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Lo zio dei bambini e l'angelo della morte

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C’era una volta un uomo dagli occhi piccoli e pungenti che si faceva chiamare “zio” dai bambini che ogni giorno incontrava per lavoro. Era un medico,  per alcuni bravo, per altri no. Sicuramente non era di quelli che curava le ferite e metteva un cerotto colorato, dopo aver dispensato una dolce carezza.  
Gli piaceva sperimentare, guardare i propri pazienti nel loro letto di sofferenza, prendere nota delle loro reazioni. Era una persona sorridente, dall’aria sempre serena. 
Entrava al mattino nelle camerate, quelle del blocco n. 10, con il camice perfetto, bianco limpido, impeccabile, accompagnato dalle infermiere che profumavano di pulito. 
Entrava  e il respiro dei suoi pazienti si fermava. Gli occhi si velavano di lacrime, le mani cominciavano a tremare.  Quell’uomo  faceva paura perché lui era l’angelo della morte di Auschwitz.
Josef Rudolf Mengele nacque a Günzburg il 16 marzo 1911. Si laureò prima in antropologia a Monaco, poi in medicina a Francoforte. Nel 1940 si arruolò volontariamente nell’esercito. Nel 1943, dopo una breve ed onorevole carriera militare, divenuto capitano per  meriti militari, cominciò a prestare servizio nel campo di concentramento di Auschwitz, come sostituto del medico che si era ammalato. Vi rimase fino alla fine del conflitto mondiale.
In quel luogo svolgeva l’importante compito di selezione dei prigionieri in arrivo da tutta Europa: decideva insieme ad uno staff composto da medici e infermieri, chi era adatto al lavoro e chi doveva andare direttamente alla camere a gas. Anche nei giorni di riposo, amava essere presente, scegliere di persona gli elementi da destinare al blocco n. 10, di cui si occupava di persona.
Durante gli anni ad Auschwitz, Mengele si dedicò con passione  e dedizione alla sperimentazione genetica, con l’intento di individuare quali fossero i tratti dominanti che contraddistinguevano la razza ariana, perfetta  e dominante, dalle altre, così da preservarne la purezza e la perpetuazione della razza. 
Era convinto che lo studio dei gemelli gli avrebbe fornito la possibilità di scoprire i segreti dell'ereditarietà. Individuarli significava per lui garantire “il futuro e l'eternità della razza ariana".
Durante la sua attività ne selezionò circa 3000 che andarono a popolare il blocco 10 del campo, il suo personale “negozio di cavie”, da cui ogni giorno sceglieva con malcelato sadismo i destinati agli esperimenti. Di questi  ne sopravvissero  circa 200.
La sua lucida follia era articolata e ben organizzata. Per le sue cavie aveva creato un Kindergarten, un asilo diurno in cui osservava il comportamento dei bambini, in cui giocava con loro per qualche minuto, distribuendo caramelle, zucchero e carezze.  Da lì selezionò i primi gemelli destinati agli esperimenti. 
Tra i suoi prescelti c’era un folto gruppo di origine Rom, in totale circa 23.000 tra adulti, adolescenti e bambini, che lo chiamavano “Zio”. Osservando i  più piccoli si accorse che si ammalavano di una malattia chiamata Noma, una sorta di cancrena che aggrediva il viso. Ipotizzò immediatamente l’origine genetica del male. In realtà era causata dell’ inadeguata alimentazione e dalla condizioni igieniche neppure vagamente sufficienti. Anziché curare i malati, attendeva il progredire della malattia, che consumava lentamente il fisico dei piccoli, i quali, con magnanima benevolenza, prima della morte erano inviati dal dottore alle camere a gas. Tra il maggio e l’agosto del 1944 il campo Rom fu completamente liquidato. Nessuno sopravvisse.
Da quel giorno Mengele  si  concentrò esclusivamente sui bambini di origine ebrea, soprattutto gemelli. 
Auschwitz-Birkenau era il suo laboratorio: lavorava anche nei giorni di riposo. La sua ricerca era senza sosta, sempre con il sorriso sulle labbra e una manciata di caramelle in tasca. Oltre ai gemelli era particolarmente interessato ai soggetti affetti da nanismo o gigantismo o da qualsiasi tipo di malattia ereditaria che gli potesse permettere di tracciare un’origine genetica razziale.
I bambini da lui selezionati erano portati all’interno del blocco n. 10 per essere preparati per il soggiorno. Dopo una doccia  fredda, i piccoli erano rasati  e tatuati con un numero dalla speciale sequenza. Dovevano indossare l’uniforme da campo e poi erano sottoposti ad una prima visita, in modo che Mengele potesse accertarsi del loro stato di salute. Ogni giorno ricevevano una razione di cibo adeguata, in modo che restassero in forze. Potevano anche giocare all’aperto, dopo l’appello del mattino. Erano esonerati dal lavoro. Sul muro del blocco aveva disegnato una linea all’altezza di 150 cm circa. Tutti coloro che non raggiungevano tale misura erano destinati alla camera a gas.
La loro anatomia  veniva catalogata e registrata con precisone maniacale. Ogni giorno erano sottoposti ad esperimenti: esami del sangue, iniezioni  di farmaci di vario genere, che spesso provocavano infezioni gravi e dolorose, interventi chirurgici senza anestesia per rimozioni di organi o amputazioni, iniezioni negli occhi per contrastare lo scolorimento dell’iride con il blu di metilene, con conseguente cecità del paziente. Questa era la routine dei bambini di Mengele. Se uno dei due gemelli moriva, l’altro veniva ucciso con una iniezione di fenolo al cuore. Poi erano sottoposti entrambi necroscopia per il confronto degli effetti della malattia. Il patologo era ovviamente un prigioniero ebreo costretto ad eseguire l’autopsia sotto gli sguardi eccitati dei presenti che speravano di trovare finalmente la chiave per avere la perfetta razza.  
Alcuni organi, occhi, campioni di sangue e tessuti venivano inviati a Verschuer all'Istituto di ricerca biologico-razziale di Berlino, per essere analizzati, con “lo scopo di riuscire a trovare una differenza sostanziale tra il sangue degli ariani e quello dei non-ariani”. 700 furono i bambini italiani che passarono per Auschwitz. Di questi solo 25 tornarono a casa, lasciando in quel luogo la loro anima.
La sua calma apparente lasciava spesso spazio ad una personalità aggressiva  ed iraconda, capace di uccidere i prigionieri a calci, con colpi di pistola o con iniezioni letali al fenolo.
Durante una grave epidemia di tifo, decise in un solo giorno l’esecuzione di 750 deportate.
Morte, dolore, sofferenza, disumanizzazione, i prigionieri di Auschwitz, come quelli degli altri campi di sterminio,  si consumavano nell’attesa che il mondo venisse in loro aiuto. 
Nel novembre del 1944 l’Armata Rossa avanzava inesorabilmente.  Himmler, ideatore della soluzione finale, decise, per cancellare le prove del genocidio, di far distruggere i forni crematori. Ma gli ordini non furono eseguiti alla lettera. Finalmente il 27 gennaio del 1945 le truppe sovietiche entrarono nel campo di Auschwitz. 7000 erano i prigionieri ancora vivi.  Da qui iniziò la fuga del dottor Josef Mengele, che durò fino al 1979. 
Travestito da soldato semplice, riuscì a confondersi tra gli altri prigionieri tedeschi rastrellati, portando con se tutti i protocolli delle ricerche fatte sui gemelli.  Per identificare gli appartenenti alle SS, che dovevano essere immediatamente arrestati, gli alleati usarono un metodo molto semplice: sul braccio sinistro degli ufficiali era tatuato il loro gruppo sanguigno, utile in caso di ferimento durante la guerra. Chi aveva questo segno distintivo era fermato e incarcerato come criminale di guerra. Mengele non era tatuato. Da soldato semplice della Werchmart si nascose nei pressi di Weiden, al confine con la Cecoslovacchia, portando con se oltre ai fascicoli sottratti al campo, una scatola di bulbi oculari, come riportato dai suoi diari, ricordo degli esperimenti effettuati. 
Nel giugno del 1945 fu arrestato fortunosamente dagli americani e portato in un campo di prigionia a Schauenstein, in Germania. I prigionieri tedeschi erano in totale 3.000.000. Non esistendo una lista nominativa di criminali di guerra, l’ordine tassativo era quello di trattenere solo i membri delle SS. Per alleggerire la pressione al campo, gli americani decisero di rilasciare 30.000 prigionieri la giorno. Così come era stato preso, Josef Mengele fu rilasciato. Da li cercò rifugio a  Rosenheim, in Baviera, dove iniziò a lavorare come bracciante agricolo con il nome di Fritz Holman. 
Nel frattempo si svolgeva il processo di Norimberga, dove i colleghi e camerata del dottore, quelli catturati, erano chiamati a rispondere dei crimi commessi.  Le ricerche di Mengele iniziarono dal suo paese di origine, Gunzburg, dalla moglie Irene Schoenbein e dall’avvocato che da sempre gestiva gli interessi di famiglia, Hans Sadelmayr. Nonostante i controlli, Irene e suo marito si incontravano vicino alla fattoria dove lui lavorava. Si vedevano con regolarità, circa una volta al mese. Lei gli portava denaro, notizie e appena poteva il figlio di 2 anni, Rolf. 
Nell’aprile del 1946 a Norimberga vennero presentate al mondo le prove dei folli esperimenti fatti da Mengele. Gli americani intensificarono le ricerche, interrogando nuovamente la famiglia. In accordo con la moglie, per depistare i suoi inseguitori, Mengele si finse morto: Irene indossò il vestito nero e andò in chiesa a piangere il marito, con il piccolo in braccio. Passarono 4 anni, in cui il dottore si sentiva sempre più inquieto. Decise allora di lasciare l’Europa e la famiglia. Con l’aiuto del fedele avvocato  Sadelmayr, si spostò a Innsbruck, in Austria, per poi passare al Brennero, con un treno regionale, e arrivare in Italia. Con l’aiuto di un complice, varcò il confine clandestinamente, utilizzando i vecchi sentieri battuti dai contrabbandieri. Con un nome falso rimase nascosto per 4 settimane all' hotel Goldenes Kreuz (Croce d' oro) di Sterzing, in italiano Vipiteno. Da qui si spostò fino a Genova, dove il 1 aprile 1949, con il certificato n. 100501 del Comitato internazionale della Croce Rossa, ricevette una nuova identità diventando per il mondo Helmut Gregor, nato a Termeno (Alto Adige), di nazionalità italiana, professione meccanico. Nell’estate dello stesso anno il neonato Helmut Gregor si imbarcò sulla nave Nordking verso il Sud America. Arrivò a Buenos Aires il 26 ottobre 1949. Il presidente Peron e la moglie Evita erano sospettati di simpatizzare per nazisti in fuga, sia per affinità ideologiche che per interessi economici.  Ad attenderlo al suo arrivo la potente e ricca comunità tedesca, che accolse il dottore con piacere, contribuendo a far perdere le sue tracce.
Il nuovo dottor Mengele andò a vivere a Calle Arenales, quartiere abitato da molti tedeschi, dove si incontrò con un altro membro delle SS, Wilhelmus Antonius Sassen, che presentò il dottore ad altri camerata in esilio, tra cui Adolf Eichmann, ideatore e principale esecutore dello sterminio ebraico, e Hans-Ulrich Rudel, di cui Mengele diventò ben presto grande amico.
La polizia argentina teneva sotto stretto controllo Mengele, ma non per i motivi che possiamo pensare. Il solo scopo era quello di estorcergli ulteriore denaro in cambio del silenzio in merito alla sua vera identità.
Grazie all’appoggio economico della famiglia rimasta in Germania, Mengele divenne proprietario di una  ditta farmaceutica, la Fadro Pharma. La sua stabilità economica si consolidò ulteriormente, dandogli una posizione di grande rilievo nella comunità tedesca. Nonostante questo non si sentì mai al sicuro. Nel 1956 sua moglie Irene lo contattò con una lettera in cui gli chiedeva il divorzio. Mengele smise i panni di Helmut Gregor per indossare nuovamente i propri e firmare le carte inviate dalla Germania Federale all’ambasciata a Buenos Aires. Firmò con il suo vero nome, lasciando per la prima volta una traccia tangibile della sua esistenza. 
Dopo pochi mesi Josef Mengele si risposò, per interesse, con la vedova di suo fratello minore, Marta. Partì in aereo come Helmut Gregor alla volta della Svizzera, e da lì in auto verso la Germania, per incontrare la nuova signora Mengele. Dopo pochi giorni rientrò in Argentina, dove venne raggiunto dalla moglie e dal figlio di lei, Carl. Iniziarono una vita normale, alla luce del sole, tanto che il nome Mengele era possibile trovarlo sull’elenco telefonico. Dopo 11 anni dalla sua fuga da Auschwitz non era ancora stato emesso un mandato di cattura nei suo confronti: l’angelo della morte viveva libero e spensierato sotto il sole argentino.
Ma non tutti avevano dimenticato Mengele. Un uomo era determinato a trovarlo. Sopravvissuto agli orrori di Auschwitz, Hermann Langbein cercò per anni una traccia per scovare il dottore. Finalmente scoprì i documenti del divorzio con la sua firma e l’indirizzo in Argentina. Riuscì ad ottenere un mandato di cattura con estradizione a carico di Josef Mengele dalla procura tedesca. Nel 1959 il Mossad, servizio segreto dello Stato di Israele, venne a conoscenza delle stesse informazioni. Nel 1960 un gruppo di agenti scelti di Israele riuscì a catturare Adolf Eichmann, in un covo segrete di Buenos Aires. Interrogato a lungo su Mengele, Eichmann rifiutò ogni forma di collaborazione, dichiarando: “non son o disposto a tradire un camerata, piuttosto sono disposto a morire.”
Ma il dottor Mengele non era più da tempo in Argentina, qualcuno lo aveva informato del mandato di cattura con estradizione spiccato dalle autorità tedesche. Si era rifugiato in Paraguay, stato senza accordi di estradizione con la Germania, che a quel tempo era governato con fermezza  da Alfredo Stroessner, dittatore fascista di origine tedesca. Mengele non si sentiva mai al sicuro, con il Mossad sulle sue tracce si sentiva braccato. Iniziò a manifestare un disturbo paranoide. Ripartì presto per il Brasile, dove ad attenderlo vi era un altro camerata, Wolfgang Gerhard. Il Mossad decise a questo punto di creare un gruppo speciale da mandare il Sud America, con il compito di scovare il Josef Mengele. Gli agenti seguirono ogni indizio possibile, fino ad arrivare al suo migliore amico, William Sassen, il quale non esitò a tradirlo per denaro. Mengele venne rintracciato in Brasile, ormai la caccia sembrava conclusa ma improvvisamente Israele richiamò tutti gli agenti del Mossad in patria, mandando all’aria mesi di ricerche.  Il fortunato dottore riuscì a raggiungere una sperduta colonia  a 300 km da San Paolo, Europa, dove una coppia di ungheresi lo assunse come amministratore della loro azienda agricola, dove si costruì attorno una vera e propria fortezza, difesa da cani e filo spinato.
Nel 1963 il dossier Mengele fu archiviato definitivamente dal Mossad. Anche in Germania nessuno lo cercava più, per non intaccare i delicati rapporti diplomatici che si stavano instaurando con le nazioni sud americane.
Nel 1969, Mengele e i suoi datori di lavoro, gli Stammer, si trasferirono a Cajeferas, un quartiere alla periferia di San Paolo.  Paranoia e frustrazione per non aver potuto continuare i propri esperimenti “scientifici”, si impossessarono della mente dell’ormai fragile ed impaurito dottor Mengele. Il fantasma dell’uomo che girava per il blocco n. 10 seminando terrore e morte, intrecciò una relazione amorosa clandestina con Gitta Stammer, a cui dedicò lunghe poesie d’amore. Nello stesso periodo fece amicizia con un altro ex camerata, Wolfran Bossert. Nacque una profonda amicizia, tanto importante da far si che Mengele affidasse a lui e alla moglie la gestione dei propri affari in Germania.
Nel 1971 Wolfgang Gerard decise di rientrare in Austria, suo paese di origine, lasciando il proprio passaporto e quindi la propria identità all’amico Josef Mengele. Il nuovo Gerard si trasferì ad Alvarenga, in un bungalow dal misero aspetto, concedendosi il solo lusso di due cameriere che lo assistevano in tutto. Passò anni in completa solitudine, con la sola vicinanza della moglie, fino all’ottobre 1977 quando ricevette la visita del figlio Rolf. Un incontro forse chiarificatore in merito al passato del dottore. 
Il 7 febbraio del 1979, durante una nuotata sulla spiaggia di Bertioga in Brasile, Josef Mengele, alias Wolfgang Gerard, morì di infarto.  Fu sepolto nel cimitero di Nostra Signora del Rosario, a Embu das Artes, con il nome di Wolfgang Gerhard.  34 anni in libertà, nessun processo, nessuna condanna. Poteva finire così la storia del Dottor Morte, senza che nessuno sapesse della sua morte? Sembrò di sì fino al 1985, anno in cui furono riprese in esame le prove trovate a casa dell’ avvocato Hans Sadelmayr. Tra le varie carte sequestrate, vi era una lettera di Wolfran Bossert che annunciava la morte di Mengele ai parenti in Germania.  
Il 6 giugno 1985, scortati dalla polizia brasiliana, i Bossert vennero condotti davanti alla tomba in cui, secondo i documenti del cimitero, era sepolto Wolfgang Gerard, accanto a sua madre. Ma i Bossert sostenevano che quelle spoglie appartenessero in realtà a Josef Mengele, morto annegato il 7 febbraio 1979.
Alcuni esperti cominciarono l’esame necroscopico sui resti riesumati, gravemente danneggiati dall’incuria della  polizia brasiliana. Il centro di documentazione di Berlino spedì in Brasile il dossier originali delle SS su Josef Mengele. La documentazione era incompleta, mancavano le radiografie dentali, fondamentali per identificare il cadavere. Nella fase successiva degli esami necroscopici, utilizzando due macchine fotografiche, alcune foto di Mengele vennero confrontate e sovrapposte con le immagini del cranio. I risultati ottenuti non fugarono i dubbi in merito all’identità dei resti presi in esame. Fu comunque emesso un comunicato stampa che dichiarava: “ secondo il parere degli esperti si può affermare con ragionevole certezza scientifica che lo scheletro preso in esame appartiene a Josef Mengele”.
Nel 1992 i resti di quello che avrebbe dovuto essere il dottor Morte furono sottoposti all’esame del DNA,  confrontato con quello del fratello, inizialmente contrario a collaborare. Con una probabilità del 99.69%, l’8 aprile fu accertato che la persona sepolta nel cimitero a Embu das Artes fosse proprio Josef Mengele. I suoi resti furono conservati in un magazzino dell'istituto di medicina legale di San Paolo del Brasile. Oggi le sue ossa sono a disposizione degli studenti di medicina per i loro studi. Nonostante questo i dubbi sulla fine del dottor Mengele non furono mai del tutto fugati. Si pensava ad una cospirazione da parte della famiglia per far cessare le voci e mettere finalmente la parola fine alla caccia al dottor Morte, durata per oltre 3 decenni. Quello che è certo è che mai fu sottoposto ad un  giusto processo e ad una esemplare condanna, come avrebbe meritato per essere stato un freddo e spietato assassino.
Una considerazione è per me spontanea. Il suo operato fu senza senso e senza fondamento scientifico, come ampiamente dimostrato nel corso degli anni da parte di studiosi ed esperti. Per chi possa avere dei dubbi sulla veridicità di ciò che accadde, per chi ancora nega il male assoluto che ha rappresentato il nazismo ho solo da dire una cosa: studiate, leggete i documenti, aprite gli occhi  e pensate all’orrore di quei giorni, alla morte, alla sofferenza. Il passato non può e non deve tronare, gli errori commessi non possono essere ripetuti.

Rosella Reali

Bibliografia
Philippe Aziz, I medici dei lager, Ginevra, Edizioni Ferni, 1975

Czech Danuta, Kalendarium - Gli avvenimenti nel campo di concentramento di Auschwitz 1939-1945, Mimesis, 2007

Robert J. Lifton, I medici nazisti. La psicologia del genocidio, Rizzoli, 2003

Arrigo Petacco, La seconda guerra mondiale, Roma, Armando Curcio Editore, 1970

Nazisti, in Sud Tirolo il rifugio delle SS in fuga - la Repubblica.it, su Archivio - la Repubblica.it. - 25 aprile 2016.

ROSELLA REALI
Sono nata nel marzo del 1971 a Domodossola, attualmente provincia del VCO.  Mi piace viaggiare, adoro la natura e gli animali. L'Ossola è il solo posto che posso chiamare casa. Mi piace cucinare e leggere gialli. Solo solare, sorrido sempre e guardo il mondo con gli occhi curiosi tipici dei bambini. Adoro i vecchi film anni '50 e la bicicletta è parte di me, non me ne separo mai.  Da grande aprirò un agriturismo dove coltiverò l'orto e alleverò animali. 
Chi mi aiuterà? Ovviamente gli altri viaggiatori.
Questa avventura con i viaggiatori ignoranti? Un viaggio che spero non finisca mai...

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