti e alcuni libri, fra i quali “Il Genio e L’Architetto” (dedicato a Bernini e Borromini) e “Mi fai Specie” (dialoghi evoluzionistici su quanto gli uomini avrebbero da imparare dagli animali) con L’Erudita Editrice e Manifesto Libri. Collaboro con diversi blog di viaggi, fotografia e argomenti vari. Le mie foto hanno vinto più di un concorso e sono state pubblicate su testate e network nazionali ed anche esposte al MACRO di Roma. Anche alcuni miei cortometraggi sono stati selezionati e proiettati in festival cinematografici e concorsi. Cerco spesso di mettere tutte queste cose insieme, e magari qualche volta esagero.

La tragedia del Principessa Mafalda

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Il Principessa Mafalda, dal nome della figlia di Vittorio Emanuele III poi tragicamente scomparsa a Buchenwald nel 1944 era un transatlantico del Lloyd Italiano. Il suo varo avvenne nel 1908 ed era allora il più grande nave passeggeri costruita per una compagnia italiana. Dopo quasi vent'anni di servizio naufragò, il 25 ottobre 1927 a poche miglia dalla costa del Brasile. Secondo i dati forniti dalle autorità italiane dell'epoca morirono 314 persone, mentre i giornali sudamericani ne riportarono la cifra di 657 morti. Minimizzato dagli organi di regime del tempo, questo naufragio è considerato il disastro navale italiano più grave del Novecento ed è tristemente ricordato come il Titanic italiano. Ora raccontiamo la sua tragica vicenda ancor oggi purtroppo poco conosciuta  Siamo ad inizio novecento, epoca in cui si pensava che la scienza e le nuove grandi conquiste tecnologiche avrebbero portato un epoca di pace e di benessere all’ uomo. Erano anche gli anni in cui l'emigrazione italiana verso le Americhe era in crescente aumento e l'industria navale doveva soddisfare una notevole domanda di moderne e grandi navi che fossero all'altezza della concorrenza nordeuropea. Nel 1904 nel cantiere navale di Riva Trigoso in Liguria, su commissione del Lloyd Italiano, si avviò un grande progetto di investimento che comprendeva la costruzione di una coppia di transatlantici destinati alle rotte verso le Americhe. Il Principessa Mafalda e il suo gemello Principessa Jolanda. (dal nome dell’ altra figlia di Vittorio Emanuele III). Le due navi, caratterizzate da un allestimento di gran lusso, avrebbero dovuto aumentare il prestigio della flotta nazionale, essendo le più grandi navi sino ad allora costruite per una compagnia italiana. Il Principessa Jolanda fu ultimato per primo Il 22 settembre 1907, ma quasi per funesto presagio affondò a pochi minuti dal varo di fronte ai cantieri di Riva Trigoso, con grande sgomento della folla e delle autorità accorse per il grande evento. Le cause tecniche dell'incidente furono subito chiarite, il baricentro troppo alto dovuto al fatto che la nave era stata varata con gli allestimenti interni già in opera ma senza zavorra. Il cantiere si concentrò allora sul completamento del Principessa Mafalda. Il giorno del suo varo fu particolarmente pieno di tensione. Tutto fortunatamente filò liscio e il duca Emanuele Filiberto d'Aosta inaugurò la nave il 30 marzo 1909. Nel corso del viaggio inaugurale, il duca ebbe modo di elogiare le doti tecniche e il grande sfarzo della nave. La nave era stata costruita su progetto dell'ingegner Erasmo Piaggio, misurava 146 metri di lunghezza per circa 17 di larghezza. Era provvista di due eliche e due motori a vapore, per una potenza erogata di 10.500 hp ciascuno, e poteva raggiungere una velocità massima di circa 17,5 nodi. 
Era caratterizzata dal gran lusso degli allestimenti e nella prima volta nella storia della navigazione, un salone delle feste e vari altri ambienti erano estesi in verticale su due piani. Gli interni erano riccamente decorati e arredati dallo Studio Ducrot. Nei ponti di prima classe vi era un salone delle feste, una sala della musica completa di pianoforte a coda, un jardin d'hiver, un fumoir, un ristorante, una sala da gioco, vari salotti e cabine con servizi interni per 180 persone. Inoltre, il transatlantico era tra i primi ad essere dotato di illuminazione elettrica telegrafo e telefono in ogni cabina di prima classe. Lo stesso Guglielmo Marconi effettuò a bordo i primi esperimenti radiofonici.  I ponti di seconda classe erano collocati a poppa e ospitavano anche aree all'aperto con sedie sdraio e cabine per 150 persone. La terza classe era disposta ai ponti inferiori con spazi estesi di concezione piuttosto innovativa, suddivisi in ampi stanzoni forniti di servizi igienici, che potevano ospitare fino a 1.200 passeggeri, solitamente migranti. Ai ponti inferiori trovavano posto anche i locali tecnici, la stiva, magazzini, la sala macchine e gli alloggi per circa 300 membri dell'equipaggio. Di questa innovazioni il Lloyd Italiano andava particolarmente fiero, poiché questa nave aveva suscitato l'ammirazione di tutta Europa e faceva del Principessa Mafalda il più prestigioso transatlantico della flotta italiana. Dal 1909 in poi fu impiegata per effettuare la traversata dell'oceano Atlantico da Genova a Buenos Aires, con scalo a Rio de Janeiro e Santos, divenendo per svariati anni la miglior nave su quella rotta e ospitando personaggi illustri come Arturo Toscanini, Luigi Pirandello, Carlos Gardel e Tatiana Pavlova.
Dal 1914 fu utilizzata per la traversata da Genova a New York, ma l'anno successivo fu requisita dalla Regia Marina, venendo adibita ad alloggio ufficiali a Taranto, durante la prima guerra mondiale. 
Nel 1918, con l'assorbimento del Lloyd Italiano nella Navigazione Generale Italiana, il Principessa Mafalda passò a tale compagnia divenendo la nave ammiraglia della flotta e riprese il servizio sulla rotta Genova-New York sino al 1922, quando fu completato il transatlantico Giulio Cesare che lo sostituì, destinando nuovamente il Principessa Mafalda a servire la rotta Genova-Buenos Aires. Arriviamo dunque al racconto dell’ ultimo fatale viaggio nell'ottobre del 1927. La nave partì da Genova l'11 ottobre 1927 al comando di Simone Gulì, un esperto comandante siciliano sessantaduenne, con a bordo 1.259 persone tra cui una minoranza di emigranti siriani e soprattutto numerosi emigranti piemontesi, liguri e veneti tra cui il pasticciere Ruggero Bauli che nel 1922 avrebbe poi fondato una famosa azienda alimentare. Doveva essere l'ultimo viaggio del transatlantico, prima del suo smantellamento, poiché dopo anni di usura e scarsa manutenzione, la nave non era più considerato sicura dagli addetti ai lavori, ma secondo la società armatrice era ancora in perfette condizioni e poteva sempre godere del prestigio di un tempo. Durante quest'ultimo viaggio si verificarono molti contrattempi, prima del tragico epilogo. Vi fu subito un ritardo alla partenza causa riparazioni ai motori. Si pensò anche di trasferire i passeggeri sul Giulio Cesare, adducendo come scusante le scarse prenotazioni della prima classe, ma tale ipotesi venne presto abbandonata. I guasto venne riparato e la nave parti. Tuttavia appena lasciata la costa ligure purtroppo si presentarono altri problemi, ed obbligarono il comandante Gulì a fermare i motori ben otto volte nel solo tratto tra Genova e Barcellona. La sosta a Barcellona si prolungò di ventiquattr'ore per attuare anche la riparazione di una pompa di un aspiratore che si era rotta. La navigazione poi riprese alla volta dell'arcipelago di Capo Verde, ma dopo aver superato lo stretto di Gibilterra subentrò un nuovo guasto al motore di sinistra, ed il piroscafo fu costretto a navigare con il solo motore di dritta. Poi si ruppe anche il motore di dritta lasciando il piroscafo a motori spenti per circa sei ore. Riparato in parte il guasto la nave ripartì con il solo motore di sinistra, navigando lievemente piegata a sinistra e a velocità ridotta per un giorno intero. Si rese dunque necessaria una tappa non prevista al porto di Dakar per effettuare la riparazione all'asse dell'elica sinistra. Il 18 ottobre, dopo la partenza da Dakar, tuttavia si dovette effettuare l’ ennesima tappa forzata di quasi ventiquattr'ore presso lo scalo di São Vincente, dove si dovette rimediare alla riparazione delle celle frigorifere che, essendosi guastate durante la navigazione, avevano fatto deperire le scorte di alimenti e di carne, e si erano verificate anche intossicazioni nei passeggeri. Furono quindi acquistati e macellati in loco suini e un bue per garantire nuovamente la corretta fornitura dei pasti. Vennero imbarcati anche due passeggeri argentini che la settimana prima avevano avuto una disavventura a bordo del piroscafo Matrero, rimasto alla deriva per alcuni giorni in nell’ oceano a seguito dello scoppio delle caldaie. 
Poi la navigazione procedette con relativa normalità, anche se vi erano forti vibrazioni e costanti problemi al motore di sinistra. Questi problemi indussero il comandante Gulì a chiedere alla compagnia di mandare un altro transatlantico in sostituzione per trasbordare i passeggeri; la richiesta fu però respinta e gli venne ordinato di proseguire fino alla successiva tappa al porto di Rio de Janeiro, in attesa di nuove istruzioni. La mattina di martedì 25 ottobre, la nave procedeva ad una velocità di 13 nodi ed era un visibile un rollio che la faceva inclinare verso sinistra. Venne superata dal cargo olandese Alhena che però, non ricevendo particolari segnalazioni, proseguì nella sua rotta. Alle 17.10, quando la nave si trovava a circa 80 miglia al largo della costa del Brasile tra Salvador de Bahia e Rio de Janeiro, fu percepita una fortissima scossa; i passeggeri, uscirono sui ponti per cercare di capire cosa stesse succedendo, benchè la nave procedesse in modo apparentemente regolare, seppur rallentando visibilmente. Il primo pensiero degli uomini dell'equipaggio fu che la scossa fosse causata dalla perdita di un'elica, fatto certamente grave ma non necessariamente pericoloso. Tuttavia il direttore di macchina Scarabicchi salì in plancia ed informò il comandante che aveva individuato il vero problema, ben più serio: si era completamente sfilato l'asse dell'elica sinistra che, continuando per inerzia il suo moto rotatorio, spintasi in avanti aveva causato un grande squarcio nello scafo di poppa. L'acqua stava entrando copiosamente, allagando la sala macchine, e avrebbe presto invaso anche la stiva, poiché anche le porte stagne purtroppo non funzionavano correttamente. Si tentò allora inutilmente, di riparare la falla con pannelli di metallo. Dopo le prime rassicurazioni ai passeggeri Gulì diede ordine di fermare le macchine e fece suonare la sirena d'allarme per radunare l'equipaggio, mentre il primo ufficiale Maresco dava ordine ai marconisti Reschia e Boldracchi di lanciare un primo S.O.S. Il segnale di soccorso fu raccolto da varie navi, tra le quali i piroscafi da carico Alhena (che, come già detto, aveva superato la nave italiana la mattina stessa) ed Empire Star ed i transatlantici francesi Mosele e Formose, che si trovavano nelle vicinanze e che accorsero subito. Tuttavia si fermarono ad una certa distanza dalla nave poiché si innalzava una vistosa colonna di fumo bianco che faceva temere l'esplosione delle caldaie e quindi il conseguente rischio di un incendio. In realtà questo pericolo non sussisteva poiché i fuochisti avevano già aperto le valvole del vapore prima che l'acqua raggiungesse le caldaie, ma essendo danneggiato l'unico generatore di corrente presente a bordo e, non essendoci una dinamo supplementare, non era stato possibile ai marconisti Reschia e Boldracchi di comunicare alle navi vicine che la temuta esplosione delle caldaie era scongiurata. Ad ogni modo le navi soccorritrici misero in mare tutte le proprie lance e iniziarono ad imbarcare naufraghi della nave italiana, mentre il comandante Gulì, munito di megafono, cercava di coordinare al meglio le operazioni di soccorso dal ponte di comando dando priorità a donne e bambini. Intanto sopraggiunse la notte, che rese più difficoltosa qualsiasi comunicazione visiva, e alle 22.03 si interruppe anche l'erogazione di energia elettrica e con essa tutte le comunicazioni del telegrafo di bordo. Resosi conto che la nave era ormai perduta, il comandante fece calare le lance di salvataggio, ma poiché la nave era fortemente inclinata a sinistra, quelle di dritta colpirono lo scafo danneggiandosi e divenendo inservibili. A bordo si era creato il panico e molti passeggeri caddero o si gettarono in mare, annegando. Sul lato di sinistra la situazione era migliore e Maresco fece il possibile per calare diverse lance, ma alcune di esse rivelarono il loro cattivo stato, imbarcando acqua, e fu necessario per i passeggeri togliere l’ acqua con i cappelli. Altre scialuppe prese d'assalto si rovesciarono, o affondarono per il sovraccarico. Allora il comandante Gulì capì che non si poteva fare più nulla e ordinò il si salvi chi può, mentre il caos a bordo aumentava sempre più, anche a causa dell'oscurità assoluta dovuta alla luna nuova e, mentre alcuni passeggeri riuscirono a raggiungere a nuoto le altre navi, altri si suicidarono sparandosi. Secondo alcune versioni anche il direttore di macchina Scarabicchi si sarebbe tolto la vita mentre molti naufraghi furono divorati vivi dagli squali, come riportò la stampa brasiliana dell'epoca. Alcune lance riuscirono a raggiungere le navi vicine e, insieme alle lance provenienti dalle altre imbarcazioni accorse, si riuscì a portare in salvo circa 900 persone. Intanto la nave, verso le ore 22:20, essendo ormai completamente invasa dall'acqua a poppa, si alzò verticalmente di prua e colò rapidamente a picco a circa 2.200 metri di profondità. Molte testimonianze raccolte in seguito concordarono con l'affermare che il comandante Gulì restò a bordo con i marconisti fino alla fine, facendo suonare ai musicanti rimasti la Marcia Reale. Il salvataggio dei pochi superstiti che tentavano di rimanere a galla come potevano proseguì fino a tarda notte e all'una anche l'Alhena lasciò il luogo del disastro. Due ore dopo sopraggiunsero anche piroscafi brasiliani come l'Avelona, il Bagé, l'Ayurnoca, il Manaos e il Puròs, che però non trovarono sopravvissuti. Sulla nave era stato imbarcato un forziere di monete d'oro per un valore complessivo di 250.000 lire dell'epoca. Esso rappresentava un dono del governo italiano a quello argentino come riconoscente gesto di ringraziamento per l'accoglienza dei numerosi emigranti italiani che ogni anno raggiungevano lo stato sudamericano. La custodia del prezioso carico era stata affidata al vicebrigadiere della Polizia di Stato Vincenzo Piccioni che morì nel naufragio, seppur non ve ne sia la conferma, il carico dovrebbe ancora giacere nella stiva del relitto a circa duemila metri di profondità o fu trafugato all’ ultimo momento da mano ignota… Malgrado il coraggio dimostrato dal comandante Gulì e dall'equipaggio, prodigatisi fino all' estremo sacrificio, il naufragio del Principessa Mafalda è stato probabilmente il più grave disastro nautico italiano. La sua notizia fece presto il giro del mondo suscitando sgomento e sorpresa, tuttavia la stampa italiana dell'epoca diede alla tragedia un taglio marcatamente retorico, ponendo l'accento solo sui vari episodi di eroismo. I principali giornali ricevettero le consuete veline in cui si suggerì di dare notizie vaghe e quindi vi furono diverse versioni in cui si parlò di fatalità, di incendio a bordo, di scoppio delle caldaie e sempre minimizzando naturalmente sul numero reale delle vittime. L’11 novembre 1927 si svolsero nella cattedrale di Genova la cerimonia di esequie per le vittime del Principessa Mafalda. Fu notata un’assenza significativa, quella di Dionigi Biancardi, direttore della Navigazione Generale Italiana. Biancardi, assieme al ministro Costanzo Ciano, aveva sostenuto dopo il disastro che il Principessa Mafalda era un piroscafo in perfetto stato. La stampa fascista, pur ammettendo un certo numero di vittime, mise in risalto l’eroismo degli ufficiali e non il malconcio stato di una nave che era stata gloriosa ma che da anni non era più in condizioni di navigare. C’erano delle colpe e delle responsabilità da accertare, ma il regime non voleva scandali che avrebbero scalfito l’immagine di un’Italia potente e infallibile. 
Le motivazioni di questo atteggiamento furono dunque prevalentemente politiche, inoltre la sciagura era avvenuta a pochi giorni di distanza dall'anniversario della Marcia su Roma, nel V anno fascista, quindi era preferibile non turbare l'opinione pubblica con cattive notizie. Un'altra valida motivazione per minimizzare le conseguenze di questo grave disastro fu quella economica: l'Italia di quegli anni, infatti, investiva fortemente nell'industria navale e quindi sarebbe stato sconveniente spaventare la cospicua percentuale di emigranti, che rappresentavano una sicura fonte di guadagno per le compagnie di navigazione italiane impegnate nelle remunerative rotte verso le Americhe. Nelle false notizie che si diffusero venne quindi comunicato che le «poche decine di vittime» erano da contare soltanto tra gli ufficiali dell'equipaggio e i passeggeri della prima classe. A confermare questa versione e ad attaccare la stampa estera che affermò il contrario fu l'ambasciatore italiano in Argentina Attolico, che rilasciò un'intervista al Corriere Mercantile in cui pose l'accento sull'«eroico contegno dell'equipaggio nel terribile frangente» e in cui affermò che, comunque, sarebbe seguita un'indagine sulla sciagura per ordine dello stesso Mussolini. Malgrado ciò la tragica notizia venne definitivamente liquidata dall'allora ministro delle Comunicazioni Costanzo Ciano che emanò un breve comunicato in cui dichiarò che la nave alla partenza era in perfetta efficienza e insistendo che quanto accaduto era da attribuirsi unicamente al fato avverso; infine, il governo italiano conferì meritatamente la medaglia d’oro alla memoria al comandante Gulì e agli altri ufficiali: il direttore di macchina Scarabicchi e i marconisti Reschia e Boldracchi. Alla tragedia seguì comunque un'inchiesta segreta parallela promossa dalla Regia Marina, la cui commissione stabilì che l'asse dell'elica sinistra, origine del disastro, si sfilò per il cedimento di un giunto ed emerse anche il fatto che sei lance di salvataggio collocate a poppa non poterono essere utilizzate perché posizionate male. Inoltre, il Registro Navale Italiano emanò una direttiva che ordinava che gli assi delle eliche di tutte le navi italiane fossero dotati, da allora, di specifici dispositivi atti ad evitare problemi della stessa natura di quello che aveva causato il tragico naufragio. Un processo in seguito alla denuncia dei familiari delle vittime diede ragione a questi ultimi e la Navigazione Generale Italiana fu condannata al pagamento di forti indennizzi. La completa verità si stabili solo nel 1956 con una inchiesta giornalistica condotta dal settimanale L'Europeo che stabilì con maggior esattezza come i fatti si fossero svolti, senza togliere nulla all'indubbio valore dimostrato dai membri dell'equipaggio. 

Luciano Querio

Bibliografia 
Pascale, L'isola nave e la memoria degli ultimi marconisti, Cagliari, Zedda, 2007, 

L. Garibaldi, G. Giorgerini, E. Magnani Bosio, Principessa Mafalda. Titanic italiano., Novara, De Agostini, 2010, 

Paolo Piccione, Genova: città dei transatlantici : un secolo di navi passeggeri, Tormena Editore, 2003 

A. Solmi, Acque Tragiche, Milano, Rizzoli, 1975

LUCIANO QUERIO
Sono di origine canavesana essendo nato a Cuorgnè nel 1958. Sono sempre stato amante dell’arte, della storia e della filosofia medievale. Nel tempo libero mi diletto a fotografare. Pur amando i viaggi mi sento profondamente radicato alla mia terra. Così parafrasando Cesare Pavese il paese dove sono nato ho creduto da bambino che fosse tutto il mondo. Adesso che il mondo in piccola parte l' ho visitato davvero, ho visto che è fatto di città e di tanti piccoli paesi… perciò da bambino non mi sbagliavo poi di molto...Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, nel fiume e nella montagna che ti guarda dall’ alto c'è qualcosa di tuo che anche quando non ci sei resta sempre ad aspettarti…

Il patologo di Mengele

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Il mio nome è Miklós Nyiszli. Sono nato il 17 giugno1901 a Szilágysomlyó, città della Romania nel distretto di Sălaj, nella regione della Transilvania.
Ho avuto un’infanzia normale, con una famiglia come tante. Fin da bambino sognavo di fare il medico, di potermi occupare degli altri, magari di salvare delle vite. Quando ho potuto realizzare il mio sogno, studiando medicina in Germania, mi sono sentito un uomo fortunato.
Ho vissuto con la mia famiglia in Ungheria fino al maggio del 1944, anno in cui tutta la mia vita è cambiata per sempre. Durante il regime di Horthy-Döme Sztójay, reggente fino al 1946, sono stato arrestato a causa della mia origine ebraica, con mia moglie e mia figlia. Quel giorno che tanto temevamo era arrivato. Una mattina, mentre facevamo colazione riuniti attorno al tavolo della cucina e ascoltavamo le notizie alla radio, abbiamo sentito un rumore di passi cadenzato e minaccioso, farsi sempre più assordante. In un attimo un gruppo di soldati armati era alla nostra porta. Bussarono. Tre colpi secchi, forti. Il silenzio era alla nostra tavola, la paura seduta accanto a noi. Tutta la nostra vita quel giorno finì. Fu come se il tempo si fosse improvvisamente fermato. Ricordo ancora l’odore del caffè, un aroma che per un lungo periodo avrei solo potuto immaginare.
Il mio corpo, la mia anima, il mio entusiasmo, i miei sogni, quelli di un uomo comune, sono stati caricati su un treno in partenza per la Polonia, con destinazione Auschwitz, ma ancora non lo sapevamo. Non contava più chi fossi, o cosa avessi fatto. Tutta la mia vita fu cancellata in un istante. Mi strapparono i miei affetti, la mia identità. Mi divisero dalla mia famiglia. Non sapevo se le avrei mai più riviste.
Qualcuno piangeva, qualcuno pregava. Eravamo in tanti, troppi su quel maleodorante vagone in legno, con agli angoli solo qualche secchio per i nostri bisogni corporali, tutti in piedi con gli occhi sbarrati, per la paura di quello che ci saprebbe potuto accadere, con i pochi vestiti che avevamo addosso quando siamo stati prelevati dalle nostre case. Le voci erano tante sui campi di lavoro, ma nessuno sapeva con certezza cosa potesse accadere in quei luoghi isolati dal resto del mondo, lontano da sguardi indiscreti. Nessuno era tornato per poter raccontare, per dire la verità su quei posti.
Viaggiammo per un tempo che ancora oggi non sono in grado di determinare, la sola cosa che riuscivo a pensare e che non avrei mai dovuto dimenticare da dove venivo, chi ero e che cosa ero stato fino a quel giorno. Qualsiasi sofferenza mi aspettava, non potevo dimenticare la mia famiglia, mia moglie, mia figlia, i miei affetti più cari. Ovunque fossi andato sarei tornato a casa per riprendere la mia vita.
Improvvisamente il treno si fermò. Pochi minuti e riprese ad andare fino ad arrivare ad una grande struttura tutta composta di baracche. Alla stazione il treno si arrestò definitivamente. Sentivamo ad una ad una aprirsi le porte dei vagoni e le guardie urlarci di scendere. Ci accolsero altri soldati armati, con grossi cani lupo al guinzaglio. Sembravano affamati e arrabbiati. In fila, tra botte e spintoni, ci condussero tutti nel piazzale accanto al treno. Li ci misero in ordine, cercando di dividerci in gruppi. Ma la paura era tanta che nessuno riusciva a capire gli ordini che ci venivano impartiti. E così volarono altre botte, altri spintoni. Una parola era chiara, fra tutte: Auschwitz.
Cercai mia moglie, sforzandomi di individuarla fra quella moltitudine umana. Speravo di vedere lei e la nostra bambina, ma non ci riuscii.
Davanti a noi un gruppo di persone in camice bianco, probabilmente medici. Uno di loro si avvicinò, lentamente. Aveva gli occhi pungenti e un sorriso inquietante stampato sul volto. Accanto a lui una donna bionda di bell’aspetto, con un grosso pastore tedesco al guinzaglio che teneva saldamente nella mano destra e un frustino in pelle nella mano sinistra. Il cane era incollato a lei, mansueto, camminava accanto alla donna tranquillo, senza emettere un suono. Aveva al collo un vistoso collare con una targhetta in metallo.
Non dicevano un parola, si limitavano ad osservare e a bisbigliare qualcosa leggendo un elenco. L’uomo si avvicinò a me e al bambino che avevo accanto. Mi guardò per un istante, che bastò per farmi smettere di respirare, poi posò il suo sguardo sul piccolino accanto a me. La sua espressione cambiò, si fece innaturalmente dolce, quasi infuocata. Prese una caramella dalla tasca, gliela porse e disse, rivolgendosi alla donna: «Lui va bene. Ecco piccino, questa è per te, chiamami zio…»
Questa frase, questi volti senza emozione, rimarranno impressi nella mia mente fino alla fine dei miei giorni, ma ancora non potevo saperlo, non conoscevo l’abisso che mi aspettava.
Ci divisero in gruppi: quelli ritenuti abili al lavoro o che avevano una specializzazione da una parte, vecchi e malati in un altro gruppo con bambini e donne. Alcuni di noi furono chiamati ad alta voce, dagli ufficiali seduti ad un tavolino. Anche io fui chiamato, come medico potevo essere utile.
Mi offrii volontario, forse avrei potuto aiutare qualcuno, essere utile come un tempo quando ero un medico in Ungheria. Un tempo… erano passati solo 7 giorni ma ormai tutto mi sembrava così lontano.
Mi assegnarono all’assistenza sanitaria delle baracche del settore 12. Ogni giorno cercavo di fare quello che avevo imparato, cercavo di alleviare il dolore di chi stremato arrivava davanti a me. Non avevo strumenti, non avevo medicine, assistevo inerme alla morte di quello che restava di esseri umani che fino a poco tempo prima avevano camminato liberi nel mondo.
Guardavo i loro occhi farsi opachi, il loro respiro diventare lieve, ascoltavo le loro ultime parole, di dolore, d’amore verso i propri cari, di speranza. Accarezzavo i loro volti scheletrici, chiedevo il loro nome, cercando di non farli sentire soli più di quello che fossero stati in questo luogo estraneo, ostile, in cui erano costretti a vivere e che sarebbe stata la loro tomba, forse la mia. Recitavo una preghiera, quelle che ricordavo della mia infanzia, a ciascuno promettevo che avrei detto al mondo, uscito di lì, cosa stava accadendo, quale era la verità che nessuno ancora conosceva. Promettevo loro che non sarebbero morti invano, che non li avrei dimenticati, che il loro ricordo sarebbe resistito all’odio di chi ci aveva rinchiusi lì, per cancellarli, per distruggerli. 
Dopo qualche tempo al settore 12, nel giugno del 1944, il dottor Mengele mi notò. Era lui al nostro arrivo che ci aveva selezionati, che aveva scelto i “suoi” bambini, quelli destinati agli esperimenti. Un giorno mi avvicinò e mi disse che aveva osservato le mie capacità come medico, nonostante i pochi mezzi a disposizione. Era rimasto colpito. Aveva in mente per me un ruolo importante, al suo servizio. Potevo essergli utile. Ma come?
Mi aggregò come medico anatomo-patologo al dodicesimo Sonderkommando di Auschwitz, di istanza al crematorio numero 1. Allestii una sala autopsie che fu dotata delle più moderne attrezzature. Il mio compito era quello di supportare il dottor morte nelle sue folli ricerche scientifiche, per trovare le differenze fra la razza ariana e quella degli “inferiori” che finivano sul mio tavolo. Dovevo operare seguendo le istruzioni sue e dei suoi collaboratori. Sotto i miei occhi pieni di morte passarono decine e decine di cadaveri, di persone deformi, di bambini, di gemelli, di ebrei come me, uomini e donne, tutti ritenuti sacrificabili in nome della scienza. Tutti ritenuti indegni di vivere.
Mengele uccideva a volte con il solo scopo di far sottoporre ad autopsia il paziente che aveva prescelto, al fine di individuare la chiave che dimostrasse la veridicità delle teorie eugenetiche sostenute dal nazionalsocialismo. La sala in cui lavoravo era circondata da vetri, dietro ai quali si schieravano i medici del campo. Ero costretto a sopportare il loro sguardo orgoglioso e malato, che ogni volta attendeva con trepidazione i risultati delle mie analisi. Dovevo fingere di non sentire le loro esclamazioni di compiacimento, le frasi entusiaste, i risolini.
In certi momenti speravo anche io di trovare quel qualcosa che tanto spietatamente ricercavano, lo speravo perché mi illudevo che avrebbero smesso di fare esperimenti e di uccidere per dimostrare le loro teorie. Ma così non fu. Giorno dopo giorno, fui costretto contro la mia volontà a «…misurare crani, annotare il colore degli occhi, pelle o capelli…», a ricercare quell’inesistente segno distintivo che potesse identificare la razza ariana di cui tanto si vantavano.
Il mio lavoro forzato non portò mai a risultati seri e concreti. Così gli esperimenti continuarono. Ma sono certo che con o senza di me, sarebbero comunque continuati.
Nel mio sopravvivere assistevo ogni giorno all’orrore della vita ad Auschwitz. Ma potevo anche godere di piccoli privilegi che mi permisero di cercare la mia famiglia. In agosto il dottor Mengele, mosso non so da quale scopo incomprensibile, mi concesse un lasciapassare che mi autorizzava a muovermi all’interno del campo. Forse si fidava di me, sapeva che non ero pericoloso e che sarei tornato indietro. Questa piccola libertà mi spinse a cercare mia moglie e mia figlia. Speravo che non fossero morte, speravo che non fossero finite alle camere a gas. Scoprii, grazie alla mia padronanza del tedesco, che erano detenute nel campo femminile C, quindi destinate allo sterminio.
Quando finalmente le trovai, quasi irriconoscibili ma vive e unite, il mio cuore riprese a battere. Avevo di nuovo uno scopo per uscire da quel luogo, per combattere contro la morte. Spiegai loro cosa mi era accaduto in quei mesi in cui eravamo stati lontano, cosa ero costretto a fare, che era meglio che da li loro si fossero fatte trasferire perché se fossero rimaste, prima o poi il loro destino sarebbe stato quello delle camere a gas. Riuscii a convincere gli ufficiali SS ad aiutarle a farsi trasferire in un campo di lavoro
Quel giorno le salutai e poi non le rividi più fino alla fine della guerra.
Tornavo al mio lavoro ogni mattina sperando che fosse l’ultima volta, che qualcosa cambiasse quella spirale di orrore e morte in cui ero intrappolato. Ma non avevamo notizie dal mondo esterno, eravamo isolati.
Il mio rapporto con il dottor Mengele era scandito da istruzioni precise. Non lasciava nulla al caso, non potevo prendere iniziative di nessun genere. La sua attività era programmata in maniera manicale: prevedeva una serie di esami dettagliati da compiere sui soggetti selezionati mentre erano in vita e successivamente quando finivano sul mio tavolo, con lo scopo di mettere in relazione l’inferiorità della razza ebraica con le deformità fisiche trasmesse di padre in figlio, in particolare nei gemelli. Ciò che ero costretto a vedere ogni giorno anneriva il mio animo, convincendomi che dall’inferno non sarei mai uscito. Quando non mi occupavo di corpi deformi o di vittime di esperimenti, aiutavo il dottor morte a catalogare le principali cause di morte all’interno dei campi di concentramento. I risultati che ottenevamo erano inviati all’istituto di igiene batteriologica delle SS, non so ancora a che scopo, dato che era palese che i decessi avvenissero per le privazioni, i maltrattamenti, le violenze e le condizioni igieniche proibitive.
Ricordo ancora degli episodi che mi hanno segnato profondamente.
Un giorno venne da me il dottor Mengele. Entrò nella sala dove mi stavo preparando e mi disse: «Vieni, arriva un convoglio carico di merce fresca, adiamo a vedere se c’è qualcosa di interessante…». Mentre lo diceva sorrideva, gli brillavano gli occhi, di quella luce sinistra che solo in lui avevo visto. Mi accorsi che aveva le tasche piene di caramelle. Mi tolsi la mascherina e lo segui come fa un cane con il suo padrone. Ma in me non c’era gioia. Non c’era fedeltà, ma solo rassegnazione.
Fuori ad aspettarci c’era lei, la solita bionda col cane. Avevo imparato a conoscerla, la chiamavano la Belva. Era spietata, fredda. Mi raccontarono che ogni tanto faceva sbranare i prigionieri dal suo cane, per divertimento. Che non disdegnava entrare nelle baracche femminili di notte per consumare violenti rapporti sessuali con le prigioniere costrette a sopportare la sua furia.
Evitavo di guardarla negli occhi, la solo volta che lo feci ne rimasi scioccato: erano blu e vuoti come l’abisso. In lei c’era l’ombra della morte. Sapevo per certo che con Mengele erano stati amanti, li avevo sentiti.
Arrivammo alla rampa dei treni in silenzio. Il dottore iniziò a girare fra i prigionieri. Ad un tratto si fermò.
Vide fra la folla due uomini. Seppi dopo che erano padre e figlio, entrambi deformi. Lui era entusiasta, gli sembrò di aver “… trovato l'anello mancante di Darwin; li fece immediatamente mettere da parte e tracciò con un gesso blu su di loro la scritta Fur sektion e li mandò al crematorio perché li visitassi e redigessi una scheda completa con i loro dati….”
Quando me li trovai davanti sapevo già cosa sarebbe loro accaduto. Gli diedi da mangiare. Non riuscivo a mascherare la mia tristezza. Mengele entrò dopo poco. Ebbi il tempo di visitarli e di annotare tutte le loro patologie. Poi il dottore li condusse in un’altra stanza e li fece stendere su due lettini. In pochi istanti , con due iniezioni di fenolo al cuore il loro destino era compiuto. Si erano immolati per la ricerca scientifica.
Come di consueto feci le autopsie. Ma da quel momento nulla andò come doveva. Mengele mi chiese come poter estrarre i due scheletri dai corpi, li voleva studiare ed inviare all’archivio dei Reich per farli catalogare. Io risposi che il solo modo che conoscevo era la bollitura dei loro resti. Un cenno di assenso e procedetti.
Mi misero a disposizione nel cortile del crematorio due fusti di acqua che mettemmo a bollire con i corpi sezionati dei due uomini. Dopo qualche ora ci raggiunse una squadra di prigionieri polacchi, chiamata per sistemare alcuni mattoni della ciminiera che si erano rotti. Arrivati sul posto, vedendo i fusti, credettero che a bollire ci fosse la carne destinata al Sonderkommando del crematorio. Affamati vi si avventarono sopra. Quando uscii era troppo tardi. Non ebbi il coraggio di dire nulla, ero scosso da ciò che stavo vedendo.
Ero in un vortice di orrore, intrappolato in un mondo che nessuno probabilmente fuori da quel luogo aveva la consapevolezza che esistesse. Quando ero un uomo libero avevo sentito parlare dei campi di concentramento ma non immaginativo chi li popolasse, chi aveva il controllo e fino a che punto la cosiddetta razza ariana, la razza perfetta, era in grado di spingersi.
Ogni giorno dovevo trovare la forza di andare avanti, di non lasciarmi annientare e di non perdere la lucidità. Ma non era facile. Guardavo gli altri medici che lavoravano con me e mi chiedevo come potessero farcela, senza perdere la ragione, senza impazzire. E io come facevo? La speranza di poter un giorno riabbracciare la mia famiglia mi teneva in vita.
Auschwitz era una struttura immensa, non avevo neppure idea delle sue reali dimensioni. Era costituito da un campo principale e da una serie di sottocampi, tutti strettamente correlati fra loro. Per necessità mi era capitato di spostarmi da una struttura ad un’altra. Il crematorio n° 1 era considerato quello di Auschwitz, dove lavoravo io. Il principale centro del genocidio ebraico fu Birkenau, anche conosciuto come Aushwitz II.
Birkenau era una fabbrica della morte. Era dotato da 4 grandi crematori, gemelli a due a due. Il 2 e 3 avevano spogliatoi e camere a gas. Il 4 e 5 solo camere a gas. I prigionieri erano fatti svestire all’esterno e poi condotti alla morte. I forni funzionavano giorno e notte. Chi arrivava in quell’area del campo, entrava vivo e usciva in cenere. Il buio della notte era rischiarato dalle fiamme che uscivano vivide dalle ciminiere del crematorio. Quella visione sinistra non faceva altro che aumentare la nostra disperazione, la nostra convinzione che prima o poi sarebbe toccato a noi o a qualcuno che amavamo o conoscevamo.
Un giorno, durante il nostro turno di servizio, ci incaricarono di svuotare la camera gas. Portando i corpi verso i forni, io e i miei colleghi ci accorgemmo che sotto una catasta di cadevi vi era ancora una giovane donna viva. Era scheletrica, pallida, piena di ecchimosi, ma respirava ancora. Il nostro istinto di medici ci fece agire senza pensare alle conseguenze. La rianimammo e la nascondemmo. Per noi fu una gioia, una barlume di speranza che forse qualcosa di buono poteva accadere. Ci sentimmo di nuovo parte di qualcosa di positivo, ci sentimmo di nuovo umani dopo tanto tempo. Ma la nostra gioia non durò molto.
La giovane fu scoperta da un SS e uccisa, mentre i miei compagni cercavano di salvarla, di aiutarla. Furono tutti trucidati. La nostra vita al campo non valeva nulla, eravamo tuti appesi a un filo. Io mi salvai solo perché non ero lì in quel momento.
Le squadre in cui lavoravamo, dirette dalla SS, erano chiamate, Sonderkommando. Ogni 4 mesi per evitare che diventassero testimoni scomodi, i componenti delle squadre erano sterminati. Io ne facevo parte, con altri prigionieri scelti per le loro capacità o per la loro prestanza fisica. Eravamo più fortunati degli altri, meglio nutriti. Io appartenevo ad una categoria speciale, non feci la fine degli altri appartenenti al gruppo. Ero il patologo di Josef Mengele, il famoso dottor morte.
Mengele era solito ripetermi: «Il crematorio non è il massimo dell'inferno ma un limbo, ci si può sopravvivere…» Andando a Birkenau capii perché mi ripeteva quella frase. Un giorno mi mandarono li per prelevare dei medicinali frutto delle perquisizioni dei nuovi prigionieri arrivati. Spesso i crematori erano sovraffollati di cadaveri da smaltire. Quando questo accadeva, e non era raro, si ricorreva alle fosse crematorie, situate in un’area distante dal resto delle struttura. I prigionieri selezionati per l’eliminazione erano condotti in una fattoria requisita, in cui venivano obbligati a spogliarsi, tra insulti, bastonate e violenze di ogni genere. Una volta nudi, venivano presi uno alla volta da due dei Sonderkommando assegnati a questo compito, che li conducevano di corsa attraverso il bosco verso una colonna di fumo nero e dall’odore acre e nauseabondo. Sapeva di carne bruciata, di capelli bruciati. Il fumo saliva verso il cielo, mente avvicinandosi alle fosse si udiva forte il crepitio dei corpi che ardevano e le urla strazianti di chi, ancora vivo, veniva gettato nel fuoco. Non potevo credere a ciò che stavo vedendo, non potevo accettare che stesse accadendo.
Sui bordi delle fosse ad attendere i condannati vi erano i soldati delle SS, con le pistole in pugno. Urlavano, sparavano, non badavano se stessero uccidendo o ferendo chi veniva loro incontro, nudo, indifeso, piangente. Un colpo alla nuca e poi giù nelle fiamme. Le persone spesso morivano bruciate vive perché le pistole usate erano di piccolo calibro, troppo piccolo.
Nel campo la chiamavano «… la doppia morte. Le vittime si dimenavano, emettevano urla disumane, si paralizzavano dal terrore, evacuavano e sbavavano alla vista dell'atrocità del loro vicinissimo martirio, cadevano in deliquio o impazzivano; il loro cervello dava grandi segni emozionali ai mostruosi avvenimenti esterni inimmaginabili, somatizzandoli, mentre venivano trascinate e avvicinate alle fosse crematorie. Il rendimento giornaliero di morte dei roghi era superiore a quello dei crematori. »
Se i Sonderkommando perdevano il ritmo, le SS sparavano loro alle braccia, alle gambe. SE si fermavano finivano a loro volta nella fossa. Raccolsi le medicine, mi voltai piangendo, con gli abiti impregnati di quell’odore acre e nauseabondo che ogni tanto mi tornava alla mente.
10 gennaio 1945. Le voci dell’avanzata degli alleati si fecero sempre più frequenti, il malcontento al campo era palpabile. Un giorno, fortunosamente riuscii a mettere le mani su un giornale dimenticato da uno dei soldati su una sedia. Lo presi. In fretta riuscii a leggere una notizia che mi diede nuova speranza ma che subito dopo mi fece piombare nel terrore: l’armata russa stava avanzando, l’esercito tedesco era in ritirata. Cosa ne sarebbe stato di noi? Ci avrebbero lasciti vivi, ci avrebbero dato la possibilità di raccontare l’orrore di Auschwitz? Ci avrebbero lasciti liberi di andare via? La risposta era dentro di me.
Gli uffciali del campo decisero la ritirata e di cancellare qualsiasi prova che testimoniasse la verità su ciò che accadeva. Fu decisa l’eliminazione totale delle prove, anche delle SS che avevano prestato servizio al crematorio con me: non dovevano restare testimoni in vita.
Rimasi ad Auschwitz fino a pochi giorni prima dell’arrivo dell’armata sovietica, in attesa del mio destino.
Il 18 gennaio riuscii a sfuggire alla morte , confondendomi con altri prigionieri in una di quelle che la storia ricorda come le marce della morte, cioè il trasferimento forzato dei prigionieri da un campo di sterminio ad un altro attraverso i territori di Germania, Cecoslovacchia, Poloniae Austriaancora appartenenti al Reich.
Ci fermammo a Mauthausen, presso Linz, dove il caos e il sovraffollamento erano indescrivibili. Il freddo era tremendo. Non potevo restare all’aperto, così andai dal kapò delle docce presentendomi come medico. Questo mi permise di mettermi al riparo e di salvarmi dal congelamento. Non immaginavo quello che sarebbe accaduto dopo poche ore. Nella notte le SS ordinarono di dar il via al Totbadeaktionen, il bagno della morte. Capii solo dopo di cosa si trattava.
Durante la notte cominciarono ad irrorare per ore i deportati nudi rimasti all'aperto, con idranti di acqua gelata. Li sentivo urlare. La temperatura era intorno ai – 20°, in questo modo i prigionieri sarebbero morti di ipotermia, congelati, di polmonite fulminante o arresti cardiaci.
Finito questo supplizio fu ordinato a squadre di criminali ubriache, costrette a bere fino a perdere la coscienza, di trucidare chi restava in piedi o cercava di resistere con asce e scimitarre correndo nel mucchio dei prigionieri stretti uno all’altro per difendersi dal freddo. La mattina dopo, ai pochi sopravvissuti fu concesso di entrare nel campo. Io non potevo non pensare all’orrore di quella notte, al sangue ghiacciato che brillava al sole.
Nei giorno successivi le SS continuarono a lanciare appelli per cercare i deportati che avevano lavorato nei crematori di Birkenau e Auschwitz; io feci finta di non sapere nulla, avevo capito che era meglio restare nell’anonimato, cercavano solo di eliminare gli scomodi testimoni che erano sopravvissuti alla ritirata.
Dopo circa tre settimane trascorse in quarantena nelle baracche di Mauthausen, fui trasferito nei sottocampi di Melkund der Donau, a circa tre ore di treno da Mauthausen e infine ad Ebensee.
La mia vita da prigioniero finì il 5 maggio del 1945 quando l’esercito statunitense ci liberò.
Tutto quello che avvenne dopo non ha molta importanza per far capire al mondo l’orrore che sono stato costretto a vivere per quasi un anno. La cosa che conta è che io e la mia famiglia ci siamo riuniti e abbiamo cercato di andare avanti nonostante i ricordi, nonostante la sofferenza. Nella mia testa le urla dei prigionieri che andavano alla morte non si spensero mai, mi accompagnarono per il resto della mia breve vita
Morii il 5 maggio1956, distrutto dal peso di ciò che avevo vissuto ma con la consapevolezza che la mia testimonianza avrebbe contribuito a far conoscere al mondo la mostruosità che il nazionalsocialismo di Hitler e dei suoi scagnozzi aveva saputo mettere in scena.

Rosella Reali

Bibliografia 
Miklós Nyiszli, Memorie di un medico deportato ad Auschwitz, Ginevra, Ferni, 1980 (per altre edizioni - anche per il titolo alternativo di Auschwitz, i medici della morte 

Miklos Nyiszli - Medico ad Auschwitz - le folli "ricerche scientifiche" compiute su prigionieri ancora vivi, Longanesi & C. Editore, 1976 

ROSELLA REALI
Sono nata nel marzo del 1971 a Domodossola, attualmente provincia del VCO. Mi piace viaggiare, adoro la natura e gli animali. L'Ossola è il solo posto che posso chiamare casa. Mi piace cucinare e leggere gialli. Solo solare, sorrido sempre e guardo il mondo con gli occhi curiosi tipici dei bambini. Adoro i vecchi film anni '50 e la bicicletta è parte di me, non me ne separo mai. Da grande aprirò un agriturismo dove coltiverò l'orto e alleverò animali. 
Chi mi aiuterà? Ovviamente gli altri viaggiatori.
Questa avventura con i viaggiatori ignoranti? Un viaggio che spero non finisca mai...




L'inquisitore e la roncola

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1252, foresta di Seveso, nei pressi di Barlassina. Il sole da poco ha iniziato il suo percorso di vita. Due uomini, nascosti nel fitto della boscaglia, attendono il momento propizio. Aspettano l’uomo che vogliono uccidere. Pietro, insieme al confratello Domenico, cammina senza immaginare il falcastro che farà scempio del suo corpo. All’improvviso i sicari si presentano al loro cospetto. Le lame scintillano al sole. La roncola affonda nel corpo di Pietro. Domenico tenta una frettolosa fuga, spaventato ed inorridito per il brutale assalto. Tutto sarà vano. Raggiunto, è sopraffatto dalla ferocia degli uomini con il falcastro. Perirà dopo alcuni giorni d’agonia. Le notizie correranno veloci come il fulmine di una sera d’estate. Il corpo di Pietro sarà raccolto e trasportato a Milano, dove troverà, momentanea, sistemazione nella chiesa dedicata a San Simpliciano. All’interno della comunità cristiana si respirò un immediato profumo di santità, tale da permettere lo spostamento del corpo in Sant’Eustorgio, sempre a Milano. Il sepolcro conoscerà ampia frequentazione di fedeli. Miracoli e grazie si sprecarono. Il 25 marzo del 1253, Innocenzo IV decise di inserire Pietro da Verona tra i Santi della Chiesa.
Gli attentatori e omicidi?
Carino Pietro da Balsamo, l’effettivo uccisore di Pietro, si pentì del gesto e morirà in fama di santità presso il convento dei domenicani di Forlì, avendo come padre spirituale il beato Giacomo Salomoni.
Quali furono gli eventi che portarono all’omicidio di Pietro?
Pietro nacque nel 1203 a Verona. La casa ove nacque era frequentata da persone infette dagli errori dei manichei. Il ragazzo manifestò da subito disprezzo verso queste idee. Quel sentimento si trasformò in avversione. Il percorso di vita era segnato. All’età di diciotto anni, nel 1221, entrò a far parte dell’ordine fondato da Domenico de Guzman. Il suo operato ecclesiastico vide la luce nella città di Bologna. All’ombra delle torri medievali bolognesi, Pietro si scagliò, energicamente, verso le eresie che si andavano diffondendo nelle terre italiche. Catari, Patarini e semplici persone accusate di seguire i dettami della religione ebraica furono centrali nelle sue lunghe, ed infiammate, prediche. Fu tale l’ardore dispiegato nelle sue omelie che, da subito, fu venerato come apostolo dalle umili e timide genti bolognesi. Nel 1232, Gregorio IX decise d’inviarlo in Lombardia allo scopo di reprimere le molte eresie di quelle terre. Fece trionfale ingresso in Sant’Eustorgio, luogo nel quale decise di fondare un’associazione di militanti chiamata Società della Fede. I risultati furono strabilianti, grazie anche all’appoggio dei rappresentanti del Comune. Negli anni seguenti divenne priore del convento domenicano d’Asti, nel 1240, e di Piacenza, nel 1241. 
La sua fama lo precedeva. La Chiesa necessitava di una personalità forte che fosse in grado d’abbattere la radicata eresia patarina in Toscana. Sul tramontare del 1244 entrò in Santa Maria Novella, nella città di Firenze, con il preciso compito di estirpare il germe eretico. Nella città toscana gli eretici presero il nome di Patarini, con riferimento a Filippo Pateron, fondatore di una setta che si contrapponeva alle idee cristiane sue contemporanee (Celebre è l’etimologia proposta da Ludovico Antonio Muratori: secondo lo storico, il termine patarini derivava dal milanese patée, in altre parole straccioni). Le origini del movimento sono da ricondurre ad esponenti del clero particolarmente vicini alla sensibilità della Chiesa romana del secolo XI. Queste persone riuscirono a coinvolgere molti settori della popolazione nella lotta contro la simonia, il matrimonio dei preti e la ricchezza delle alte cariche ecclesiastiche. L’operato di Pietro da Verona divise profondamente Firenze. Dalla sede di Santa Maria Novella accusò il podestà della città, Pace da Pesandola. Riuscì a convincere diverse potenti famiglie a seguirlo, tra cui i Corsini e gli Adimari. L’inquisizione fu costretta a fulminare una sentenza contro il podestà che, in risposta, inviò degli ambasciatori alla corte di Pietro per convincerlo a ritrattare le accuse contro di se e le famiglie nobili fiorentine. Pietro rispose con la forza pubblicando severe censure contro gli eretici e il podestà stesso. La risposta degli accusati non si fece attendere: si radunarono e decisero di entrare, armati, nella chiesa di Santa Maria Novella nello stesso momento in cui Pietro infiammava i suoi seguaci. Ne seguì una mischia furibonda e sanguinosa, accompagnata da enormi scelleratezze. Pietro, per nulla intimidito da quel brutale attacco, più fanatico che mai decise di rispondere. Partì all’attacco all’ombra di un’enorme bandiera bianca segnata da una croce rossa. Precedendo la torma di crocesegnati, infiammandoli con la sua abile oratoria, riuscì a conquistare il Bargello, palazzo del Podestà, e i principali luoghi forti delle famiglie considerate patarine. In pochi giorni il frate domenicano riuscì a far traboccare le carceri d’eretici. La sua determinazione destò profondo rispetto ed ammirazione. Il rispetto divenne, con il passare del tempo, terrore. La diffidenza e il timore aleggiavano nella popolazione. Il padre temeva il figlio ed il figlio, il padre. La paura di trovare nel prossimo un facile accusatore, dilaniava le menti delle persone. Le vittorie di Firenze permisero a Pietro d’essere nominato inquisitore generale della Lombardia. Recatosi a Milano assunse la carica con l’ardore che lo contraddistingueva. In pochi mesi divenne il flagello degli eretici. Molti furono bruciati per il suo ordine. Il terrore divenne generale. I molti roghi che rischiararono le serate milanesi non appagarono il frate che si spostò, con il seguito, prima a Pavia poi a Cremona e infine a Piacenza con l’intento d’estirpare ogni forma d’eresia da quelle città. Nel 1252 si trasferì a Como. Placidamente adagiato sul lago, fece agguantare molte persone per sottoporle al giusto processo. Tra i tanti anche un Rusconi, del quale frequentava la casa, con l’accusa di proteggere i patarini. Il Rusconi, appartenente alla nobile famiglia comasca, non fu lasciato solo nelle carceri. A Como come a Milano, e Firenze prima, le carceri traboccarono d’eretici. L’aiutante di Pietro, Domenico, tentò di far ragionare l’inquisitore. Troppe persone torturate, troppi eretici morti per mano dell’uomo giunto da Verona. Domenico comprese che la ribellione popolare era iniziata. Non solo il prestigio e il potere erano in pericolo. Con loro la vita dei frati. Pietro, indomito e infiammato come sempre, lasciò cadere le parole dell’aiutante, sorreggendolo nella fede cristiana. Il 5 aprile del 1252 fu l’ultimo giorno d’attività dell’inquisitore. Domenico si recò nella stanza di Pietro per ricevere gli ordini della giornata. Era teso e preoccupato. Molte voci si rincorrevano: volevano fermare l’operato di quell’uomo considerato fanatico.
Entrando in quella stanza cosa potrebbe aver detto all’inquisitore?
- “Monsignore, ogni nemico è da temere e per abbatterlo è necessario non farsi attaccare”.
Probabilmente a quelle parole Pietro reagì.
- “Siamo così deboli da tremare dinanzi ad alcuni eretici”.
Domenico avrà ribattuto.
- “Dobbiamo essere prudenti, il nemico è alle porte e dobbiamo prepararci a combatterlo”.
Pietro avrà fissato l’interlocutore ritenendo quelle parole poca cosa. Le prime ore del mattino saranno trascorse come le precedenti. Ordini e parole. Torture ed interrogatori.
La giornata si sarà conclusa in anticipo rispetto al solito?
Probabilmente si, il giorno seguente dovevano recarsi a Milano.
Luogo ove non giungeranno mai.

Fabio Casalini

Bibliografia
P.T. Campana, Storia di san P. M. da Verona, Milano 1741

F. Balme, Documents sur saint Pierre martyr, in Année dominicaine ou Vie des Saints de l’ordre des frères Prêcheurs, V, 2, Avril, Lione 1889

F. Tocco, Il processo dei guglielmiti, in Rendiconti della Reale Accademia dei Lincei, Atti della classe di scienze morali, s. 5, VIII (Roma 1899)

G. Odetto, La cronaca maggiore dell’Ordine domenicano di Galvano Fiamma, in Archivum fratrum Praedicatorum, X (1940)

P. Tamburini, Storia generale dell'inquisizione, Bastogi Editrice, Milano, 1862

Corio, Storia di Milano, I, a cura di A. Morisi Guerra, Torino 1978

FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.




Vasa, un sogno infranto in un giorno di mezza estate

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Nel XVII secolo la Svezia passò dall'essere un regno scarsamente popolato, povero e periferico, ad una delle maggiori potenze continentali. Tra l'inizio del 1600 e la prima metà del secolo successivo, la Svezia fu la potenza dominante nell'area del mar Baltico. Questa trasformazione fu possibile grazie all'abilità di alcuni sovrani e all'istituzione di un potente governo centralizzato. Gustavo Adolfo, 1594-1632, fu uno dei re svedesi di maggior successo e prestigio. Durante il suo regno, la Svezia fu coinvolta nella guerra con la Polonia-Lituania e guardò con apprensione lo sviluppo della Guerra dei Trent'Anni nei territori dell'attuale Germania. I piani del Re, per la protezione degli interessi svedesi, richiedevano una forte presenza navale nel Baltico. Fino agli inizi del XVII secolo la marina svedese era composta principalmente da navi di piccole e medie dimensioni con un unico ponte. Queste imbarcazioni erano nettamente più economiche rispetto alle grandi navi e si prestavano al pattugliamento delle coste. Il Re, appassionato di artiglieria, decise un rapido cambiamento nelle prospettive navali della Svezia, affidando ad un cantiere la costruzione di grandi imbarcazioni dotate di molti cannoni. 
Agli inizi degli anni 20 del 1600, i lavori del cantiere navale di Stoccolma erano guidati da una coppia di imprenditori di origine olandese, Monier ed il maestro d'ascia Hybertsson. Nel momento in cui si firmò il nuovo contratto per la gestione del cantiere, Monier si ritirò ed Hybertsson decise di assumere un giovane olandese di nome de Groote, come socio. Alla metà di gennaio del 1625, Hybertsson e de Groote firmarono un contratto per la costruzione di 4 navi. Una di queste imbarcazioni fu nominata Regalskepper Vasa. Il nome deriva dall'omonima casata dei Vasa, che governava la Svezia all'epoca della costruzione del vascello. Letteralmente il nome significa Nave di Sua Maestà Vasa, secondo la nomenclatura spesso utilizzata da diverse marine militari. Hybertsson e de Groote iniziarono ad acquistare il materiale necessario per le prime navi durante il 1625, comprando legname da singole proprietà in Svezia e tavole di legno grezzo a Riga ed Amsterdam. 
I rapporti tra il cantiere navale ed il re avvenivano per il tramite del Vice Ammiraglio e non furono mai tranquilli. La perdita di 10 navi nella Baia di Riga convinse il Re a richiedere la costruzione di due nuove navi di dimensioni diverse rispetto a quelle del contratto iniziale. I soci del cantiere navale si rifiutarono di assecondare le richieste del sovrano, probabilmente il carattere e la grande caratura del maestro d'ascia incisero profondamente in questa fase della realizzazione delle imbarcazioni, poiché avevano già tagliato il materiale per la costruzione di una piccola nave e di un grande vascello. I lavori sulla Vasa iniziarono tra la fine del febbraio del 1626 e l'inizio del marzo dello stesso anno. Purtroppo il maestro d'ascia Henrik Hybertsson non vide mai la conclusione dei lavori poiché si ammalò poche settimane dopo l'inizio dei lavori di realizzazione del grande vascello. Nel frattempo la supervisione dei lavori fu affidata ad un altro maestro navale, Henrik Jacobsson. Le ingerenze del Re nella fase di sviluppo e costruzione furono assai frequenti. Poco dopo l'impostazione della chiglia, Gustavo Adolfo venne a conoscenza di costruzioni navali analoghe da parte delle nazioni concorrenti. Iniziarono fortissime pressioni affinché la Vasa fosse modificata, allungandola in maniera significativa. La mancanza di Hybertsson e l'inesperienza dei giovani costruttori permisero l'accoglimento delle richieste reali. Gustavo Adolfo ottenne, oltre all'allungamento della Vasa, anche l'aggiunta di un secondo ponte di cannoni. 
Il vascello risultò il meglio equipaggiato ed il più pesantemente armato della sua epoca. Purtroppo era troppo lungo, ma soprattutto troppo alto rispetto alla larghezza. Il Vasa risultò pericolosamente instabile. Il problema fu risolto aumentando la zavorra che provocò una maggiore immersione dello scafo. Nell'estate del 1628, il capitano incaricato della supervisione della costruzione della nave organizzò la dimostrazione della stabilità del vascello per il vice ammiraglio responsabile degli appalti. Trenta uomini corsero avanti e indietro sul ponte superiore per far dondolare la nave. Il vice ammiraglio interruppe bruscamente la dimostrazione poiché temeva che la Vasa potesse rovesciarsi. Malgrado le paure di Fleming, il vice ammiraglio, nessuno ebbe il coraggio di contraddire il re che si augurava il varo della Vasa il prima possibile. In aggiunta alle modifiche strutturali, il Vasa fu abbellito con sovrastrutture decorative che servivano esclusivamente per il giorno dell'inaugurazione – era in uso al tempo abbellire i vascelli per il solo viaggio inaugurale; le navi venivano successivamente spogliare degli arredi per una corretta navigazione. 
L'abbellimento decorativo non si limitò alle statue in legno colorato sui lati dell'imbarcazione: furono portate a bordo tonnellate di quadri ed arredi, come espressamente richiesto dal re. Il 10 agosto del 1628 il Vasa issò le vele per il suo viaggio inaugurale poco al largo del porto di Stoccolma. Dopo aver percorso poche miglia, una folata di vento fece inclinare il vascello su di un lato. Il timoniere, grazie alla sua abilità, riuscì a raddrizzarlo. Una seconda folata di vento lo inclinò nuovamente e l'acqua iniziò ad entrare nello scafo attraverso i portelli dei cannoni. La nave affondò ingloriosamente ad appena 120 metri della costa dopo aver percorso meno di un miglio marino. Molte delle 130 persone a bordo furono salvate. Nel naufragio perirono, circa, 40 persone, tra cui mogli e figli dei membri dell'equipaggio. Immediatamente il re pretese l'istituzione di una commissione d'inchiesta per chiarire le cause e le colpe del disastro. La commissione non raggiunse il risultato sperato dal sovrano. Un diplomatico straniero chiese ad un uomo vicino al re quali fossero le reali cause del naufragio, il notabile rispose che “solo Dio ed il Re possono conoscere le cause”, alludendo alle notevoli ingerenze di Gustavo Adolfo nel periodo di costruzione del Vasa.
Nel 1663 buona parte dei preziosi cannoni in bronzo furono recuperati grazie all'opera dell'italiano Francesco Negri. L'accesso ai cannoni rese necessaria la demolizione di ponti e delle strutture sovrastanti.
Nel 1956 Anders Franzén pensò alla possibilità di recuperare il relitto del Vasa dalle acque del mar Baltico. Furono avviate le ricerche ed il vascello fu trovato in posizione eretta ad una profondità di 32 metri. I sommozzatori trovarono gli scheletri di 25 persone. Il vascello fu sollevato dal fondo ed adagiato sopra una piattaforma subacquea. Il relitto emerse il 24 aprile del 1961.
La nave, dopo una lunghissima serie di restauri, fu esposta al museo Vasa di Stoccolma, inaugurato nel giugno del 1990 dal re di Svezia Carlo XVI Gustavo.
Ancora oggi il sogno di Gustavo Adolfo riposa nel museo della capitale svedese.

Fabio Casalini

Bibliografia
K.A. Adrup, The Vasa Museum: An Old Ship in a New House, National Board of Publing Building, 1990


Carl Olof Cederlund, Vasa I, The Archaeology of a Swedish Warship of 1628, 2006

Fred Hocker, Vasa: A Swedish Warship, Stoccolma, Medströms, 2011 

FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.




Discobolo di Mirone: amore folle ariano

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400-450 a.C l’origine. 
Il bisogno umano di spezzare gli schemi rigidi dell’iconografia statica antica. 
L’esaltazione del corpo, connesso alla mente pensatrice. 
La scoperta ossessiva del vero ; l’anatomia umana. Il movimento. 
Il bello celato nel bisogno incomprensibile di equilibro, della sua ricerca. Della sua frenesia ottenuta nel brivido del vuoto. 
I muscoli tersi vibranti, il volto concentrato ma sereno. 
Un discobolo immortalato, fuso nel bronzo nell'atto di massima potenza nel prepararsi al lancio del disco. 
Il bisogno di fermare l’istante. 
Paralizzarlo, contemplandone il senso, per restarci. Per renderlo eterno. Per una traccia. Un segno, del nostro passaggio. 
Un bisogno arcaico che sfociò secoli e secoli dopo nella FOTOGRAFIA. 
Una geometrica disposizione del corpo, che pone l’uomo; il suo mistero razionalizzabile alle leggi matematiche. 
Un uomo nuovo, libero e democratico. 
Un corpo sinuoso formato da una linea che crea un arco, congiungendo testa, disco e piede, ed una linea serpentina che sviscera lungo il corpo morendo nel disco. 
Creata forse per la città e la gloria eterna di Sparta. 
Perduta per sempre nello scorrere del tempo. 
Immaginabile grazie alle numerose copie future realizzate in epoca Romana in pietra. 
La più famosa risale al II secolo d.C ; Discobolo Lancellotti conservata presso il Museo nazionale romano di Palazzo Massimo a Roma. 
Voluta durante la Germania nazista da Hitler che tanto la bramava per porla come simbolo di supremazia tedesca ariana sul resto del mondo, per indurre le masse a seguire i canoni di bellezza e prestanza fisica della statua (dell’arte classica) per una continuità di superiorità di razza che andava dal mondo greco alla follia nazista, che sosteneva, la discendenza germanica (razza ariana) con i popoli antichi classici della Grecia. 
Il Discobolo fu acquistato dalla Germania per 5 milioni di lire, pagati in contanti alla famiglia Lancellotti caduta in disgrazia e Mussolini stesso, diede disposizioni affinché le richieste di Hitler fossero soddisfatte, e nulla valse l’impegno del ministro Bottai per dissuaderlo. 
Il Fuhrer colloco l’opera nella Glyptothek di Monaco di Baviera, e venne presentata al popolo il 9 giugno del 1938 come regalo alla nazione, invitando tutti i tedeschi a porle omaggio in quanto rappresentatrice del loro antico popolo. 
Il Discobolo fu oltraggiato ulteriormente, utilizzandolo come simbolo germanico durante le Olimpiadi a Berlino ed entrò nel film “Olimpia” di Leni Riefensthal , dove la statua prese vita divenendo un atleta dai tratti ariani. 
Cadde così nell'oblio, ogni contatto storico della realtà così usurpata e violata di quel bronzo(copia reale) che si affacciava nel Mar Egeo; accarezzata dalla salsedine dei venti Etesii, dal bacio luminoso di Apollo, dai tralci di vite fresca, che corrono sui muri in pietra, dagli ulivi in frutto, dalla terra argillosa, dai canti poetici, i suoni del mare, quei sapori. Le sirene. 
Dal blu più intenso che dimora soltanto nel cielo della Grecia. 
Io amo pensarla lì. 
Così da qualche parte. 

Simone De Bernardin

Simone De Bernardin nasce a Verbania sul Lago Maggiore il due settembre 1989. Fin dalla tenera età, dimostra di essere un bambino molto introspettivo, riflessivo e creativo, passa le sue giornate a inventare, osservare, riflettere e a domandarsi i perché dell’esistenza e tutto ciò che riguarda la vita e la natura. Verso la fine delle scuole elementari, comincia a scrivere appunti, riflessioni e poesie su ciò che gli accade e su ciò che lo circonda raccogliendole tutte in un grosso raccoglitore dove continua tutt’oggi a scrivere. Il primo anno di scuola media riceve la sua prima macchina fotografica con la quale comincia a scattare e a sperimentare la fotografia e da subito s’innamora del bianco e nero per la sua capacità espressiva di cogliere l’essenza delle cose.Studia fotografia e comincia a realizzare immagini e poesie che toccano temi tipici del Romanticismo di cui egli si sente attratto e che ne condivide i principi quali, il tema dell’infinito, il sentimento, il mistero, l’inconscio, la natura e il rapporto tra vita e morte. Nel 2012, realizza la sua prima mostra fotografica, presso il Comune di Verbania, e successivamente partecipa al concorso Il Segno dove viene segnalato come giovane artista, esponendo le sue opere a Venezia presso Palazzo Zenobio e successivamente a Milano presso la Galleria Zamenhof. Nel 2013 raccoglie un'insieme di sue poesie in un libriccino dal titolo Animam Meam. Nel 2014 termina il suo primo romanzo Lettere.




La duchessa, l'astrologo e il re

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Eleanor, la futura duchessa di cui vi voglio raccontare le gesta, nacque intorno agli inizi del 1400 da Reginald Cobham, barone di Sterborough, e da Eleanor Culpeper, figli di Sir Thomas Culpeper. Poco dopo i vent'anni, intorno al 1422, divenne dama di compagnia di Jacqueline di Hainault. La dama di compagnia alla corte di una famiglia nobile era una assistente personale femminile di una regina, principessa o altra nobile donna di rango superiore. Jacqueline di Hainault, figlia del duca di Baviera-Staubing e conte d'Olanda e Zelanda, aveva da poco abbandonato Giovanni IV Duca del Brabante fuggendo in Inghilterra, su invito di Re Enrico V. Quando giunse alla corte del Re, trovò il fratello minore dello stesso, Humphrey di Gloucester, ad accoglierla. Jacqueline riuscì ad ottenere l'annullamento del precedente matrimonio al fine di poter sposare il trentenne Humphrey, fatto che avvenne nell'ottobre del 1422. Humphrey decise di muovere guerra all'Olanda, invadendo la zona dell'Hainault dove trovò l'opposizione del duca di Borgogna, Filippo il Buono, cugino di Giovani IV, il precedente marito di Jacqueline. La spedizione fu un fallimento totale. Humphrey dovette rinunciare all'impresa ed ai desideri della moglie. Filippo il Buono, rassicurato da papa Martino V sull'annullamento del secondo matrimonio di Jacqueline, nel 1424 riuscì a scacciare le truppe inglesi, catturando Jacqueline. Humphrey decise per un secondo attacco l'anno seguente, 1425, il cui risultato fu una sconfitta senza appello. Nel frattempo Martino V aveva ritenuto valido il matrimonio tra Jacqueline e Giovanni IV, il primo marito. Humphrey, sconfitto e deluso, iniziò ad allontanarsi dalla nobildonna di origine olandesi, consolandosi, una volta tornato in Inghilterra, con una delle dame di compagnia della propria moglie, Eleanor Cobham. 
Nel gennaio del 1428, Humphrey duca di Gloucester sposò, dopo l'annullamento del precedente matrimonio con Jacqueline, Eleanor. La ragazza era bella, colta e molto ambiziosa. Il figlio minore del re era a sua volta colto, amante della vita e famoso, fatto che interessava particolarmente Eleanor. Nel giro di poco tempo furono al centro di una piccola ma fiammeggiante corte nel palazzo di Greenwich, circondati da poeti, musicisti, medici, studiosi e semplici amici di alto rango. Nel 1435 morì re Enrico V, lasciando il trono al figlio giovanissimo, Enrico VI, del quale Humphrey era stato nominato protettore. Essendo il ragazzo troppo giovane per governare, Humphrey chiese di subentrare con il titolo di Reggente ma l'intero consiglio di Corte, di cui era a capo proprio il duca di Gloucester, si oppose. L'anno seguente Eleanor fu insignita dell'Ordine della Giarrettiera e fu innalzata a titolo di Duchessa di Gloucester, condividendo anche il titolo ducale del marito. Humphrey era molto popolare tra i cittadini di Londra e dei Comuni. Aveva la fama di patrono delle scienze e delle arti. La sua popolarità e la capacità di mantenere la pace gli valsero la nomina a Giudice Capo del South Wales. Tuttavia il suo matrimonio con Eleanor Cobham era malvisto e divenne la causa della caduta del Duca. 
In questo groviglio di relazioni umane si inserì un astrologo, cui la Duchessa di Gloucester si rivolse per ottenere delle previsioni per il futuro. In realtà Eleanor si rivolse a due astrologi, Bolingbroke e Southwell, ma la figura sicuramente preponderante, anche per le relazioni personali che intercorrevano tra i due, fu Roger Bolingbroke. Roger era un chierico di grande intelligenza, astronomo e astrologo e presunto conoscitore della negromanzia (una forma di divinazione in cui i praticanti cercano di evocare spiriti e defunti. A partire dal medioevo la negromanzia fu associata alla magia oscura e all'evocazione dei demoni). Bolingbroke faceva parte della famiglia del duca di Gloucester e divenne impiegato personale di Eleanor Cobham. Nell'ottobre del 1440 Bolingbroke e Southwell presentarono un oroscopo ad Eleanor. All'interno della predizione vi era la previsione che Enrico VI avrebbe sofferto per tutta la vita di una malattia cronica. 
I consiglieri del re, raggiunti dalle voci di tali predizioni, si affrettarono a consultare altri astrologi perché confutassero tali affermazioni. Nel frattempo il Re fu avvisato delle nefaste profezie di Southwell e Bolingbroke. Gli astrologi reali prontamente confutarono il precedente oroscopo rassicurando il re sullo stato della propria salute. I consiglieri del Re accusarono Southwell, Bolingbroke ed un terzo astrologo, Home o Hum che ricopriva il ruolo di confessore personale di Eleanor, di alto tradimento e di aver praticato la negromanzia. Bolingbroke fu portato dinanzi alle autorità ecclesiastiche dove fece pubblica confessione che le sue azioni non erano compatibili con il cristianesimo e che predicava azioni diaboliche. L'astrologo chiamò in causa Eleanor Cobham come colei che aveva diretto tutte le sue azioni. La duchessa fu prontamente arrestata con l'accusa di stregoneria. Le accuse esagerate e la detenzione di Eleanor ricoprivano anche una funzione politica ovvero quella di frenare le ambizioni del marito. Con grande tenacia la duchessa riuscì a ricusare tutte le accuse che gli furono mosse. Tutte tranne una. Nel corso del processo ci fu il colpo di scena dell'ingresso di un'altra donna accusata di stregoneria, tale Margery Jourdemayne, meglio conosciuta come the witch of eye, la strega dell'occhio. L'accusa che Eleanor non riuscì a ricusare? L'aver richiesto, ed ottenuto, una pozione dalla strega dell'occhio che l'aiutasse nel concepimento di un figlio. 
Tutti furono trovati colpevoli delle rispettive accuse. 
Thomas Southwell morì nella torre di Londra, forse a causa delle torture, forse a causa degli stenti. 
Margery Jourdemayne fu bruciata sul rogo. 
Roger Bolingbroke il 18 novembre del 1441 fu condotto dalla prigione alla pubblica piazza. I commissari del re lo dichiararono pubblicamente colpevole dei reati per i quali era accusato. Fu trascinato per le strade di Londra sino a Tyburn, dove fu sottoposto alla pena conosciuta come hanged, drawn and quartered (impiccato, tirato e squartato). Secondo questa pena, legale in Inghilterra dal 1352, il detenuto era trascinato sino al luogo dell'esecuzione dove era impiccato sino quasi al punto di soffocamento. A questo punto era evirato, sventrato, decapitato e squartato (tagliato in 4 pezzi). I resti erano esposti in luoghi di rilievo in tutto il paese. Bolingbroke subì questa tremenda punizione. La sua testa fu esposta sul London Bridge ed il suo corpo squartato fu distribuito in tutto il paese come monito per il ricorso alla stregoneria ed alla negromanzia. 
Eleanor Cobham ottenne una pena lieve. Dovette divorziare dal marito e fu condannata al carcere a vita. Visse inizialmente nel castello di Chester, nel 1443 fu spostata nel castello di Kenilworth e nel 1446 fu portata sull'Isola di Man. L'ultimo spostamento avvenne nel 1449. Eleanor fu trasferita nel castello di Beaumaris, luogo dove morì il 7 luglio del 1452. 
La figura di Enrico VI è sintetizzabile in quella dell'uomo devoto, indeciso e facilmente influenzabile. Alcune cronache riportano la visione di una persona seriamente instabile di mente. Fu premuroso e generoso verso coloro di cui si prendeva cura. Era un sincero e devoto cristiano; praticamente più un monaco che un sovrano. Preferiva abiti semplici a quelli pomposi che il suo ruolo avrebbe richiesto. Enrico VI era estremamente pudico, tanto da rifiutare con orrore l'idea del sesso. Morì assassinato la notte tra il 21 e il 22 maggio del 1471 mentre era rinchiuso nella torre di Londra a seguito di contese dinastiche sul trono d'Inghilterra. Fu dapprima sepolto nell'abbazia di Cherstey ed in seguito trasferito nella Saint George's Chapel del castello di Windsor, luogo ove riposa tuttora. 

Fabio Casalini

Bibliografia
Fresne, Gaston Louis Emmanuel du, Marquis de Beaucourt (1881–1891). Histoire de Charles VII (6 vols)

Harris, G. L. (January 2008). "Eleanor , duchess of Gloucester (c.1400–1452)". Oxford Dictionary of National Biography (online ed.). Oxford University Press.

Lewis, C.P.; Thacker, A.T., eds. (2003). "The City of Chester: General History and Topography". Later medieval Chester 1230-1550: City and crown, 1350-1550', A History of the County of Chester. 5, part 1. pp. 55–58. Retrieved 3 February 2011

Richardson, Douglas (2005). Magna Carta ancestry. Genealogical Publishing

Weir, Alison (1999). Britain's Royal Family: A Complete Genealogy. London: The Bodley Head 

FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.

Gennaro Rubino, l'anarchico che non cambiò la storia

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Correva accaldato l'agosto del 1908 e, prima di cedere le terre della propria colonia privata al governo del Belgio, Re Leopoldo II fece ardere per una settimana i propri archivi privati al fine di nascondere le atrocità commesse in quella terra lontana.  Alla base della nostra comprensione dovremmo trovare la risposta ad una domanda molto semplice: perché Leopoldo II possedeva una colonia privata nel cuore dell'Africa? Leopoldo credeva che le colonie fossero la chiave per la grandezza di un paese e cercò instancabilmente di acquisire un territorio d'oltremare per il Belgio. Purtroppo le sue ambizioni non trovarono seguaci nel popolo belga. Il re decise di cercare un modo d'impossessarsi di terre in posizione di privato cittadino. Diversi tentativi in Africa e Asia non riuscirono, per la fortuna delle popolazioni che risiedevano in quelle terre. Nel 1876 organizzò una campagna commerciale camuffata da associazione scientifica e filantropica. Nel 1879 assunse il famoso esploratore Henry Morton Stanley per stabilire una colonia privata nella regione del Congo. Le manovre diplomatiche,  ma soprattutto le conoscenze acquisite, permisero il riconoscimento di Leopoldo come sovrano delle terre congolesi alla conferenza di Berlino del 1884-85. Il 5 febbraio del 1885 nacque lo Stato Libero del Congo, poi divenuto Congo Belga. Leopoldo fu libero di controllare lo stato come una colonia privata e personale. Leopoldo e Morton Stanley, sfruttando l'ingenuità dei nativi, riuscirono a stipulare centinaia di contratti lungo le rive del fiume Congo, al fine di sfruttare i collegamenti portuali dalle zone interessate sino alla foce.  Cosa vi era di così importante in quelle zone da far sottoscrivere centinaia di contratti per lo sfruttamento del corso d'acqua? Alcuni decenni prima dello sbarco di Leopoldo sulle rive del Congo, Charles Goodyear aveva scoperto che l'aggiunta di poche unità percentuali di zolfo al lattice dell'albero della gomma, seguito da riscaldamento, rendeva la gomma più resistente ai solventi e più elastica. Questo processo è noto come vulcanizzazione.
Il Congo era ricco di alberi della gomma. La resina, che si ricavava incidendo la corteccia dell'albero, era raccolta in recipienti posti alla base del tronco. Leopoldo non poteva perdere l'occasione di sfruttare la nascente industria della gomma. Trasformò il paese conducendolo ad un regime militare fondato sul terrore e gli omicidi.  Al Re serviva la manodopera per raccogliere i frutti dell'albero. Molti abitanti della colonia privata furono obbligati a raccogliere la resina senza ottenere compenso.  Resoconti di sfruttamento selvaggio e di violazioni dei diritti umani della popolazione nativa, tra cui la schiavitù e le mutilazioni eseguite quando le produzioni della gomma non rispettavano i quantitativi richiesti, portarono alla nascita di un movimento internazionale di protesta già nei primi anni del secolo scorso. Le mutilazioni erano frequenti: le persone che non eseguivano correttamente gli ordini impartiti si vedevano tagliare la mano o il piede. Sulle donne la malvagità e l'orrore condussero gli aguzzini a privarli delle mammelle. Frequenti erano le spedizioni punitive contro i villaggi, che venivano distrutti e dati alle fiamme. Non furono risparmiati bambini. Ad aggravare la situazione giunsero frequenti epidemie di vaiolo e malattia del sonno. Le stime sulle perdite di vite umane durante la colonizzazione di Leopoldo II oscillano tra i 3 e i 10.000.000 di morti. Numero di vittime tale da poter attribuire alle nefandezze di Leopoldo II il termine  di genocidio, forse il meno conosciuto della storia recente.
Sulla scia delle spinte regicide tra fine Ottocento e primi del Novecento, il 15 novembre del 1902 un anarchico italiano, Gennaro Rubino, tentò di assassinare Leopoldo che partecipava al corteo in memoria della moglie Maria Enrichetta da poco defunta.
Chi era Gennaro Rubino?
Gennaro nacque a Bitonto il 23 novembre del 1859, nel pieno dell'unificazione italiana. Le scarne biografie ricordano che sin dalla giovane età manifestò ideali anarchici e una certa dedizione alla delinquenza. La prima condanna giunse dopo la stesura e la pubblicazione di un articolo nelle pagine di un giornale ritenuto sovversivo. Nel 1893 si ritrovò nuovamente nei guai con la giustizia. Fu arrestato in seguito ad un furto avvenuto a Milano. Subì la condanna ad una lunga reclusione.
Gennaro Rubino riuscì ad evadere dal carcere fuggendo a Glasgow in Scozia. Poco tempo dopo decise di trasferirsi a Londra dove non trovò lavoro ma ottenne assistenza dall'ambasciata italiana. Fu assunto dai servizi segreti italiani con il preciso compito di spiare le organizzazioni anarchiche di Londra. Nel maggio del 1902, ancora sotto copertura con i servizi segreti italiani, fu scoperto e denunciato dalla stampa anarchica internazionale come spia. Rubino decise allora di commettere un assassinio per dimostrare la sua fedeltà alla causa anarchica. Come scrisse in una lettera ai suoi ex compagni “forse domani o dopo, potrò dimostrare la mia ribellione in un modo più coerente con le mie e le vostre aspirazioni”. Inizialmente decise di uccidere Edoardo VII ma dato il forte sentimento del popolo inglese in favore della monarchia, decise di ripiegare su Leopoldo II re del Belgio.
Alla fine dell'ottobre del 1902, Rubino si trasferì a Bruxelles.
La mattina del 15 novembre 1902, durante il passaggio del corteo in memoria della moglie defunta di Leopoldo II, Gennaro Rubino estrasse una rivoltella e sparò tre colpi in direzione della terza carrozza del corteo, nella quale si trovava il Gran Maresciallo della corte reale. L'alto funzionario ricevette sul viso dei vetri rotti, ma uscì indenne dall'attentato. Rubino fu prontamente disarmato e consegnato alla polizia della capitale belga che decise di caricarlo su un'autovettura. Il veicolo fu accerchiato da una folla inferocita che urlava“lunga vita al Re” e “uccidetelo”. Una volta condotto, incolume, alla stazione di polizia, Rubino fu perquisito e trovato in possesso di molte munizioni e di alcune cartoline illustrate di Re Leopoldo, che servivano all'anarchico per il riconoscimento dei membri della famiglia reale.  Rubino non si pentì del gesto ed affermò che avrebbe attentato al re d'Italia come al re del Belgio poiché i monarchi sono tiranni che causano la miseria dei propri popoli.
Dopo il tentato omicidio di Leopoldo, le organizzazioni anarchiche condannarono il gesto di Rubino definendolo una provocazione. Alcune delle stesse associazioni ipotizzarono che l'intero evento fosse organizzato per giustificare le successive repressioni della polizia contro gli anarchici europei.
Dopo l'interrogatorio Rubino fu condotto nella prigione di Saint Gilles dove, per cena, ricevette tre bicchieri di birra ed un pezzo di pane.
Il processo iniziò nel febbraio del 1903. Durante le sedute Gennaro Rubino si dimostrò vanitoso ed impenitente, tanto da dichiarare di aver sperato di uccidere Leopoldo, il principe Alberto ed alcuni esponenti del clero. Rubino inoltre espose dottrine anarchiche secondo le quali non riconosceva la legge e i giudici che dovevano emettere la sentenza.
Rubino fu giudicato colpevole ed il tribunale lo condannò all'ergastolo.
L'anarchico italiano si spense il 14 marzo del 1918 nella prigione di Leuven, in Belgio.
Il colonialismo privato di Leopoldo II continuò a mietere vittime innocenti sino a quando, sull'onda del risentimento mondiale, nel 1908 il parlamento belga costrinse il re a cedere lo Stato Libero del Congo al governo del Belgio. Il paese fu ribattezzato Congo Belga.
Il 17 dicembre Leopoldo morì e la sua salma fu sepolta nella cappella reale della chiesa di Nostra Signora a Bruxelles.

Fabio Casalini


Bibliografia
Pavlakis, Dean (2015). British Humanitarianism and the Congo Reform Movement,1896-1913. Farnham, Surrey, UK: Ashgate

Sliwinski, Sharon (2006). "The Childhood of Human Rights: The Kodak on the Congo". Journal of Visual Culture

Peffer, John (2008). "Snap of the Whip/Crossroads of Shame: Flogging, Photography, and the Representation of Atrocity in the Congo Reform Campaign". Visual Anthropology Review

Hunt, Nancy Rose (2008). "An Acoustic Register, Tenacious Images, and Congolese Scenes of Rape and Repetition". Cultural Anthropology

Wylie, Lesley (2012). "Travel Writing and Atrocities: Eyewitness Accounts of Colonialism in the Congo, Angola, and the Putumayo". Nineteenth-Century Contexts

Maria Petringa. Brazza, A Life for Africa, 2006

David Van Reybrouck, Congo, trad. Franco Paris, Milano, Feltrinelli, 2014

FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.
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