Unguento unguento
mandame ala noce di Benevento
supra acqua et supra ad vento
Questa formula altamente evocativa è riportata in numerosi processi di stregoneria e trova ampio spazio nei racconti popolari. È sorprendente come nel suo significato richiami molto da vicino la formula nell’arcaica lingua basca “Sasi guztien gaiñetik eta laiño guztien azpitik” (al di sopra di tutti i rovi e al di sotto di tutte le nubi) che ripetevano le streghe delle leggende pirenaiche dopo essersi unte il corpo con dell’unguento. L’unguento nero che faceva volare, che portava al sabba: l’unguento delle streghe.
Nella trattatistica cinquecentesca sono molti gli autori che parlano dell’unguento delle streghe. Che cosa conteneva? In questo caso ci vengono in aiuto alcuni farmacologi e botanici dell’epoca, come Pietro Andrea Mattioli, Giambattista Della Porta e Andrés Laguna. Tuttavia, solo in epoca più recente, all’inizio del XX secolo, è stato stabilito con certezza il legame tra le sensazioni provocate dal contatto con l’unguento, che per questo motivo era detto “diabolico”, e i componenti attivi di alcune piante. In questo caso, abbiamo a che vedere con sostanze psicotrope, che agiscono sul sistema nervoso e provocano alterazioni sensoriali e allucinazioni. Il potere allucinogeno di queste erbe è davvero molto forte. Per questo motivo l’assunzione avveniva per via transdermica, esterna, e non per ingestione, che avrebbe avuto esiti quasi sicuramente letali.
Vediamo ora quali piante trovavano largo impiego in questo unguento.
Atropa belladonna, la ciliegia della pazzia
Her hair was long, her foot was light,
And her eyes were wild.
[...]
And there she lulled me asleep,
And there I dreamed-Ah! woe betide!-
The latest dream I ever dreamed
On the cold hill side.
[...]
They cried-’La belle dame sans merci
Hath thee in thrall!’
John Keats, La Belle dame sans merci, 1820
[Lunghi i capelli, leggero il passo / e folli gli occhi. // Lì mi cullò fino al sonno / e lì, me misero, / sognai l’ultimo sogno mai sognato / sul fianco freddo della collina. // Mi gridavano “La bella dama senza pietà / ti ha preso nella sua rete!”]
Questa solanacea dai fiori a campanula di un inquietante colore purpureo porta un nome velato di mistero ed eloquente allo stesso tempo. Pare che belladonna si riferisca all’impiego che ne facevano le dame rinascimentali veneziane. Dalla macerazione delle bacche si ricavava un estratto utilizzato poi a mo’ di collirio. Le pupille si dilatavano, lo sguardo si faceva più intenso e profondo, quindi la donna era più attraente. In una sola parola, bella. Altre ipotesi vedono il nome belladonna direttamente collegato al francese belle-femme, che indicava le erbarie e le levatrici.
Nel corso dei suoi studi, Linneo classificò la pianta con il genere Atropa. Atropo è la terza parca, il cui nome significa “implacabile”, colei che taglia il filo della vita degli uomini. Questo indica chiaramente la pericolosità della pianta, in grado di spezzare la vita umana.
La parte più velenosa è la bacca, di colore rosso cupo, tendente al viola. Ricorda vagamente una ciliegia. Infatti in Germania prende il nome di Tollkirsche, ciliegia della pazzia, per i suoi evidenti effetti allucinogeni. Gli inglesi si soffermano sul suo colore cupo e sugli effetti letali e la chiamano deadly nightshade, ombra mortale della notte.
Il principio attivo è un alcaloide chiamato atropina e trova impiego anche nella moderna medicina, in particolare nei colliri formulati per dilatare la pupilla e facilitare gli esami oculistici. Si sfrutta quindi l’aspetto tanto apprezzato nel passato, ma per finalità ben diverse. L’azione avviene principalmente a livello cerebrale con effetti quali aumento del battito cardiaco e della pressione, riduzione delle secrezioni e difficoltà nell’accomodazione della pupilla. A causa della sua elevata tossicità, la belladonna può rivelarsi pericolosa, in alcuni casi addirittura letale, se assunta in dosi superiori a quelle omeopatiche.
Una dama bella e pericolosa
È stato ipotizzato un collegamento tra la belladonna e il misterioso personaggio femminile della ballata La Belle Dame sans merci di Keats, che porta il cavaliere al sonno e ai sogni confusi. La Belle Dame, in cui si ravvisa il termine belladonna, diventa l’emblema dell’attrazione mortale del poeta verso la droga. Il poeta ne fa inoltre un chiaro riferimento in un’altra sua celebre opera, Ode on melancholy:
No, no, go not to Lethe, neither twist
Wolf’s-bane, tight-rooted, for its poisonous wine;
Nor suffer thy pale forehead to be kiss’d
By nightshade, ruby grape of Proserpine;
[No, no, non andare al Lete, non spremere / dalle radici salde dall’aconito il succo fatale; / Né sopporta che la tua fronte pallida sia baciata / Dalla belladonna, l’uva rubinea di Proserpina]
La belladonna associata a Proserpina, divinità degli inferi, unita a un sottile gioco di rimandi che ne sottolineano la pericolosità. Probabilmente Keats ne aveva ben presenti gli effetti.
Hyoscyamus niger, l’occhio del diavolo
No warmth, no breath, shall testify thou livest;
The roses in thy lips and cheeks shall fade
To wanny ashes
William Shakespeare, Romeo and Juliet, 1594
[Alcun calore, o alito testimonierà che vivi; / le rose sulle tue labbra e sulle tue gote appassiranno / e diventeranno livide come ceneri]
Altra pianta particolarmente letale è il giusquiamo. Non molto appariscente, si distingue per il forte odore sgradevole. Il fiore è di un intenso porpora al centro, intorno al quale si sviluppano cinque petali di colore giallo pallido, fittamente solcati da venature rosse, come le venuzze intorno agli occhi. Per questo motivo e per la sua pericolosità, talvolta si indica il giusquiamo come occhio del diavolo.
L’avventura in un nome
La pericolosità del giusquiamo gli è valsa la fama di “erba degli avvelenatori”. L’alto contenuto di alcaloidi è nocivo per tutte le creature viventi: nell’antichità si pensava che solo i maiali ne fossero immuni. In effetti, il nome giusquiamo deriva dal termine di origine greca hyoskyamos che significa “fava della scrofa”. Tuttavia, altre lingue ci raccontano molto sulla sua natura: il termine inglese che lo identifica è henbane, parola di origine germanica che significherebbe “uccisore di galline”. Si passa quindi da animali immuni ad animali particolarmente sensibili ai suoi effetti. Presso i celti era l’erba sacra a Belenos, dio solare. Da qui deriva il nome che la pianta tuttora conserva nella penisola iberica: beleño negro. Inoltre, pare che le sacerdotesse di Apollo Pizio si procurassero stati alterati di coscienza bruciando semi di giusquiamo e aspirandone i vapori. Forse è proprio per questo motivo che uno dei numerosi nomi della pianta è erba apollinea. Successivamente, la tradizione cristiana le ha posto il nome di erba di Santa Apollonia, in virtù anche delle sue efficaci proprietà analgesiche, ottime per la cura dei denti e il trattamento della carie.
Secondo alcune antiche pratiche, bastava portare sempre con sé a contatto con la pelle tre foglie di giusquiamo per procurare la simpatia negli interlocutori. In realtà, le sostanze attive che entravano in contatto con l’organismo per via transdermica avevano il potere di abbassare le inibizioni. Questo effetto fu studiato a partire dalla Seconda guerra mondiale perché si intendeva ricavare dal giusquiamo il siero della verità per estorcere confessioni durante gli interrogatori. Tuttavia, gli effetti allucinogeni erano molto forti, quindi gli svantaggi superavano i vantaggi e si decise di abbandonare questa strada.
Come la belladonna, anche il giusquiamo compare tra le pagine degli scrittori più noti. Chi ne ha parlato di più è forse William Shakespeare. Troviamo un riferimento diretto nell’Amleto, quando il fantasma svela al protagonista la causa della morte e parla di una fiala contenente estratto di giusquiamo. Gli effetti letali si producono con il solo contatto.
Alcuni critici ipotizzano che il giusquiamo sia alla base del filtro che frate Lorenzo consegna a Giulietta affinché cada in un sonno profondo simile alla morte.
Upon my secure hour thy uncle stole,
With juice of cursed hebenon in a vial,
And in the porches of my ears did pour
The leperous distilment; whose effect
Holds such an enmity with blood of man
That swift as quicksilver it courses through
The natural gates and alleys of the body,
And with a sudden vigour doth posset
And curd, like eager droppings into milk,
The thin and wholesome blood: so did it mine;
William Shakespeare, The tragedy of Hamlet, Act I Scene 5
[tuo zio si avvicinò furtivo a me che dormivo senza sospetto, / e da una fiala mi versò dentro l'orecchio / l'essenza mortifera del giusquiamo: / tanto funesta alle vene dell'uomo che, / scorrendo rapida come argento vivo per i meandri del corpo, / con effetto fulmineo fa rapprendere / e cagliare, a modo di un acido nel latte, / il sangue fluido e sano]
Datura stramonium, l’erba del diavolo
Oh, Flower of Dreams! —
Of lover’s dreams, where bliss and anguish meet;
Dreams of dead joys, and joys that ne’er have been;
Keenest of all, the joys that ne’er shall be!
Julia Schayer, The Moon-Flower, 1895
[Fiore dei sogni / Sogno degli amanti, incontro di angoscia e beatitudine / Sogni di gioie deperite e di gioie mai esistite; / Delle più dolci di tutte, le gioie che mai saranno]
Lo stramonio è una pianta che fiorisce in tarda estate e produce fiori bianchi, del calice a campanula, avvizziti di giorno aperti durante la notte. Emanano un odore talmente fetido e disgustoso che gli animali lo rifuggono. Per questo motivo viene denominato anche noce puzza, erba puzzola, noce spinosa, pomo spinoso, erba del diavolo ed erba strega, perché fu utilizzato dalle streghe per provocare incubi e visioni.
Etimologicamente, la denominazione risale dall'indiano dhatura, che significa “mela spinosa”, a sua volta proveniente dalla radice "tat", pungere. L’origine di stramonio è incerta, anche se si avanza l’ipotesi di una combinazione tra le parole stryknos e manikon, che fanno riferimento alla follia.
Il principale contenuto farmacologico è rappresentato dagli alcaloidi scopolamina, iosciamina e atropina, come anche per la belladonna o il giusquiamo. C'è però una caratteristica interessante: la concentrazione di alcaloidi aumenta quanto più la pianta è esposta al sole.
Si sostiene che lo stramonio sia stato usato per scopi medici e ritualistici nell’antichità, sebbene non sia chiaro se gli antichi greci facessero veramente uso di questa pianta, ma si ipotizza che facesse parte dei fumi dell'oracolo di Delfi. Gli indovini di Roma usavano predire il futuro osservando la distribuzione dei semi di stramonio su un tamburo dopo averlo suonato.
In Europa non era utilizzato solo da streghe e negromanti, ma anche da cortigiane e briganti, i quali si servivano dei suoi semi, dal gusto piuttosto piacevole, che versavano nelle bevande dei malcapitati. Chi lo assumeva si sentiva trascinato in un irrefrenabile delirio, perdendo completamente la lucidità e volontà, confessando incautamente tutti i propri segreti, per esempio dove avesse riposto i suoi tesori o il suo denaro.
Si diceva che gli esseri infernali banchettassero con lo stramonio il cui effetto disgustoso li incantava e inebriava.
Sulle tavole del sabba era il cibo principale e si racconta inoltre che, se streghe o incantatori passavano sotto un davanzale dove questa pianticella era coltivata, alzavano gli occhi al cielo per capire da dove provenisse l’odore, certi che in quella casa abitasse un loro simile.
I suoi forti effetti allucinogeni erano noti anche fuori dall’Europa, in particolare tra gli indios delle Ande centrali, che fumavano alcune parti della pianta per provocare i viaggi sciamanici.
Fin qui una breve panoramica, anche se cii vorrebbero pagine e pagine per scoprire l’universo misterioso delle erbe e delle piante. Le loro proprietà sono legate indissolubilmente alle vicende umane e ci possono aiutare a capire tanti aspetti del mondo odierno che magari ora ci sfuggono.
Migliari Claudia
Illustrazioni dell’autrice
Traduzioni dell’autrice
BIBLIOGRAFIA
Brosse, Jacques, La magia delle piante, Edizioni Studio Tesi, Pordenone, 1992
Camilla, Gilberto Le erbe del diavolo, Aspetti antropologici. Altrove, 1995
Cattabiani, Alfredo, Florario, Mondadori, 1996
Galloni, Paolo Parole, cose, guarigioni, Lampi di stampa, 2005.
Keats, John, The Complete Poems, Edited by John Barnard, Penguin Books, London, 2003
Sasso, Giampaolo, Il segreto di Keats: il fantasma della Belle dame sans merci, Edizioni Pendragon