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Parigi, le Muséum, l'origine della specie e Edgar Allan Poe

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Parigi è sempre Parigi, e ovviamente lo è per tanti motivi. Uno dei tanti è che, come tutte le grandi città con qualche secolo di storia alle spalle, anche all’ennesima visita puoi scoprire qualcosa di nuovo e affascinante, percorsi ed intrecci che potresti approfondire e prolungare all’infinito.
Fra i tanti luoghi pieni di fascino ce ne è uno a me particolarmente caro, per come intreccia storia, scienza, letteratura e perfino cinema in traiettorie e rimbalzi ad effetto che potrebbero riempire un intero libro. Parlo del Muséum national d'histoire naturelle, collocato fin dal 1798, in piena epoca rivoluzionaria, all’interno del magnifico Jardin de Plantes, ai bordi del Quartier Latin, sulla Rive Gauche.
Il fatto che per molti parigini sia semplicemente “Le Muséum” la dice lunga sull’importanza che in un modo o nell’altro questo luogo ancora mantiene, nonostante le mille novità che la capitale francese sforna continuamente sul fronte della divulgazione e delle strutture culturali e turistiche.
Fra i vari padiglioni che lo compongono, infatti, spicca oggi la nuovissima Gran Galeriè dell’evolution, modernizzata e riaperta al pubblico nel 1994, che rappresenta il tipico ambiente museale moderno, pieno di ricostruzioni, pannelli didattici, suggestioni di luce e di atmosfere. Bellissima e moderna, ma per una volta forse anche troppo. Ciò di cui invece voglio parlare qui è un altro padiglione, quello di Paleontologia e Anatomia comparata, che è ancora (chissà per quanto, ahimè!) identico a quando è stato allestito nel 1898. Rappresenta quindi, oltre ad una collezione assolutamente straordinaria, anche un magistrale esempio di che cos’era un museo all’inizio del secolo scorso.
Le collezioni espongono in modo sistematico e con severa precisione una quantità incredibile di scheletri, di animali contemporanei nella galleria di anatomia comparata al piano terreno e di dinosauri e altri animali preistorici nella galleria di paleontologia situata al piano superiore.
Che ci si interessi o no di storia naturale o campi simili delle scienze, è impossibile non rimanere colpiti di fronte all’impressionante sfilata di scheletri, disposti e allineati in un unico enorme ambiente a far perdere lo sguardo fra migliaia di ossa composte e ricostruite di minuscoli topolini, di stranissimi struzzi, di anatomie scimmiesche ed umane, di massicci ippopotami, di immense balene e capodogli. La galleria conserva anche alcuni scheletri davvero unici: fra gli altri, anche lo scheletro del famoso rinoceronte che per qualche tempo soggiornò nel serraglio di Versailles, alla corte del Re Sole, e anche alcuni dei pochi scheletri esistenti di animali ormai estinti a causa dell’uomo, come la Ritina di Steller (gigantesco sireninde simile ai lamantini sterminato nel settecento nell’isola di Bering, unico luogo in cui sopravviveva) e il Tilacino (o lupo marsupiale, il cui ultimo esemplare morì nello zoo di Hobart, in Tasmania, nel 1936). Salendo di piano, e risalendo quindi indietro nel tempo, l’altra galleria ci immerge fra le sequenze infinite di costole di brachiosauri, mitici teschi di triceratops e di tirannosaurus rex, enormi mammuth, cervi preistorici dalle corna inverosimili.
E’ una sfilata macabra e solenne, una parata che sembra camminare e venirti incontro dalle profondità del tempo fino ad oggi. Difficile non sentirsi affascinati, perfino dalla polvere che ricopre alcuni reperti, dall’impressione di antico e al tempo stesso di solidamente attuale che percorre entrambe le gallerie, il senso dell’evoluzione, il senso della classificazione, il senso stesso della ricerca e delle scienze.
Ma il luogo è anche il punto fisico di origine dell’evoluzionismo, e la sua importanza storica per una delle teorie più importanti dell’intera storia dell’umanità risiede nel suo stesso nome che sta lì ad enunciarne la funzione. L’Anatomia comparata infatti è praticamente nata qui, ed è proprio dallo studio e soprattutto dal confronto fra gli scheletri di animali tanto diversi fra loro che sono nati i primi dubbi e i primi sospetti riguardo agli antenati comuni di specie apparentemente tanto dissimili. Zoologo insigne di questo museo fu, a cavallo fra ‘700 e ‘800, Jean-Baptiste Lamarck. Che, a parte la discreta sfortuna storica di aver sbagliato ad interpretare l’ereditarietà dei caratteri pensando che si potessero trasmettere anche quelli acquisiti, ed essendo quindi poi stato surclassato dalle straordinarie e rigorose intuizioni di Darwin, fu un naturalista di primissimo ordine, anzi fu anche lui un genio a tutti gli effetti.
Non solo si deve a lui l'introduzione del termine “biologia” per identificare lo studio degli esseri viventi, ma fu il primo a dare un colpo mortale al creazionismo intuendo che le specie come le vediamo oggi erano il frutto di cambiamenti e modificazioni graduali.
Lo aiutarono in questa straordinaria scoperta proprio gli scheletri che ancora oggi popolano la strabiliante galleria de Le Muséum . Si vide infatti, tanto per fare un esempio, che se si prendevano gli arti di mammiferi molto diversi fra loro, questi erano composti sempre dallo stesso numero e stesso tipo di ossa. La pinna di una balenottera, la zampa di una giraffa, l’ala di un pipistrello, la zampa di una tigre, il braccio di un uomo. Tutti le stesse ossa, con forme e dimensioni totalmente diverse ma esattamente le stesse: omero, radio, ulna, articolazione del gomito e del polso, e poi carpo, metacarpo, falangi, falangine e falangette. E tutti con cinque dita. Né quattro né sei. Cinque.
Scienziati accorti e intelligenti non potevano certo attribuire una cosa del genere al caso.
Tutti questi animali, e anche noi uomini, dovevano essersi sviluppati, modificati, adattati e trasformati da una unica forma iniziale. Tutti i mammiferi (nel caso di questo esempio) forse avevano un antenato comune, forse discendevano tutti dalla stessa forma vivente.
Si sa, nel progredire del sapere umano l’elemento fondamentale è il dubbio. E proprio questo dubbio, nato dall’osservazione di centinaia di scheletri in quel padiglione in un parco sulla Rive Gauche ai bordi del Quartier Latin, era destinato a infrangere tutte le certezze fino a quel momento coltivate con cura dalla cultura occidentale. Cadde la prima goccia e iniziò a scavare la roccia.
Di lì a poco Darwin sarebbe tornato dal suo fenomenale viaggio intorno al mondo, avrebbe messo insieme nel suo cervello e nei suoi quaderni tutte le osservazioni fatte, tutte le specie osservate, tutti i ragionamenti geniali di cui era capace, li avrebbe confrontati e rafforzati con le scoperte e le idee precedenti, compresa questa, avrebbe scartato quelle che non funzionavano, cercato prove inoppugnabili per quelle che invece sembravano funzionare, ed infine avrebbe seppellito definitivamente il creazionismo assestando a quella roccia la picconata definitiva, schiantandola e mandandola in frantumi in un sol colpo. 
Quando si esce, e ci si ritrova nella sempre viva e multiforme Parigi, impossibile sfuggire al senso di una risalita, alla maniera di Jules Verne dal cento della Terra, da una specie di centro originario della sapienza, da uno dei luoghi dove meglio sono rappresentate nella forma e nella sostanza le fondamenta del metodo scientifico che ha sorretto e sorregge ancora quel poco che sappiamo del mondo in cui viviamo.
Ma il padiglione in questione ha, fra i tanti, anche un altro motivo di interesse, ed è una grande statua collocata nell’atrio della galleria. Impossibile non notarla, impossibile non restarne colpiti, dato che si tratta sostanzialmente della rappresentazione violenta e selvaggia di un omicidio.
C’è un enorme orango che strangola un uomo, e un piccolo orango al suo fianco che urla eccitato nell’osservare la scena. Orangutang uccide un selvaggio del Borneo è il titolo della statua. Lo scultore è Emmanuel Fremiet, artista di una certa fama nella sua epoca e di sicuro talento. Suo l’Elefante che campeggia davanti al Musée d’Orsay, sua la famosa Giovanna d’Arco a piazza des Pyramides, suo il San Michele che sconfigge il Drago che ora si trova sempre al d’Orsay ma che era nato per essere collocato sulla guglia della celeberrima abbazia di Mont-Saint-Michel. Se questa non è la sua opera più famosa, comunque, di certo è una delle più singolari e originali, insieme ad un piccolo semisconosciuto bronzo con un Gorilla che rapisce una fanciulla, che è impossibile non collegare, magari fra le possibili fonti ispiratrici, alla successiva trasposizione del mito della Bella e La Bestia magistralmente reinventata nella figura tutta cinematografica di King Kong.
Anche questa statua nell’atrio del museo comunque, oltre ad essere un’opera notevole e impressionante, non manca di riferimenti e collegamenti intriganti. La scena davvero bestiale, le lunghissime braccia dell’orango che esprimono una forza e una violenza fuori dal comune, la figura scomposta del povero selvaggio sovrastato dal suo omicida, il piccolo orango che guarda eccitato quasi a presagire il successivo strazio che faranno del corpo, richiamano con impressionante precisione un’immagine direttamente proveniente da un capolavoro della letteratura. Si tratta de I delitti della Rue Morgue, di Edgar Allan Poe, universalmente considerato il capostipite del romanzo poliziesco tanto che si fa coincidere giustamente la data di nascita di questo genere letterario proprio con la sua prima pubblicazione, nell’aprile 1841, circa cinquant’anni prima della realizzazione scultorea di Fremiet che quasi ne rappresenta la raffigurazione tridimensionale. Nel racconto (del quale sto per svelare la soluzione, se qualcuno non l’ha ancora mai letto peggio per lui, se lo merita!) l’investigatore Auguste Dupin, adottando per la prima volta il metodo investigativo esclusivamente basato sulla logica deduttiva che poi farà la fortuna del suo più illustre discendente, l’insuperabile Sherlock Holmes, fa luce su un atroce doppio delitto consumatosi ai danni di due donne in un piccolo appartamento all’ultimo piano di una via, guarda un po’, proprio di Parigi. Le due donne sono ritrovate selvaggiamente uccise e orribilmente mutilate, la loro camera chiusa dall’interno, le loro finestre altissime senza apparenti appigli, molti testimoni hanno sentito le urla ma nessuno riesce a definirle con esattezza. Per tagliare corto, la straordinaria soluzione del caso sta nel fatto che i delitti sono stati commessi proprio da un orangutan del Borneo, scappato ad un marinaio appena rientrato in Europa dai uno dei suoi viaggi esotici, e finito per caso in quella stanza, armato anche del rasoio con cui il suo padrone era solito farsi la barba (particolare, quest’ultimo, usato anche come citazione da Dario Argento in Phenomena per uno dei suoi migliori finali).
Insomma, come detto all’inizio, si tratta di un luogo che non manca di suggestioni davvero singolari che intrecciano fra loro storia, scienza, arte e letteratura. E’ comprensibile che un soggiorno a Parigi magari rapido, con tutto ciò che di straordinario c’è da vedere e visitare possa non riuscire a tener dentro anche posti come questo, ma di sicuro nel caso di un soggiorno più prolungato, o in occasione di un secondo viaggio, questo è uno dei luoghi che meritano senza dubbio una visita.

Alessandro Borgogno



Bibliografia & sitografia

Edgar Allan Poe – I Delitti della Rue Morgue – (Racconto) - 1841

Emmanuel Fremiet – Orangutan che uccide un selvaggio del Borneo - (Scultura) - 1895

Ernest B. Schoedsack – King Kong – (Film) – 1933

Dario Argento – Phenomena – (Film) - 1985

Corrado Augias – I segreti di Parigi - (Saggio) - 1997




Su internet sono sorprendentemente scarse le pagine in italiano relative a questo luogo, a Fremiet e alla sua straordinaria scultura, riportiamo quindi dei link in altre lingue:



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