Durante il primo periodo della storia moderna, dal 1450 al 1750, migliaia di persone furono processate per il reato di stregoneria: oltre la metà di loro fu condannata a morte, solitamente il rogo.
La grande caccia alle streghe in Europa fu essenzialmente un’operazione giudiziaria. L’intero processo di scoperta ed eliminazione delle streghe, dalla denuncia alla condanna, si svolgeva nell’ambito e sotto il controllo del sistema giudiziario. Tale sistema era talmente penetrante negli animi dei giudicati che molte donne, accusate di stregoneria si tolsero la vita, pur di sottrarsi al meccanismo infernale. Occorre ricordare che alcuni studiosi hanno formulato l’ipotesi, fantasiosa ed inverosimile, che le streghe si togliessero la vita per sfuggire al controllo del demonio: per sottoscrivere quest’affermazione occorrerebbe insinuare il dubbio che il demonio possa esistere. Nel periodo della grande caccia alle donne, accusate di stregoneria, non sempre i tribunali riuscirono a tenere sotto controllo gli abitanti dei villaggi, i quali molte volte decisero che la soluzione migliore, e più veloce, era quella di ricorrere alla giustizia sommaria: formavano dei comitati di salute pubblica ed in preda all’eccitazione giustiziavano le povere donne sommariamente. Voglio inserire in questa situazione un’affermazione di Brian P. Levack: “Si può ipotizzare con una certa chiarezza che la netta maggioranza delle persone giustiziate per stregoneria, durante la grande caccia, fu processata e condannata in maniera formalmente legale”. Dobbiamo fare uno sforzo e fermare il dolore che sale dalle viscere. Una religione non dovrebbe perseguire l’obiettivo, chiaro e netto, di processare, torturare ed infine giustiziare, per il giusto tramite del braccio secolare, delle povere persone la cui unica colpa è di appartenere, spesso ma non sempre, alle categorie emarginate della società. Non mi soffermo sulle leggi relative all’eliminazione di lebbrosi ed ebrei del periodo compreso tra il Trecento ed il Quattrocento, non è questo l’ambito idoneo. Nel mio lungo peregrinare per i secoli passati sono giunto ad una semplice conclusione: se non si fosse creata l’evoluzione culturale e giuridica, la caccia alle streghe non sarebbe esistita, perlomeno nella forma e nelle dimensioni che finì per assumere. Uno dei primi casi, documentato dallo studioso Grado Giovanni Merlo, è quello relativo alle donne di Rifreddo e Gambasca, località all'imbocco della valle del Po non lontana da Saluzzo.
La grande caccia alle streghe in Europa fu essenzialmente un’operazione giudiziaria. L’intero processo di scoperta ed eliminazione delle streghe, dalla denuncia alla condanna, si svolgeva nell’ambito e sotto il controllo del sistema giudiziario. Tale sistema era talmente penetrante negli animi dei giudicati che molte donne, accusate di stregoneria si tolsero la vita, pur di sottrarsi al meccanismo infernale. Occorre ricordare che alcuni studiosi hanno formulato l’ipotesi, fantasiosa ed inverosimile, che le streghe si togliessero la vita per sfuggire al controllo del demonio: per sottoscrivere quest’affermazione occorrerebbe insinuare il dubbio che il demonio possa esistere. Nel periodo della grande caccia alle donne, accusate di stregoneria, non sempre i tribunali riuscirono a tenere sotto controllo gli abitanti dei villaggi, i quali molte volte decisero che la soluzione migliore, e più veloce, era quella di ricorrere alla giustizia sommaria: formavano dei comitati di salute pubblica ed in preda all’eccitazione giustiziavano le povere donne sommariamente. Voglio inserire in questa situazione un’affermazione di Brian P. Levack: “Si può ipotizzare con una certa chiarezza che la netta maggioranza delle persone giustiziate per stregoneria, durante la grande caccia, fu processata e condannata in maniera formalmente legale”. Dobbiamo fare uno sforzo e fermare il dolore che sale dalle viscere. Una religione non dovrebbe perseguire l’obiettivo, chiaro e netto, di processare, torturare ed infine giustiziare, per il giusto tramite del braccio secolare, delle povere persone la cui unica colpa è di appartenere, spesso ma non sempre, alle categorie emarginate della società. Non mi soffermo sulle leggi relative all’eliminazione di lebbrosi ed ebrei del periodo compreso tra il Trecento ed il Quattrocento, non è questo l’ambito idoneo. Nel mio lungo peregrinare per i secoli passati sono giunto ad una semplice conclusione: se non si fosse creata l’evoluzione culturale e giuridica, la caccia alle streghe non sarebbe esistita, perlomeno nella forma e nelle dimensioni che finì per assumere. Uno dei primi casi, documentato dallo studioso Grado Giovanni Merlo, è quello relativo alle donne di Rifreddo e Gambasca, località all'imbocco della valle del Po non lontana da Saluzzo.
Negli ultimi mesi del 1495, esattamente il giorno 4 di ottobre del 1495, l'inquisitore Vito dei Beggiami iniziò la propria azione giudiziaria proclamando il tempus gratiae attraverso la pubblicazione di alcune lettere monitorie. Gli scritti furono portati alla conoscenza della popolazione attraverso l'esposizione nelle chiese delle stesse località. A cosa serviva il tempus gratiae? Durante i tre giorni, tutte le persone che si ritenevano coinvolti nell'eresia erano tenuti a presentarsi davanti all'inquisitore per confessare quanto sapevano di se o degli altri, ricevendo l'assoluzione da qualsiasi reato di fede. Il tempo delle grazie aveva lo specifico scopo di ottenere informazioni e di portare al pentimento gli eretici. All'esaurimento dei tre giorni, l'inquisitore proseguiva la propria indagine sulla base delle informazioni ricevute. L'inquisitore Vito dei Beggiami, nelle località dell'attuale provincia di Cuneo, ritiene di trovarsi di fronte a numerosi casi di eresia e apostasia, che assume la forma della stregoneria femminile.
Il giorno 4 di ottobre, l'inquisitore si presenta con tutto il suo carico di titoli.
Prima di proseguire devo specificare che in tutta la zona subalpina le streghe erano chiamate masche.
Le delazioni iniziano dallo stesso giorno, 4 ottobre del 1495. Un uomo, Coleto Giordana, si presenta raccontando che “in Gambasca si vociferava in modo aperto e pubblico che Caterina Bonivarda fosse una mascha e che per questo fosse molto temuta dalla popolazione locale”. Alla scadenza del tempo delle grazie, compare di fronte all'inquisitore generale una donna di Rifreddo, Giovanna vedova di Benedetto Motosso. L'interrogatorio alla donna è la testimonianza chiave di questa vicenda, poiché il giorno 8 di ottobre afferma “'d'essere una masca, aderente alla setta delle masche da ben diciotto anni”. Secondo Giovanna, Caterina Bonivarda era aderente alla setta poiché “l'ho vista partecipare ai balli collettivi delle masche, avere rapporti sessuali con il proprio demone e calpestare una croce buttata per terra; le riunioni stregonesche si tenevano sul greto del piccolo fiume”. Un'altra testimonianza a sfavore di Caterina, giunge dalla figlia di Giovanna, Giovannina, che afferma d'essere anch'essa una masca. Nei giorni seguenti, dal 12 al 17 ottobre, seguono le confessioni di altre due donne, masche, di Rifreddo. Le informazioni raccolte dall'inquisitore Vito dei Beggiami raccontano che le riunioni stregonesche avvenivano in due località del territorio di Rifreddo e avevano tre momenti principali: la danza, i rapporti sessuali con i propri demoni e lo spregio della croce.
L'inquisitore ha acquisito prove sufficienti per procedere contro Caterina Bonivarda, moglie di Bonivardo dei Bonivardi di Gambasca. La donna è accusata d'eresia, di apostasia e di mascaria. Il punto di partenza è la pubblica voce e fama che Caterina sia “eretica e apostata ossia masca da più anni”. Ne consegue che la donna, essendo battezzata, aveva violato l'impegno, previsto dal sacramento, di rinunciare alle opere di Satana e di mantenere e osservare la fede cattolica, dunque avrebbe profanato il sacramento del battesimo. Caterina si era messa la servizio di un demone, venerandolo come signore e maestro, obbedendogli in tutto e pagandogli un censo annuale come segno di fedeltà. Inoltre la donna, per compiacere il proprio demonio, avrebbe commesso molti e vari malefici contro gli uomini e gli animali, per mezzo della sua arte diabolica e malefica.
Il 19 di ottobre 1495, Caterina Bonivarda si presenta davanti all'inquisitore per rispondere a nove capi d'imputazione a suo carico. Nega ogni addebito, professando false le testimonianze contro di lei. L'inquisitore, insoddisfatto delle risposte, ordina la carcerazione per la donna, con la clemenza di non essere chiusa nei ceppi, che invece durante l'interrogatorio gli serravano i piedi. Il 22 ottobre vi è il secondo interrogatorio, i cui esiti non discostano dal primo. Il venerdì 23 ottobre Caterina è convocata per il terzo interrogatorio alla presenza dei 5 testimoni a carico della donna. La stranezza di questo interrogatorio consiste nel fatto che Caterina è assente, difficile da pensare dato che era rinchiusa nel monastero di Rifreddo. Il 27 ottobre la donna riappare alla vista di Vito dei Beggiami. La donna nega fermamente ogni addebito, motivo che induce l'inquisitore a ricorrere alla tortura e fissa in sei giorni il termine entro il quale Caterina deve nominare avvocati e procuratori. I giorni si susseguono come le accuse e le testimonianze avverse alla donna. I difensori della donna si muovono arrivando al Vicario generale della diocesi di Torino. La causa contro la masca Caterina si trasforma in una questione di Stato, o di marchesato dato che questo era all'epoca il territorio di Saluzzo. Il 25 novembre la svolta nel processo: Caterina, nuovamente interrogata, si abbandona ad una serie di confessioni, in netto contrasto con i comportamenti tenuti nei mesi precedenti. Dichiara d'essere masca e di aderire alla setta delle masche da 4 anni. Dichiara ulteriormente che schiacciò la croce sotto il proprio deretano e rinnegò la fede cattolica. Inoltre fece un patto di totale subordinazione al demone, il cui pagamento annuale consisteva in un pollo bianco.
Per l'inquisitore Vito dei Beggiami vi sono tutti gli elementi per rimettere la donna al braccio secolare. Da tutti questi elementi parrebbe logico, secondo il pensiero di sacra romana chiesa, che Caterina finisse i suoi giorni sul rogo. Nei documenti del processo che la riguarda non appare nulla di esplicito anche se una nota finale sembra confermare il passaggio al braccio secolare: Vedi la definitiva sentenza di condanna contro Caterina e le altre nel processo di Margherita Giordana, altrimenti detta di Marco, di Rifreddo.
Da questa nota possiamo comprendere che altre donne finirono sotto processo con l'accusa d'essere masche. Complessivamente negli ultimi tre mesi del 1495 l'inquisitore Vito dei Beggiami avrebbe realizzato nove procedimenti inquisitoriali, probabilmente tutti finiti con la condanna delle inquisite in quanto “heretice, masche et apostate”.
Come tali da affidare al braccio secolare per l'esecuzione della pena di morte.
Che poi la pena sia stata effettivamente eseguita in tutti e nove i casi non lo possiamo sapere, potendo essere intervenute delle situazione favorevoli ad una o più di esse.
Cosa possiamo comprendere da questa vicenda processuale?
Il volgere dal Medioevo all'età moderna vedeva sorgere l'impressionante fenomeno della persecuzione di streghe e stregoni, la cosiddetta caccia alle streghe.
Il cristianesimo divenne religione di persecuzione e morte.
Ancora oggi non possiamo sapere l'esatto numero di donne, e uomini, torturati e uccisi con l'accusa di non aderire alle idee della religione cristiana.
Fabio Casalini
Bibliografia
G. Merlo, Streghe, Società editrice il Mulino, 2006
R. Comba e A. Nicolini, Lucea talvolta la luna. I processi alle masche di Rifreddo e Gambasca del 1495, Società per gli studi storici, archeologici ed artistici della provincia di Cuneo, 2004