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Le storia delle sette sorelle Sutherland, un modello di celebrità americana

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Brandon Stickey, autore del fortunato libro The amazing seven Sutherland sisters, ha definito le sorelle Sutherland il primo modello di celebrità americana. La definizione seguì, a distanza di quasi un secolo, quella lasciata dal fondatore del famoso Circo Barnum, Phineas Taylor Barnum, che raccontava che le sorelle fossero le sette meraviglie più belle del mondo.  Cosa avremmo potuto aspettarci dall'uomo che diede il nome al famoso principio, chiamato effetto Barnum e conosciuto anche come effetto Forer, che analizza la tendenza dell'individuo di credere che una descrizione o un oroscopo siano ritagliati su misura propria anche quando sono formulati in termini generici?

Phineas Taylor Barnum divenne famoso per aver inserito negli spettacoli del proprio circo lo scheletro di Cristoforo Colombo, il gigante di Cardiff e le sirene delle isole Fiji. Per narrare questa vicenda a cavallo tra povertà economica e miseria intellettuale spostiamoci nelle verdi montagne della costa est degli Stati Uniti. Il Vermont, il cui nome deriva dal francese con significato di monte verde, è uno degli stati della regione del New England, primo ad abbandonare la schiavitù ed istituire il suffragio universale, anche se solo maschile. In quella verde terra si aggirava un vagabondo di nome Fletcher Sutherland. Quest'uomo, spostatosi nella zona di New York, incontrò sul proprio cammino una donna di nome Mary. I due si sposarono ed ebbero sette figlie tra il 1851 e il 1865, tutte in anni dispari: Sarah, Victoria, Isabella, Grace, Naomi, Dora e Mary. La madre, e sposa, morì due anni, nel 1867, dopo aver messo al mondo l'ultima figlia, lasciando il carico umano ed economico sulle spalle di Fletcher Sutherland, non prima d'aver introdotto le ragazze alla musica. 
Una particolarità univa le sorelle, oltre all'amore per il bel canto: la lunghezza dei capelli. Dopo la morte della madre, probabilmente poco sarebbe mutato senza quella disgrazia, la famiglia viveva in condizioni di povertà assoluta. Il padre cercando di uscire da questa situazione al limite della sopravvivenza ebbe un'idea geniale: presentare le figlie ad un circo per sfruttare le indubbie doti, non solo canore. Riuscì a farle scritturare nel circo più importante dell'epoca, il Barnum & Bailey nato dall'unione dei due più importanti spettacoli itineranti dell'epoca, il Barnum e il Bailey. Nel 1882 iniziarono ad esibirsi vestite di bianco ed accompagnate da un pianoforte. La voce era solo una parte dello spettacolo poiché, alla fine della prestazione canora, le sorelle si giravano contemporaneamente offrendo la schiena al pubblico e lasciando cadere i lunghissimi capelli neri, che in alcuni casi superavano i piedi delle ragazze. I resoconti dell'epoca ricordano che una sorella avesse i capelli lunghi oltre due metri. Il finale dello spettacolo non poteva che essere studiato da Phineas Taylor Barnum, fondatore e genio del mondo dello spettacolo. La capacità teatrale, e ingannevole, di Barnum si distribuì anche tra i parenti del socio di Phineas Taylor, i Bailey. Nel 1885 una delle sorelle, Naomi, sposò il nipote del fondatore del circo Bailey, Henry, che intuì immediatamente quale fosse il potenziale economico delle sorelle, e che lo stesso non risiedeva nel canto ma nella lunghezza dei capelli. 
A partire dal 1885 al termine di ogni spettacolo era venduta una lozione per capelli, che Bailey disse provenire da una ricetta della defunta madre delle sette sorelle. L'imprenditore giurò che la lunghezza dei capelli fosse da ricondurre all'uso di questa lozione da parte delle sorelle Sutherland. Una bottiglia di questa strana miscela era venduta alla cifra di 50 centesimi di dollaro. La lozione, chiamata the seven Sutherland sister hair grower, ebbe un successo clamoroso. Nel giro di pochissimi anni il fatturato che derivò dalla vendita dell'intruglio giunse a superare i 3.000.000 di dollari. Le ragazze divenute ricche e famose decisero di tornare nella città natale, Cambria nello stato di New York, dove costruirono una bellissima e sfarzosa villa nello stesso luogo ove si trovava la baracca del padre. 
Iniziarono a vivere in maniera dissoluta e principesca, sperperando quantità notevoli di soldi in vestiti per cani e festeggiamenti pirotecnici nella villa di famiglia. La fortuna economica delle sorelle Sutherland era un lume acceso in una stanza attraversata da venti violentissimi. Prima o poi quel lume si sarebbe spento. La causa scatenante del dramma successivo fu la morte prematura di Naomi, la moglie di Henry Bailey. Le sorelle ebbero la strana idea di costruire un mausoleo dall'iperbolica cifra di 30.000 dollari. Per fortuna loro, ma non della povera Naomi, il progetto fallì e il corpo della sorella fu abbandonato nel campo della villa senza neppure una lapida a ricordo. Nel frattempo, tra i tanti che si presentarono alla porta della villa, un uomo si avvicinò alle sorelle: Fredrick Castlemaine. Il cacciatore di denari dapprima sembrò dimostrare interesse per Dora, ma all'improvviso decise di sposare Isabella. La differenza di età tra i due non era l'unico problema della coppia, e di conseguenza della famiglia. Fredrick era dipendente dalla morfina e dall'oppio. Non contento di perdersi tra le droghe, l'uomo aveva uno strano divertimento che consisteva nello sparare alle ruote dei carri dei contadini che transitavano davanti alla villa. 
Le urla e le arrabbiature dei conducenti si spegneva con una mazzetta di biglietti verdi. I problemi creati da Fredrick si conclusero con il suicidio avvenuto nel 1897. La stessa Isabella, dopo un breve periodo di lutto, conobbe e s'innamorò di un uomo molto più giovane di lei, Alonzo Swain. Il ragazzo convinse la sorella ad abbandonare la famiglia. Isabella decise di vendere tutte le azioni che deteneva dell'azienda per lanciarsi nella creazione di una nuova compagnia il cui fine era quello di commercializzare una lozione per i capelli, ponendosi quindi in contrapposizione con la famiglia anche sul piano economico. Le sorelle abbandonarono Isabella al proprio destino. La nuova azienda fallì miseramente. Alonzo Swain scomparve con la stessa velocità con la quale si era entrato nella vita della donna. Isabella Sutherland morì in miseria. Da quel momento sembra che la follia, o la mancanza di capacità di assumere decisioni corrette, si sia impadronita delle sorelle rimanenti. Victoria alle soglie dei 50 anni decise di sposare un ragazzo di soli 19 anni. Le altre sorelle non gradirono la scelta e l'abbandonarono al proprio destino. Nel frattempo Mary Sutherland iniziò a conoscere profonde crisi psicotiche. 
Per lunghi periodi la donna viveva rinchiusa nella propria stanza. L'impresa Sutherland, scossa da pazzia e incapacità decisionali, dovette affrontare una vera rivoluzione nel campo delle acconciature: negli anni venti del secolo scorso le donne iniziarono a tagliarsi i capelli. A quel punto perdeva completamente d'interesse la lozione the seven Sutherland sister hair grower, che soldi e fortuna aveva portato alla famiglia. Nel 1926 l'ultimo dramma. Le sorelle Sutherland, quelle rimaste all'interno dell'impresa, si recarono a Hollywood per assistere alle riprese di un film tratto dalla loro vita. Purtroppo alcuni giorni dopo Dora rimase vittima di un incidente stradale. Il film fu annullato. Mary e Grace, ridotte in povertà tornarono nella loro villa a Cambria. La situazione economica si rivelò tale da far prendere la decisione di vendere la proprietà. Mary finì isolata in un manicomio. L'azienda fallì nel 1936. Grace morì a 92 anni nel 1946. Poco tempo dopo la morte dell'ultima sorella Sutherland la villa fu vittima di un terribile incendio. Nel fumo di quella casa si concluse la parabola delle sette sorelle.

Fabio Casalini



Bibliografia
Stickey Brandon, The amazing seven Sutherland sister, una biografia del primo modello di celebrità americana, 2012

Riccardi Katia, Chiude lo spettacolo più grande del mondo, Repubblica, 5 gennaio 2017

Mele Christopher, Ringling bros and Barnum & Bailey circus end its 146 year run, New York Times, 14 gennaio 2107


FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.

I bimbi rubati della Spagna cattolica di Francisco Franco

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Il 20 novembre 1975 morì a Madrid Francisco Paulino Hermenegildo Franco y Bahamonde, meglio conosciuto come Francisco Franco o Generalísimo Franco o Caudillo de España. Prima generale e politico, poi dittatore della Spagna, Francisco Franco guidò saldamente il suo paese dalla vittoria della guerra civile spagnola, del 1939, al giorno della sua morte nel 1975.
Fu un dittatore diverso dagli altri del suo tempo, nazionalista e anticomunista, come tutti, ma anche rigidamente conservatore in ambito religioso e con un disegno del tutto personale per la sua nazione. Il suo motto era “Dio, Patria e Giustizia”. Salito al potere dopo tre anni di guerra civile, grazie al sostegno della Germania nazista di Hitler e dell’Italia fascista di Mussolini, non abbracciò mai le idee antisemite dei suoi sostenitori, continuando il proprio cammino in modo diverso, reprimendo con grande decisione ogni tipo di opposizione al regime. Sul fronte internazionale, nonostante le pressioni, mantenne la Spagna neutrale, limitandosi ad inviare un corpo di volontari contro l’Unione Sovietica.
Finito il conflitto mondiale, rimase al suo posto, accostandosi sempre più alla politica anticomunista e anti anarchica del dopoguerra. Nel 1947 restaurò la monarchia, di cui si autoproclamò reggente, nominando Juan Carlos di Borbonesuo successore.
Il suo fervore religioso gli valse la massima onorificenza vaticana da parte di Pio XII nel 1953, che lo insignì dell’Ordine supremo del Cristo.
Lo stesso anno concluse un accordo economico con gli Stati Uniti, che fu la base per rilanciare le sorti economiche del paese, la cui amministrazione fu affidata a uomini da lui direttamente scelti, come Luis Carrero Blanco, proveniente dall’ Asociación Católica Nacional de Propagandistas, e Mariano Navarro Rubio, dell’Opus Dei.
Questo è il quadro generale in cui si inserisce la nostra storia, in cui i protagonisti sono, oltre al generale Franco, donne a cui hanno sottratto i figli alla nascita, religiosi e medici consenzienti. Una rete complessa di abusi, legalizzata dalla complicità dello stato, impegnato nella lotta contro i rojos, cioèdirepubblicani, anarchici, oppositori al regime e migliaia di donne attiviste o semplicemente legate affettivamente o famigliarmente agli oppositori.
Questa è la storia dei los niños robados del franquismo, dei bambini rubati di Spagna.
Il 27 gennaio del 2014 si svolse a Madrid un corteo silenzioso e composto, organizzato dalle associazioni dei familiari dei bambini rubati. Tre anni prima, lo stesso giorno, era stata presentata una denuncia collettiva alle autorità, 261 casi, che raggruppava una parte dei genitori naturali a cui erano stati sottratti i figli durante il regime franchista. Venne portata alla luce una rete organizzata che, secondo le stime, riuscì a “vendere” circa 300.000 bambini, i primi proprio durante la guerra civile spagnola, con lo scopo di “salvare i nuovi nati dal virus che aveva colpito i genitori, colpevoli di opporsi al regime”. Dal 1939 questa invisibile attività di compravendita si svolse senza interruzioni, fino a quando venne varata una legge con regole rigorose per l’adozione di minori. L’anno di cui parliamo è il 1987. 50 anni dopo.
Una inchiesta della BBC concentrò improvvisamente l’attenzione dell’opinione pubblica su questo immenso traffico. Un giornalista raccolse la rivelazione fatta in punto di morte dal padre di Jean Luis Moreno, un uomo come tanti, che confessò al figlio di averlo comprato da un sacerdote a Saragozza, Quel giorno si innescò un effetto domino. Secondo l’indagine che partì, al centro del traffico ci sarebbero stati alcuni preti e medici, dipendenti di strutture ospedaliere conosciute. Subito dopo il parto i bambini venivano prelevati e consegnati nelle mani di altri genitori, disposti a sborsare ingenti cifre. Alla famiglia di origine veniva detto che il bimbo era nato morto oppure era deceduto subito dopo il parto.
Il traffico iniziò con lo scopo di togliere i figli alle famiglie “sgradite”, cioè contrarie al regime, con la scusante ideologica, un po’ come successe in Argentina successivamente per i desaparecidos. Col tempo si venne a creare un vero e proprio mercato. Dopo mesi di indagini e richieste della BBC, il governo spagnolo, nella persona del funzionario ministeriale Angel Nunez, ammise l’esistenza di questo traffico, ma non fornì mai dati ufficiali, con la scusa di mantenere la privacy delle persone coinvolte.
Cerchiamo di capire nel dettaglio come era organizzato lo scambio. Durante il regime franchista i servizi all’interno di ospedali e scuole erano forniti da religiosi cattolici, suore e sacerdoti, impegnati nella gestione di istituti che accoglievano bisognosi di ogni genere, comprese le persone indicate dal regime come indesiderate.
Tra i medici coinvolti, emerse il nome del dottor Eduardo Vela, uomo di grande fama, tenuto in ottima considerazione dall’opinione pubblica del paese. A quanto risultava dalla documentazione consultata, nella clinica del dottor Vela a Madrid, la San Ramón de Madrid, o come veniva definita l’industria dei bebè, il 70% dei bambini nati fino al 1981, sarebbe venuto alla luce da “madre sconosciuta”. Una percentuale alquanto sospetta, ma nessuno aprì mai un ‘indagine.
Le partorienti prese in esame erano donne giovani, sole, non sposate, detenute per i motivi più disparati oppure ragazze minorenni, che non avevano la forza o la voglia di opporsi. Il parto avveniva sempre nelle stesse strutture: in seguito a complicazioni inaspettate, il bambino veniva dichiarato nato morto o morto subito dopo aver visto la luce. Alla mamma spesso non era concessa la possibilità di vedere il corpo del piccolo appena deceduto o di partecipare alla cerimonia di sepoltura. Chi aveva la possibilità di farlo, ha manifestato in alcuni casi il dubbio che il bimbo fosse il suo.
In realtà i bambini passavano nelle mani di coppie senza figli, devoti e benestanti, considerati genitori più appropriati dal regime.
I documenti di nascita venivano modificati indicando come genitori naturali i genitori adottivi. Non si ha certezza che tutte le coppie sapessero che gli veniva affidato un bambino “rubato”, alcuni ritenevano la donazione come un contributo per aiutare l’operato dei religiosi e della struttura ospedaliera. La cifra pagata era considerevole, arrivava fino a 200.00 pesetas, un vero tesoretto per quei tempi. Alcune famiglie, sempre secondo le testimonianze, arrivarono a pagare a rate il denaro dovuto.
Le neo mamme nel frattempo avevano inscenato una finta gravidanza agli occhi del mondo, su consiglio del medico o dei religiosi, in modo da non destare sospetti.
Dopo la morte del generalissimo nel 1975, l’apparato religioso continuò a mantenere una posizione di predominanza rispetto alla vita pubblica e sociale del paese. Il sistema messo in piedi non si interruppe, ma continuò prosperando fino al 1987, arricchendo medici e religiosi. Dopo lo scoppio dello scandalo, alcune tombe di bambini dichiarati deceduti furono aperte per verificarne il contenuto: a volte le ossa ritrovate appartenevano ad adulti, a volte ad animali, a volte le bare contenevano solo polvere.
Sono centinaia le famiglie di bambini scomparsi negli ospedali spagnoli a chiedere chiarezza e che venga aperta un’inchiesta ufficiale. Nonostante questo, a causa delle leggi d’amnistia approvate nel 1977 dopo la morte di Franco, i crimini avvenuti durante il franchismo non sono stati presi in considerazione: i delitti del regime venivano ufficialmente perdonati dalla nuova Spagna. È solo grazie all’iniziativa di procuratori regionali in tutto il paese, che stanno esaminando ogni segnalazione, caso per caso, quasi mille in totale, che la questione non è ancora chiusa o dimenticata. L’interesse del governo a fare giustizia resta poco, la reticenza è molta, forse a causa del coinvolgimento di personaggi insospettabili, considerati come benefattori della società. Madri e figli divisi alla nascita. Un atto di violenza inaudito. Nessuno potrà colmare quel vuoto, quegli anni passati nella menzogna, nel dubbio di non aver fatto abbastanza. La vita di molti innocenti è stata arbitrariamente cambiata in nome di un ideale distorto, sbandierato all'ombra della croce. I colpevoli resteranno impuniti.

Rosella Reali

Bibliografia
Corriere della Sera, inserto Io donna, 21 febbraio 2014
Daily Mail, Cieli paralleli, 16 ottobre 2011
La Stampa, 19 ottobre 2011
La Repubblica, 23 dicembre 2010

ROSELLA REALI
Sono nata nel marzo del 1971 a Domodossola, attualmente provincia del VCO.  Mi piace viaggiare, adoro la natura e gli animali. L'Ossola è il solo posto che posso chiamare casa. Mi piace cucinare e leggere gialli. Solo solare, sorrido sempre e guardo il mondo con gli occhi curiosi tipici dei bambini. Adoro i vecchi film anni '50 e la bicicletta è parte di me, non me ne separo mai.  Da grande aprirò un agriturismo dove coltiverò l'orto e alleverò animali. 
Chi mi aiuterà? Ovviamente gli altri viaggiatori.
Questa avventura con i viaggiatori ignoranti? Un viaggio che spero non finisca mai...

Marjorie, la donna che scoprì l'impossibile

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Raccontiamo questa storia perché è la storia di una donna coraggiosa, tenace e di brillante intelligenza. Una donna del secolo scorso, che come tutte le donne, ancor più se si sono trovate a ricoprire ruoli di una certa importanza, ha dovuto lottare con i pregiudizi, lo scetticismo e la sufficienza di un mondo di uomini che si sentivano superiori (per fortuna sua e nostra, non tutti).  
È una storia davvero straordinaria. Tanto quanto lo sarebbe scoprire oggi da qualche parte del mondo un dinosauro ancora vivo. Detta così potrebbe sembrare la trama di un film di fantascienza, e invece no. E’ accaduto davvero. Proviamo a ricostruirla dall’inizio. Fra i ritrovamenti fossili attraverso i quali si è ricostruita l’evoluzione delle specie sulla terra, ci sono sempre stati molti pesci preistorici. Un gruppo in particolare, i celacanti, risultano apparsi circa 400 milioni di anni fa (dieci milioni in più, dieci milioni in meno) e passati attraverso le ere geologiche almeno fino al Cretaceo, più o meno 65 milioni di anni fa. Poi, come tanti altri, estinti e consegnati alla storia fossile. Non c’erano infatti altri ritrovamenti fossili posteriori a quella lontana Era, e quindi era piuttosto evidente a tutto il mondo scientifico che la specie si era estinta o evoluta in altra forma dando origine a pesci nuovi, più moderni fino a quelli nostri contemporanei. Anzi, per la precisione si è ritenuto per molto tempo che si fossero evoluti addirittura in un genere completamente diverso, dando poi origine agli anfibi. Poi accadde l’incredibile. E avvenne grazie ad una donna: Marjorie Eileen Doris Courtenay-Latimer.
Marjorie era nata in Sudafrica, nella cittadina di East London, il 24 febbraio del 1907. Suo padre lavorava per le ferrovie del Sudafrica, le South African Railways. La piccola Maggie nacque settimina, e fortemente debilitata da una devastante difterite rischiò di morire a pochi mesi dalla nascita. Ma resistette, sopravvisse, e durante la sua infanzia, forse non a caso, il suo amore per la vita si estese ad ogni forma vivente, e passando molto tempo all’aria aperta, avida di conoscenze e innamorata del mondo, ebbe modo di sviluppare una passione viscerale per la natura e gli animali. 
Crescendo si interessa agli uccelli e alle collezioni di fossili, finché nel 1930, quando già stava per intraprendere una carriera da infermiera, si libera un posto come curatrice del Museo di Storia Naturale di East London. Pur essendo autodidatta e non sapendo bene cosa la aspettava, la passione le fece prendere la decisione della sua vita, che mai si rivelò così felice. Accettò il posto, e si trovò a che fare con un museo praticamente inesistente, con pochi reperti di nessun valore, che coraggiosamente e senza rimpianti buttò nella spazzatura per iniziare a creare dal nulla delle collezioni di fossili, minerali, conchiglie, cercando e classificando ogni pezzo personalmente. 
Fra le attività intraprese per questa sua titanica impresa c’era l’abitudine di recarsi al porto della cittadina per cercare fra le reti dei pescatori esemplari di un qualche interesse, come pure fossili e conchiglie sconosciuti tirati su dalle profondità dell’oceano.
E’ il 22 Dicembre del 1938, Marjorie ha 31 anni. In Sudafrica, in quel periodo, c’è un caldo soffocante.
Si reca anche quel giorno al porto, forse più per cercare un po’ di aria fresca e per fare gli auguri di Natale al capitano Hendrik Goosen, suo amico, che nella speranza di trovare qualche creatura interessante nelle reti del Nerine, il suo peschereccio.
E invece proprio lì, quel giorno, fra squali e stelle marine ammucchiate sul ponte, gli occhi esperti di Marjorie vedono qualcosa di mai visto prima.
Un pesce enorme, dotato di scaglie aguzze e potenti, con molte pinne di colore blu sul dorso e sul ventre. Una cosa mai vista fino ad allora, o forse, ma ancora non osava pensarci, già vista soltanto sigillata nella pietra dalle ere geologiche. E solo in pietre di 65 milioni di anni prima.
Coltivò il suo dubbio prima di dare al mondo un annuncio che sarebbe stato sensazionale. Per prima cosa si preoccupò di come trasportarlo (pesava 58 Kg ed era lungo un metro e mezzo) e come conservarlo visto il clima torrido di quei giorni. Caricò il “mostro” su un’automobile insieme al suo aiutante e lo portò al suo museo. Per prima cosa ne fece un disegno, destinato a diventare storico, e cercò subito di mettersi in contatto con il Dottor J. L. B. Smith, della Rhodes University a Grahamstown, che pur essendo un chimico godeva di una giusta fama di ittiologo dilettante. All’epoca le comunicazioni non erano cosa semplice, e non riuscì a parlargli per telefono. Gli scrisse una lettera il 23 Dicembre, allegando il disegno. La lettera arrivò solo il 3 Gennaio, ma fece l’effetto che doveva. Nelle parole del dottor Smith: “… una bomba sembrò scoppiarmi nella testa e dietro a quello schizzo e alla carta di quella lettera io stavo guardando una serie di creature pisciformi che apparivano come su uno schermo, pesci che non ci sono più, pesci che avevano vissuto in ere passate e dei quali solo pochi frammentari resti rimasti nella roccia sono noti”. Corse a telegrafare alla Latimer: “DI ASSOLUTA IMPORTANZA CONSERVARE SCHELETRO E BRANCHIE DEL PESCE DESCRITTO”
Nel frattempo, complice il caldo che stava rapidamente deteriorando la creatura, Marjorie era passata all’azione: fece imbalsamare l’incredibile pesce in attesa del parere degli esperti.
A testimonianza di quanto scetticismo la circondasse fino a quel momento, basteranno le parole del Direttore del Museo quando lei le mostrò il pesce appena portato sul tavolo, parole significative della considerazione concessa alle sue doti, sicuramente viziate anche dalla percezione dell’epoca del suo approccio, considerato evidentemente troppo “femminile”, alle discipline scientifiche: “Mistress Madge, sta creando un tale trambusto a proposito di quel reperto! Non è altro che un merluzzo da scoglio. Per lei tutte le anatre sono cigni.”
Ma per fortuna Mistress Madge era tenace, coraggiosa e convinta delle sue intuizioni.
Arrivarono finalmente i pareri degli esperti, e non ci furono più dubbi: quel pesce era un Celacanto!
Il Pesce preistorico estinto nel Cretaceo non era estinto affatto. Era vivo e nuotava, probabilmente a grandi profondità, nelle acque del Sudafrica.
Quando finalmente il dottor Smith poté esaminare l’esemplare imbalsamato, sentenziò: “malgrado io fossi arrivato preparato, quella prima occhiata mi colpì come un lampo al calor bianco… rimasi impalato come trasformato in roccia. Si, non c’era ombra di dubbio, scaglia per scaglia, osso per osso, pinna per pinna, era proprio un vero Celacanto. Avrebbe potuto essere una di quelle creature di 200 milioni di anni fa risorta.”
Il nome scientifico rese il giusto omaggio alla scopritrice, assegnandogli il nome del Genere: Latimeria. L’esemplare fu battezzato Latimeria chalumnae (Chalumna era il fiume dove era stato pescato).
Non mancarono le polemiche neanche su questo: riviste scientifiche contestarono proprio il fatto che fosse stato dato al genere il cognome di Marjorie. Ma il dottor Smith replicò senza possibilità di appello: “Furono l’energia e la determinazione di Miss Latimer che hanno permesso di conservare un reperto così importante, e gli scienziati hanno buoni motivi per esserle grati. Il genere Latimeria è il mio tributo.”
Negli anni successivi si moltiplicarono le ricerche per trovare altri esemplari vivi, ma solo quindici anni dopo se ne trovò un altro, alle isole Comore. Poi, capendo sempre meglio dove e come cercare, i rinvenimenti aumentarono: un altro esemplare fu pescato nel 1957, e poi nel 1997 se ne scoprì uno anche sull’isola di Sulawesi, perfino di una specie diversa. Si scoprì in quell’occasione che il pesce era ben conosciuto dagli indigeni di quelle isole. 
Insomma il Celacanto non solo non era estinto, ma godeva di ottima salute e popolava le profondità di diversi oceani.
Questi incredibili pesci corazzati sono sopravvissuti alle epoche preistoriche scendendo fin nelle profondità abissali. E vi restano ben nascosti, tanto che le prime foto e le prime riprese subacquee che li ritraggono vivi e vegeti hanno dovuto attendere il nuovo millennio. Solo arrivati al 2000 infatti una spedizione a largo del Mozambico, nell’area di Santa Lucia che ora è diventata una delle aree marine più protette e straordinarie del mondo, ne videro e filmarono tre esemplari a 104 metri di profondità. E successivamente venne trovato ed osservato un gruppo di quindici, con tanto di femmina incinta.
Insomma stanno bene, i pesci preistorici della nostra Marjorie. Passati con incredibile forza di specie attraverso milioni di anni, e sostanzialmente invariati, dal punto di vista evolutivo, almeno dagli ultimi sessanta.
A noi piace, questa storia quasi incredibile. Piace la tenacia e la passione di una donna che ha visto e creduto in qualcosa di straordinario dove tanti uomini sulla carta più esperti di lei non vedevano nulla di speciale. Piace la modestia e la pazienza con cui ha atteso, immaginiamo con quale ansia, le conferme che potessero togliere ogni ombra di dubbio alla sua sensazionale scoperta. 
E naturalmente piace anche questo incredibile essere vivente che del tutto indifferente alla nostra esistenza di umani (spesso indegni della natura che ci ha generato e che ancora ci dà la possibilità di vivere su questo pianeta) è arrivato fino ad oggi tranquillo e nascosto ai nostri sguardi indiscreti.
Insieme all’omaggio per una eroina tranquilla e appassionata, quindi, auguriamo anche lunga vita al suo Celacanto, e che le acque abissali gli siano sempre fredde e inospitali, come piacciono a lui.


Alessandro Borgogno

ALESSANDRO BORGOGNO

Vivo e lavoro a Roma, dove sono nato il 5 dicembre del 1965. Il mio percorso formativo è alquanto tortuoso: ho frequentato il liceo artistico e poi la facoltà di scienze biologiche, ho conseguito poi attestati professionali come programmatore e come fotoreporter. Lavoro in un’azienda di informatica e consulenza come Project Manager. Dal padre veneto ho ereditato la riservatezza e la sincerità delle genti dolomitiche e dalla madre lo spirito partigiano della resistenza e la cultura millenaria e il cosmopolitismo della città eterna. Ho molte passioni: l’arte, la natura, i viaggi, la storia, la musica, il cinema, la fotografia, la scrittura. Ho pubblicato molti racconti e alcuni libri, fra i quali “Il Genio e L’Architetto” (dedicato a Bernini e Borromini) e “Mi fai Specie” (dialoghi evoluzionistici su quanto gli uomini avrebbero da imparare dagli animali) con L’Erudita Editrice e Manifesto Libri. Collaboro con diversi blog di viaggi, fotografia e argomenti vari. Le mie foto hanno vinto più di un concorso e sono state pubblicate su testate e network nazionali ed anche esposte al MACRO di Roma. Anche alcuni miei cortometraggi sono stati selezionati e proiettati in festival cinematografici e concorsi. Cerco spesso di mettere tutte queste cose insieme, e magari qualche volta esagero.

Adelasia, regina bella e triste

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Se qualche cavaliere vi appariva, il cuore di lei palpitava come quello di una fanciulla al suo primo convegno di amore. Ma il cavaliere era spesso un paesano che viaggiava sul suo ronzino, o un armigero in perlustrazione.
Grazia Deledda, Il sigillo d’amore

Il contesto storico
Vi era un tempo in cui l’isola di Sardegna vantava una particolare forma di governo: il giudicato. Cos’era un giudicato? Si tratta di un’entità statuale autonoma provvista di un’organizzazione amministrativa prossima alle esperienze tipiche dei territori dell'Impero bizantino, con istituti giuridici romano-bizantini. Era uno stato sovrano dotato di summa potestas(poteva stipulare trattati internazionali) a capo del quale c’era lo judike(in italiano, giudice). I giudicati mostravano inoltre certi tratti di modernità rispetto coevi regni europei di tradizione barbarico-feudale, poiché erano stati non patrimoniali (non di proprietà del sovrano) ma superindividuali, cioè del popolo. Il popolo esercitava la sovranità con forme semi-democratiche, come le Coronas de curatorias, le quali a loro volta eleggevano i propri rappresentanti al massimo consiglio chiamato Corona de LoguIl distacco di Bisanzio dalla Sardegna e la necessità per i sardi di organizzare una difesa propria contro il pericolo arabo, furono probabilmente alla base della nascita dei giudicati. Verso la fine dell'VIII secolo, Bisanzio abbandonò progressivamente l'isola e i poteri dei due magistrati bizantini governanti furono concentrati nelle mani di un'unica autorità che, a sua volta, delegò il potere a quattro magistrati risiedenti in diverse parti del territorio dell’isola. La Sardegna fu divisa in zone che guadagnarono un’autonomia sempre maggiore rispetto al potere centrale bizantino e si diedero istituzioni amministrative e politiche proprie: nacquero così i quattro Giudicati di Cagliari, Torres, Arborea, e Gallura. La figura del giudice era simile a quella di un sovrano europeo dell’alto Medioevo: era chiamato re dai suoi sudditi e la sua attività era rennare(regnare). Il giudice viveva con la famiglia in una reggia, in cui amministrava lo stato e si occupava della giustizia, ed era protetto da una guardia armata. L'autorità del Giudice si fondava sul principio di successione, che includeva anche le donne.
Il ruolo di Pisa e Genova
Nel frattempo, Pisa e Genova, che avevano appoggiato i giudici sardi per l’allontanamento degli arabi, si sentirono autorizzate a chiedere loro concessioni di vario genere. Ebbe così inizio una progressiva infiltrazione pisano-genovese nell'isola. Questa presenza fu rafforzata dall'arrivo di molti esponenti delle famiglie nobiliari di Pisa e di Genova: i Visconti a Cagliari, i Malaspina a Bosa, il conte Ugolino di Pisa a Villa di Chiesa (Iglesias).
L'insediamento di questi nobili coincise con l'arrivo di mercanti e uomini d'affari, che contribuirono allo sviluppo del commercio in tutta la Sardegna. Il processo di insediamento nobiliare non avvenne in modo pacifico: tra le due repubbliche marinare si crearono forti rivalità che coinvolsero anche le dinastie dei quattro Giudici. Ed è in questo contesto che si inserisce la storia di Adelasia.
Adelasia, vita da regina
Lo scrittore ottocentesco Enrico Costa, nel suo scritto Guida racconto. Da Sassari a Cagliari e viceversa(1882) parla di Adelasia in questi termini: «Una bella e giovane regina, che si rese celebre per le sue sventure». Ma vediamo insieme chi era Adelasia. Adelasia de Lacon Gunale nacque intorno al 1207 ad Ardara, cittadina ora in provincia di Sassari, da Mariano II de Lacon Gunale e da Agnese de Lacon Massa, figlia del giudice di Cagliari. Dalla loro unione, oltre ad Adelasia, nacquero Benedetta (1205), Barisone (1221) e Preziosa.
Intermediaria per la pace tra Logudoro e Gallura
Il padre Mariano attuò una politica di equilibrio tra Pisa, Genova e il Papato. Tuttavia, a seguito della pressione militare esercitata dai fratelli Ubaldo I e Lamberto Visconti (giudice di Gallura) sul giudicato di Cagliari, retto dalla cognata di Mariano Benedetta di Massa, si decise di aprire le ostilità nei confronti dei pisani, venendone sconfitto. A quel punto, i Visconti, minacciando di invadere direttamente il giudicato di Torres, costrinsero Mariano II a scendere a patti con loro. Così, il giudice di Torres diede la propria figlia Adelasia, ancora adolescente, in moglie al figlio di Lamberto, Ubaldo II. Si dice che Adelasia, nonostante fosse servita da “pedina” per il padre, acconsentì di buon grado a questo matrimonio. Scrive in proposito Mauro Sanna:
Il suo matrimonio con Ubaldo Visconti non era dovuto ad un amore romantico, concetto,questo, tutto moderno, o addirittura contemporaneo. Però i due regnanti si sostenevano l’un l’altro, e se Ubaldo non avrebbe mai potuto regnare su Torres senza il suo legame con Adelasia,è altrettanto vero che ella aveva bisogno di un marito capace per reggersi sul trono. Fu perciò un duro colpo per lei la morte di Ubaldo nel 1238.
Le nozze, celebrate nella basilica della Santissima Trinità di Saccargia di Codrongianos, misero in allarme papa Onorio III, preoccupato della crescente influenza dei Visconti sugli affari sardi, a discapito di Roma. Così, inviò un legato pontificio con la missione di impedire il matrimonio o di annullarlo. Ma il tentativo papale non ebbe successo e i Visconti, per nulla intimoriti dall’autorità del papa, si ritrovarono in una posizione di estremo vantaggio nella lotta per il predominio sull’isola. Intanto, nel 1225, alla morte del padre Lamberto, Ubaldo divenne Giudice di Gallura. Nel 1232, il giudice Mariano II morì e salì al trono il fratello minore di Adelasia, Barisone III, che governò sotto la tutela dello zio Ithocorre, che però praticò una politica tirannica e vessatoria, tanto da suscitare tumulti (nei Giudicati era contemplato il diritto al tirannicidio), che i Visconti cavalcarono abilmente. Il giovane Barisone III venne trucidato nel 1236 e il giudicato, secondo le disposizioni paterne, venne ereditato da Adelasia che, in questo modo, insieme al marito, si trovò a regnare su circa la metà dell’isola.
Papa Gregorio IX inviò il suo Legato Alessandro con la missione di ottenere formale atto di vassallaggio da parte dei due regali coniugi. Adelasia e Ubaldo questa volta, forti della stabilità di potere raggiunta e desiderosi di ricucire il rapporto con la Santa Sede, acconsentirono e riconobbero la signoria del papa sul giudicato di Logudoro, mentre per la Gallura Ubaldo si disse già impegnato con la Repubblica di Pisa.
La svolta nella vita di Adelasia
Ma la stabilità (e pare, con essa, anche la serenità di Adelasia) ebbe vita breve: nel 1238, improvvisamente, Ubaldo morì e gli succedette, secondo le sue disposizioni, il cugino Giovanni. Il papa approfittò della situazione per allargare la sua influenza, interessando della questione il giudice d’Arborea Pietro II e proponendo il devoto e fedele Guelfo dei Porcari come nuovo sposo per Adelasia. Nel frattempo, le famiglie Visconti e Doria tramarono, ognuno per suo conto, per scongiurare una tale eventualità, che avrebbe determinato un rovesciamento dei rapporti di forza a favore del papato. I Doria, in particolare, coinvolsero nella questione l’imperatore Federico II di Hoenstaufen, convincendolo a proporre come sposo ad Adelasia il suo figlio naturale, il diciottenne Enzo, nonostante la gran differenza d’età. Adelasia, che era vedova da meno di un anno, accettò e i due si sposarono nella chiesa di Santa Maria del Regno di Ardara. Federico II creò ad hoc un Regno di Sardegna e lo infeudò a figlio e nuora.
La infirmidadedi Adelasia
Ma l’irrequieto Enzo non sopportò per molto l’austera vita di corte e la compagnia di Adelasia, ormai in età avanzata per quei tempi. Così, dopo pochi mesi dal matrimonio, raccolse immediatamente la chiamata del padre per una campagna militare nella penisola e lasciò la Sardegna per non più farvi ritorno, pur continuando a fregiarsi del titolo di Re. Nominò vicario del giudicato il possidente sassarese Michele Zanche. Zanche, però, sfruttando per i propri interessi il potere conferitogli, si arricchì notevolmente, facendosi pagare i favori che elargiva a molti sudditi (come liberare i detenuti). Tuttavia era già da tempo avvezzo alle malefatte, poiché, già nel 1236, Zanche fece parte del complotto per assassinare a Sassari il giovane giudice Barisone III di Torres, fratello di Adelasia. Persino Dante l’ha ricordato nel canto XXII dell’inferno, tra i barattieri:
Usa con esso donno Michel Zanche

di Logodoro; e a dir di Sardigna
le lingue lor non si sentono stanche.
Nei versi di Dante, “esso” indica frate Gomita, che resse il regno di Gallura.
Adelasia, abbandonata da Enzo, lasciò il palazzo di Ardara e si rinchiuse nel Castello di Burgos, sperando di ottenere la revoca della scomunica, cosa che ottenne nel 1245, al pari dell’annullamento del matrimonio. Gli anni della voluta reclusione nel castello di Burgos si confondono con la leggenda. Pare che Adelasia, distrutta per l’abbandono, soffrisse di «una infirmidadequi si creiat de morrer» (una malattia che credeva l’avrebbe fatta morire; così narra il Libellus Iudicum Turritanorum). Sono numerosi gli scrittori che vollero colmare il vuoto di documenti. Prima fra tutti fu Grazia Deledda, che le dedicò il sentito racconto Il sigillo d’amore, dove ritroviamo passi che ben esprimono l’umore nostalgico della regina:
Nella nuova dimora ella scelse, per abitarvi, le camere più alte, e fin dal primo giorno s’affacciò alla finestra dalla quale meglio si dominava la strada che dal castello scendeva alle terre del Goceano e si perdeva attraverso le valli del Logudoro.
La strada, che ai piedi del colle roccioso di Burgos si restringeva quasi in un sentiero, arrampicandosi fra le pietre e i cespugli fino allo spiazzo del castello, era quasi sempre deserta: gli occhi tristi della Regina non cessavano tuttavia di fissarne le lontananze, e se qualche cavaliere vi appariva, il cuore di lei palpitava come quello di una fanciulla al suo primo convegno di amore. Ma il cavaliere era spesso un paesano che viaggiava sul suo ronzino, o un armigero in perlustrazione.
Anche di notte, nelle chiare notti solitarie, ella si affacciava alla finestra; poi, sola nel suo grande letto vedovile, vedeva ancora la strada che ormai le pareva appartenesse alla sua stessa persona, come le vene delle sue braccia, come la treccia che le scendeva fino al cuore; la vedeva anche nel sonno, come si partisse dai suoi occhi e scendesse al mare, e attraversasse il mare, strada di desiderio e di vana speranza, fino a raggiungere il giovine sposo. E quando al mattino i lentischi e i macigni del sentiero brillavano di rugiada, a lei pareva di averli bagnati con le sue lagrime…
Il ritiro di Adelasia lasciò il regno in balia dei vicari giudicali che lo smembrarono e se lo spartirono. La regina di Sardegna finì i suoi giorni nella più completa miseria. Adelasia morì nel 1259, poco più che cinquantenne; nel suo testamento indicò come erede la Santa Sede, ma ormai il suo patrimonio era stato completamente dilapidato e il Giudicato di Torres fu spartito tra i Doria, i Malaspina e gli Spinola. Le sue spoglie si trovano probabilmente ai piedi dell’altare maggiore della chiesa di Santa Maria del Regno di Ardara.

Claudia Migliari

Bibliografia essenziale
Costa, Enrico

s.a., Adelasia di Torres. Note critiche e divagazioni fra storie, cronache e leggende del secolo XIII, Mulas Editore s.l.


Costa, Enrico

1995, Da Sassari a Cagliari e viceversa. Guida-racconto (1902), Edizioni della Torre, s.l.


Deledda, Grazia

1926, Il sigillo d’amore


Floris, Francesco

1999, Storia della Sardegna, Newton & Compton, Roma


Meloni, Giuseppe - Simbula, Pinuccia Franca, a cura di

2004, Da Olbìa ad Olbia: 2500 anni di storia di una città mediterranea: atti del Convegno internazionale di studi, 12-14 maggio 1994, EDES Editrice Democratica Sarda, Sassari


Rapetti, Mariangela

2015, All'origine dell'infirmidadedi Adelasia di Torres, tra fonti archivistiche e fonti letterarie, Rivista del Dipartimento di Storia, Beni Culturali e Territorio, dell’Università di Cagliari

Tutte le fotografie sono estratte da wikipedia



CLAUDIA MIGLIARI
La storia di Claudia inizia in un giorno di fine aprile del 1980. Il luogo dove è nata e cresciuta, il lago di Lugano, terra di confine e di contrasti, dove l'asprezza e il rigore delle montagne cedono il passo alla dolcezza mediterranea dei laghi, forma il suo carattere poliedrico. Da sempre appassionata di tutto ciò che la può portare in epoche lontane, si butta a capofitto sul disegno, sulla musica, sulla storia. Nel 1999 inizia la sua avventura come guida turistica presso una villa rinascimentale, dove ancora collabora. L'attività la coinvolge tanto, che nel 2005 consegue la certificazione ufficiale di guida turistica. Nel frattempo, conclude i suoi studi di lingue (e, naturalmente, storia delle lingue) e inizia a lavorare come traduttore, sua attuale professione. Ha al suo attivo la traduzione di quasi un centinaio di libri sugli argomenti più disparati, dalle fiabe e dalla narrativa per ragazzi, fino a libri di scultura su pietra e su legno e sulla storia della smaltatura dei metalli. Da marzo 2015, Claudia è segretario della Pro Loco del suo paese, Bisuschio, e continua le sue attività artistiche, prosegue con lo studio del canto lirico e... è sempre in giro per chiese o luoghi storici, purché siano antecedenti all'Ottocento! Per concludere, Claudia ha una fluente chioma ribelle e rossa, vive sola con un gatto nero, ha la casa piena di libri e ama studiare e conoscere i principi curativi delle erbe. Che cosa avrebbe pensato di lei un inquisitore?

Mari Sandoz, un cuore sulle Grandi Pianure

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Mari Susette Sandoz nacque l’11 maggio 1896 sul Mirage Flats, vicino a Hay Springs, nel nord ovest del Nebraska, primogenita di sei figli di immigrati Svizzeri, Jules e Mary Elizabeth Sandoz, stabilitisi nel territorio di frontiera nel 1884, con il finire delle guerre indiane. La casa in cui visse da bambina sorgeva sulle Sandhills, nella regione dell’alto corso del fiume Niobrara – l’Acqua che Corre, come lo chiamavano gli indiani delle pianure – ai bordi di quello che veniva definito territorio indiano.
Era vicina a Fort Robinson, ma anche alle grandi riserve Sioux del South Dakota ed alle sacre colline nere, le Black Hills. Quell’area pianeggiante ad ovest del Mississipi era sempre stata frequentata dai nativi americani che praticavano la caccia al bisonte, oltre che dai numerosi mercanti bianchi, trappers, mountain men e tutti quegli spiriti liberi della frontiera che avevano accolto con disprezzo l’arrivo del filo spinato e dell’aratro a mano. Il vecchio Jules, padre di Mari, era un pioniere, coltivatore, allevatore, agronomo nonché gestore di una stazione di sosta in grado di accogliere, indistintamente, indiani e bianchi che trovandosi di passaggio per quelle terre avvistavano la spirale di fumo che si alzava dal camino nascosto tra gli alberi, percependo l’aroma del caffè verso sera. Mari, in particolare, già da bambina era attratta dai vecchi Sioux che periodicamente si accampavano proprio dirimpetto alla fattoria e che ritrovava seduti alla propria tavola oppure attorno al focolare. Molti di essi, infatti, avendo alle spalle un passato eroico ed avventuroso, si rivelavano spesso dei narratori straordinari. Da loro sentiva raccontare molti e meravigliosi episodi di caccia ai bisonti, alle pecore di montagna, agli orsi bruni, nonché i dettagliati resoconti di sanguinose battaglie che li avevano impegnati nella difesa del loro mondo ancestrale e che i bianchi chiamavano “guerre indiane”, fino a ripercorrere l’apogeo che gli scontri avevano toccato in un fatidico giorno d’estate di qualche decennio prima con la battaglia di Little Bighorn. La piccola ascoltava affascinata quei racconti, sentendo spesso nominare le gesta di un Oglala che a soli vent’anni era diventato il più grande guerriero della tribù, colui il cui nome – Cavallo Pazzo – sarebbe bastato da solo ad atterrire i bambini dei bianchi che avevano invaso la sua terra, nonché i guerrieri più spavaldi dei suoi nemici Shoshoni, Pawnee e Crow.
Una volta, mentre suo padre parlava con alcuni ospiti Sioux Brulé che venivano dalla riserva del Rosebud, uno di loro, un vecchio, si accorse che la bambina si era messa di soppiatto ad ascoltarli, quindi la prese per mano e la condusse fin sulla cima del monte che dominava la fattoria dei Sandoz. Lassù, percorrendo con lo sguardo la grande valle ed il fiume, i precipizi e le alture, le aveva parlato di come i bianchi stavano cambiando la faccia della Terra, le mostrò il punto in cui i Brulè avevano costruito il palco funebre di Orso che Conquista, il capo che aveva voluto la pace e che i bianchi avevano ucciso, laggiù proprio vicino a dove suo papà aveva poi piantato un giovane ciliegio. Le raccontò come la cima pietrosa del monte su cui stavano era molto simile a quella dove era fuggito il giovane Cavallo Pazzo dopo l’attacco dell’Acqua Azzurra, dove aveva digiunato per cercare una “visione” che placasse la confusione che si era impadronita del suo cuore a causa di quelli che si dicevano fratelli bianchi e che invece avevano sparato contro la sua gente mentre lui era lontano, a caccia di cervi. Tutte queste storie restavano impresse nella mente della bambina, le occupavano i pensieri e le erano di grande aiuto nel vivere un’infanzia difficile, fortemente dominata dalla figura collerica del padre-padrone Jules, un uomo dal temperamento duro, a volte paranoico e violento verso tutta la famiglia, ma al tempo stesso visionario e innovativo nei confronti dell’ambiente rurale in cui era immerso, innamorato delle Grandi Pianure, maestro nell’intrattenere i rapporti con le genti che le abitavano, capace di avviare la coltura di frutteti e vitigni in ambienti difficili e ostili. La paura mista ad ammirazione per la figura paterna, così determinante e ossessiva, spinsero Mari Sandoz a relegarsi in uno studio silenzioso e segreto, nel quale coltivare l’amore per le parole scritte e per la filosofia, praticata di nascosto dal padre che faceva di tutto per disincentivare questo talento, così inutile e dannoso a sentire lui, soprattutto per una figlia femmina. Ogni nozione imparata a scuola veniva approfondita in qualche angolo del granaio, polveroso e nascosto, in completo isolamento sia dalla comunità che dalla famiglia, cominciando a scribacchiare storie quando non doveva cucinare, lavorare in giardino o prendersi cura dei fratelli più piccoli.

All’età di 14 anni Mari fu costretta insieme al fratello James a trasferirsi per alcuni mesi invernali in una capanna costruita sui vasti terreni della fattoria, per condurre faticosi lavori all’aperto con il bestiame, esperienza talmente estrema che la fece ammalare di una patologia permanente ad un occhio, chiamata “cecità da neve”. Fu quello tuttavia anche un periodo di contatto totale e incondizionato con la natura che la circondava e che la spinse, più tardi, ad approfondire le conoscenze di archeologia nativa e geologia della regione. Tre anni dopo, terminati gli studi, venne il momento di sposarsi con il vicino di fattoria, Wray Macumber, anch’egli personaggio violento che la maltrattò per tutti i successivi 5 anni di matrimonio, fino al 1919, anno del divorzio, in cui Mari decise di rompere definitivamente i ponti con la propria famiglia, spostandosi oltre 400 miglia a est, verso la città di Lincoln in Nebraska. Il desiderio di potersi dedicare finalmente anima e corpo allo studio ed agli scritti su quella che era la sua grande passione, le Grandi Pianure dell’ovest americano, si scontrò subito tuttavia con le difficoltà dovute al sostentamento. Per circa 10 anni visse in povertà, sopravvivendo solo grazie a qualche lavoro temporaneo, nella vana speranza che qualche suo scritto trovasse i favori degli editori. Ma la società dell’epoca lasciava ben pochi spazi alle capacità femminili, e anche nel settore dell’editoria nessuna fiducia le era concessa, solo sorrisi di circostanza e porte chiuse. Nel 1928, Mari venne contattata dalla famiglia per recarsi al capezzale del padre morente e, con grande stupore della ragazza, il vecchio che l’aveva sempre osteggiata nella sua passione per la scrittura, forse pentito dei tanti soprusi familiari, le chiese di scrivere una biografia su di lui. Fu così che la giovane in lacrime acconsentì e, per assecondare i desideri del vecchio padre sul letto di morte, oltre a riconciliarsi con la famiglia avviò nuove e più approfondite ricerche sulla storia di quel rude uomo di frontiera, sulla sua decisione giovanile di diventare pioniere, riscoprendo anche un mondo a lei conosciuto fino ad allora solo superficialmente. Dopo tre anni il libro “Old Jules” era pressoché pronto ma l’America viveva all’epoca la “Grande Depressione” e nessuno era intenzionato a pubblicarlo: malnutrita e in cattive condizioni di salute, Mari cadde in preda allo sconforto e bruciò oltre 70 dei suoi primi manoscritti, conservando però gelosamente la biografia del padre.
Solo nel 1935 arrivò finalmente la svolta, sotto forma di lettera che la avvisava che la versione ridotta di Old Jules, da lei inviata all’attenzione di una rivista locale, aveva vinto un concorso tenuto da “Atlantic Press”, il cui direttore si dichiarava pronto a pubblicare il libro per intero. Subito ben accolto dalla critica e dal pubblico, Old Jules riscosse una tiratura di 85.000 copie; tutto ad un tratto, dopo tanta indifferenza, molte persone restavano affascinate e sconvolte da quella visione romantica del vecchio west, dal suo linguaggio forte, crudo e realistico sulla vita di frontiera, sulle lotte brutalizzanti dell’uomo contro la natura e della natura contro l’uomo. Old Jules era la fedele rappresentazione di quell’individuo a tratti odioso che terrorizzava moglie e figli con la frusta, abilissimo nell’uso delle armi che imbracciava ed usava disinvoltamente contro i propri avversari, ma anche il simbolo affascinante del pioniere amico degli indiani, convinto sostenitore dei diritti dei piccoli coltivatori, indifesi di fronte allo strapotere dei grandi proprietari terrieri allevatori di bestiame, profondo e appassionato conoscitore della terra in cui si muoveva. L’opera le consentì finalmente di uscire dall’indigenza, dedicarsi all’insegnamento e, soprattutto, di continuare ad approfondire la sua passione di sempre. La strada era spianata, il secondo libro della serie – che per molti critici rappresenta il suo capolavoro letterario – non poteva non essere dedicato alla vita del suo eroe preferito sin da quando era una bambina triste ed impaurita, quel ragazzo indiano, introverso e solitario come lei, nato e cresciuto nei territori dove anche lei era nata e cresciuta, quel guerriero di cui aveva sentito narrare le gesta attorno al fuoco, la sera, dalle stesse persone che lo avevano conosciuto. “Cavallo Pazzo – lo strano uomo degli Oglala” uscì nel 1942 e fece la differenza: per la prima volta uno dei personaggi più rappresentativi degli indiani delle pianure veniva raccontato dal loro punto di vista, assunto quasi a venerazione come eroe virgiliano che difende il proprio mondo antico dalla distruzione ormai irreversibile, solo contro tutto e contro tutti (proprio per tale enfasi Mari Sandoz fu accusata da alcuni critici di aver dipinto la figura del guerriero con eccessivo romanticismo). Nonostante le critiche legittime, l’opera su Crazy Horse resta uno dei libri più importanti, nel suo genere, della letteratura americana, capace di introdurre il lettore ad informazioni fino ad allora sconosciute ai bianchi non solo sulle guerre indiane ma anche sulla caccia, sull’organizzazione sociale e su altri importanti aspetti della vita dei nativi in quella parte di territorio. Nel testo Mari Sandoz tracciò anche per la prima volta le intricate relazioni intertribali tra gli Oglala ed i Brule-Sioux, evidenziandone la mancanza di unità, il grande limite comune un po’ a tutto il popolo pellerossa, venuto prepotentemente a galla in due secoli di confronto-scontro con i bianchi.

La grande simpatia di Sandoz per gli Indiani d’America continuò a trasparire in maniera netta anche nei libri pubblicati successivamente ed inseriti nella serie “Grandi Pianure”. Da ricordare “L’autunno Cheyenne” (1953) pubblicato molto prima che la maggior parte degli americani fosse pronta ad ascoltare la verità sul trattamento riservato a queste popolazioni dalla civiltà europea. Il libro documenta l’ultimo esodo di quello che venne definito il “popolo magnifico” che nel 1878 fuggendo dalla riserva dell’Oklahoma si spostava verso nord, le ultime battaglie ed i massacri subiti proprio nella zona del Nebraska occidentale, ricostruendo le controverse figure dei due capi “Coltello Spuntato” e “Piccolo Lupo” e le loro diverse interpretazioni delle parole di fiducia dell’uomo bianco. Di grande impatto anche “Buffalo Hunters” (i cacciatori di bufali – 1954) che, ripercorrendo il tema di un west romantico e scomparso, usa il bisonte come figura centrale nella distruzione della civiltà dei nativi. La strage ecologica che dal 1867 in meno di vent’anni distrusse milioni di capi di bestiame fino a far estinguere quasi completamente la principale fonte di alimentazione degli indiani delle pianure, è contrapposta all'avversione indolente dell'uomo bianco per tale preziosa ricchezza. Nel libro piovono quindi accuse ai dirigenti delle ferrovie ed ai finanzieri dell’est, colpevoli di aver “stuprato” quelle pianure a lei così care per meri motivi economici, nonché alla deliberata politica di sterminio del Governo nei confronti dei nativi americani. In questo ambito narrativo l’autrice ripercorre vite di uomini famosi come Wild Bill Hickok, Buffalo Bill, Custer, terminando con i tragici eventi di Wounded Knee, quale triste punto di arrivo che collega idealmente la morte del bufalo con la fine del sogno della “danza degli spettri” e di un mondo antico che non sarebbe più potuto tornare. Degni di nota anche gli altri due libri della collana: “i mandriani” (1958) in cui la scrittrice analizza le cosiddette guerre per il filo spinato, tra cowboys e coltivatori, dipingendo senza pillole edulcoranti un west crepuscolare e spietato ed infine “The beaver men” (i cacciatori di castori – 1964), che fornisce un quadro inedito sulla vita dei primi commercianti bianchi di pellicce e della loro interazione, inaspettatamente spesso positiva, con gli indiani delle pianure.
Mari Sandoz dal 1935 al 1966 scrisse oltre 20 libri e dozzine di racconti, vincendo numerosi premi letterari e lasciando in eredità ad associazioni, circoli ed organizzazioni culturali diversi articoli sociali, biografie indiane e cronache di ogni tipo che hanno contribuito a delineare in maniera più compiuta quelle che sono le conoscenze attuali sulla storia del west americano e degli indiani che lo abitavano. Anche se la serie delle “Grandi Pianure”, la più nota al grande pubblico, resta la collana dai toni maggiormente drammatici, le sue storie raramente possono considerarsi felici o a lieto fine, il suo interesse si focalizzò sempre su quella parte di umanità sfortunata da lei conosciuta ed amata in gioventù nella frontiera americana, quella fetta di società normalmente esclusa dal progresso della Nazione, per la quale il successo nella vita ha sempre costituito un’opzione lontana e difficilmente realizzabile. Divenuta famosa la scrittrice non dimenticò mai questo genere di persone, con le quali si identificò spesso e nei cui confronti si sentì simpaticamente solidale, anche intervenendo economicamente in loro sostegno. In particolare, in molti dei suoi scritti Mari Sandoz mise in luce l’importanza delle donne nel West, di quanto il loro duro lavoro sia stato poco raccontato e quasi mai valorizzato, dei soprusi e delle violenze costrette a sopportare dagli uomini, spesso mariti e padri, delle loro morti premature, della pazzia a cui spesso furono condannate e, nei casi più fortunati, della loro difficile sopravvivenza nelle terre di confine. Nei suoi racconti si trovano sovente figure femminili capaci, contro ogni aspettativa, di ricoprire ruoli prettamente maschili, come la storia di un’avventuriera proprietaria di bestiame e pascoli che terrorizzava le comunità di coloni (Slogum House – 1937) oppure le vicende di una donna impegnata in politica (Tom Walker - 1947) fino alle difficoltà incontrate da tre ragazze nell’esercizio della professione di medico delle Grandi Pianure (Miss Morissa - 1955). Ovviamente, anche per quella sua grande predilezione per la cultura dei nativi americani, tutte le sue opere, dalle maggiori alle meno conosciute, sono caratterizzate dalla presenza costante della “Natura”: selvaggia, pericolosa, a tratti crudele, ma sempre meravigliosa ispiratrice delle vicende umane. Mari Sandoz lavorò fino all’ultimo mese di vita finendo “la battaglia di Little Bighorn”, pubblicato nel marzo del 1966, a pochi giorni dalla sua morte. Prima di essere sepolta per sua espressa volontà a fianco del padre, sulla collina che domina la vecchia casa di famiglia, Mari Sandoz stava lavorando ad un nuovo libro che non vide mai la luce, l’ultimo lavoro incompiuto della serie delle Grandi Pianure, improntato sull’importanza delle lotte per la difesa dell’ambiente e dell’acqua contro le potenti leggi del petrolio, un tema complesso, all’epoca ancora poco considerato ma divenuto di bruciante attualità al giorno d’oggi, a distanza di ben 50 anni.


Sergio Amendolia


Sitografia
marisandoz.org
nebraskahistory.org
nebraskaeducationonlocation.org
archivespec.unl.edu
web.archive.org

SERGIO AMENDOLIA
Nato 55 anni fa a Genova, sposato con 2 figli, 2 gatti e un cane, ho sempre guardato con stupore l'orizzonte e tutto ciò che quella linea rappresenta e contiene, convinto che dove il cielo finisce si celano sempre spazi e tempi lontani, spesso inesplorati o conosciuti poco e male. Forse per questo mi attira l'impostazione di questo blog ed i veli della Storia che gli articolisti provano spesso a sollevare, perché conoscere è importante e aiuta a capire ciò che siamo e come lo siamo diventati. Oltre alla nostra bella Italia ed alla sua impareggiabile ricchezza di arte e storia, mi affascinano molto gli scenari mozzafiato dell'Ovest Americano. In questi ultimi anni ne ho percorsi alcuni, ancora una volta cercando di varcare orizzonti i cui contorni sfuggono in continuazione, dimensioni che ho provato a malapena ad intuire nei volti dei nativi che ancora oggi si incontrano nelle riserve: a volte duri, scolpiti e aridi come i monoliti di arenaria rossa, probabilmente gli unici in grado di metabolizzare la sensazione di infinito che pervade quelle terre lontane. Per questo mi piace, quando il tempo libero me lo permette, collaborare con riviste e pagine web, tentando di approfondire le vicende che hanno caratterizzato la storia di quei popoli d'oltreoceano, in particolare l'epopea del West, con un occhio particolare agli uomini e alle donne che la vissero davvero, fuori dai luoghi comuni e dai grandi miti costruiti da Hollywood.

Il medico condannato a morte per annegamento a Venezia

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Le fredde cronache ci ricordano che Girolamo Donzellini, o Donzellino, nacque in quel di Orzinuovi nel 1513, e che svolse la professione di medico. In giovane età aderì al protestantesimo e subì diversi processi per eresia sino a quando nel 1587 fu condannato a morte, nella città di Venezia, mediante affogamento. 
L'annegamento fu utilizzato come mezzo per infliggere la pena di morte ai rei di particolari reati come il caso della poena cullei che il diritto romano riservava ai parricidi. Immediatamente dopo la condanna, il reo era tradotto in carcere con gli zoccoli di legno ai piedi e un cappuccio di pelle di lupo in testa. Il parricida era poi frustato con le verghe del colore del sangue e quindi cucito in un sacco di cuoio impermeabile insieme ad un cane, un gallo, una vipera o una scimmia, se si trovava, e dopo essere stato trasportato attraverso la città sopra un carro trainato da un bue nero era gettato nel Tevere, o in alternativa in mare. Analoga ma leggermente diversa era la mazzeratura che era destinata a coloro che si erano macchiati di tradimento e consisteva nell'annegamento della vittima dopo che la stessa era stata rinchiusa in un sacco, senza il rituale classico della poena cullei. 


Girolamo fu uno dei figli di Buonamonte Donzellini, un veronese che emigrò ad Orzinuovi dove si sposò ed ebbe almeno tre figli. Uno di questi, Cornelio, entrò nell'ordine domenicano. Girolamo studiò nel comune dell'attuale provincia di Brescia insieme ai fratelli. Tra gli insegnanti Michelangelo Florio, religioso che conoscerà nel 1548 le carceri dell'inquisizione per aver aderito al protestantesimo. Michelangelo, noto come Micheal Angelo, in seguito all'adesione alle idee riformate svolse la propria attività di pastore in Inghilterra e nel Canton dei Grigioni. Il frate francescano è noto per essere stato padre di John Florio, che fu il primo traduttore degli Essais di Montaigne in lingua inglese e si ritiene possa essere stato anche il traduttore anche del Decameron di Boccaccio. John Florio è considerato tra i possibili autori delle opere di William Shakespeare, il quale secondo teorie non dimostrate non avrebbe scritto le opere cui è legato il nome. Si ritiene che l'adesione di Donzellini alla Riforma sia avvenuta in giovanissima età poiché, come lo stesso Girolamo affermerà nei processi, la casa paterna era frequentata da un nutrito numeri di eretici appartenente sia al clero che alla borghesia del luogo. 
Tra i nomi che si ricordano quello del libraio Ziletti e del poeta Moneta. Il percorso di studi di Girolamo non si concluse ad Orzinuovi in quanto studiò a Brescia e all'Università di Padova, laureandosi in medicina nel 1541. Lo stesso anno ottenne la cattedra di teoria medica nell'università nella quale si laureò. In questo periodo si moltiplicarono le conoscenze complesse ed eretiche di Girolamo: un prete antitrinitario, tal Pietro Manelfi, durante un processo, che si svolse in un periodo successivo, dichiarò che conobbe il Donzellini nel periodo padovano e aggiunse d'averlo visto leggere libri proibiti. Nel 1543 Girolamo si trasferì a Roma, città nella quale poteva esprimere il suo enorme potenziale. Divenne inizialmente medico del segretario Duranti e successivamente di Giulio delle Rovere, che saranno entrambi nominati cardinali. Nel frattempo aderì ad un circolo, considerato eretico, retto dall'arcivescovo di Otranto Pietro Antonio di Capua. La vita del ristretto gruppo di pensatori fu devastata dall'arresto di uno di loro, Diego de Enzinas, nel 1545. Lo spagnolo prima di finire sul rogo, ca va sans dire, fece i nomi di tutti gli aderenti al circolo eretico. Girolamo fuggì rapidamente a Venezia, dove continuò ad esercitare la professione medica e a frequentare aderenti alla religione riformata. 
Secondo alcune fonti sembrerebbe che ricoprì un ruolo di rilievo nell'avventurosa fuga di due suore, appartenenti all'alta nobiltà veneziana, dal convento di Santa Lucia. Tra le importanti frequentazioni di questo periodo veneziano si ricordano Vincenzo Maggi, ex frate benedettino, Ortensio Landro, letterato, e Pietro Perna, editore. Nel 1553 nuovamente l'inquisizione s'interessa a Girolamo: nella primavera di quell'anno Vincenzo Maggi e la moglie furono denunciati riuscendo però a sottrarsi all'arresto fuggendo a Coira, in Svizzera. Purtroppo Donzellini fu oggetto di delazione da parte di un amico di vecchia data, quel Giordano Ziletti che frequentava la casa paterna, divenuto informatore dell'inquisizione veneziana. Scattò immediatamente la perquisizione a casa del medico: furono rinvenuto libri di matrice luterana e una compromettente corrispondenza. Girolamo, insieme ai coniugi Maggi, fuggì da Venezia. I tre furono condannati in contumacia poco prima del Natale del 1553. A partire dagli inizi del 1554 le notizie riportano un uomo in fuga: nel 1554 sostò a Ferrara alla corte della duchessa Renata, poi si trasferì prima a Padova e successivamente a Germania, nella città di Tubinga. Alla fine del breve soggiorno in terra germanica, si trasferì a Basilea dove incontrò l'amico di vecchia data Perna. Nella città elvetica cercò appoggi influenti che gli permettessero di rientrare in territorio italico senza pericoli. 
Girolamo Donzellini pensò d'essere riuscito nell'intento quando l'arciduca, e prossimo imperatore, Ferdinando d'Asburgo si prodigò per il suo ritorno contattando, nel 1555, prima il nunzio apostolico di Venezia, Zaccaria Dolfin, e successivamente il Doge in persona, all'epoca Lorenzo Priuli. Quasi 5 anni dopo, nell'estate del 1560, Girolamo otteneva garanzie di poter tornare in laguna. Il 12 novembre si presentò spontaneamente di fronte all'inquisizione veneziana per chiarire la propria posizione. Durante lo svolgimento del processo Donzellini asserì che frequentando molte persone non poteva conoscere le idee religiose di tutti coloro con cui entrava in contatto, che per lavoro doveva leggere una grande quantità di libri ed infine che alcune idee eretiche gli erano state trasmesse dal fratello Cornelio, deceduto alcuni anni prima. Concluse affermando la propria buona fede e l'ortodossia delle idee in materia religiosa, riscontrabili dal suo ritorno a Venezia per sottomettersi spontaneamente al volere dell'Inquisizione. La sentenza giunse il 4 febbraio del 1561. Il Donzellini, dopo regolare abiura, fu condannato ad un anno di reclusione nel convento dei Santi Giovanni e Paolo. Grazie alle amicizie influenti riuscì ad ottenere diversi permessi per curare i propri affari. Nel dicembre dello stesso anno era libero. Girolamo decise di trasferirsi a Verona, dove si sposò e continuò la professione medica. Nel 1574 l'inquisizione tornò a bussare alla sua porta. Fini sotto processo a Verona, ma fu prontamente trasferito a Venezia. Nella città che si affaccia sulla laguna fu duramente torturato e confessò che l'abiura del 1561 non era stata completamente sincera. Con la voce rotta dalla fatica e dal dolore del rigoroso esame ammise d'aver seguito le idee luterane sin dalla gioventù ma che abbandonò la chiesa riformata con il ritorno a Venezia del 1560. Urlò d'essere ritornato all'ortodossia cattolica. Il 9 giugno del 1575 l'inquisizione decise per una seconda abiura con la conseguente condanna al carcere a vita. La fortuna del medico fu la sfortuna di molti. Nel 1576, pochi mesi dopo l'ingresso nelle carceri veneziane, giunse in Italia un'ondata di peste. Girolamo, nella sua qualità di medico, fu temporaneamente scarcerato affinché si adoperasse contro l'epidemia. Le amicizie influenti e la sua azione a favore degli ammalati li valsero la liberazione, giunta direttamente da Roma il 19 aprile 1577. Nella casa di Venezia gli fu affidato, perché lo curasse e lo custodisse, un letterato di Ferrara, Nascimbene Nascimbeni, che aveva condiviso con Donzellini la cella nel carcere di San Giovanni in Bragora. Le colpe del Nascimbeni? Essere un seguace dell'eretico Giorgio Siculo. Esattamente un anno dopo l'affido a Girolamo, Nascimbeni fugge facendo perdere le proprie tracce. Donzellini fu accusato di complicità e negligenza e condannato ad una multa e gli fu proibito l'esercizio dell'attività medica. Dopo questo ennesimo scontro con l'Inquisizione veneziana di lui non si trovano notizie sino al 1587, anno in cui fu nuovamente catturato e sottoposto a processo per il fatto d'aver dichiarato pubblicamente di leggere libri luterani. A causa dei suoi precedenti non poté evitare la condanna a morte tramite affogamento, che avvenne all'inizio della primavera del 1587. 


Fabio Casalini





Bibliografia
Archivio di Stato di Venezia, Sant'Uffizio, Apologia, b. 39.
Frederic C. Church, I riformatori italiani, (1932), 2 voll., Milano, Il Saggiatore, 1967.
Enrico Alberto Rivoire, Eresia e Riforma a Brescia, in «Bollettino della Società di studi valdesi», CV, 1959.
Enrico Alberto Rivoire, Eresia e Riforma a Brescia, in «Bollettino della Società di studi valdesi», CVI, 1959.
Aldo Stella, Dall'anabattismo al socinianesimo nel Cinquecento veneto, Padova, Liviana, 1967.
Carlo Ginzburg, I costituti di don Pietro Manelfi, Firenze-Chicago, Northern Illinois University Press, 1970.

FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.

Giulio Cesare e le invenzioni sui sacrifici umani dei Celti

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Il sacrificio umano rappresenta il momento più cruento della religiosità dell'uomo, accompagnandone il cammino nel corso della storia. L'omicidio di un essere umano rappresentava un'offerta alla divinità, come parte di un più complesso rito.
Nelle culture antiche il sacrificio di un uomo aveva uno doppio scopo, da una parte propiziare i favori di un dio e dall'altra placare le ire di una divinità. In entrambi i casi il favore era rivolto alle popolazioni che quell'omicidio perpetravano. Con il trascorrere del tempo il ricorso a queste pratiche diminuì sensibilmente all'interno del continente europeo rimanendo in vigore sino alle soglie, in diversi casi anche oltre, della colonizzazione da parte degli abitanti del vecchio continente di quelle zone ove il sacrifico assumeva una ritualità precisa. I motivi che spingevano queste popolazioni ad offrire uomini, donne o bambini alla divinità possiamo sempre farle rientrare nelle casistiche dell'assicurarsi un favore o di placare l'ira della divinità cui il sacrificio era rivolto. Nell'ultimo periodo, grazie ai ritrovamenti archeologici dei bimbi sacrificati sulle Ande, abbiamo potuto confermare le scritture dei primi evangelizzatori cristiani che si spinsero sino agli estremi lembi dell'America meridionale che, diffusamente, diedero notizia di tali pratiche. Un caso che ancora oggi è irrisolto riguarda questa ritualità presso le popolazioni celtiche. Presso i Celti il sacrificio umano si è conservato più a lungo, rivestendo un aspetto di espiazione e purificazione. In un'ottica leggermente diversa possiamo situare la decapitazione e la mutilazione dei nemici, accompagnate da offerte rituali, pratica comune presso queste popolazioni. 
Per comprendere quanto di vero ci sia nella ritualità celtica dobbiamo considerare le testimonianze degli autori classici, che sembrano attingere da un'unica fonte. Le prove archeologiche che possono confermare la pratica del sacrificio umano presso queste popolazioni sono insignificanti e, con molta probabilità, se tale rituale veniva utilizzato lo era solo in casi eccezionali. I Celti furono un insieme di popoli indoeuropei che, nel periodo di massimo splendore ovvero intorno al IV-III secolo precedenti la nascita di Cristo, erano estesi in un'ampia area dell'Europa, dalle isole britanniche sino al bacino del Danubio, oltre ad alcuni insediamenti più a meridione. Le varie popolazioni erano unite dalle stesse origini etniche e culturali, dalla condivisione di uno stesso fondo linguistico e da una medesima visione religiosa. I Celti rimasero sempre politicamente frazionati: tra i vari gruppi si ricordano i Britanni, i Galli, i Pannoni, I Celtiberi e i Galati. I Celti furono portatori di una originale e articolata cultura. Queste popolazioni furono soggette, a partire da circa il II secolo avanti Cristo, ad una crescente pressione di altri due gruppi indoeuropei: i Germani a Nord ed i Romani a Sud. 
Per quanto concerne i, presunti, sacrifici umani perpetrati dai Celti, Giulio Cesare ha lasciato testimonianza nel De Bello Gallico descrivendo il sacrificio realizzato mediante il fuoco che prevedeva il rogo di una enorme figura di vimini riempita di uomini. La principale testimonianza sulle credenze e gli usi religiosi dei Celti, pur essendo riferita specificamente ai Galli, attesta verosimilmente una situazione in larga parte comune all'intero gruppo celtico all'epoca dei fatti narrati, ovvero intorno al I secolo avanti Cristo. La pratica del sacrificio umano era stata citata in precedenza da Sopatero di Paphos, Cipro, contemporaneo di Alessandro il Grande, quando scrisse che i Celti di Galatia, Asia Minore, erano soliti sacrificare i propri prigionieri in onore agli dei bruciandoli al termine di una battaglia vinta. The Wicker Man, traducibile in uomo di vimini, era una grande statua in vimini utilizzata dagli antichi druidi, sacerdoti del paganesimo celtico, per il sacrificio. 
Dato che esistono poche prove archeologiche di sacrifici umani possiamo avanzare l'ipotesi che greci e romani diffondessero informazioni negative per creare il disprezzo verso le popolazioni celtiche? Non esistono prove delle pratiche descritte da Giulio Cesare e le storie di sacrifici umani sembrano derivare da una unica fonte, Poseidonio, le cui affermazioni non sono supportate da prove. Altri scrittori romani dell'epoca, da Cicerone a Svetonio, da Lucano a Tacito per chiudere con Plinio il Vecchio, descrivevano il sacrifico umano tra i Celti. Solo Strabone e Giulio Cesare menzionano l'uomo di vimini come uno dei diversi modi in cui i Druidi della Gallia compivano sacrifici. Cesare riferisce che alcuni Galli costruirono The Wicker Man con bastoni e misero uomini vivi all'interno, poi incendiarono il tutto per rendere omaggio agli dei. Cesare scrive che sebbene i druidi utilizzassero uomini ritenuti colpevoli di crimini a volte usavano schiavi quando non erano in grado di trovare delinquenti. 
Tra le scarse rilevanze archeologiche relative ai sacrifici umani dei Celti non possiamo scordarci il ritrovamento nell'estate del 1984 dell'Uomo di Lindow, classica mummia di palude risalente all'età del ferro rinvenuta in una torbiera nella contea inglese di Cheshire. La datazione al radio-carbonio indica come data della morte un intervallo di tempo compreso tra il II secolo avanti Cristo e l'anno 119. La mummia appartiene ad un uomo di circa 25 anni dal peso di circa 60 kg. L'uomo sembra aver subito un rituale di triplice morte: la vittima subì tre colpi alla testa, il taglio della gola e la sepoltura a faccia in giù nella torbiera. Queste rilevanze sembrerebbero indicare un preciso rituale poiché la religione di queste popolazioni si basava su un concetto di triplicità, e nel caso dell'uomo di Lindow rappresentato dalla triplice esecuzione. 
Gli studiosi ancora oggi non sono d'accordo se si tratti di un sacrificio umano o di una esecuzione, o di entrambe le cose. La dottoressa Anne Ross suggerì che l'uomo di Lindow fosse un druido, come si intuirebbe dalle scarse tracce di usura da lavoro sul corpo. La stessa scienziata avanzò l'ipotesi che l'uomo fu sacrificato durante la festività di Beltane, dopo un pasto simbolico di pane e grano bruciato. Il parere dello scrittore Grisby è nettamente diverso poiché sostiene che la vittima fu sacrificata interpretando il ruolo di divinità morente, poi rinascente, come l'Osiride egizio. La tesi di Grisby pare supportata dal fatto che l'uomo fu decorato con una sostanza vegetale di colore verde. Provando a superare le ipotesi degli scienziati per quanto concerne l'uomo di Lindow, Enrico Campanile, nel libro Le religioni antiche, afferma che “in quasi tutti gli autori greci e latini è fortissimo il pregiudizio poiché essi pongono in rilievo tutto ciò che vi appariva barbarico e incivile”. Lo stesso studioso afferma ancora che “l'opinione pubblica vedeva nei Celti l'espressione di tutto ciò che era negativo, crudele, barbarico, incivile e anche sciocco, irrazionale, bestiale, e spesso sostanziava tali giudizi con riferimento a specifici usi valutati, però, in maniera del tutto astratta e avulsi dal loro contesto culturale o, addirittura, interpretati in maniera arbitraria e scorretta”
La domanda pare scontata: fu il solo Gaio Giulio Cesare ad esagerare, se non addirittura inventare, eventi riguardanti la ritualità celtica con particolare riferimento al sacrificio umano? Assolutamente no, anche Cicerone ricordò il sacrificio umano di ladri e assassini, in mancanza dei quali si sacrificavano persone comuni, in toni denigratori. 
Solo i romani producevano esagerazioni o menzogne sulle popolazioni celtiche? No, poiché i greci non furono da meno. Lo scrittore Diodoro riferì di episodi di sacrifici umani in questi termini: “quando debbono divinare su questioni importanti, praticano una strana e incredibile usanza, uccidendo un uomo con una coltellata nella regione sopra il diaframma. Predicono il futuro osservando le convulsioni degli arti e il modo in cui si sparge il sangue”. La denigrazione del nemico esiste da sempre e Gaio Giulio Cesare creò, probabilmente, notizie infondate per giustificare le guerre contro i Galli. Pare strano agli occhi di un moderno essere umano tale profondo disprezzo per determinate pratiche, purché inventate, da parte di un popolo che delirava per i combattimenti tra gladiatori o per la morte di esseri umani dati in basto alle belve feroci. Parrebbe quasi che si esagerasse la brutale ritualità del nemico, in questo caso i Celti, per giustificare o sminuire la propria.

Fabio Casalini


Bibliografia
Ries Julien, L'uomo e il sacro nella storia dell'umanità, Jaca Book, 2007
Taraglio Riccardo, Il vischio e la quercia. Spiritualità celtica nell'Europa druidica, L'età dell'acquario, 2001
Grigsby John, Warriors of the Wasteland. Watkins Publishing, 2005 
C. Renfrew, P. Bahn, L'essenziale di archeologia, Zanichelli, Bologna 2009 
Giordano Berti, Miti dei Celti d'Irlanda, Lo Scarabeo, Torino, 1994 
Melita Cataldi, Antiche storie e fiabe irlandesi, Torino 1985. 
Giovanni Giusti, Antiche liriche irlandesi, Salerno Editrice, Roma 1991. 
Augusta Gregory, Dei e guerrieri d'Irlanda, Studio Tesi, Milano 1991. 
Françoise Le Roux e Christian-J. Guyonvarc'h, I Druidi, ECIG, Genova, 1990 
Campanile Enrico, Le religioni antiche, Laterza edizioni, 1994

FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.

    Il sangue innocente del vile eccidio di Marzabotto

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    Nel mese di marzo 2016 abbiamo richiesto all’archivio della Camera dei Deputati della Repubblica Italiana materiale inerente all’armadio della vergogna. Ritengo che tutto questo debba essere comunicato al pubblico nella forma di divulgazione più semplice possibile. L’espressione, relativa all’armadio della vergogna, fu ideata dal giornalista Franco Giustolisi nel corso di un’inchiesta per il settimanale L’Espresso.
    In questi articoli il giornalista denunciò l’esistenza di un armadio, rinvenuto nel 1994, in un locale di Palazzo Cesi-Gaddi a Roma. I locali del palazzo in Via Acquasparta erano la sede di vari organi di giustizia militare. All’interno dell’armadio furono rinvenuti 695 fascicoli d’inchiesta, ed un registro che conteneva 2274 notizie di reato relative a crimini di guerra commessi sul territorio italiano durante l’occupazione nazista e fascista. Partiamo analizzando i dettagli del ritrovamento: nel 1994 il procuratore militare Antonino Intelisano ritrovò un armadio con le ante rivolte verso il muro. All’interno dell’armadio, situato nei locali di Palazzo Cesi-Gaddi a Roma, furono rinvenuti i documenti sopra descritti insieme con un promemoria del comando dei servizi segreti britannici, intitolato Atrocità in Italia, con il timbro top-secret. Questi documenti sono stati celati al pubblico ed al popolo italiano per oltre 50 anni. Posso immaginare lo sgomento del procuratore nel momento in cui ha aperto il primo fascicolo. Nell'archivio sono stati rinvenuti documenti inerenti diversi eccidi e stragi perpetrati ai danni delle popolazioni inermi. 
    Tra queste anche l'incredibile e dolorosa ferita di Marzabotto, conosciuta come l'eccidio di Monte Sole, che fu un insieme di stragi compiute dalle truppe naziste tra il 29 settembre e il 5 ottobre del 1944, nel territorio dei comuni di Marzabotto, Grizzana Morandi e Monzuno, in provincia di Bologna. Fu un crimine contro l'umanità e uno dei più gravi crimini di guerra compiuti contro la popolazione civile perpetrati dalle SS in Europa durante la seconda guerra mondiale. La triste conta delle vittime va da un minimo di 1000 ad un massimo di 3200 sebbene confrontando i dati dell'anagrafe si raggiunge quella di 1830. Lo storico Renato Giorgi scrisse: “molti si erano rifugiati in chiesa a prendere conforto dalle parole del parroco, don Ubaldo Marchioni, che recitava il rosario sull'altare. In penombra la massa inginocchiata bisbiglia le parole della fede e della speranza. Irrompono i nazisti, una raffica si alza sopra le grida della gente. Don Ubaldo cade sulla predella, colpito a morte. Tutti gli altri vengono buttati fuori dalla chiesa e ammassati nel cimitero. Solo una povera donna non può uscire, perché paralizzata alle gambe: Vittoria Nanni. Farà compagnia a don Ubaldo, massacrata nel mezzo della navata centrale, mentre disperata urla e annaspa invano con le braccia in aria, inchiodata alla seggiola. Enrica Ansaloni e Giovanni Bettini riescono a rifugiarsi nel campanile, e forse ancora sperano: li trovano e gli sparano. Gli altri, spinti nell'angusto cimitero di montagna, giacciono stipati e accavallati contro le lapidi, le croci di legno e le tombe”
    Gli tirarono addosso le bombe a mano, finendoli con le mitraglie. Tre i sopravvissuti, due bambini e una donna, Antonietta Benni di professione maestra d'asilo. Anche a Marzabotto alcune SS parlavano italiano, erano italiani. Dobbiamo fare un balzo indietro nel tempo per ricostruire i terribili eventi. Dopo l'eccidio di Sant'Anna di Stazzema, del 12 agosto 1944, iniziò la Marcia della Morte che, attraversando la Versilia e la Lunigiana, giunse nel bolognese. Lo scopo era quello di fare terra bruciata intorno ai partigiani nelle retrovie della Linea Gotica, sterminando le popolazioni che li appoggiavano. Intorno a Monte Sole agiva la brigata Stella Rossa che, sfruttando la posizione elevata, portava attacchi alle ferrovie e alle strade che rifornivano il fronte. I primi attacchi nazisti alla brigata risalgono al maggio del 1944, sempre respinti con successo. Il Federmaresciallo Albert Kesselring decise di sterminare le popolazioni che appoggiavano la brigata e radere al suolo i paesi nei quali vivevano. L'intento era quello di debellare la resistenza dei partigiani. A capo dell'operazione fu nominato il maggiore Walter Reder, già noto per essere uno dei possibili assassini del cancelliere austriaco Engelbert Dollfuss. 
    La Mattina del 29 settembre quattro reparti delle truppe naziste, guidati dai repubblichini, accerchiarono e rastrellarono una casta area compresa tra le valli del Setta e del Reno. Ricorda lo scrittore bolognese Federico Zardi: “quindi dalle frazioni di Pànico, di Vado, di Quercia, di Pioppe di Salvaro e della periferia del capoluogo le truppe si mossero all'assalto delle abitazioni, cascine, scuole”. Distrussero tutto, ammazzando tutti. Nella frazione di Casaglia di Monte Sole la popolazione si rifugiò nella chiesa di don Ubaldo. Furono uccisi tutti: 197 vittime di 29 famiglie, 52 delle quali furono bimbi, anche in tenerissima età. Fu l'inizio della strage, l'inizio di un crimine di guerra feroce e incredibile perpetrato dalle truppe naziste. La violenza fu inusitata, tanto che a fine primavera, sotto la neve, fu ritrovato il corpo decapitato di un parroco, don Giovanni Fornasini. Tra il 29 settembre e il 5 ottobre del 1944 il numero delle vittime civili era spaventoso, ben oltre le 100o persone. Le voci immediatamente iniziarono a circolare ma furono negate con fermezza sia dalle autorità fasciste che dalla stampa locale, il Resto del Carlino che il giorno 11 ottobre del 1944 scriveva:«Le solite voci incontrollate, prodotto tipico di galoppanti fantasie in tempo di guerra, assicuravano fino a ieri che nel corso di una operazione di polizia contro una banda di fuorilegge, ben centocinquanta fra donne, vecchi e bambini erano stati fucilati da truppe germaniche di rastrellamento nel comune di Marzabotto... Siamo dunque di fronte a una nuova manovra dei soliti incoscienti destinata a cadere nel ridicolo perché chiunque avesse voluto interpellare un qualsiasi onesto abitante di Marzabotto o, quanto meno, qualche persona reduce da quei luoghi, avrebbe appreso l'autentica versione dei fatti». 
    Il testo dell'articolo del il Resto del Carlino è possibile trovarlo nel libro del collettivo di scrittori bolognesi Wu Ming intitolato 54, edito da Einaudi nel 2002. Secondo le autorità fasciste e Il Resto del Carlino, le voci era diffamatorie. Solo dopo la Liberazione, lentamente, iniziò a delinearsi l'entità del vile massacro. Tra i massacratori vi erano pure italiani. Uno dei vili assassini, Albert Meier, ebbe il coraggio di dichiarare: “hanno avuto quel che si meritavano, abbiamo punito quelli che erano bacilli di sinistra”. Albert Meier è uno dei vili assassini cui l'armadio della vergogna assicurò l'impunità. Dei tre assassini individuati fino al 2003, due erano ancora in vita a quella data: Albert Piepenschneider e Franz Stockinger. L'operazione di Marzabotto fu una carneficina pianificata nei dettagli, per la quale Kesselring si complimentò con i suoi sottoposti, enfatizzando particolarmente l'azione del Maggiore Reder. La tesi della pianificazione è ampiamente descritta da Franco Giustolisi all'interno del libro L'armadio della vergogna. A dimostrazione di quanto detto riporto le testimonianze di due disertori delle SS presi prigionieri dalle truppe alleate. Il primo fu Julien Legoll, 20 anni nel 1944: “Partimmo alle sei del mattino del 29 settembre, il comandante della quinta compagnia tenente Segebrecht ci dette l'ordine di sparare indiscriminatamente su tutte le persone nelle vicinanze qualora fossimo attaccati, mentre eravamo in marcia. Gli ordini venivano da Reder. La sera prima per una riunione con tutti gli ufficiali era arrivato il colonnello Looss. A fianco del fiume Sette ci fu il primo scontro a fuoco. Portammo fuori da tre case nei dintorni trenta civili, c'erano un paio di vecchi, donne e bambini. Il tenente ci ordinò di allinearli a un muro e di mitragliarli. Cosi facemmo. Dopo una marcia di circa mezz'ora incrociammo tre donne e altrettanti bambini, il sergente Wolf disse di farli fuori. Gli sparammo... Il giorno dopo arrivammo a San Martino, a ridosso del Monte Sole. C'era una chiesa con tre edifici. Wolf da ordine di sparare, si odono le grida di una donna, il caporal maggiore Knappe getta dentro una bomba. Silenzio, la vecchia è morta. Il sergente ordina di distruggere tutto, anche la chiesa. A me ordinò di buttare una bomba sull'altare e dare fuoco alla chiesa. Gli dissi che ero cattolico, fu incaricato un altro. Arrivarono tre SS dalla seconda e terza compagnia, scortano un gruppo di civili: 30-40 donne e bambini. Il maresciallo Boehler dà il solito ordine. Pieltner mormora una obiezione, Boehler cava la pistola e gliela punta alla testa. Le obiezioni rientrano, si piazza la mitragliatrice e via. Al ritorno ci riportarono le congratulazioni del maggiore Reder”.
    La partecipazione fascista alla strage era stata riportata dai pochi sopravvissuti e già nel 1946 la corte d'Assise di Brescia giudicò Lorenzo Mingardi e Giovanni Quadri, due repubblichini, per collaborazione, omicidio, incendio e devastazione. Mingardi ebbe la pena di morte poi trasformata in ergastolo. All'epoca dei fatti ricopriva il ruolo di commissario prefettizio e di reggente del Fascio di Marzabotto. Quadri fu condannato a 30 anni, poi ridotti a dieci anni e otto mesi.
    Entrambi furono liberati per amnistia.
    Al termine della seconda guerra mondiale, Walter Reder fu processato e nel 1951 condannato all'ergastolo. Il 14 luglio 1980 il tribunale militare di Bari gli concesse la libertà condizionale, aggiungendo però un periodo di trattenimento in carcere di 5 anni,"salva la possibilità per il governo di adottare provvedimenti in favore del prigioniero".
    Cosi avvenne poiché Bettino Craxi, presidente del consiglio, decise di liberare anticipatamente Reder. A suo favore si erano mossi il governo austriaco e quello tedesco. 
    Morì nel 1991.
    Nel 2006 ha avuto inizio il processo contro 17 imputati, tutti ufficiali e sottufficiali delle SS. L'istruzione dei procedimenti ha avuto luogo grazie alla scoperta dell'armadio della vergogna. 
    Il 13 gennaio del 2007 il Tribunale Militare di La Spezia ha condannato all'ergastolo dieci imputati per l'eccidio di Monte Sole.
    A noi non resta che concludere con le parole di Salvatore Quasimodo:“questa è memoria di sangue, di fuoco, di martirio, del più vile sterminio di popolo, voluto dai nazisti di von Kesselring, e dai soldati di ventura, dell'ultima servitù di Salò, per ritorcere azioni di guerra partigiana”.
    Le parole di Quasimodo sono l'epigrafe alla base del faro monumentale che sorge sulla collina di Miana, sovrastante Marzabotto.


    Fabio Casalini


    Bibliografia
    Luca Baldissara e Paolo Pezzino, Il Massacro. Guerra ai civili a Monte Sole, Il Mulino, 2009
    Franco Fontana, La staffetta. Le guerre non finiscono mai, Oltre i portici, 2007
    Carlo Gentile, Le SS di Sant'Anna di Stazzema: azioni, motivazioni e profilo di una unità nazista, Carocci, 2003
    Luciano Gherardi, Le querce di Monte Sole, vita e morte delle comunità di martiri fra Setta e Reno, Il Mulino, 1986
    Franco Giustolisi, L'armadio della vergogna, Nutrimenti, 2004
    Renato Giorgi, Marzabotto parla, Marsilio editore, 1999
    Dario Zanini, Marzabotto e dintorni, Ponte Nuovo, 1996
    Wu Ming, 54, Il resto del Carlino, 11 ottobre 1944, Einaudi, 2002


    FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
    Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.


    Lo zio dei bambini e l'angelo della morte

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    C’era una volta un uomo dagli occhi piccoli e pungenti che si faceva chiamare “zio” dai bambini che ogni giorno incontrava per lavoro. Era un medico,  per alcuni bravo, per altri no. Sicuramente non era di quelli che curava le ferite e metteva un cerotto colorato, dopo aver dispensato una dolce carezza.  
    Gli piaceva sperimentare, guardare i propri pazienti nel loro letto di sofferenza, prendere nota delle loro reazioni. Era una persona sorridente, dall’aria sempre serena. 
    Entrava al mattino nelle camerate, quelle del blocco n. 10, con il camice perfetto, bianco limpido, impeccabile, accompagnato dalle infermiere che profumavano di pulito. 
    Entrava  e il respiro dei suoi pazienti si fermava. Gli occhi si velavano di lacrime, le mani cominciavano a tremare.  Quell’uomo  faceva paura perché lui era l’angelo della morte di Auschwitz.
    Josef Rudolf Mengele nacque a Günzburg il 16 marzo 1911. Si laureò prima in antropologia a Monaco, poi in medicina a Francoforte. Nel 1940 si arruolò volontariamente nell’esercito. Nel 1943, dopo una breve ed onorevole carriera militare, divenuto capitano per  meriti militari, cominciò a prestare servizio nel campo di concentramento di Auschwitz, come sostituto del medico che si era ammalato. Vi rimase fino alla fine del conflitto mondiale.
    In quel luogo svolgeva l’importante compito di selezione dei prigionieri in arrivo da tutta Europa: decideva insieme ad uno staff composto da medici e infermieri, chi era adatto al lavoro e chi doveva andare direttamente alla camere a gas. Anche nei giorni di riposo, amava essere presente, scegliere di persona gli elementi da destinare al blocco n. 10, di cui si occupava di persona.
    Durante gli anni ad Auschwitz, Mengele si dedicò con passione  e dedizione alla sperimentazione genetica, con l’intento di individuare quali fossero i tratti dominanti che contraddistinguevano la razza ariana, perfetta  e dominante, dalle altre, così da preservarne la purezza e la perpetuazione della razza. 
    Era convinto che lo studio dei gemelli gli avrebbe fornito la possibilità di scoprire i segreti dell'ereditarietà. Individuarli significava per lui garantire “il futuro e l'eternità della razza ariana".
    Durante la sua attività ne selezionò circa 3000 che andarono a popolare il blocco 10 del campo, il suo personale “negozio di cavie”, da cui ogni giorno sceglieva con malcelato sadismo i destinati agli esperimenti. Di questi  ne sopravvissero  circa 200.
    La sua lucida follia era articolata e ben organizzata. Per le sue cavie aveva creato un Kindergarten, un asilo diurno in cui osservava il comportamento dei bambini, in cui giocava con loro per qualche minuto, distribuendo caramelle, zucchero e carezze.  Da lì selezionò i primi gemelli destinati agli esperimenti. 
    Tra i suoi prescelti c’era un folto gruppo di origine Rom, in totale circa 23.000 tra adulti, adolescenti e bambini, che lo chiamavano “Zio”. Osservando i  più piccoli si accorse che si ammalavano di una malattia chiamata Noma, una sorta di cancrena che aggrediva il viso. Ipotizzò immediatamente l’origine genetica del male. In realtà era causata dell’ inadeguata alimentazione e dalla condizioni igieniche neppure vagamente sufficienti. Anziché curare i malati, attendeva il progredire della malattia, che consumava lentamente il fisico dei piccoli, i quali, con magnanima benevolenza, prima della morte erano inviati dal dottore alle camere a gas. Tra il maggio e l’agosto del 1944 il campo Rom fu completamente liquidato. Nessuno sopravvisse.
    Da quel giorno Mengele  si  concentrò esclusivamente sui bambini di origine ebrea, soprattutto gemelli. 
    Auschwitz-Birkenau era il suo laboratorio: lavorava anche nei giorni di riposo. La sua ricerca era senza sosta, sempre con il sorriso sulle labbra e una manciata di caramelle in tasca. Oltre ai gemelli era particolarmente interessato ai soggetti affetti da nanismo o gigantismo o da qualsiasi tipo di malattia ereditaria che gli potesse permettere di tracciare un’origine genetica razziale.
    I bambini da lui selezionati erano portati all’interno del blocco n. 10 per essere preparati per il soggiorno. Dopo una doccia  fredda, i piccoli erano rasati  e tatuati con un numero dalla speciale sequenza. Dovevano indossare l’uniforme da campo e poi erano sottoposti ad una prima visita, in modo che Mengele potesse accertarsi del loro stato di salute. Ogni giorno ricevevano una razione di cibo adeguata, in modo che restassero in forze. Potevano anche giocare all’aperto, dopo l’appello del mattino. Erano esonerati dal lavoro. Sul muro del blocco aveva disegnato una linea all’altezza di 150 cm circa. Tutti coloro che non raggiungevano tale misura erano destinati alla camera a gas.
    La loro anatomia  veniva catalogata e registrata con precisone maniacale. Ogni giorno erano sottoposti ad esperimenti: esami del sangue, iniezioni  di farmaci di vario genere, che spesso provocavano infezioni gravi e dolorose, interventi chirurgici senza anestesia per rimozioni di organi o amputazioni, iniezioni negli occhi per contrastare lo scolorimento dell’iride con il blu di metilene, con conseguente cecità del paziente. Questa era la routine dei bambini di Mengele. Se uno dei due gemelli moriva, l’altro veniva ucciso con una iniezione di fenolo al cuore. Poi erano sottoposti entrambi necroscopia per il confronto degli effetti della malattia. Il patologo era ovviamente un prigioniero ebreo costretto ad eseguire l’autopsia sotto gli sguardi eccitati dei presenti che speravano di trovare finalmente la chiave per avere la perfetta razza.  
    Alcuni organi, occhi, campioni di sangue e tessuti venivano inviati a Verschuer all'Istituto di ricerca biologico-razziale di Berlino, per essere analizzati, con “lo scopo di riuscire a trovare una differenza sostanziale tra il sangue degli ariani e quello dei non-ariani”. 700 furono i bambini italiani che passarono per Auschwitz. Di questi solo 25 tornarono a casa, lasciando in quel luogo la loro anima.
    La sua calma apparente lasciava spesso spazio ad una personalità aggressiva  ed iraconda, capace di uccidere i prigionieri a calci, con colpi di pistola o con iniezioni letali al fenolo.
    Durante una grave epidemia di tifo, decise in un solo giorno l’esecuzione di 750 deportate.
    Morte, dolore, sofferenza, disumanizzazione, i prigionieri di Auschwitz, come quelli degli altri campi di sterminio,  si consumavano nell’attesa che il mondo venisse in loro aiuto. 
    Nel novembre del 1944 l’Armata Rossa avanzava inesorabilmente.  Himmler, ideatore della soluzione finale, decise, per cancellare le prove del genocidio, di far distruggere i forni crematori. Ma gli ordini non furono eseguiti alla lettera. Finalmente il 27 gennaio del 1945 le truppe sovietiche entrarono nel campo di Auschwitz. 7000 erano i prigionieri ancora vivi.  Da qui iniziò la fuga del dottor Josef Mengele, che durò fino al 1979. 
    Travestito da soldato semplice, riuscì a confondersi tra gli altri prigionieri tedeschi rastrellati, portando con se tutti i protocolli delle ricerche fatte sui gemelli.  Per identificare gli appartenenti alle SS, che dovevano essere immediatamente arrestati, gli alleati usarono un metodo molto semplice: sul braccio sinistro degli ufficiali era tatuato il loro gruppo sanguigno, utile in caso di ferimento durante la guerra. Chi aveva questo segno distintivo era fermato e incarcerato come criminale di guerra. Mengele non era tatuato. Da soldato semplice della Werchmart si nascose nei pressi di Weiden, al confine con la Cecoslovacchia, portando con se oltre ai fascicoli sottratti al campo, una scatola di bulbi oculari, come riportato dai suoi diari, ricordo degli esperimenti effettuati. 
    Nel giugno del 1945 fu arrestato fortunosamente dagli americani e portato in un campo di prigionia a Schauenstein, in Germania. I prigionieri tedeschi erano in totale 3.000.000. Non esistendo una lista nominativa di criminali di guerra, l’ordine tassativo era quello di trattenere solo i membri delle SS. Per alleggerire la pressione al campo, gli americani decisero di rilasciare 30.000 prigionieri la giorno. Così come era stato preso, Josef Mengele fu rilasciato. Da li cercò rifugio a  Rosenheim, in Baviera, dove iniziò a lavorare come bracciante agricolo con il nome di Fritz Holman. 
    Nel frattempo si svolgeva il processo di Norimberga, dove i colleghi e camerata del dottore, quelli catturati, erano chiamati a rispondere dei crimi commessi.  Le ricerche di Mengele iniziarono dal suo paese di origine, Gunzburg, dalla moglie Irene Schoenbein e dall’avvocato che da sempre gestiva gli interessi di famiglia, Hans Sadelmayr. Nonostante i controlli, Irene e suo marito si incontravano vicino alla fattoria dove lui lavorava. Si vedevano con regolarità, circa una volta al mese. Lei gli portava denaro, notizie e appena poteva il figlio di 2 anni, Rolf. 
    Nell’aprile del 1946 a Norimberga vennero presentate al mondo le prove dei folli esperimenti fatti da Mengele. Gli americani intensificarono le ricerche, interrogando nuovamente la famiglia. In accordo con la moglie, per depistare i suoi inseguitori, Mengele si finse morto: Irene indossò il vestito nero e andò in chiesa a piangere il marito, con il piccolo in braccio. Passarono 4 anni, in cui il dottore si sentiva sempre più inquieto. Decise allora di lasciare l’Europa e la famiglia. Con l’aiuto del fedele avvocato  Sadelmayr, si spostò a Innsbruck, in Austria, per poi passare al Brennero, con un treno regionale, e arrivare in Italia. Con l’aiuto di un complice, varcò il confine clandestinamente, utilizzando i vecchi sentieri battuti dai contrabbandieri. Con un nome falso rimase nascosto per 4 settimane all' hotel Goldenes Kreuz (Croce d' oro) di Sterzing, in italiano Vipiteno. Da qui si spostò fino a Genova, dove il 1 aprile 1949, con il certificato n. 100501 del Comitato internazionale della Croce Rossa, ricevette una nuova identità diventando per il mondo Helmut Gregor, nato a Termeno (Alto Adige), di nazionalità italiana, professione meccanico. Nell’estate dello stesso anno il neonato Helmut Gregor si imbarcò sulla nave Nordking verso il Sud America. Arrivò a Buenos Aires il 26 ottobre 1949. Il presidente Peron e la moglie Evita erano sospettati di simpatizzare per nazisti in fuga, sia per affinità ideologiche che per interessi economici.  Ad attenderlo al suo arrivo la potente e ricca comunità tedesca, che accolse il dottore con piacere, contribuendo a far perdere le sue tracce.
    Il nuovo dottor Mengele andò a vivere a Calle Arenales, quartiere abitato da molti tedeschi, dove si incontrò con un altro membro delle SS, Wilhelmus Antonius Sassen, che presentò il dottore ad altri camerata in esilio, tra cui Adolf Eichmann, ideatore e principale esecutore dello sterminio ebraico, e Hans-Ulrich Rudel, di cui Mengele diventò ben presto grande amico.
    La polizia argentina teneva sotto stretto controllo Mengele, ma non per i motivi che possiamo pensare. Il solo scopo era quello di estorcergli ulteriore denaro in cambio del silenzio in merito alla sua vera identità.
    Grazie all’appoggio economico della famiglia rimasta in Germania, Mengele divenne proprietario di una  ditta farmaceutica, la Fadro Pharma. La sua stabilità economica si consolidò ulteriormente, dandogli una posizione di grande rilievo nella comunità tedesca. Nonostante questo non si sentì mai al sicuro. Nel 1956 sua moglie Irene lo contattò con una lettera in cui gli chiedeva il divorzio. Mengele smise i panni di Helmut Gregor per indossare nuovamente i propri e firmare le carte inviate dalla Germania Federale all’ambasciata a Buenos Aires. Firmò con il suo vero nome, lasciando per la prima volta una traccia tangibile della sua esistenza. 
    Dopo pochi mesi Josef Mengele si risposò, per interesse, con la vedova di suo fratello minore, Marta. Partì in aereo come Helmut Gregor alla volta della Svizzera, e da lì in auto verso la Germania, per incontrare la nuova signora Mengele. Dopo pochi giorni rientrò in Argentina, dove venne raggiunto dalla moglie e dal figlio di lei, Carl. Iniziarono una vita normale, alla luce del sole, tanto che il nome Mengele era possibile trovarlo sull’elenco telefonico. Dopo 11 anni dalla sua fuga da Auschwitz non era ancora stato emesso un mandato di cattura nei suo confronti: l’angelo della morte viveva libero e spensierato sotto il sole argentino.
    Ma non tutti avevano dimenticato Mengele. Un uomo era determinato a trovarlo. Sopravvissuto agli orrori di Auschwitz, Hermann Langbein cercò per anni una traccia per scovare il dottore. Finalmente scoprì i documenti del divorzio con la sua firma e l’indirizzo in Argentina. Riuscì ad ottenere un mandato di cattura con estradizione a carico di Josef Mengele dalla procura tedesca. Nel 1959 il Mossad, servizio segreto dello Stato di Israele, venne a conoscenza delle stesse informazioni. Nel 1960 un gruppo di agenti scelti di Israele riuscì a catturare Adolf Eichmann, in un covo segrete di Buenos Aires. Interrogato a lungo su Mengele, Eichmann rifiutò ogni forma di collaborazione, dichiarando: “non son o disposto a tradire un camerata, piuttosto sono disposto a morire.”
    Ma il dottor Mengele non era più da tempo in Argentina, qualcuno lo aveva informato del mandato di cattura con estradizione spiccato dalle autorità tedesche. Si era rifugiato in Paraguay, stato senza accordi di estradizione con la Germania, che a quel tempo era governato con fermezza  da Alfredo Stroessner, dittatore fascista di origine tedesca. Mengele non si sentiva mai al sicuro, con il Mossad sulle sue tracce si sentiva braccato. Iniziò a manifestare un disturbo paranoide. Ripartì presto per il Brasile, dove ad attenderlo vi era un altro camerata, Wolfgang Gerhard. Il Mossad decise a questo punto di creare un gruppo speciale da mandare il Sud America, con il compito di scovare il Josef Mengele. Gli agenti seguirono ogni indizio possibile, fino ad arrivare al suo migliore amico, William Sassen, il quale non esitò a tradirlo per denaro. Mengele venne rintracciato in Brasile, ormai la caccia sembrava conclusa ma improvvisamente Israele richiamò tutti gli agenti del Mossad in patria, mandando all’aria mesi di ricerche.  Il fortunato dottore riuscì a raggiungere una sperduta colonia  a 300 km da San Paolo, Europa, dove una coppia di ungheresi lo assunse come amministratore della loro azienda agricola, dove si costruì attorno una vera e propria fortezza, difesa da cani e filo spinato.
    Nel 1963 il dossier Mengele fu archiviato definitivamente dal Mossad. Anche in Germania nessuno lo cercava più, per non intaccare i delicati rapporti diplomatici che si stavano instaurando con le nazioni sud americane.
    Nel 1969, Mengele e i suoi datori di lavoro, gli Stammer, si trasferirono a Cajeferas, un quartiere alla periferia di San Paolo.  Paranoia e frustrazione per non aver potuto continuare i propri esperimenti “scientifici”, si impossessarono della mente dell’ormai fragile ed impaurito dottor Mengele. Il fantasma dell’uomo che girava per il blocco n. 10 seminando terrore e morte, intrecciò una relazione amorosa clandestina con Gitta Stammer, a cui dedicò lunghe poesie d’amore. Nello stesso periodo fece amicizia con un altro ex camerata, Wolfran Bossert. Nacque una profonda amicizia, tanto importante da far si che Mengele affidasse a lui e alla moglie la gestione dei propri affari in Germania.
    Nel 1971 Wolfgang Gerard decise di rientrare in Austria, suo paese di origine, lasciando il proprio passaporto e quindi la propria identità all’amico Josef Mengele. Il nuovo Gerard si trasferì ad Alvarenga, in un bungalow dal misero aspetto, concedendosi il solo lusso di due cameriere che lo assistevano in tutto. Passò anni in completa solitudine, con la sola vicinanza della moglie, fino all’ottobre 1977 quando ricevette la visita del figlio Rolf. Un incontro forse chiarificatore in merito al passato del dottore. 
    Il 7 febbraio del 1979, durante una nuotata sulla spiaggia di Bertioga in Brasile, Josef Mengele, alias Wolfgang Gerard, morì di infarto.  Fu sepolto nel cimitero di Nostra Signora del Rosario, a Embu das Artes, con il nome di Wolfgang Gerhard.  34 anni in libertà, nessun processo, nessuna condanna. Poteva finire così la storia del Dottor Morte, senza che nessuno sapesse della sua morte? Sembrò di sì fino al 1985, anno in cui furono riprese in esame le prove trovate a casa dell’ avvocato Hans Sadelmayr. Tra le varie carte sequestrate, vi era una lettera di Wolfran Bossert che annunciava la morte di Mengele ai parenti in Germania.  
    Il 6 giugno 1985, scortati dalla polizia brasiliana, i Bossert vennero condotti davanti alla tomba in cui, secondo i documenti del cimitero, era sepolto Wolfgang Gerard, accanto a sua madre. Ma i Bossert sostenevano che quelle spoglie appartenessero in realtà a Josef Mengele, morto annegato il 7 febbraio 1979.
    Alcuni esperti cominciarono l’esame necroscopico sui resti riesumati, gravemente danneggiati dall’incuria della  polizia brasiliana. Il centro di documentazione di Berlino spedì in Brasile il dossier originali delle SS su Josef Mengele. La documentazione era incompleta, mancavano le radiografie dentali, fondamentali per identificare il cadavere. Nella fase successiva degli esami necroscopici, utilizzando due macchine fotografiche, alcune foto di Mengele vennero confrontate e sovrapposte con le immagini del cranio. I risultati ottenuti non fugarono i dubbi in merito all’identità dei resti presi in esame. Fu comunque emesso un comunicato stampa che dichiarava: “ secondo il parere degli esperti si può affermare con ragionevole certezza scientifica che lo scheletro preso in esame appartiene a Josef Mengele”.
    Nel 1992 i resti di quello che avrebbe dovuto essere il dottor Morte furono sottoposti all’esame del DNA,  confrontato con quello del fratello, inizialmente contrario a collaborare. Con una probabilità del 99.69%, l’8 aprile fu accertato che la persona sepolta nel cimitero a Embu das Artes fosse proprio Josef Mengele. I suoi resti furono conservati in un magazzino dell'istituto di medicina legale di San Paolo del Brasile. Oggi le sue ossa sono a disposizione degli studenti di medicina per i loro studi. Nonostante questo i dubbi sulla fine del dottor Mengele non furono mai del tutto fugati. Si pensava ad una cospirazione da parte della famiglia per far cessare le voci e mettere finalmente la parola fine alla caccia al dottor Morte, durata per oltre 3 decenni. Quello che è certo è che mai fu sottoposto ad un  giusto processo e ad una esemplare condanna, come avrebbe meritato per essere stato un freddo e spietato assassino.
    Una considerazione è per me spontanea. Il suo operato fu senza senso e senza fondamento scientifico, come ampiamente dimostrato nel corso degli anni da parte di studiosi ed esperti. Per chi possa avere dei dubbi sulla veridicità di ciò che accadde, per chi ancora nega il male assoluto che ha rappresentato il nazismo ho solo da dire una cosa: studiate, leggete i documenti, aprite gli occhi  e pensate all’orrore di quei giorni, alla morte, alla sofferenza. Il passato non può e non deve tronare, gli errori commessi non possono essere ripetuti.

    Rosella Reali

    Bibliografia
    Philippe Aziz, I medici dei lager, Ginevra, Edizioni Ferni, 1975

    Czech Danuta, Kalendarium - Gli avvenimenti nel campo di concentramento di Auschwitz 1939-1945, Mimesis, 2007

    Robert J. Lifton, I medici nazisti. La psicologia del genocidio, Rizzoli, 2003

    Arrigo Petacco, La seconda guerra mondiale, Roma, Armando Curcio Editore, 1970

    Nazisti, in Sud Tirolo il rifugio delle SS in fuga - la Repubblica.it, su Archivio - la Repubblica.it. - 25 aprile 2016.

    ROSELLA REALI
    Sono nata nel marzo del 1971 a Domodossola, attualmente provincia del VCO.  Mi piace viaggiare, adoro la natura e gli animali. L'Ossola è il solo posto che posso chiamare casa. Mi piace cucinare e leggere gialli. Solo solare, sorrido sempre e guardo il mondo con gli occhi curiosi tipici dei bambini. Adoro i vecchi film anni '50 e la bicicletta è parte di me, non me ne separo mai.  Da grande aprirò un agriturismo dove coltiverò l'orto e alleverò animali. 
    Chi mi aiuterà? Ovviamente gli altri viaggiatori.
    Questa avventura con i viaggiatori ignoranti? Un viaggio che spero non finisca mai...

    Il ginecologo di Auschwitz

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    Nel giugno del 1943, il dottor Carl Clauberg scriveva così a Himmler: “ Non manca molto tempo a quando sarò in grado di dire che un medico preparato in modo adeguato, in un luogo sufficientemente attrezzato, con forse dieci assistenti (il numero di assistenti dev'essere conforme alla rapidità desiderata) sarà molto probabilmente in grado di trattare varie centinaia se non migliaia di sterilizzazioni in un solo giorno.” 
    Anche lui prestò servizio ad Auschwitz al blocco 10, insieme ad altri mostri dal camice bianco, cercando di attuare la folle politica dell’ "igiene razziale" voluta da Himmler.
    Ma veniamo alla sua storia.
    Carl Clauberg nacque a Solingen, in Germania  il 28 settembre 1898, da una famiglia dalle modeste condizioni economiche. Il padre, dapprima artigiano fabbricante di coltelli, manteneva tutta la famiglia. Divenne in un secondo momento commerciante di armi, permettendo coì al figlio Carl di intraprendere con successo gli studi in medicina. Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale si arruolò nell’esercito. Terminato il conflitto riprese l’università a Kiel, per poi trasferirsi a quella di Amburgo ed infine a quella di Graz. Conseguì la laurea nel 1925, specializzandosi in ostetricia e ginecologia. Si rivelò immediatamente un dottore capace, tanto che le sue doti lo portarono a diventare in breve tempo primario dell’ospedale di Kiel e contemporaneamente professore nell’università della stessa città.
    Nel 1933 venne a conoscenza delle ideologie del nuovo partito nazionalsocialista, a cui aderì con grande entusiasmo. Iscrittosi al partito, salì rapidamente tutti i gradi fino a diventare Gruppenführer, tenente generale, della riserva delle SS.
    Nel 1937 divenne professore di ginecologia all’università di Königsberg, dove mise a punto un metodo tutt’oggi usato per combattere la sterilità femminile, attraverso l’impiego di preparati ormonali. Ideò il cosiddetto “Test di Clauberg” per la verifica dell’azione del progesterone nel processo di fecondazione.
    Prestava anche servizio come primario presso due cliniche per malattie femminili, frequentate dalle mogli e compagne dei gerarchi nazisti. La sua capacità accrebbe la sua già grande fama, che lo portò a pubblicare numerosi saggi scientifici.
    Scoppiata la Seconda Guerra Mondiale, decise di non prendervi parte, per poter continuare la sperimentazione sulla fertilità e sterilità. 
    Gli studi fatti per mettere a punto questo metodo erano tenuti gelosamente segreti. Aveva ottenuto risultati interessanti su animali, iniettando nelle tube di Falloppio una soluzione al 5 – 10% di formalina, che causava una dolorosa infezione a la conseguente chiusura delle tube.
    Le strade si Clauberg e Himmler si incrociarono nel 1942, durante una conferenza tenutasi il 7 e l’8 luglio. Vi parteciparono, oltre a Himmler, il dottor Karl Gebhardt, suo psichiatra personale e Richard Glücks, ispettore generale dei campi di concentramento. L’incontro era stato organizzato proprio con lo scopo di mettere a punto un sistema efficiente di sterilizzazione per attuare in beve tempo la cosiddetta “igiene raziale”. Venne invitato anche il famoso e geniale dottor Clauberg, a cui Himmler chiese di convertire i propri studi sulla fertilità in studi sulla sterilizzazione, perfezionando gli esperimenti che aveva fatto sugli animali con la formalina, in modo da poterli applicare agli esseri umani, di cui disponevano in abbondanza nei campi di concentramento. L’offerta fu molto allettante: il dottore avrebbe potuto disporre di “materiale umano” in abbondanza prestando servizio ad Auschwitz.
    L’interesse di Himmler per la sterilizzazione risaliva al 1933. In quegli anni aveva ipotizzato come strumento per eliminare i Mischlinge, cioè i “mezzo ebrei”, ovvero individui  ritenuti eugeneticamentenon idonei alla razza ariana e indegni di gravare per il loro mantenimento in vita sul bilancio dello Stato, l’utilizzo della sterilizzazione  e dell’eutanasia, mediante il programma segretoAktion T4.
    Himmler si ispirava alle parole pronunciate da Hitler, secondo il quale: “chi non è sano e degno di corpo e di spirito non ha il diritto di perpetuare le sue sofferenze nel corpo del suo bambino”. Per risolvere il problema dell’”igiene razziale”, il 14 luglio 1933 fu emanata la “Legge sulla prevenzione delle tare ereditarie”, con la quale si stabiliva che dovevano essere sottoposti a sterilizzazione forzata tutti coloro che soffrivano di una malattia ereditaria.  Pertanto sarebbero state sottoposte alla procedura tutte le persone affette da:  cretinismocongenito, schizofrenia, psicosi maniaco-depressiva, epilessiaereditaria, corea di Huntington ereditaria (malattia geneticaneurodegenerativa che colpisce la coordinazione muscolare e porta ad un declino cognitivo e a problemi psichiatrici), cecitàereditaria, sorditàereditaria, malformazioni fisiche ereditarie, alcolismoacuto. Il 20 luglio era prevista la firma del Concordatocon la Chiesa cattolica. Per non creare imbarazzo la promulgazione della suddetta legge fu posticipata al  25 luglio. Dal 1 gennaio 1934 la legge fu applicata su centinaia di migliaia di cittadini tedeschi, scelti per il trattamento da tribunali speciali.
    Dopo un lungo anno di riflessione, Clauberg decise di accettare la proposta di andare a lavorare ad Auschwitz. Himmler diede la sua approvazione a patto che il dottore individuasse metodi per cui i soggetti sottoposti al trattamento “non si accorgessero di nulla”, ovvero metodi non chirurgici, per non alimentare il malcontento dell’opinione pubblica. Come aiuto gli venne affiancato il radiologo Horst Schumann, già membro attivo del progetto Aktion T4 ed interessato allo sviluppo dell’applicazione dei raggi X per la sterilizzazione.
    Clauberg, nel dicembre del 1942, si trasferì inizialmente a Birkenau, nella Baracca 30, per poi passare ad occupare una parte del  blocco n. 10, portando con se anche il suo assistente Johannes Golbel.
    Il dottore usava come cavie le prigioniere, che venivano convinte a collaborare con la minaccia di essere deportate a Birkenau per morire oppure con la promessa di una vita meno dolorosa nella clinica diretta da Clauberg a Königshütte. Himmler fornì il blocco delle attrezzature sofisticate richieste dal ginecologo.
    Le donne selezionate erano di età compresa fra i 20 e i 40 anni, zingare, ebree o di “razza inferiore” come alcune donne greche,  e che  possibilmente non avessero avuto figli.
    Il trattamanto per la sterilizzazione prevedeva l’inserimento negli organi genitali femminili di una soluzione composta da formalinae novocaina, preparate dalla Schering Werke, fabbrica farmaceutica di cui Golbel era rappresentante. Il composto era iniettato nell’utero senza anestetico: essendo una sostanza acida, provocava lancinanti dolori che duravano anche per settimane. In alcuni casi volle vedere l’effetto della sostanza e per farlo procedette ad operazioni senza anestesia, durante le quali la paziente era trattenuta con al forza sul tavolo operatorio. Riporto qui la testimonianza rilasciata da una superstite: “Per ordine del professor Clauberg, il 10 agosto 1943 fui sottoposta al primo esperimento e cioè: il dottor Samuel fu costretto a rimuovermi, mediante operazione, il collo dell'utero. Poi, senza anestesia alcuna, mi furono praticate dal professor Clauberg ripetute iniezioni estremamente dolorose. Durante questi procedimenti ero tenuta ferma per le mani e per i piedi e avevo la bocca tappata. Dopo le iniezioni mi vennero terribili dolori al basso ventre e giacqui nel mio letto quasi priva di conoscenza. Per non essere punita dovevo per di più trascinarmi agli appelli, eseguire ordini e lavori. Il professor Clauberg era tremendo e senza alcuna pietà. Era un mostro. Lo dico senza odio e giuro che dal tempo dei suoi esperimenti sono sofferente, sterile e ho spesso emorragie…”
    Spesso  le pazienti morivano a causa delle complicazioni, come febbre altissima, infezioni, sepsi, altre venivano uccise per procedere all’autopsia, altre ancora andavano alle camere a gas di Birkenau perché troppo debilitate e non più adatte a tornare al lavoro. Il trattamento culminava un anno dopo con la verifica degli effetti delle iniezioni: le cavie umane sterilizzate erano costrette a rapporti sessuali con prigionieri uomini del campo selezionati.
    Clauberg era un uomo sadico e antipatico a tutti, anche ai colleghi. Si vantava di godere  della benevolenza di Himmler e spesso ne approfittava, mostrandosi ubriaco e arrogante. Esprimeva il massimo del suo sadismo sulle prigioniere. Nel giugno del 1943 i risultati della sperimentazione del dottore furono negativi, aveva sostanzialmente fallito. Nonostante questo, scrisse a Himmler di essere in fase di perfezionamento di una procedura del tutto innovativa. Nel frattempo un altro mostro dal camice bianco abitava ad Auschwitz, e come lui operava al blocco n. 10, ma sui bambini: Josef Mengele.
    All’arrivo dell’Armata Rossa, Clauberg fu costretto a lasciare Auschwitz e a continuare i suoi esperimenti nel campo di concentramento di Ravensbruck. Nel 1945, con il crollo della Wehrmacht, fu costretto ad una nuova fuga, durante la quale tentò di raggiungere Himmler. Fu catturato nello Schleswig-Holstein l’8 giugno dagli alleati, che lo consegnarono per essere processato, ai sovietici. Nel 1948 fu condannato a scontare 25 anni in un gulag. Purtroppo dopo solo 7 anni beneficiò dell’accordo Adenauer-Bulganin del 13 settembre 1955, con il quale si stabiliva il rimpatrio degli ultimi 9600 prigionieri di guerra tedeschi. Fra questi anche Clauberg. Uscito, si traferì a Kiel, dove decise di riprendere la sua professione di ginecologo. Dopo poco tempo commise un grave peccato di presunzione: essendo stato chiamato a dirigere una clienica  di prossima apertura, per attirare collaboratori fece pubblicare sui principali giornali della Germania Federale un annuncio con il suo vero nome. La sua sfrontatezza non sfuggì nel novembre 1955 allo “Zentralrat der Juden”, Consiglio Centrale Ebraico, che presentò contro di lui un dossier dettagliato alle autorità tedesche che lo fecero arrestare per sottoporlo a un nuovo processo per crimini di guerra. Ma ancora una volta le porte del carcere non si aprirono davanti a lui. Morì di infarto, prima di essere processato, in una clinica carceraria nell’agosto del 1957.
    Oltre a Clauberg altri mostri dal camice bianco sperimentarono metodi per la sterilizzazione alternativi alla chirurgia, ritenuta  troppo lenta per la ripresa del paziente.  Anche in questo caso, come per Mengele, vorrei che fosse chiaro a tutti i lettori che quello che avvenne ad Auschwitz per mano di questa persona non ha nulla di scientifico. Chiamare un essere umano, uomo, donna o bambino, cavia, casistica o coniglio da laboratorio non ha nulla a che vedere con la medicina o la ricerca. La follia del nazismo ha generato mostri travestiti da angeli, che ridevano delle sofferenze dei loro pazienti, usati come carne da macello.
    Gli orrori di quei giorni sono ancora presenti tra le mura di Auschwitz. Resteranno per sempre in quel luogo le grida di dolore di chi era ritenuto non idoneo alla vita.

    Rosella Reali




    Bibliografia 
    G. Boursier, M. Converso, F. Iacomini. Zigeuner - lo sterminio dimenticato - edizioni Sinnos, Roma, 1996 
    E. Collotti, Nazismo e società tedesca (1933-1945), Loescher,1982 

    Raffaella De Franco - In nome di Ippocrate. Dall'"olocausto medico" nazista all'etica della sperimentazione contemporanea - Milano, Ed. Franco Angeli 

    Robert J. Lifton - I medici nazisti. La psicologia del genocidio - Rizzoli, 2003 

    · D. Czech - Kalendarium. Gli avvenimenti nel campo di concentramento di Auschwitz 1939 -1945 – ANED gennaio 2002 R. J. Lifton, I medici nazisti. La psicologia del genocidio – Rizzoli, Milano 2003

    K. Ericsson, E. Simonsen - I “figli” di Hitler. La selezione della “razza ariana”. I figli degli invasori tedeschi nei territori occupati – Boroli, Milano 2007
    ROSELLA REALI
    Sono nata nel marzo del 1971 a Domodossola, attualmente provincia del VCO.  Mi piace viaggiare, adoro la natura e gli animali. L'Ossola è il solo posto che posso chiamare casa. Mi piace cucinare e leggere gialli. Solo solare, sorrido sempre e guardo il mondo con gli occhi curiosi tipici dei bambini. Adoro i vecchi film anni '50 e la bicicletta è parte di me, non me ne separo mai.  Da grande aprirò un agriturismo dove coltiverò l'orto e alleverò animali. 
    Chi mi aiuterà? Ovviamente gli altri viaggiatori.

    Questa avventura con i viaggiatori ignoranti? Un viaggio che spero non finisca mai...

    Mario Pezzi, l'uomo che volò oltre le scie chimiche

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    Scie di condensazione di una formazione di B-17F sui cieli della Germania, 1943
    La teoria del complotto delle scie chimiche, chemtrails conspiracy theory, cerca di sostenere che le scie di condensazione visibili nell'atmosfera terrestre create dagli aerei non siano formate da vapore acqueo ma da agenti chimici o biologici spruzzati da apparecchiature montate sui velivoli, per diverse finalità. Negli ultimi anni il diffondersi della teoria, grazie ai mass media, ha interessato i governi di diverse nazioni, poiché hanno ricevuto richieste di spiegazioni da parte di associazioni o liberi cittadini. I governi, supportati dalla comunità scientifica, hanno più volte ribadito l'inconsistenza di questa teoria. Sull'argomento sono intervenuti piloti ed esperti di meteorologia, affiancati da riviste e programmi televisivi di divulgazione scientifica. Tutti hanno rigettato le tesi proposte dalla teoria delle scie chimiche; alcuni hanno parlato apertamente di bufala. L'incidente potrebbe ritenersi chiuso se non ci fosse una larga parte della popolazione propensa a dare credito a tale teoria. Nel 2011, secondo una ricerca condotta su scala mondiale, il 17% degli intervistati si dichiarava convinta dell'esistenza di programmi per l'irrorazione su larga scala per scopi climatici e per la riduzione della radiazione solare. La teoria del complotto iniziò a diffondersi verso la metà degli anni novanta del secolo scorso, quando l'aeronautica militare statunitense fu accusata di irrorare la popolazione con sostanza misteriose. Questo rilascio era effettuato, stando alle accuse, per mezzo di aerei che rilasciavano scie inusuali. 

    Scie di condensazione di bombardieri alleati sui cieli della Germania, 1943
    L'aeronautica statunitense rigettò le accuse definendole sciocchezze. Riconobbe che le voci erano alimentate dalla decontestualizzazione di un testo redatto dall'istituto universitario dell'Air Force intitolato Weather as a force multiplier: owning the weather in 2025. L'istituto stesso chiarì definitivamente che in quel periodo non erano in corso politiche e pratiche militari per la modifica del clima. I buoi erano scappati, e la chiusura del del recinto non servì a nulla. La teoria del complotto delle scie chimiche trovò immediato eco in diversi programmi televisivi, radiofonici e su pubblicazioni riguardanti il cospirazionismo. In alcuni paesi furono avanzate interrogazioni parlamentari. I sostenitori di queste teorie, in genere, affermarono che le ipotetiche scie chimiche apparirebbero diverse dalle normali scie di condensazione, delle quali non avrebbero la consistenza e le proprietà note. In particolare, secondo i cospirazionisti, esse tenderebbero a persistere più a lungo, allargandosi pian piano invece di scomparire. Per meglio comprendere questo punto di vista utilizzo le parole del noto conduttore radiofonico Jeff Rense: «le scie chimiche inizialmente sembrano normali scie, ma sono più spesse e si estendono per il cielo in forma di X, griglia o in linee parallele. Invece di dissiparsi rapidamente, si allargano e si diramano. In meno di 30 minuti si aprono in formazioni che si uniscono tra loro formando un sottile velo di finte nuvole simili a cirri che rimangono per ore».
    Descrizione delle scie di condensazione risalente al 1921
    Nel corso dello sviluppo della teoria del complotto delle scie chimiche, i fautori di tale teoria hanno sostenuto affermazioni chiaramente false su pubblicazioni e riviste, con particolare riguardo alla storia dell'aviazione. La falsità di tali informazioni può risiedere nella non conoscenza o nella volontà di affermare la veridicità della teoria stessa agli occhi di chi non ha tempo e voglia di effettuare ricerche. Tra le tante affermazioni proposte ne estrapolo due che risultano degne di nota in quanto a falsità. La prima teoria afferma che «non esisterebbero foto di scie di condensazione precedenti al 1995. Il che dimostrerebbe che all'epoca le scie non erano comuni», e quando si fa notare che tale affermazione è chiaramente falsa poiché esistono fotografie di tali fenomeni, interviene la seconda teoria ad affermare che «le vecchie foto delle scie di condensazione sarebbero dei falsi in quanto gli aerei dell'epoca non erano pressurizzati e quindi non potevano raggiungere le alte quote». Sulla scia della seconda interviene anche un'altra affermazione che tende a negare l'esistenza di tali fenomeni prima della metà degli anni novanta: «non esisterebbero immagini satellitari delle scie di condensazione precedenti al 1995». Quest'ultima affermazione è chiaramente falsa poiché esistono fotografie satellitari di scie di condensazione anteriori agli anni novanta. Uno studio meteorologico dell'American Meteorological Society riferisce di scie di condensazione già nel periodo compreso dal 1977 al 1979. Gli aerei già durante la seconda guerra mondiale raggiungevano i 10000, 11000 metri. I piloti utilizzavano bombole di ossigeno e indumenti riscaldati elettricamente. Nel 1936 un italiano raggiunse il record di altitudine di 15635 metri. Il suo nome era Mario Pezzi. 
    Mario Pezzi con lo scafandro per il volo ad altra quota
    Il pilota descrisse chiaramente una scia di condensazione che inizialmente credeva fosse causata da un guasto al motore: «ad un tratto ho una fitta al cuore. Dal motore esce fumo in abbondanza; ho la sensazione che bruci. Ma è un attimo. Capisco che si tratta della ben nota nuvola che forma l’apparecchio navigante alle alte quote. Si forma sulla sinistra forse perché convogliata da quella parte dal flusso dell’elica, lambisce le ali, la fusoliera e si allontana lasciando una scia abbondante. Mi seguirà fino a 12.000 circa». Mario Pezzi nacque a Fossano, Cuneo, il 9 novembre del 1898 da una famiglia di tradizioni militari: il padre era generale di artiglieria, il fratello Pio era sottotenente di fanteria e l'altro fratello Enrico era generale di brigata aerea. Mario si arruolò nel Regio Esercito e, nel 1923, entrò nella Regia Aeronautica dove proseguì la carriera di ufficiale pilota. Nel 1934 fu nominato comandante del reparto per il volo d'alta quota, che aveva sede a Guidonia. A metà degli anni trenta molti piloti di varie nazionalità si contendevano il primato d'alta quota. Il 28 settembre 1936 l'inglese Francis R. D. Swain toccò i 15230 metri a bordo di un Bristol Type 138. Poche settimane dopo Pezzi riuscì nell'impresa di alzarsi sino a 15635 metri a bordo di un Caproni Ca. 161. L'anno seguente l'inglese Adamo lo superò raggiungendo i 16440 metri a bordo sempre di un Bristol Type 138. 
    Mario Pezzi con la speciale tuta per il volo d'altra quota
    Il giorno 8 del maggio del 1937, l'aviatore italiano riuscì a salire sino a 15655 indossando una speciale tuta pressurizzata e riscaldata elettricamente, con un casco a tenuta stagna. L'anno successivo, esattamente il 22 ottobre del 1938, partendo dall'aeroporto di Guidonia, raggiunse il primato, ancora imbattuto per i biplani con propulsione ad elica, di 17083 metri a bordo di un Caproni Ca. 161/bis. Il pilota indossò uno speciale scafandro per compiere quell'impresa assoluta. Lo stesso Pezzi utilizzò una tra le prime cabine stagne che rappresentavano una importante innovazione per l'epoca. Finita la seconda guerra mondiale Mario Pezzi fu segretario generale dell'aeronautica e capo di gabinetto del Ministero della difesa. Si spense il 28 agosto del 1968 a Roma.

    Fabio Casalini


    Bibliografia / Sitografia
    Generale Mario Pezzi, Le Vie dell'Aria numero 20, 15 maggio 1937 

    H. S. Appleman, 1953: The Formation of Exhaust Condensation Trails by Jet Aircraft, Bulletin American Meteorological Society, 34 

    A. C. Ryan, A. R. MacKenzie, S. Watkins, R. Timmis, World War II contrails: a case study of aviation-induced cloudiness, in International Journal of Climatoglogy, 8 giugno 2011 

    Filippo Graziani, La Scuola di Scuola Ingegneria Aerospaziale nell'ottantesimo anniversario della sua fondazione 

    Giorgio Di Bernardo, Nella nebbia in attesa del Sole, Di Renzo Editore 

    https://www.cicap.org

    http://www.enricopezzi.it
    FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
    Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.

    Lo stupro di Artemisia

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    Artemisia Gentileschi nacque a Roma nel 1593, primogenita di sei figli. Il padre, Orazio, era un pittore nativo di Pisa che si era trasferito a Roma poiché la città era un grande centro artistico e l'atmosfera che si respirava era unica nel mondo. La riforma cattolica, in risposta alla controriforma luterana, riuscì a regalare alla città di Roma una spinta propulsiva nella ristrutturazione e nel restauro di moltissimi edifici sacri al cattolicesimo. La città fu invasa da pittori e artisti toscani, particolarmente da fiorentini. Non solo la città ma anche il Vaticano conobbe Firenze da vicino: nel cinquecento ben due Medicei ascesero al soglio pontificio con i nomi di Leone X e Clemente VII. La piccola Artemisia vide la luce in un contesto sociale e culturale in perenne movimento. All'età di dodici anni, nel 1605, rimase orfana di madre. In questo periodo la piccola si avvicinò al padre e alla sua arte, rimanendone affascinata e folgorata. Sviluppò un'ammirazione incondizionata per il padre e le opere prodotte dal suo pennello. Artemisia fu avviata alla professione sotto l'attenta guida di Orazio, che riuscì a valorizzare il precoce talento della figlia. 
    Il padre, orgoglioso delle sue abilità, decise di allocarla sotto la guida di Agostino Tassi con cui collaborava alla realizzazione della loggetta della sala del Casino delle Muse a Palazzo Rospigliosi. Il Tassi, il padre di Artemisia doveva saperlo essendo un assiduo frequentatore della sua abitazione, era soprannominato lo smargiasso a causa del suo carattere violento e dei trascorsi burrascosi. Il pittore fu coinvolto in diverse disavventure giudiziarie poiché si riteneva fosse il mandante di diversi omicidi. Orazio Gentileschi era ammirato dall'arte del pittore Tassi, dimenticando le violenze dell'uomo Agostino. Grazie a questa venerazione, Orazio fu entusiasta quando il Tassi accettò di iniziare la giovane alla prospettiva. Gli eventi che seguirono presero una piega spiacevole. Agostino Tassi si innamorò di Artemisia, che all'epoca aveva diciotto anni, tentando di sedurla in diverse circostanze. La giovane ragazza non ricambiava i sentimenti del pittore, rifiutando sempre gli avvicinamenti dell'uomo che si trasformerà in carnefice. 
    Nel maggio del 1611 avvenne l'irreparabile, dopo l'ennesimo rifiuto da parte della ragazza. Agostino Tassi, approfittando dell'assenza del padre della ragazza, stuprò Artemisia. La giovane rimase sconvolta per le violenze subite, tanto che tutta la sua futura arte sarà influenzata in modo drammatico da questo evento. La violenza carnale si consumò nell'abitazione dei Gentileschi, in via della Croce, con la compiacenza di Cosimo Quorli, furiere della camera apostolica e di una vicina di casa che era solita accudire Artemisia quando il padre non era in casa. La giovane descrisse la violenza con le seguenti parole: «Serrò la camera a chiave e dopo serrata mi buttò su la sponda del letto dandomi con una mano sul petto, mi mise un ginocchio fra le cosce ch’io non potessi serrarle et alzatomi li panni, che ci fece grandissima fatiga per alzarmeli, mi mise una mano con un fazzoletto alla gola et alla bocca acciò non gridassi e le mani quali prima mi teneva con l’altra mano mi le lasciò, havendo esso prima messo tutti doi li ginocchi tra le mie gambe et appuntendomi il membro alla natura cominciò a spingere e lo mise dentro. E li sgraffignai il viso e li strappai li capelli et avanti che lo mettesse dentro anco gli detti una stretta al membro che gli ne levai anco un pezzo di carne». Agostino Tassi, per rimediare al disonore arrecato, avanzò la promessa di sposare la ragazza. 
    Il matrimonio riparatore è presente già nella Bibbia, nel Deuteronomio 22, 23-29: «quando una fanciulla vergine è fidanzata e un uomo, trovandola in città, giace con lei, condurrete tutti e due alla porta di quella città e li lapiderete a morte: la fanciulla, perché, essendo in città, non ha gridato, e l'uomo perché ha disonorato la donna del suo prossimo. Così estirperai il male in mezzo a te. Ma se l'uomo trova per i campi la fanciulla fidanzata e facendole violenza giace con lei, allora dovrà morire solo l'uomo che è giaciuto con lei, ma non farai nulla alla fanciulla. Nella fanciulla non c'è colpa degna di morte: come quando un uomo assale il suo prossimo e l'uccide, così è in questo caso, perché egli l'ha incontrata per i campi. La giovane fidanzata ha potuto gridare, ma non c'era nessuno per venirle in aiuto. Se uno trova una fanciulla vergine che non sia fidanzata, l'afferra e giace con lei e sono colti in flagrante, l'uomo che è giaciuto con lei darà al padre di lei cinquanta sicli d'argento; ella sarà sua moglie, per il fatto che egli l'ha disonorata, e non potrà ripudiarla per tutto il tempo della sua vita». Il costume del matrimonio riparatore sopravvisse nella cultura occidentale sino a tempi molto recenti: in Italia la prima donna che si ribellò a questa consuetudine fu Franca Viola. Sino al 1981 in Italia un uomo che commetteva nei confronti di una donna stupro o violenza carnale, onde evitare il processo, poteva offrire alla ragazza il matrimonio riparatore facendo cessare ogni effetto penale e sociale del suo delitto. Artemisia cedette alle richieste di Agostino Tassi, continuando ad intrattenere rapporti intimi con lui nella speranza del matrimonio, che mai arriverà. 
    Il padre, prontamente informato dalla figlia, decise di tacere nell'attesa degli eventi. Nel marzo del 1612 la famiglia Gentileschi scoprì che Agostino era coniugato, quindi impossibilitato al matrimonio. Orazio ribollì di rabbia, tanto da decidere di scrivere una petizione a papa Paolo V, dimenticando i vincoli professionali che lo legavano ad Agostino Tassi. Nella denuncia si leggeva: «una figliola dell'oratore [querelante] è stata forzatamente sverginata e carnalmente conosciuta più et più volte da Agostino Tasso pittore et intrinseco amico et compagno del oratore, essendosi anco intromesso in questo negozio osceno Cosimo Tuorli suo furiere; intendendo olre allo sverginamento che il medesimo Cosimo furiere con sue chimere abbia cavato dalle mane della medesima zitella alcuni quadri di pitture di suo padre et in specie una Juditta di capace grandezza. Et pechè, B[eatissimo] P[adre], questo è un fatto così brutto et commesso in così grave et enorme lesione et danno del povero oratore et massime sotto fede di amicizia che del tutto si rende assassinamento». Ebbe inizio un processo durissimo e complicato per Artemisia, che fu compromesso dall'utilizzo di falsi testimoni da parte della difesa. Lo scopo era quello di minare la reputazione della famiglia Gentileschi. La ragazza, ancora profondamente colpita nell'animo, fu costretta a interminabili e ripetute visite ginecologiche durante le quali il fisico fu esposto alla morbosa curiosità dei presenti. Un notaio accertò la lacerazione subita. Non bastò. Per verificare la veridicità delle accuse, le autorità giudiziarie disposero che Artemisia Gentileschi fosse sottoposta ad un interrogatorio sotto tortura. Il supplizio scelto dai nuovi carnefici, così mi sento di definire coloro che amministravano al tempo la giustizia, fu quello dei Sibilli: consisteva nel legare i pollici a delle cordicelle che, tramite l'utilizzo di un randello, si stringevano sempre di più sino a stritolare le falangi. Artemisia avrebbe rischiato di perdere la capacità di dipingere, quindi il futuro. 
    La forza di voler vedere riconosciuti i propri diritti, e le colpe del suo carnefice, fu una straordinaria prova di carattere. Sotto tortura non ritrattò nulla. Il 27 dicembre del 1612 le autorità condannarono Agostino Tassi per sverginamento. La pena consisteva in 5 anni di reclusione o, in alternativa, l'esilio perpetuo da Roma. La scelta era a discrezione del carnefice. Il pittore scelse l'allontanamento ma non abbandonerà mai Roma, coperto da amici e committenti potenti che esigevano la sua presenza in città per concludere i lavori che gli erano stati affidati. Chi pagò doppiamente fu Artemisia, violata nel fisico e nella credibilità da parte di un popolo ignorante e maschilista. Molti romani credettero ai falsi testimoni procurati dalla difesa del Tassi, creando una grandissima quantità di sonetti licenziosi con la pittrice come protagonista. Il 29 novembre del 1612, il giorno successivo all'epilogo del processo, Artemisia si sposò con un modesto pittore fiorentino, Pierantonio Stiattesi. Artemisia Gentileschi seguì lo sposo nella città sulle rive dell'Arno, per seguire l'attività del ragazzo, la propria bravura ma soprattutto per lasciarsi alle spalle una violenza che non l'abbandonerà mai.

    Fabio Casalini

    Bibliografia
    Tiziana Agnati, Artemisia Gentileschi, in Art dossier, vol. 172, Giunti, 2001 

    Giorgio Cricco, Francesco Di Teodoro, Il Cricco Di Teodoro, Itinerario nell’arte, Dal Barocco al Postimpressionismo, Versione gialla, Bologna, Zanichelli, 2012 

    Emma Bernini, Roberta Rota, Storia dell'Arte. Il Cinquecento e il Seicento, Bari, Laterza, 2001 

    Marialuisa Vallino, Valeria Montaruli, Artemisia e le altre: Miti e riti di rinascita nella violenza di genere, Armando Editore, 2016 

    Judith Walker Mann, Artemisia e Orazio Gentileschi, Milano, Skira, 2001

    Francesco Solinas, Sono Artemisia e ardo d'amore, Il Sole 24 Ore, 18 settembre 2011

    FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
    Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.

    Il bimbo di Trento e la pasqua di sangue

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    Trento, 23 marzo 1475. sera del giovedì santo. Un bimbo si allontanò inspiegabilmente da casa. La madre, moglie di un conciatore della città, impaurita e angosciata lo cercò, lo chiamò. Non lo trovò. Decise di recarsi dai vicini per chiedere aiuto. La donna,  accompagnata da un nutrito gruppo di persone, continuò le ricerche sino al sabato sera. Le paure si trasformarono in realtà quando la mattina della domenica, Pasqua del 1475, un gruppo di ebrei si recò velocemente dal vescovo della città per avvisare d'aver trovato il corpo, martoriato, del bimbo nelle acque di un torrente nei pressi delle loro abitazioni, non lontano da quelle del conciatore. Il corpo fu rinvenuto in condizioni terribili: l'assassino aveva spogliato il piccolo, lo aveva seviziato e infine aveva inflitto un considerevole numero di coltellate, chiudendo lo scempio con l'asportazione del pene e dei testicoli. Le indagini iniziarono subito. Le voci correvano di contrada in contrada, di borgo in borgo. Gli assassini e torturatori del bimbo non potevano che essere loro, gli ebrei. Il diffuso antisemitismo era alimentato dalle predicazioni del frate francescano Bernardino da Feltre. Il predicatore fu responsabile dell'aumento della violenza contro gli ebrei nelle zone dove portava la sua parola. Secondo Bernardino da Feltre gli ebrei erano gli assassini di Cristo e colpevoli di esercitare l'usura, che rimaneva una delle poche attività loro consentite insieme al commercio di cose usate.
    Il principe vescovo, Giovanni Hinderbach, decise di ascoltare il francescano, e una buona parte del popolo, sostenendo con forza la tesi che il bimbo era stato vittima di un omicidio rituale perpetrato dalla locale comunità ebraica. L'accusa si basava sull'idea che le violenze erano finalizzate alla raccolta del sangue di un bambino da utilizzare per impastare il pane azzimo per la Pasqua ebraica. Gli ebrei furono agguantati dalle forze dell'ordine locali. Quindici persone, di età compresa tra i quindici e novant'anni, furono torturati intensamente per mesi sino a strappare loro una confessione. La condanna non poteva che essere la morte, secondo le regole e i dettami del tempo. Contestualmente alla sentenza fu emesso un provvedimento che bandiva perpetuamente gli ebrei dalla città di Trento. Una sola donna, Bruna, resistette più a lungo rispetto agli altri. Ma le torture furono tali da condurre alla morte dell'indagata. Poco prima di morire confessò l'omicidio e si pentì. Fu assolta dai suoi peccati e sepolta in terra benedetta. Il processo fu seguito dal legato di papa Sisto IV, che aveva il compito di sovrintendere lo svolgimento dello stesso, che si dichiarò apertamente favorevole all'innocenza degli accusati poiché riteneva infondata ogni accusa contro di loro. Nulla servì la sua opposizione. 
    Tutti gli accusati trovarono la morte secondo i supplizi in uso al tempo. Quel bimbo, torturato e selvaggiamente ucciso, si chiamava Simonino. Il popolo decise di adottarlo e  venerarlo come beato, nonostante il fermo diniego di Sisto IV. Nonostante il divieto pontificio, in virtù delle capacità organizzative del principe vescovo, il culto del piccolo Simonino si diffuse rapidamente in Trentino e nei territori vicini. Il papa fu costretto a fare un passo indietro dichiarando valido il processo. Il Vaticano ammise ufficialmente il culto di Simonino nel 1588 e concesse l'indulgenza plenaria a chi fosse andata in pellegrinaggio presso le reliquie il giorno dedicato al santo. Papa Benedetto XIV con la bolla papale Beatus Andreas, del 1755, ribadiva l'esattezza del processo e confermava la correttezza di dedicare a Simonino pubblico culto riaffermando che il martirio era avvenuto per mano degli ebrei in odio alla fede di Cristo. Da Trento la devozione popolare si diffuse nella vicina zona di Brescia, dove furono attribuiti diversi miracolo a Simonino. Era usanza invocarlo a protezione dei fanciulli. La forte devozione comportò che, oltre all'annuale festa in onore del bimbo, ogni dieci anni si svolgeva una processione solenne con la salma del beato e dei simboli raffiguranti i presunti strumenti delle torture subite da Simonino portate in corteo lungo le strade di Trento. Il trascorrere del tempo fu galantuomo verso gli ebrei coinvolti in questa assurda vicenda poiché, grazie al percorso di revisione critica del processo da parte della chiesa cattolica, si giunse a quella che è nota come la svolta del Simonino. Nel 1965 si giunse alla soppressione del culto e la rimozione della salma dalla chiesa dedicata a San Pietro che la ospitava. 
    Questa decisione comportò l'abolizione della tradizionale processione per le vie di Trento. La revisione della posizione della chiesa cattolica portò ad una riconciliazione con la comunità ebraica che, dopo l'assurdo processo ai danni delle persone accusate d'omicidio e le conseguenti pene capitali, aveva lanciato il cherem, assimilabile alla scomunica della chiesa cattolica, sull'intera città di Trento, che non vide soggiorno di ebrei da quel lontano 1475 per ordine espresso del principe vescovo. La svolta del Simonino portò pace e tranquillità sulla vicenda sino a quando Ariel Toaff, rabbino e storico italo-israeliano, nel 2007 pubblicò un saggio dal titolo Pasque di sangue: ebrei d'Europa e omicidi rituali, dove ipotizzava devianze dalle norme della halakhah, la tradizione normativa religiosa dell'ebraismo, da parte di alcune comunità ebraiche ashkenazite relativamente all'astensione da ogni contatto con il sangue. Gli ebrei ashkenaziti sono i discendenti delle comunità ebraiche stanziatesi nel medioevo nella valle del Reno, e ashkenazita significa appunto germanico. 
    Nel IX secolo l'immigrazione in Germania di numerosi ebrei dall'Italia meridionale diede origine a una consistente comunità ashkenazita. Il fatto che i presunti aguzzini del piccolo Simonino appartenessero a questa comunità ebraica comportò diversi problemi poiché, in seguito alla pubblicazione del libro, si poteva comprendere come alcuni gruppi deviati di ebrei, in risposta ai torti subiti, avessero potuto utilizzare sangue umano per rituali magici. Il libro di Toaff fu ritirato dal commercio e l'autore si trovò al centro di una tempesta mediatica. La vicenda legata a Simonino costituisce una testimonianza delle persecuzioni subite dalle comunità ebraiche, e delle false accuse di omicidio rituale, che ebbero notevole diffusione in Europa.

    Fabio Casalini

    Bibliografia

    Giorgio Summaripa, Martirio Simone da Trento, Verona, Giovanni Alvise, Alberto Alvise, 1478

    Ariel Toaff, Pasque di sangue: Ebrei d'Europa e omicidi rituali, Bologna, Il mulino, 2007

    Anna Esposito e Diego Quaglioni, Pasque di sangue, le due facce del pregiudizio, Corriere della Sera, 11 febbraio 2007

    Ebrei e accusa di omicidio rituale nel Settecento: il carteggio tra Girolamo Tartarotti e Benedetto Bonelli (1740-1748) di Nicola Cusumano, UNICOPLI, 2012


    FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
    Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.

    Irma Grese, la bella belva di Auschwitz

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    Auschwitz fu il campo di concentramento e sterminio più vasto e prolifico della storia del nazionalsocialismo. Il complesso fu creato a partire da vecchie costruzioni militari appartenenti all’esercito polacco. I terreni circostanti furono via via espropriati per aumentare la capacità del complesso, che divenne operativo a partire dal 14 giugno 1940. Un anno dopo vantava una superficie di 40 km², fra baracche, camere a gas, forni crematori, area destinata ai roghi umani, fattorie modello e aziende di produzione.
    L’intero corpo era suddiviso in Auschwitz 1, campo di concentramento e centro amministrativo dell’intero complesso; Auschwitz 2, conosciuto anche come Birkenau, operativo dal 8 ottobre 1941, campo di sterminio nel quale persero la vita oltre 1.500.000 di prigionieri; Auschwitz 3, conosciuto anche come Monowitz, campo di lavoro per la produzione di gomma sintetica, operativo dal 31 ottobre 1942, dove soggiornarono anche Primo Levi e Elizer Wiesel. Intorno ai tre campi gravitavano 45 sottocampi.
    Sul cancello principale campeggiava la scritta “Arbeit macht frei”, il lavoro rende liberi. La scritta fu voluta dal primo responsabile del campo, Rudolf Höss, che la fece fare a un fabbro dissidente politico polacco, di nome Jan Liwackz, matricola n° 1010, che fece saldare, a suo rischio e pericolo, la lettera B al contrario. Se si osserva una foto della scritta, si nota in effetti qualcosa di strano.
    All’interno del campo si potevano trovare politici, criminali, emigranti, testimoni di Geova, omosessuali, Rom e Sinti. Costituivano una categoria speciale gli ebrei, indicati con un contrassegno specifico, le donne che avevano una relazione interrazziale, i sospettati di fuga, i polacchi, i cechi, i membri delle forze armate e i prigionieri speciali. Nella scala sociale gli ebrei occupavano l’ultimo posto ed erano trattati peggio di tutti.
    Auschwitz era considerato una fabbrica di morte. Io ritengo che fu anche una fucina di mostri, tra i peggiori di tutti tempi. Sembrava quasi che entrando in quel luogo, uomini e donne perdessero la loro umanità. Chiunque dava sfogo alle proprie frustrazioni, alla morbosità, alla cattiveria più nascosta, al sadismo.
    Il personaggio di cui vi vorrei raccontare si calò perfettamente nell’ambiente che ho descritto sopra. Si sentiva a proprio agio, amava il suo ruolo, godeva letteralmente dell’altrui sofferenza.
    Giovane, bella, bionda e senza cuore, Irma Grese fu soprannominata, da chi la conobbe, la Bella Bestia di Auschwitz. Irma nacque a Wrechen, nel nord della Germania, il 7 ottobre 1923. La sua infanzia fu difficile.
    Era terza di cinque figli, molto introversa e manipolabile, spaventata da tutto e incapace di prendere una qualsiasi iniziativa, neppure per le cose del vivere quotidiano come mangiare o cambiarsi i vestiti.
    I fratelli approfittarono spesso del suo carattere debole. I suoi genitori non andavano molto d’accordo. Suo padre Alfred trovava spesso distrazioni dal matrimonio con altre donne. Dopo anni di sopportazione, la madre Berta, profondamente depressa, si tolse la vita bevendo dell’acido cloridrico. Irma aveva solo 12 anni. Questo dolore segnò tutta la sua esistenza.
    La nuova famiglia che si venne a costituire era molto allargata: 5 fratelli, il padre, la matrigna e 4 figli avuti dalla donna durante il primo matrimonio. Poco dopo dalla nuova unione nacque un altro figlio. La vita di Irma divenne ancora più difficile, sbeffeggiata da fratelli e fratellastri, detestata dalla matrigna, che la vedeva molto più bella di tutti gli altri figli, soprattutto i suoi. La costringeva spesso a vestirsi in modo goffo, per mascherare la sua avvenenza. Da parte sua Alfred era spesso violento con i figli, li picchiava senza motivo.
    Durante l’adolescenza da timida e introversa bambina si trasformò in ragazza sadica e spietata. Su di lei ebbe un’influenza fondamentale l’indottrinamento nazionalsocialista , che la convinse della superiorità della razza ariana e che la “soluzione finale” fosse una cosa più che giusta da mettere in atto.
    A 15 anni si ritirò da scuola, dopo essersi messa spesso nei guai. Con il padre i rapporti divennero molto tesi, essendo lui un fermo oppositore del regime nascente. Nonostante questo Irma si iscrisse alla Lega delle ragazze tedesche - Bund Deutscher Mädel - organizzazione di giovani naziste, che educava con disciplina ferrea in modo che le arruolate fossero pronte per combattere e morire per il Reich.
    Quando la giovane espresse la volontà di lavorare nel campo di Ravensbrück, fu cacciata di casa e denunciata come “senza fissa dimora”. Per lei si aprirono, anche se per un breve periodo, le porte del carcere.
    Successivamente fece apprendistato come infermiera, mostrando doti considerevoli. A 19 anni divenne membro delle SS e successivamente supervisore a Ravensbrück. Il suo sogno si era concretizzato. Li conobbe Dorothea Binz che la iniziò alle pratiche del sadismo: le aveva insegnato come punire i prigionieri, come reagire alle ribellioni ed ai rallentamenti del lavoro. Definiva il sadismo come un “piacere malizioso”.
    Irma si distinse anche qui per le sue doti innate: bella, giovane e tremendamente crudele. Voleva emergere, per dimostrare a tutti il suo valore, soprattutto alla famiglia che l’aveva denigrata a lungo.
    Curava ossessivamente la propria divisa, la frusta, i suoi stivali e il suo cane: li considerava strumenti di lavoro. Dopo poco tempo fu promossa e trasferita a Birkenau dove divenne sorvegliante del settore destinato alle ebree polacche. In quel blocco diede sfogo a tutta la sua malvagità. Fu nuovamente promossa, arrivando a ricoprire il secondo ruolo più importante a cui una donna nelle SS potesse aspirare: sorvegliante di 31 baracche con circa 3000 donne ciascuna. Tra queste il blocco 11, il “blocco della morte”, in cui ogni giorno venivano eseguite le fucilazioni di chi vi era rinchiuso. Nello svolgimento del suo operato le era stata data autorizzazione di eliminare tutti coloro che si fossero opposti alle regole, senza dover rendere conto a nessuno. Suo superiore diretto era Maximilian Grabner, capo della Gestapo ad Auschwitz.
    Nel campo Irma conobbe un uomo mostruoso, con cui intrecciò una relazione, il dottor Josef Mengele, che aiutava personalmente nella scelta dei prigionieri destinati agli esperimenti o alle camere a gas. Questo rapporto amoroso di collaborazione non le impedì di avere relazioni omosessuali con sorveglianti e prigioniere, che poi venivano uccise per eliminare ogni traccia di ciò che aveva fatto. Se veniva scoperta, la malcapitata testimone veniva inviata alla camera a gas oppure uccisa con un colpo di pistola alla nuca.
    Il suo sadismo non conosceva limiti. Amava frustare per passatempo le prigioniere più belle su seno e ventre, provocando loro orribili lacerazioni che poi faceva curare in infermeria senza anestesia; alle loro sofferenze reagiva con malcelato piacere. Assisteva alle operazioni chirurgiche, anche quelle senza anestesia, godendo fisicamante delle sofferenze dei pazienti. Seguiva le prigioniere in bicicletta fino ai luoghi di lavoro, facendole attaccare e sbranare dal proprio pastore tedesco, che teneva a digiuno per giorni, se le vedeva troppo deboli e malate. Al culmine della sua follia arrivò a legare insieme le gambe di una donna in travaglio che morì fra atroci dolori insieme al suo bambino. Non si separava mai dalla sua amata frusta, fatta a mano da lei stessa con anima in metallo e foderata con cellophane trasparente. Chiamava le prigioniere “deck” – letame, immondizia -, le prendeva a calci con i suoi stivali sempre impeccabili, fino ad ucciderle, le colpiva con il manganello e le finiva mentre erano a terra. Si divertiva a selezionale le prigioniere che non parlavano tedesco per ordinare loro di portare qualcosa oltre la rete divisoria; quando si avvicinavano, i soldati ordinavano loro di fermarsi, ma poiché non erano in grado di capire l’avvertimento, continuavano il loro cammino per essere poi uccise a fucilate. Secondo alcuni testimoni la Bella Belva era responsabile di almeno 30 morti la giorno, ma se ne ipotizzavano anche di più.
    La sua promiscuità le si ritorse contro. Rimase incinta nel 1943. La decisione fu ovvia, abortì, tornando subito al lavoro, nella fabbrica della morte. A marzo del 1945 venne trasferita nel lager di Bergen-Belsen, dove iniziò una nuova relazione con un ufficiale delle SS. La loro storia durò poco perche il 15 aprile le truppe inglesi entrarono nel campo per liberare i prigionieri. Irma Grese fu arrestata insieme ad altri ufficiali.
    Fu accusata di crimini di guerra sulla base delle testimonianze fornite dai sopravvissuti.
    Con lei alla sbarra degli imputati altre 18 donne, 44 SS e il loro comandante, Josef Kramer. Il processo iniziò il 17 settembre 1945. Il pubblico ministero, colonnello T.M. Backhouse, la definì senza ombra di dubbio la “peggiore donna del campo”. Non mostrò mai un attimo di cedimento, nessuna emozione o il benché minimo pentimento. Aveva solo 22 anni e il ghiaccio al posto del cuore. Il 17 novembre arrivò il verdetto: «Il tribunale degli Alleati ha giudicato Irma Grese colpevole di genocidio e di strage e l’ha condannata a morte mediante impiccagione». Con lei altre due donne furono condannate all’impiccagione, Juana Bormann, Elisabeth Volkenrath. La mattina del 13 dicembre 1945 a Hameln, con altri 12 membri delle SS, Irma Ilse Ida Grese fu impiccata. Salendo la patibolo, baciò il crocifisso, chiuse gli occhi e mentre le veniva infilato un cappuccio nero in testa disse solo….«Schnell!». Così morì la Bella Belva, lasciando dietro di se solo dolore e morte. Come lei tutti i colpevoli della Shoah non meritano pietà o comprensione. Irma durante il dibattimento, sempre arrogante e sprezzante verso chi le stava di fronte, non mostrò mai un segnale di umanità. Tutte le foto scattate in quei giorni la ritraggono impassibile, anche durante le deposizioni dei testimoni. Solo riascoltando le torture a cui aveva sottoposto le prigioniere esibì un sorriso compiaciuto, quasi a voler rivivere il piacere che aveva provato in quei drammatici giorni nel campo di Auschwitz.

    Rosella Reali


    Bibliografia
    Sarti, Wendy Adele-Marie. Women and Nazis. Bethesda: Academica Press, 2012

    Kater, Michael H. Hitler Youth. Cambridge, MA: Harvard University Press, 2006

    Zweite eidesstattliche Erklärung Greses am 14. Juni 1945, in: Claudia Taake: Angeklagt: SS-Frauen vor Gericht Universität Oldenburg 1998

    Ernst Klee: Das Personenlexikon zum Dritten Reich. Wer war was vor und nach 1945. 2. Auflage. S. Fischer, Frankfurt am Main 2003

    Hermann Langbein: Menschen in Auschwitz. Frankfurt am Main, Berlin Wien, Ullstein-Verlag, 1980

    Claudia Taake: Angeklagt: SS-Frauen vor Gericht. Diplomarbeit an der Universität Oldenburg 1998

    Roland Paul, Le donne del nazismo. Il fascino del male, L'Airone Editrice Roma, 2015

    ROSELLA REALI
    Sono nata nel marzo del 1971 a Domodossola, attualmente provincia del VCO.  Mi piace viaggiare, adoro la natura e gli animali. L'Ossola è il solo posto che posso chiamare casa. Mi piace cucinare e leggere gialli. Solo solare, sorrido sempre e guardo il mondo con gli occhi curiosi tipici dei bambini. Adoro i vecchi film anni '50 e la bicicletta è parte di me, non me ne separo mai.  Da grande aprirò un agriturismo dove coltiverò l'orto e alleverò animali. 
    Chi mi aiuterà? Ovviamente gli altri viaggiatori.
    Questa avventura con i viaggiatori ignoranti? Un viaggio che spero non finisca mai...

    Viaggio dentro Guernica

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    Ci sono cose di fronte alle quali, al di là dei libri di storia e delle critiche d’arte, si può solo tentare di narrare…

    Entri e fai il biglietto. Come in tutti i musei.
    (Come sempre... serve sempre un biglietto... per qualunque viaggio...)
    Lasci borse e borsette e macchine fotografiche. Come in quasi tutti i musei.
    Consulti la piantina, e scopri che devi andare al secondo piano. Allora prendi l'ascensore e vai. Un po’ come in tutti i musei.
    Ma è un illusione.
    Per un po’ continuerai ancora a credere di stare semplicemente visitando un museo.
    E invece no.
    La storia la sai, o credi di saperla.
    Spagna tra le due guerre, dittatura fascista, guerra civile perché gli spagnoli democratici (anche i comunisti, pensa un po’) cercano di resistere. Per reprimere la ribellione nel paesino di Guernica nel nord della Spagna il caro e cattolicissimo "generalissimo" Franco chiede aiuto ai suoi amici nazisti, all'aereonautica del terzo reich, per la precisione. E un aiuto ad un amico non si nega mai.
    E allora via. 26 Aprile 1937. Ecco che arrivano fischiando gli stukas, e giù bombe. E Guernica rasa al suolo. Un paesino qualunque, sconosciuto al mondo. Pure col nome un po’ strano. Vattene a ricordare.
    Allora ci pensa Picasso, a svegliarsi quella mattina e a decidere che te ne saresti ricordato. Tu e tutto il mondo, per sempre.
    E non pensa più ad altro. Si butta giù a disegnare disegnare disegnare. E poi inizia a dipingere su una tela gigantesca. E disegna e dipinge e ci ripensa e cancella.
    Finisce tutto in due mesi. Presenta il suo urlo contro la violenza nazifascista davanti a tutto il mondo durante l'esposizione universale a Parigi, nello stesso 1937.
    E lascia anche disposizioni ben precise: il quadro deve essere messo al sicuro, prestato a New York. Ma solo prestato. Dovrà tornare in Spagna, ma ci dovrà tornare solo e soltanto dopo che in Spagna sarà tornata la democrazia.
    Così accadrà, ma Picasso non la vedrà mai la democrazia nella sua Spagna. Il quadro ci torna nel 1992.
    Questa è la Storia, ma è davvero solo la storia.
    Ora tu cammini per il corridoio di quello che ancora ti sembra un museo come tanti altri e pensi che conoscere un po’ la storia ti serva ad essere minimamente preparato per ciò che stai per vedere.
    E' un'illusione. Non sai ancora nulla, e non ne hai idea.
    Poi cominciano i disegni.
    Riconosci già alcune cose... il cavallo... lo vedi nascere e contorcersi cercando l'urlo migliore... con i denti, senza i denti, con gli occhi in dentro, poi in fuori.
    Poi il toro. Poi una mano che stringe una spada... solo la mano... bellissima, contorta, tutti i disegni sono bellissimi, inquietanti, ma non sono ancora nulla.
    Poi d'improvviso te lo trovi davanti. Guernica. Il quadro.
    Non ti aspettavi di trovarlo già lì, non ti sentivi ancora preparato, ma in realtà non lo saresti stato mai.
    E' enorme.
    Tre, quattro metri di altezza, sette, forse otto di lunghezza... sconfinato.
    Ma non è solo quello.
    Ci sono quadri la cui luce esce dalla tela e invade la stanza e il tuo sguardo e tutto il resto, altri che ti catturano lo sguardo e te lo fanno viaggiare da un angolo all'altro.
    Guernica ti inghiotte. Ma non solo lo sguardo. Ti inghiotte fisicamente.
    E la prima cosa che capisci, oltre che vederla la capisci, è che quella non è la guerra, è una cosa molto più semplice, anzi molte più cose semplici messe tutte insieme.
    E' violenza. Ferocia. Disperazione. Urlate senza pietà da triangoli grigi e neri. Il cavallo è tutti i cavalli del mondo, la mamma col bambino massacrato è tutte le mamme disperate del mondo, l'uomo a terra fatto a pezzi è tutta l'impotenza di tutti gli uomini del mondo di fronte alla violenza.
    E l'urlo ti fa male alle orecchie, e ogni tanto devi distogliere lo sguardo perché non ce la fai...
    E a forza di restarci dentro, perché ti ha inghiottito davvero, piano piano capisci e vedi altre cose... capisci che sei in un interno... c'è una lampada appesa al soffitto che ancora fa luce, ma sei anche all'esterno... c'è un palazzo che crolla, o forse brucia, e capisci allora che molto più semplicemente il mondo si è frantumato, le pareti sono andate in pezzi, e ciò che fino ad un attimo prima era ancora domestico, privato, personale, ora è improvvisamente scaraventato all'esterno, è in strada, è davanti agli occhi di tutti, è squarciato in un attimo, e in quell'attimo lo è per sempre.
    Ti giri... guardi altri quadri, altri disegni preparatori, le foto della realizzazione... fai un giro e poi c'è una forza centripeta che ti riporta lì, e ti inchioda di nuovo lì davanti.
    E ti ributti dentro, ti tira di nuovo dentro, anche se non lo volessi... fino a farti male. Hai il petto oppresso, il respiro più pesante. Non è una visione, non ti cattura solo la vista. Non è un museo, è un luogo storico, geografico e al tempo stesso mentale, immaginario.
    Cerchi di riallontanarti ma non ce la fai... guardi altri quadri, cose importanti... Dalì, Mirò.... niente da fare... ti sembrano disegni di bambini... ritorni indietro e ti fissi di nuovo davanti a quel rettangolo enorme che sfonda la parete e ti proietta nell'incubo. Non vuoi e non puoi svegliarti, non ci si sveglia da una cosa così.
    Capisci anche che l'arte è prima e dopo Guernica, e forse anche la storia è prima e dopo Guernica, il mondo è prima e dopo Guernica.
    Bisognerebbe portarci chiunque. Le scuole dovrebbero organizzare gite soltanto per andare a Madrid e piazzarsi lì, in quella stanza. Verrebbero fuori generazioni migliori, sono sicuro che verrebbero fuori generazioni migliori.
    Continui a visitare il museo praticamente solo per disintossicarti... per riuscire ad uscire poi fuori, al sole, senza sentirti male, senza sentirti in un mondo dove c'è qualcosa di sbagliato. Perché c'è qualcosa di sbagliato, da dimenticare almeno un po’ per poterci restare davvero.
    Infine esci al sole. Madrid in pieno Agosto.
    Ma non basta a svuotarti la mente e neanche lo sguardo.
    C'è un cavallo che urla, c'è un ronzio nelle orecchie, c'è un muro che si apre come la bocca di uno squalo e inghiotte un uomo che alza le braccia disperate al cielo, c'è un lampadario che cerca di far luce e taglia solo il nero, c'è una mamma con un bambino a pezzi fra le braccia che piange con tutte le lacrime possibili, ci sono pezzi di uomini, pezzi di case, pezzi di vita che esplodono insieme al sole...
    Non è solo l'arte o la storia o il mondo, sei anche tu... anche il tuo sguardo e il tuo modo di vedere le cose. Anche tu da ora in poi hai un prima e un dopo Guernica... e in mezzo un istante infinito.

    Alessandro Borgogno

    ALESSANDRO BORGOGNO
    Vivo e lavoro a Roma, dove sono nato il 5 dicembre del 1965. Il mio percorso formativo è alquanto tortuoso: ho frequentato il liceo artistico e poi la facoltà di scienze biologiche, ho conseguito poi attestati professionali come programmatore e come fotoreporter. Lavoro in un’azienda di informatica e consulenza come Project Manager. Dal padre veneto ho ereditato la riservatezza e la sincerità delle genti dolomitiche e dalla madre lo spirito partigiano della resistenza e la cultura millenaria e il cosmopolitismo della città eterna. Ho molte passioni: l’arte, la natura, i viaggi, la storia, la musica, il cinema, la fotografia, la scrittura. Ho pubblicato molti racconti e alcuni libri, fra i quali “Il Genio e L’Architetto” (dedicato a Bernini e Borromini) e “Mi fai Specie” (dialoghi evoluzionistici su quanto gli uomini avrebbero da imparare dagli animali) con L’Erudita Editrice e Manifesto Libri. Collaboro con diversi blog di viaggi, fotografia e argomenti vari. Le mie foto hanno vinto più di un concorso e sono state pubblicate su testate e network nazionali ed anche esposte al MACRO di Roma. Anche alcuni miei cortometraggi sono stati selezionati e proiettati in festival cinematografici e concorsi. Cerco spesso di mettere tutte queste cose insieme, e magari qualche volta esagero.




    Guinefort, il cane che divenne un santo

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    Guinefort, il levriero, apparteneva a un cavaliere che viveva in un castello vicino alla città di Lione. Un giorno il cavaliere andò a caccia, lasciando il figlio da poco nato alle cure del cane. Quando tornò trovò la casa sottosopra e il bambino non si trovava da nessuna parte. Guinefort corse incontro al proprio padrone con le fauci sanguinolente. Credendo che il cane avesse azzannato il figlio, il signore uccise Guinefort. All'improvviso un vagito, un pianto. Girò la brandina e trovò suo figlio disteso. Era sano e salvo. Sul fianco del bimbo una vipera morta. Il signore comprese immediatamente cosa fosse accaduto: il cane aveva ucciso l'essere strisciante e salvato il neonato. Il cavaliere, accortosi dell'errore, decise di costruire un piccolo santuario per il cane. Insieme alla famiglia seppellì Guinefort in un pozzo coprendolo con delle pietre. Intorno a quell'improvvisato luogo di sepoltura furono piantati molti alberi. Guinefort, il cane, fu riconosciuto come santo dalla gente del luogo, in particolar modo a lui fu richiesta la protezione dei fanciulli. Secondo i commentatori contemporanei ai fatti narrati, i locali lasciarono i loro bambini nel sito della sepoltura per ottenere la guarigione dal cane che stava divenendo un santo. Secondo Stefano di Borbone, morto nel 1262, i contadini, sentendo parlare delle nobili azioni del cane e dalla sua innocente morte, cominciarono a visitare il luogo ove era sepolto. 
    La superstizione portò ad onorare l’animale come un martire in cerca di aiuto per le loro malattie e altri bisogni. In base a quanto scritto da Stefano di Borbone, il popolo fu sedotto e spesso ingannato dal diavolo, così da condurre altri uomini all'errore. In particolar modo colpite furono le donne con bimbi malati che si recavano, anche da distanze considerevoli, a rendere omaggio al cane, non prima di essersi fermate da una vecchia signora che insegnava loro un rituale per fare offerte e invocazioni ai demoni. Quando le donne giungevano al luogo della sepoltura, offrivano sale e certe altre cose, appendendo i vestiti dei propri piccoli sui cespugli di rovi, fissandoli alle spine. Spogliato il bambino, lo facevano passare attraverso l'apertura tra i tronchi di due alberi: la madre stava in piedi da una parte e passava il bambino nove volte alla vecchia signora dall'altra parte. Durante il rito invocavano i demoni, nel caso specifico i fauni del bosco. Cosa chiedevano le madri? Dicevano ai fauni di prendersi il corpo del piccolo malato, nella convinzione che appartenesse a loro, e di restituirgli il bambino grande, paffuto, vivo e sano. Una volta effettuata la richiesta, le madri prendevano il piccolo e lo deponevano ai piedi dell'albero; accendevano delle candele poste alle estremità della piccola culla nella quale giaceva il bimbo e si allontanavano per non udire le urla di dolore che il bambino emetteva quando era rapito dal fuoco. In questo modo le candele accese bruciarono e uccisero un certo numero di bambini. Quanto ci sia di vero nelle parole di Stefano di Borbone risulta complesso da comprendere, sappiamo che con il tempo, e grazie ad un incessante passaparola che durò secoli, la figura di Guinefort, il cane, fu assimilata a quella di un santo umano in carne ed ossa. Il culto del cane divenuto santo per volontà del popolo cristiano, fu proibito ed osteggiato più volte dalla Chiesa cattolica; malgrado questo resistette sino al secolo scorso, il ventesimo. 
    Solo negli anni trenta del novecento il culto fu definitivamente abolito dalla Chiesa. Casi analoghi li possiamo trovare nel folclore e nelle leggende di svariate parti del mondo. Dalla Francia ci spostiamo in Gran Bretagna. La storia racconta che nel XIII secolo, contemporaneo a Guinefort, il principe Llywelyn il Grande aveva un palazzo in una città del Caernarvonshire, e poiché lo stesso era un grande appassionato di caccia, aveva molti cani che lo aiutavano e che convocava soffiando nel corno. Un giorno apparvero tutti tranne il preferito, di nome Gelert. Il principe, dispiaciuto per l'assenza, non attese oltre e iniziò la battuta di caccia. Quando tornò fu accolto da Gelert con le mascelle che grondavano sangue. Il signore inorridito pensò che il cane avesse azzannato il figlio di un anno. Corse in casa e trovò la culla rovesciata e le pareti sporche di sangue. Llywelyn si convinse che il cane Gelert avesse ucciso il proprio figlio. Pazzo di dolore prese la spada e la immerse nel cuore del segugio. Mentre il cane ululava nella sua agonia, Llywelyn udì il grido del figlio che proveniva da sotto la culla rovesciata. Era illeso. 
    Accanto al bimbo un enorme lupo, ucciso dal coraggioso Gelert. Il signore, preso dal rimorso per l'azione compiuta, decise di seppellire il cane con una solenne cerimonia. La città nella quale accaddero i fatti cambiò nome in Beddgelert, che in gallese assume il significato di tomba di Gelert. Queste leggende non sono altro che una variazione del racconto popolare indiano Il bramino e la Mangusta, dove la mangusta prende il posto del cane.Si trova anche in altre versioni, e l'animale sacrificato assume la forma di una donnola, un gatto, un orso o un leone. L'essenza della storia rimane la stessa. 
    Interessante il film francese del 1987, Le Moine et la sorciéreche descrive la controversia su Saint Guinefort vista attraverso gli occhi di Stefano di Borbone, inquisitore domenicano e autore delle memorie con cui conosciamo la storia del santo che divenne cane. In conclusione voglio ricordare che a Nosate, provincia di Milano, esiste una chiesa dedicata a San Guniforte. Presumo che la dedicazione non sia al santo-cane ma a San Guniforto, la cui passio fu pubblicata per la prima volta dal Mombrizio. Una copia si trova nella biblioteca del capitolo di Novara. Il suo valore storico è nullo, come la santità del cane.

    Fabio Casalini


    Bibliografia
    Stuart Blackburn (1996), "The Brahmin and the Mongoose: The Narrative Context of a Well-Travelled Tale", Bulletin of the School of Oriental and African Studies, University of London

    William Alexander Clouston; Christine Goldberg, eds. (1968), Popular tales and fictions: their migrations and transformations, Volume 1

    Halsall, Paul (September 8, 2000). "Stephen de Bourbon (d. 1262): De Supersticione: On St. Guinefort Etienne de Bourbon". Medieval Sourcebook. Fordham University

    Tuder de Courtecadeno, Mevanwy verch, a/k/a Mark S. Harris (May 2005). "Guinefort: The Sainted Dog of France". The Barge. Stefan's Florilegium

    Jean-Claude Schmitt, Il santo levriero: Guinefort guaritore di bambini, Torino, Einaudi, 1982

    FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
    Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.

    Il giorno che gli UFO sorvolarono i cieli sopra Fiorentina-Pistoiese

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    27 ottobre del 1954, Firenze.
    Verso le 14 e 20 minuti i cieli sopra la cattedrale di Santa Maria del Fiore a Firenze furono percorsi da numerosi, e non identificati, oggetti volanti di colore bianco e dalla strana forma ad ali di gabbiano. In quelli stessi momenti nello stadio cittadino si stava svolgendo l'incontro amichevole tra la Fiorentina e la Pistoiese. I tifosi, all'improvviso, alzarono gli occhi al cielo ed iniziarono ad indicare le evoluzioni degli oggetti volanti. La partita fu immediatamente sospesa. Tra gli spettatori di quell'evento misterioso vi era anche il futuro allenatore della nazionale di calcio italiana, Ferruccio Valcareggi. Le testimonianze di coloro che videro il fenomeno, sia nei pressi del duomo che allo stadio, riportarono che gli oggetti provenivano da nord-ovest, dalla zone delle Cascine, per proseguire in direzione sud-est, in direzione di Rovezzano. 
    Delle strane evoluzioni nei cieli sopra Firenze restano le testimonianze di un capocronista della Nazione, Giorgio Batini, e di due calciatori presenti allo stadio, Romolo Tuci e Ronaldo Lomi. Quella strana giornata di Firenze non si concluse con le evoluzioni in cielo di strani oggetti poiché sarebbe seguita, per circa una mezz'ora, una caduta di filamenti di materiale appiccicoso, la cosiddetta bambagia silicea, comunemente nota come capelli d'angelo. Il fenomeno si ripeterà nei giorni successivi nei cieli di diverse città del centro Italia. Tra paura, sgomento e curiosità, iniziarono a prendere corpo le più fantasiose teorie. Nelle ore seguenti l'evoluzione nei cieli sopra Firenze, un ragazzo che frequentava l'università cittadina chiamò la redazione della Nazione spiegando come fosse riuscito a raccogliere una parte di quello strano materiale caduto dal cielo. Raccontò di averlo deposto in una provetta. Il filamento di sostanza sarà analizzato all'Istituto di Chimica analitica dell'Università di Firenze e risulterà composto in prevalenza da boro, silicio, calcio e magnesio. Nelle stesse ore un impiegato dell'aeroporto di Peretola telefonò alla Nazione esponendo la propria teoria: la sostanza che cadde dal cielo altro non era che un insieme di ragnatele. Secondo questo testimone, alcune volte il vento raccoglieva le ragnatele sino a riuscire a formarne una grossa palla; le correnti ascensionali le portavano verso l'alto dove, una volta colpite dalla luce del sole, diventavano luminose. Un'altra teoria prese corpo in quei momenti concitati, secondo la stessa il materiale caduto dal cielo altro non sarebbe stato che una sostanza vetrosa rilasciata dagli aerei. Intervennero professori ed esperti di varie materie. Il professor Piccardi, dell'Università di Firenze, escluse in modo perentorio che la materia fosse stata rilasciata da aerei. Lo stesso studioso avanzò la propria teoria: il vento aveva rapito del materiale vetroso da qualche fabbrica. Nel 1954 vi era una sola fabbrica in tutta la Toscana che produceva lana di vetro. La stessa si trovava a Livorno. La teoria che fossero gli aerei ad aver rilasciato quello strano materiale continuò a mantenersi in vita sino a quando intervenne un pilota ed esperto di aviazione, Vasco Magrini, che affermò perentoriamente che se un velivolo avesse perso lana di vetro poteva esserci una sola spiegazione: si stava distruggendo. Intervenne anche il professor Guglielmo Righini, dell'osservatorio di Arcetri, che sostenne che non si sarebbe trattato di oggetti volanti ma di un fenomeno di ottica atmosferica: data l'ora e la posizione del sole la bambagia avrebbe dato origine a fenomeni di riflessione scambiati per palloni o dischi volanti. 
    Le testimonianze continuarono ad esprimere le teorie più varie, fantasiose e chiaramente infondate. Alla Nazione giunse una lettera del professor Malvezzi che riportava un ricordo del 1942, anno nel quale avrebbe visto una grande palla verde e poi un oggetto a forma di sigaro. Il quotidiano di Firenze riportò notizie di fenomeni analoghi che si erano registrati in Svizzera, dove alcuni testimoni dissero d'aver visto sgretolarsi un disco volante. Dal 27 ottobre al 30 dello stesso mese non si parlò d'altro. La Nazione riportò riferimenti ad altri episodi vicini e lontani, divagando sul tema. Fu ricordato persino il famoso episodio che ebbe come protagonista Orson Welles la sera del 31 ottobre 1938. Welles ed un gruppo di attori misero in scena alla radio un racconto sull'invasione della Terra da parte degli alieni talmente realistico e drammatico che molti credettero a quello che ascoltavano. Il resoconto di Welles provocò scene di panico portando alcune persone a tentare il suicidio.
    Il fenomeno di Firenze fu osservato in pieno giorno da tantissime persone. L'evento relativo alla caduta dei filamenti di vetro, quasi una nevicata stando ad alcune testimonianze, potrebbe essere stato osservato in epoche lontane e raffigurato con le conoscenze del tempo. Potrebbe essere questo strano fenomeno alla base del dipinto La fondazione di Santa Maria Maggiore di Masolino da Panicale. Si tratta di una tempera su tavola oggi conservata nel Museo nazionale di Capodimonte a Napoli. Il pennello di Masolino mostra l'evento miracoloso legato alla fondazione della basilica di Santa Maria Maggiore a Roma. Secondo la leggenda durante il torrido agosto del 358 la Madonna apparve in sogno al papa di allora, Liberio, chiedendogli di dedicarle una chiesa a Roma. La mattina successiva, il 5 agosto, iniziò a nevicare su Roma e la neve si posò sull'Esquilino indicando al papa il luogo ove doveva fondare la chiesa. 
    Liberio decise di fondarla nel luogo del presunto miracolo. All'interno dell'opera di Masolino da Panicale il papa è raffigurato in primo piano mentre con una zappa traccia il solco delle fondazioni della basilica. Attorno a lui si dispone una folla numerosa sotto una fitta nevicata. Gli oggetti in cielo, che alcuni presunti ricercatori che si atteggiano a conoscitori di tutto quello che ci circonda, ritengono essere UFO, altro non sono che nuvole cariche di neve.
    L'evento avvenuto a Roma nel 358 potrebbe essere lo stesso accaduto a Firenze nel 1954?
    Un indagine del CICAP rivelò che in quelle settimane erano in corso esercitazioni militari che facevano uso di chaff, contromisure per trarre in inganno il sistema di puntamento degli aerei, che avrebbero creato riflessi in cielo. Lo chaff consiste nella dispersione di una nuvola di materiale radar-riflettente che genera delle interferenze nell'attività dei radar. Se il materiale caduto dal cielo di Firenze era chaff, gli eventuali UFO avvistati dai cittadini e dagli spettatori di Fiorentina-Pistoiese erano velivoli militari? Esistono molti casi analoghi di ricaduta di chaff contemporanea alla vista di aerei scambiati per UFO. Molti di questi casi furono raccolti nel Project Blue Book dell'aeronautica militare statunitense, la USAF, in un periodo compreso tra il 1947 e il 1969.
    Riporto il caso avvenuto nel Pacifico Meridionale nell'inverno del 1957: Il progetto Colorado ha ricevuto un campione di materiale metallico, sotto forma di brevi pezzi di nastro stretto che è stato dichiarato essere materiale da una navicella spaziale. Una pila annidata del materiale riferito è stata trovata nella parte anteriore della casa dei testimoni che avevano osservato due navi spaziali. Il campione non era radioattivo quando ricevuto dal Progetto, ma si diceva che fosse altamente radioattivo quando cadde nell'inverno del 1957. Il campione era accompagnato da un rapporto analitico da un laboratorio vicino all'area dell'avvistamento. Questo rapporto affermava che la composizione del materiale differiva dal materiale usato come "pula" radar, sebbene l'alluminio fosse il principale costituente. Il materiale è stato inviato alla Hauser Research and Engineering Company, Boulder, Col., per l'analisi e l'identificazione. Le analisi spettrografiche indicavano una composizione simile a quella del radar "chaff", cioè un foglio di alluminio rivestito con polvere di piombo. La Hauser Company ha inviato piccoli campioni di questo materiale ai principali produttori di "chaff" radar. Tra le loro risposte c'era quella di Mr. VB Lane, Direttore della ricerca tecnica, Foil Division, Revere Copper and Brass, Inc.”.
    Un'altra teoria analizzata, che legherebbe l'evento di Firenze a quello relativo alla fondazione della basilica di Santa Maria Maggiore, vuole che la presenza dei filamenti sarebbe dovuta a un fenomeno naturale legato alla tecnica del balloonig messa in atto da alcune specie di ragni per migrare. I ragni producono dei lunghi filamenti biancastri che portati dal vento li sollevano li trasportano per lunghe distanze. Il periodo di migrazione coincide con quello in cui avvennero gli avvistamenti di Firenze. Il fenomeno era del tutto ignoto all'epoca in cui si verificano i fatti. Se l'evento fosse del tutto naturale, ossia i filamenti furono generati dalla tecnica del balloonig, dovremmo ringraziare l'impiegato dell'aeroporto di Peretola che prontamente telefonò alla redazione del quotidiano la Nazione risolvendo il mistero. Se invece avesse ragione il CICAP, con dati riscontrabili da chiunque nel Project Blue Book della USAF, dovremmo ricordare che la superstizione punta l'indice verso coloro che tendono ad analizzare in modo razionale quando accade nelle nostre vite. Ieri come oggi.

    Fabio Casalini

    Bibliografia/sitografia
    http://www.project1947.com

    John T. Spike, Masaccio, Rizzoli libri illustrati, Milano 2002

    S. Boncompagni & altri, UFO in Italia. II: L'ondata 1954, Corrado Tedeschi ed., 1980

    Roberto Giacobbo - Rosamaria Latagliata, UFO - Verità o menzogna?, Giunti, 2006

    Firenze, ottobre 1954 - Dischi volanti sulla città

    Richard Padula (BBC World Service Sport), The day UFOs stopped play, su bbc.com. URL consultato il 25-01-2017

    A.A. V.V., UFO Evidence, NICAP, Washington D.C., 1964

    Centro CCAP. Terso appuntamento su cerchi nel grano e scie chimiche dal sito di Massimo Polidoro

    Ufo - Avvistamento di massa a Firenze (1954) - YouTube

    Richard Padula, The day UFOs hovered over Fiorentina's Stadio Artemio Franchi, in BBC World Service Sport, 4 gennaio 2013

    FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
    Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.

    Eroi sconosciuti: Silas Soule

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    Se il tragico evento del Sand Creek, uno dei peggiori massacri del far-west, viene oggi ricordato come una carneficina e non come una gloriosa battaglia, lo dobbiamo in gran parte ad un ufficiale della milizia del Colorado che quel giorno si rifiutò di obbedire agli ordini del suo comandante, denunciandone l’infamia, anche a costo della propria vita. Questa è la vera storia del capitano Silas Soule, un giovane e sconosciuto idealista della Storia americana, al quale intendiamo dare il giusto risalto, nel consueto “solco” che contraddistingue questa pagina virtuale. Silas Soule nacque in un'ardente famiglia abolizionista del Maine il 26 luglio del 1838, secondogenito di 4 figli di Amasa e Sophia Soule, trascorrendo la propria infanzia nel Massachusetts dove acquisì dal padre le convinzioni illuministe e la passione per i diritti e l’uguaglianza. Anche se il moderno revisionismo tende a negare che nell’America della prima metà dell’800 esistesse un diffuso sentimento anti-schiavista e preferisce ricondurre piuttosto quelle che furono le premesse della guerra di secessione esclusivamente ad interessi economici contrapposti tra gli Stati del Nord e quelli del Sud, in realtà già dal 1804, pochi anni dopo la Dichiarazione d’Indipendenza, la schiavitù era vietata in tutti i territori a nord della linea Mason–Dixon e un’importante corrente di pensiero di origine illuminista, contraria allo sfruttamento umano, tentava di espandersi e contrastare il modello sociale degli Stati meridionali i quali, fondando la propria economia su coltivazioni come quella del cotone, consentivano invece il mantenimento degli schiavi di colore. Molti dei movimenti abolizionisti che si svilupparono in quel periodo nelle realtà industriali dell’Unione, accoglievano spesso tra le proprie fila convinti idealisti e sostenitori del progresso umano. Fu da questo ambiente che Silas trasse i propri ideali e già nel 1855, appena 17enne, si trasferì con la madre e le due sorelle più piccole, Annie ed Emily, per unirsi al padre ed al fratello maggiore William in una fattoria appena a sud di Lawrence, nel Kansas. Lawrence era a quel tempo il centro del conflitto tra i gruppi abolizionisti del nord e le formazioni indipendentiste degli Stati del sud. Quella parte di territorio, infatti, nota come "Bleeding Kansas" (Kansas insanguinato) stava per entrare a far parte degli Stati Uniti ed i violenti scontri in atto ne avrebbero determinato le future caratteristiche di Stato Libero o Stato Schiavista. In quell’anno la famiglia Soule, vicina alle formazioni armate degli “Jayhawkers”, offriva rifugio alla rete segreta “underground railroad” essendo impegnata a fornire basi logistiche per aiutare gli schiavi neri a fuggire illegalmente dal sud verso il Canada. Il giovane Silas, nel 1859, prese parte alla rocambolesca evasione di John Doy, un medico abolizionista catturato mentre aiutava 12 schiavi in fuga e rinchiuso nelle carceri di St. Joseph, nel vicino Stato del Missouri. E fu proprio grazie alla sua bravura nell’organizzare la fuga del medico che il ragazzo venne ingaggiato per liberare John Brown, il famoso leader dei ribelli anti-schiavisti, che era detenuto nelle prigioni di Charlestown in Virginia. Probabilmente anche tale blitz sarebbe riuscito, se non fosse per il rifiuto categorico dello stesso John Brown di essere salvato, preferendo, al limite del fanatismo, servire per l’ultima volta la causa tramite il proprio martirio. Egli infatti si disse pronto a morire se ciò avesse contribuito alla fine della schiavitù.

    Abolizionisti del Kansas: Silas Souleè il secondo da destra
    John Brown fu impiccato il 2 dicembre 1859 e Silas, fallita la sua missione, tornò a Lawrence dove, dopo la morte per malattia del padre Amasa, prese la decisione unitamente al fratello William e ad altri giovani compagni di avventura, di trasferirsi sulle montagne ad ovest di Denver, nel territorio di quello che sarebbe presto diventato lo Stato del Colorado, meta di molti coloni attratti dal richiamo dell’oro. La sua attività di minatore terminò però ben presto poiché, allo scoppio della guerra civile nell’aprile del 1861, non solo si unì ai primi volontari, ma si fece parte attiva per reclutare altri giovani minatori da avviare alla causa abolizionista e combattere contro il Sud. Il battesimo del fuoco arrivò nel marzo del 1862, con l’importante battaglia di “Glorieta Pass” nel territorio del New Mexico, nella quale le truppe unioniste, ricacciando i confederati della Brigata Sibley in Texas, precluse loro l’accesso ai giacimenti auriferi del Colorado e della California, risorse indispensabili per le sorti dell’intera guerra. In quell’episodio Silas si distinse per coraggio e capacità belliche, tanto da meritare la promozione a capitano nel nascente 1° Rgt. Cavalleria Volontari del Colorado, con destinazione Fort Lyon, alle dipendenze del Maggiore Edward Wynkoop. Lo scontro bellico tra nord e sud rimase lontano dai territori di frontiera e pertanto Silas Soule e “Ned” Wynkoop, divenuti ben presto amici, nel periodo di stanza al forte si concentrarono su come riuscire a migliorare i rapporti con le locali tribù native, sempre più insofferenti alla colonizzazione dei bianchi e spesso protagoniste di sanguinosi attacchi alle comunità di pionieri. Il 1864, in particolare, fu un anno tremendo che vide violenti attacchi da parte delle bande di Cheyenne “Dog Soldiers” e Sioux, con diversi efferati omicidi e la cattura di numerosi civili. Per tali motivi l’idea di provare a trattare la pace con le tribù indiane nei territori di frontiera non era molto popolare tra gli ufficiali dell’Esercito, il cui pensiero dominante era che l’unico modo efficace per evitare che gli indiani ostili continuassero ad uccidere i coloni fosse quello di attaccare per primi i villaggi ove gli stessi vivevano e dai quali partivano le scorrerie. Nonostante lo scetticismo del governatore territoriale John Evans e del comandante del Distretto Militare Col. John Chivington che avevano passato l’estate ad armare le milizie e sospendere ogni tipo di garanzia costituzionale, il capitano Silas Soule e il maggiore Edward Wynkoop riuscirono, in ogni caso, a porre le basi per fissare importanti incontri con le tribù Cheyenne e Arapaho. Nei primi colloqui (Concilio di Smoky Hill–10 settembre 1864) i rappresentanti degli Stati Uniti promisero la pace al capo dei Cheyenne meridionali Black Kettle in cambio della liberazione di 8 ostaggi (quattro bambini bianchi rapiti sul Little Blue River in Nebraska, due donne con un neonato catturati vicino a Plum Creek, nonché una donna, Ann Snyder, fatta prigioniera in agosto vicino a Camp Fillmore).
    Trattato di Camp Weld: Magg. Wynkoop e cap. Soule accoscati
    Le trattative, condotte dall’interprete meticcio George Bent, si rivelarono decisamente complicate vista l’estrema diffidenza di entrambi gli schieramenti, ma grazie alla buona volontà di Wynkoop, Soule e del capo Black Kettle si giunse al primo importante risultato di scambiare tre bambini bianchi con due Cheyenne prigionieri (Occhio Solo e Testa d’Aquila) alleggerendo la tensione e facendo ben sperare. Le difficoltà tuttavia restavano enormi: il problema di Black Kettle era riuscire a tenere tutti i guerrieri sotto il suo comando ed evitare, almeno in questa fase, che le scorrerie e gli omicidi continuassero, mentre Wynkoop e Soule agivano senza l’autorizzazione dei superiori gen. Curtis e col. Chivington, ormai d’accordo col governatore Evans nella pianificazione delle rappresaglie e, pertanto, tenuti volutamente all’oscuro delle trattative in corso. Il tempo stringeva e gli animi si scaldavano: i due ufficiali pensarono di portare una delegazione indiana a Denver (Trattato di Camp Weld del 28 settembre 1864) per cercare di coinvolgere nella pace anche il Governatore Evans ed i superiori militari. Ben sette capi tribù Cheyenne e Arapaho, sotto la guida di Black Kettle, si presentarono quel giorno per intavolare nuovi colloqui con il governatore, dopo aver consegnato nelle mani di Silas Soule, in segno di buona fede, ulteriori 3 prigionieri (Laura Roper di anni 16, Ambrose Asher e Daniel Marble di anni 7) oltre al cadavere della signora Anna Snyder suicidatasi pochi giorni prima, impiccandosi ad una tenda mentre era prigioniera. Da una lettura dei resoconti documentali dei colloqui di Camp Weld emerge chiaramente il grande limite del trattato: il Governatore Evans, da subito spalleggiato dal Col. Chivington, diffidente e per niente incline a concessioni, non poteva e non voleva rispondere delle decisioni del Dipartimento della Guerra, deciso a punire le bande di ostili, mentre la delegazione dei capi Cheyenne e Arapaho, a sua volta, non era in grado di parlare in nome di tutte le tribù dell’area, tra le quali operavano anche bande Apache, Kiowa, Comanche e Sioux. Inoltre le sanguinose scorrerie continuavano anche da parte di guerrieri appartenenti alle tribù i cui capi erano lì, presenti per trattare la pace. Nel corso dei colloqui il gen. Curtis telegrafò al col. Chivington da Fort Leavenworth precisandogli “voglio che gli indiani soffrano di più prima di offrire loro la pace”. A nulla valsero quindi gli sforzi di Wynkoop, al quale Black Kettle disse molto francamente: “Vi sono bianchi cattivi e indiani cattivi. Questi uomini che stanno da ambo le parti hanno causato questo disordine e alcuni dei miei giovani si sono uniti a loro anche contro la mia parola. Credo però che la colpa sia dei bianchi che hanno cominciato questa guerra costringendo la mia gente a combattere.” Gli sforzi sembravano vani e le difficoltà veramente insormontabili. Fatto stà che dopo un mese circa arrivò l’ordine per il magg. Wynkoop di trasferirsi a Fort Riley con la scusa di dover gestire la distribuzione di alcune razioni di cibo destinate agli indiani pacifici per conto del Ministero dell’Interno; il comando di Fort Lyon fu ceduto al magg. Scott Anthony, un interventista che cercò da subito la linea dura limitando le concessioni di derrate alimentari ai nativi della riserva, intimando loro di consegnare le proprie armi e chiedendo l’intervento di rinforzi al col. Chivington, il quale giunse a Fort Lyon il 28 novembre. La preoccupazione di Anthony era il villaggio Cheyenne sul Sand Creek, guarda caso proprio quello dove si trovava Black Kettle, il più importante e forse l’unico, vero, caparbio, sostenitore della pace con i bianchi. I giochi erano fatti e Chivington, l’ex predicatore battista, prese il comando delle operazioni alla guida dei circa 700 uomini dei tre reggimenti volontari del Colorado, preparandosi alla rappresaglia: “Io sono venuto a uccidere gli indiani e credo sia giusto ed onorevole usare qualsiasi mezzo Dio ci abbia messo a disposizione”. Non c’era nulla da aggiungere.
    Accampamento Cheyenne
    Sui fatti che seguirono esiste una lettera che sarebbe stata scritta di proprio pugno dal cap. Silas Soule indirizzata al magg. Winkoop, inizialmente perduta tra le nebbie del tempo ma ricomparsa pochi anni fa – asseritamente trovata in un vecchio solaio ad Evergreen – e citata al Congresso degli Stati Uniti dal Senatore Ben Nighthorse Campbell (unico parlamentare di origine nativa, diretto discendente di un sopravvissuto del Sand Creek) durante una discussione per la creazione di una targa commemorativa inerente ai fatti in narrazione. Questi alcuni significativi passaggi:
    “Caro Ned, due giorni dopo che sei partito … hanno messo agli arresti Bent e John Vogle piazzando le guardie attorno ai loro alloggi. L’ordine era di massacrare gli indiani amici accampati sul Sand Creek. Il maggiore Anthony ha fornito tutte le informazioni operative, unendosi con entusiasmo a Chivington & Co. … non appena ho appreso quanto stavano tramando mi sono indignato come avresti fatto tu se fossi stato qui e ho riunito alcuni ufficiali nella stanza di Cannon, dicendo loro che dopo gli innumerevoli sforzi di pace che avevamo fatto, chiunque avesse avallato un attacco del genere era un vigliacco, codardo e figlio di puttana ... il capitano Johnson ed il tenente Harding sono andati a raccontare tutto a Chivington … hanno giurato che mi avrebbero impiccato prima di togliere le tende e l’avrebbero fatto sicuramente se gli altri ufficiali non mi avessero sostenuto … Siamo arrivati nel campo di Black Kettle all’alba … io mi sono rifiutato di sparare e ho dato analogo ordine alla Compagnia D, nessuno dei miei uomini doveva muoversi ... ho urlato che tutto ciò era contrario alle leggi militari e che solo un vigliacco avrebbe osato toccare le centinaia di donne e bambini che ci correvano incontro e si inginocchiavano per chiedere pietà. Ho sentito Anthony gridare “uccidete i figli delle femmine”, posso giurare che oltre 200 colpi sono stati sparati dalle truppe contro le mie guide, gli indiani che riuscivano a correre nella direzione della mia Compagnia si mettevano in salvo ... Non ti dico Ned quanto sia stato difficile per me essere impotente nel vedere bambini piccoli in ginocchio con la testa fracassata da persone che si professavano civili ... Ho ancora adesso l’immagine di una squaw ferita, di un soldato che tenendola ferma le tagliava un braccio finendola poi a colpi di accetta ... una giovane coppia scappava tenendosi per mano fino a quando, raggiunti e circondati da uomini a cavallo, si sono inginocchiati abbracciandosi l’un l’altra al collo mentre venivano uccisi insieme ... i cadaveri erano tutti orrendamente mutilati. Penserai che è impossibile che uomini bianchi abbiano macellato e mutilato altri esseri umani come hanno fatto loro quella mattina …”
    Soule fece schierare i propri uomini dai tenenti Joseph Cramer e James Cannon in modo da formare un cuscinetto di protezione tra i soldati lanciati all’assalto e gli indiani che cercavano un corridoio di fuga, riuscendo a portarne in salvo parecchi, forse centinaia, tra i quali lo stesso Black Kettle. Quella mattina oltre 150 Cheyenne, per la maggior parte donne e bambini, restarono a terra orrendamente massacrati sulle rive del Sand Creek. Dei loro corpi fu fatto scempio, delle loro parti intime souvenir da esporre nelle strade di Denver.

    Volontari del Colorado
    Nonostante le minacce, l’intimidazione e le percosse subite immediatamente dopo i vergognosi fatti dagli uomini di Chivington, il quale lo confinò temporaneamente agli arresti deferendolo per codardia e propagandando l’episodio bellico come una grande vittoria, Silas Soule – grazie anche alla lealtà ed al supporto dei suoi uomini – non si arrese mai, scrisse diverse lettere al Ministero e agli amici Ned Winkoop e Walt Whitman (un poeta abolizionista amico di famiglia) chiedendo loro di informare il Congresso dell’infamia consumata. Fu proprio grazie ai due amici che la notizia venne data anche alla stampa, alcuni giornalisti presero a cuore il caso e colsero l’occasione per presentare Silas come un eroe senza macchia, bel ragazzo, onesto, simpatico e brillante, popolare con le donne e appassionato di recitazione. I giornali di Denver e Central City ne fecero subito un personaggio positivo e pubblicarono, senza omettere i dettagli ripugnanti, le scioccanti parole del giovane ufficiale sul massacro, cercando di scuotere un’opinione pubblica distratta dalla guerra civile ancora in corso. L’intento riuscì e nei primi mesi del 1865 a Denver venne inviata una Commissione Militare d’inchiesta, presieduta dal Col. Samuel Tappan il quale, sciolto il Reggimento dei Volontari del Colorado, allestì una sorta di processo testimoniale, nel quale il capitano Soule, i tenenti Cramer e Cannon poterono essere sentiti nelle udienze del 15 e 22 febbraio e contestare pubblicamente gli efferati omicidi e le orrende mutilazioni perpetrate contro i componenti del villaggio Cheyenne. Durante tutto lo svolgimento dell’inchiesta, tuttavia, il col. Chivington, essendosi tra l’altro già in gennaio ritirato dall’Esercito, non figurò mai in veste di imputato bensì di libero testimone chiamato a fornire la propria versione dei fatti, interrogando personalmente qualsiasi persona volesse sostenere la tesi della grande ed eroica battaglia. Le udienze pubbliche si svolsero in un clima di grande confusione, gli animi di chi vi assisteva erano contrastanti poiché, mentre alcuni cittadini erano a favore del capitano Soule, diversi coloni che avevano subito lutti familiari dalle numerose incursioni indiane, erano invece insofferenti ed esagitati contro chi in quella sede preferiva parteggiare per i Cheyenne accusando chi difendeva in armi la comunità. Nonostante le numerose intimidazioni e minacce di morte, Silas Soule non ritirò nessuna accusa, tirò dritto per la sua strada portando contro Chivington ogni testimonianza in suo possesso (tra i più rappresentativi l’interprete e commerciante presente nell’accampamento John Smith nonché la guida meticcia Robert Bent), ben consapevole dei rischi per la sua persona ma determinato a smascherare quello scempio di vite umane che era stato volgarmente presentato come una gloriosa vittoria. In quei giorni, pertanto, Denver aveva una grande esigenza di tutelare l’ordine pubblico per le strade e Silas, nel tentativo di riprendere almeno una parvenza di vita normale, offrì il proprio contributo come assistente di polizia militare. In quei giorni, acquisita la paga, pensò finalmente anche a sposarsi -il 1° aprile 1865- con la bella 19enne Hersa Coberly, figlia della proprietaria di un noto saloon di Denver, l’Halfway House. Tre settimane dopo il matrimonio, il 23 aprile, mentre i coniugi Soule stavano tornando a casa dopo aver trascorso la serata con amici, vennero attirati da alcuni rumori provenienti da un vicolo, dove nel buio una persona, che evidentemente li stava aspettando, sparò in faccia a Silas, uccidendolo sul colpo prima che potesse reagire.
    Lapide affissa nel luogo dell'omicidio di Silas Souls a Denver
    I sospetti sul mandante dell’omicidio ricaddero subito su Chivington, per cui Wynkoop ed il fratello William Soule portarono immediatamente Hersa in un luogo sicuro, temendo un’ulteriore rappresaglia, mentre l’amico James Cannon si poneva immediatamente sulle tracce dell’assassino, riuscendo a rintracciarlo, catturarlo e consegnarlo alla giustizia giorni dopo nel New Mexico. Si trattava di un certo Charles Squier, ex miliziano già agli ordini di Chivington, grave indizio che tuttavia non poté mai formalizzarsi poiché, poco prima del processo, egli riuscì inspiegabilmente a fuggire dalla prigione facendo perdere le proprie tracce. Nessuna prova restava a carico del colonnello che fu soprannominato in tutto l’ovest come “il macellaio del Sand Creek”. Pochi giorni dopo anche il tenente James Cannon venne trovato misteriosamente ucciso avvelenato nella sua stanza a Tremont House: qualche testa a questo punto doveva cadere e toccò al Governatore Evans, costretto a lasciare la sua carica per l’inefficienza dimostrata nel gestire tutta la situazione, dai trattati di Camp Weld in poi.
    Così finì, all’età di 26 anni, la vita di Silas Soule, un giovane americano che dedicò gran parte della sua breve esistenza al servizio di grandi ideali, in favore dei popoli oppressi dell’America dell’800, siano stati essi schiavi neri del sud o bambini e donne indiane dell’ovest, sfidando con l’incoscienza della gioventù un destino avverso che, dopo averlo collocato al centro di importanti e pericolosi episodi storici, lo abbandonò in quel vicolo buio, lasciando che il suo nome si aggiungesse a coloro che presto sarebbero stati dimenticati. La sua tomba, nel cimitero di Riverside, a nord-est di Denver, non dissimile da quelle vicine, coperta di terra, sabbia e ciuffi d’erba secca, ha come unico contrassegno distintivo alcune pietre, collocate in suo onore sulla lapide il 29 novembre 2003 dai discendenti Cheyenne e Arapaho, nel 139° anniversario del massacro del Sand Creek. Le pietre indicano simbolicamente la forza del pugno, amaro segno di lotta per la vittoria.

    Sergio Amendolia

    Bibliografia
    Dee Brown – Seppellite il mio cuore a Wounded Knee – Mondadori.

    Sitografia
    https://www.nps.gov/sand/learn/.../the-life-of-silas-soule.htm;

    http://www.historynet.com/silas-soule-massachusetts-abolitionist.htm;

    http://www.westword.com/news/silas-soules-letter-tells-the-true-story-of-sand-creekbut-like-the-massacre-it-was-misplaced-5885512;

    https://history.denverlibrary.org/silas-soule-1838-1865.

    SERGIO AMENDOLIA
    Nato 55 anni fa a Genova, sposato con 2 figli, 2 gatti e un cane, ho sempre guardato con stupore l'orizzonte e tutto ciò che quella linea rappresenta e contiene, convinto che dove il cielo finisce si celano sempre spazi e tempi lontani, spesso inesplorati o conosciuti poco e male. Forse per questo mi attira l'impostazione di questo blog ed i veli della Storia che gli articolisti provano spesso a sollevare, perché conoscere è importante e aiuta a capire ciò che siamo e come lo siamo diventati. Oltre alla nostra bella Italia ed alla sua impareggiabile ricchezza di arte e storia, mi affascinano molto gli scenari mozzafiato dell'Ovest Americano. In questi ultimi anni ne ho percorsi alcuni, ancora una volta cercando di varcare orizzonti i cui contorni sfuggono in continuazione, dimensioni che ho provato a malapena ad intuire nei volti dei nativi che ancora oggi si incontrano nelle riserve: a volte duri, scolpiti e aridi come i monoliti di arenaria rossa, probabilmente gli unici in grado di metabolizzare la sensazione di infinito che pervade quelle terre lontane. Per questo mi piace, quando il tempo libero me lo permette, collaborare con riviste e pagine web, tentando di approfondire le vicende che hanno caratterizzato la storia di quei popoli d'oltreoceano, in particolare l'epopea del West, con un occhio particolare agli uomini e alle donne che la vissero davvero, fuori dai luoghi comuni e dai grandi miti costruiti da Hollywood.

    19 luglio 1985, la morte scorre in Val di Stava

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    19 luglio 1985. Ore 12:22. Nella miniera di fluorite di Prestavèl in val di Stava cedono improvvisamente due bacini di decantazione. L’onda che si viene a creare colpisce a circa 90 km/h, la piccola frazione di Stava, nel comune di Tesero. 180.000 m³ di fanghiglia uniti a 40/50.000 m³ di materiali di erosione, composti da detriti di edifici, alberi e rocce, seminano morte e distruzione. L’area interessata è di 435.000 m² circa per una lunghezza di 4,2 chilometri. L’impatto è devastante. Durante il passaggio vengono distrutti completamente 3 alberghi, 53 abitazioni, 6 capannoni e 8 ponti; altri 9 edifici sono gravemente danneggiati. Nell’impatto muoiono 28 bambini di età inferiore ai 10 anni, 31 ragazzi di età inferiore ai 18 anni, 120 donne e 89 uomini. In totale 268 persone. Cerchiamo di ricordare insieme motivi che portarono a questa catastrofe che sconvolse il Trentino Alto Adige. La Val di Stava è una valle laterale della più famosa Val di Fiemme. Il suo nome deriva dal Rio Stava, che la attraversa interamente. La valle ha una lunghezza complessiva di 8 km; inizia con il torrente al passo di Pampeago, per poi lambire le pendici del monte Prestavèl e terminare nella val di Fiemme
    Nel 1934 in zona vengono rilevati alcuni interessanti filoni di fluorite, utilizzata nell’industria metallurgica. Dopo la fine della seconda guerra mondiale, sarà la società Montecatini a gestire il giacimento, che passerà nelle mani del gruppo Montedison fino al 1978 e successivamente ai gruppi EGAM ed Eni. Dal 1980 al 1985 l’area è gestita dalla Prealpi Mineraria.
    La costruzione del primo bacino di decantazione per il materiale di scarto della miniera risale al 1961. 
    È situato in località Pozzole, sopra la frazione di Stava. Il progetto iniziale prevede la costruzione di un argine di 9 mt. In realtà a fine lavori supera i 25 mt. Sotto questo primo bacino, nel 1969 è costruito il secondo, anche questo di circa 25 mt. Vista l’entità della costruzione, decisamente sproporzionata rispetto il progetto iniziale, nel 1974 il comune di Tesero chiede un controllo sulla sicurezza dell’impianto. 
    La verifica inizia nel 1975. Il Distretto Minerario Provincia Autonoma di Trento incarica del procedimento la società concessionaria Fluormine, appartenente ai gruppi Montedison ed EGAM. L’indagine è condotta in modo superficiale e inadeguato, ma cosa ci si poteva aspettare? 
    Nonostante questo, la verifica conferma che la pendenza del bacino superiore, il primo costruito, è al limite della stabilità… «strano che non sia già caduto». L’esito non cambia la situazione, la Fluormine rassicura il comune di Tesero e procede con un ampliamento ulteriore del bacino.
    Giuseppe Zanon, allora sindaco di Tesero, segnala al Distretto minerario della Provincia di Trento che forse non è il caso di innalzare anche il secondo bacino, teme per l’incolumità della popolazione. La riposta è molto semplice: si può procedere con i lavori a patto che siano fatti «con le dovute cautele». La sua lettera è archiviata. 
    Guardando i registri del tempo, fino al 1985, non esiste traccia delle due vasche, che sono ancora indicati in una mappa di quell’anno come “area agricola di interesse secondario”.
    Il 19 luglio il primo bacino cede, non possedendo i coefficienti di sicurezza minimi necessari a evitare il disastro. Tutto il materiale in esso contenuto, acqua, limo e sedimenti, si riversa sul secondo bacino, che a sua volta crolla, liberando una gigantesca ondata di fango che comincia la sua corsa verso il fondo valle alla velocità di 90 km/h, investendo tutto ciò che incontra, per poi riversarsi nel torrente Avisio.
    I soccorsi sono tempestivi ed efficaci, ma poche sono le persone estratte vive. Il numero delle vittime è accertato solo un anno dopo. Molte non sono state riconosciute a causa delle pessime condizioni dei corpi. Si è pertanto ricorsi alla dichiarazione di morte presenta, ridotta in via del tutto eccezionale con apposito decreto legge a 1 anno, contro i 5 canonici. Migliaia sono i soccorritori accorsi per cercare di salvare le persone investite dalla terribile frana, in totale 18.000 uomini, per la maggior parte Vigili del Fuoco volontari del Trentino e militari del 4º Corpo d'armata alpino; partecipano anche Croce Rossa, Croce Binaca, Carabinieri, Polizia di Stato, Guardia di Finanza, Corpo Forestale, unità cinofile, sommozzatori e volontari.
    L’impiego di mezzi è davvero considerevole: si corre contro il tempo, nella speranza, poi dimostratasi vana in molti casi, di estrarre dai detriti qualcuno ancora vivo.
    Le operazioni di recupero durano per tre settimane. Il riconoscimento delle salme va avanti fino alla metà di agosto, in ambienti climatizzati apposta per l’occasione. 
    Il processo per individuare i responsabili si conclude nel 1992, con la condanna di 10 persone per disastro colposo e omicidio colposo plurimo. Ad essere condannati sono i direttori della miniera, alcuni responsabili delle società che hanno dato l’ok alla costruzione e allo sviluppo dei bacini e i responsabili del Distretto minerario della Provincia autonoma di Trento, che non hanno mai fatto controlli adeguati sulle discariche in questione. Sono condannate al risarcimento dei danni la Montedison Spa, l’Industria marmi e graniti Imeg Spa per conto della Fluormine Spa, la Snam Spa per conto della Solmine Spa, la Prealpi Mineraria Spa e la Provincia Autonoma di Trento, che non ha vigilato in maniera corretta su ciò che avveniva ogni giorno alla miniera di Prestavèl. 
    Dopo anni di indagini vengono individuate alcune concause che insieme hanno determinato il terribile incidente: innanzitutto i depositi sono costruiti su terreni non idonei ad ospitarli, a causa della loro natura acquitrinosa, inadatta alla decantazione dei fanghi; l’argine del bacino superiore è costruito in modo non adeguato al drenaggio al piede; il secondo bacino è edificato troppo a ridosso del primo, peggiorando ulteriormente i problemi di drenaggio e stabilità; ricordiamo inoltre il bacino superiore, dopo i lavori di ampliamento è arrivato ad una altezza di 34 mt, ben al di sopra del limite indicato dal progetto iniziale.
    A tutto questo vanno aggiunti la conformazione del terreno del monte Prestavèl, che ha una pendenza del 25% e l’errata disposizione delle tubazioni di sfioro delle acque di decantazione. Una tragedia annunciata.
    In sostanza tutto l’impianto costituiva una minaccia giornaliera e costante sulla val di Stava e sulla sua ignara popolazione, sacrificabile in nome del profitto economico.
    In seguito alla tragedia della val di Stava, viene creata una fondazione, la onlus Fondazione Stava 1985, che dal 1999, per volere dell'allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, gode dell'alto patronato permanente del Capo dello Stato.
    Tanto cordoglio, scuse e imbarazzo, per un disastro annunciato. La giustizia non ha funzionato a dovere, uno dei tanti casi in cui le ragioni economiche hanno vinto sulla sicurezza. I colpevoli non hanno scontato la loro pena. Il prezzo maggiore è sto pagato dal val di Stava, che ancora porta le cicatrici di quel giorno.

    Rosella Reali



    Bibliografia

    AA.VV. Stava Perché - la genesi, le cause, la responsabilità della catastrofe di Stava negli atti dell'inchiesta ministeriale e nelle sentenze del procedimento penale. G. Lucchi (a cura di), Curcu & Genovese, Trento (1995). 

    A A.VV. Genesi, cause e responsabilità del crollo delle discariche della miniera di Prestavel. La catastrofe della Val di Stava, 19 luglio 1985. Fondazione Stava 1985 (a cura di), Tesero (Trento) (2001). 

    Bernardinatti R. & Basso G. Tesero: venerdì 19 luglio 1985. Quotidiano "Adige" [S.l.], Trento (1985). 

    Decarli D., Giovannini A. & Degasperi A. Tesero, 19 luglio 1985: per non dimenticare. Publilux, Trento. (1985) 

    Giordani I., Lucchi G., Salghetti Drioli G. & Tosatti G. Stava 1985 – una documentazione. Centro di documentazione della “Fondazione Stava 1985”, 96 pp., Curcu & Genovese, Trento (2003). 

    Salomoni P. & Doliana C. Stava: dalla strage al processo: cittadini, politici, industriali, avvocati e una montagna di denaro attorno alla sciagura mineraria del 19 luglio 1985. Stampa, Trento (1988). 

    Struffi M. (A cura di) - 269 morti attendono giustizia. Supplemento al quotidiano L'Adige n. 169 (19 luglio 1986), Trento (1986). 

    Tosatti G. (A cura di), Rassegna dei contributi scientifici sul disastro della Val di Stava (Provincia di Trento), 19 luglio 1985. Volume speciale del GNDCI-CNR, 480 pp., Pitagora Editrice, Bologna (2003).


    ROSELLA REALI

    Sono nata nel marzo del 1971 a Domodossola, attualmente provincia del VCO. Mi piace viaggiare, adoro la natura e gli animali. L'Ossola è il solo posto che posso chiamare casa. Mi piace cucinare e leggere gialli. Solo solare, sorrido sempre e guardo il mondo con gli occhi curiosi tipici dei bambini. Adoro i vecchi film anni '50 e la bicicletta è parte di me, non me ne separo mai. Da grande aprirò un agriturismo dove coltiverò l'orto e alleverò animali. 
    Chi mi aiuterà? Ovviamente gli altri viaggiatori.
    Questa avventura con i viaggiatori ignoranti? Un viaggio che spero non finisca mai...


    L'antipapa Giovanni XXIII, giudicato simoniaco e pedofilo

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    Il concilio di Costanza, 1411-18, illustrazione Chronicle of Ulrich von Richenthal 
    Il 28 ottobre del 1958, con grande sorpresa da parte dei fedeli, Angelo Giuseppe Roncalli fu eletto papa e il 4 novembre dello stesso anno fu incoronato, divenendo il 261° sommo pontefice. Fin dal momento della scelta del nome, molti cardinali si accorsero che Roncalli non era ciò che loro si aspettavano poiché Giovanni era un nome che nessun papa adottava da secoli, esattamente dal 1410, data nella quale fu eletto l'antipapa Giovanni XXIII. La scelta del nome, ma soprattutto del numero, fu oggetto di una piccola controversia che lo stesso Roncalli chiuse dichiarando che il nome pontificale era Giovanni XXIII. La scelta di estromettere il precedente Giovanni fu una conferma dell'allontanamento della chiesa cattolica dal personaggio che divenne Antipapa nel corso del XV secolo. Il caso volle che qualche settimana prima dell'elezione a papa, Roncalli si recò in visita a Lodi come legato pontificio per le celebrazioni del centenario della rifondazione della città. 
    Papa Giovanni XXIII, al secolo Angelo Giuseppe Roncalli
    All'interno della Sala Gialla del palazzo vescovile di Lodi trovò un quadro raffigurante Giovanni XXIII, l'antipapa. Prontamente si rivolse al vescovo, Benedetti, facendo notare che non era conveniente tenere in un palazzo vescovile il quadro di quel personaggio. Roncalli non poteva sapere che da li a poche settimane lui stesso sarebbe divenuto papa.
    Ma chi era Giovanni XXIII, nato Baldassarre Cossa?
    Apparteneva alla famiglia dei Cossa o Coscia, signori di Procida e Ischia, legata alla dinastia angioina. Frequentò l'università a Bologna dove si laureò in diritto e in seguito prese l'ordinazione, probabilmente per seguire il volere della famiglia. Chiaramente la sua carriera ecclesiastica fu rapida grazie agli appoggi di cui potevano godere i suoi più stretti familiari. Indro Montanelli di lui scrisse: «Cossa aveva tutte le qualità che un sacerdote non dovrebbe avere: era un politicante ambizioso e accorto, un amministratore abile e rapace, un generale sagace e spietato. Perché avesse fatto il prete invece che il condottiero, non si sa. Ancora meno si sa perché lo elessero Papa, e in un momento come quello. Stando al suo segretario, egli aveva sedotto duecento fra ragazze, spose, vedove e suore. Né intendeva abbandonare questa piacevole attività, ora che aveva indossato la tiara»Prima di approfondire i gusti sessuali del futuro Antipapa Giovanni XXIII, ripercorriamo la sua scalata nella gerarchia ecclesiastica. Nel 1402 fu nominato cardinale da Papa Bonifacio IX, l'anno successivo fu nominato legato pontificio per Bologna e la Romagna. Cossa entrò da trionfatore a Bologna creando, nei mesi successivi, una forte alleanza con la città di Firenze. Negli anni successivi si adoperò per ricomporre lo Scisma d'Occidente, cercando di fare da intermediario tra il papa romano, Gregorio XII, e quello avignonese, Benedetto XIII. Le sue trattative fallirono.
    L'antipapa Giovanni XXIII, al secolo Baldassarre Cossa
    Nel marzo del 1409 si svolse il Concilio di Pisa, di cui Cossa divenne capo. Lo stesso concilio decise di deporre i due pontefici e nominò papa Alessandro V, che morì nel 1410. Alla morte del vecchio pontefice, divenne papa Baldassarre Cossa, che scelse il nome di suo padre e divenne Giovanni XXIII. L'obiettivo principale del Cossa fu la riconquista di Roma, occupata dalle truppe di Ladislao. Luigi II riuscì nell'intento di scacciare gli occupanti, allontanandosi però dalle posizioni del papa che cercò appoggio nel nuovo imperatore Sigismondo di Lussemburgo. Cossa cercò altresì di ottenere favori dai vari Re cristiani d'Europa, nominando cardinali per ciascuno dei regnanti. Giovanni XXIII partecipò al concilio di Roma, previsto dal precedente di Pisa, nel febbraio del 1413. La pace, traballante, ebbe breve durata e Giovanni XXIII chiuse il concilio dopo un mese cercando riparo a Bologna poiché Roma era sotto l'assedio delle truppe di Ladislao. Fu scelta una nuova sede per il concilio, Costanza, sotto la giurisdizione di Sigismondo di Lussemburgo. Nel 1414 si svolse il nuovo concilio. Giovanni XXIII fu spinto all'abdicazione. Abbandonò Costanza chiedendo la protezione del Duca d'Austria Federico IV d'Asburgo. La fuga contrariò l'imperatore, che si fece consegnare Baldassarre Cossa e lo fece imprigionare vicino a Costanza. Nella stessa città fu processato davanti al concilio e deposto il 29 maggio 1415. Ognuno deve pagare per i reati che ha commesso, non davanti a Dio ma davanti al popolo. Giovanni XXIII fu processato per svariati reati, tra i quali la pedofilia. 
     Monumento funebre a Giovanni XXIII, l'antipapa, nel battistero di Firenze
    Non è agevole rintracciare e documentare nella storia del clero cattolico attività riconducibili alla pedofilia. Giovanni XXIII, al secolo Baldassarre Cossa, fu giudicato simoniaco e pedofilo nell'assemblea del Concilio di Costanza del 29 maggio del 1415. Il termine Simonia è utilizzato per indicare l'acquisizione di beni spirituali in cambio di denaro o prestazioni sessuali e deriva dal nome di Simon Mago, taumaturgo convertito al cristianesimo, il quale, volendo aumentare i suoi poteri, offrì a Pietro Apostolo del denaro chiedendo di ricevere in cambio le facoltà concesse dallo spirito santo. Purtroppo la storia della cristianità abbonda di casi di Simonia. La parola pedofilia indica la perversione sessuale caratterizzata dall'attrazione sessuale nei confronti di bambini e neonati. Per individui adolescenti si utilizza il termine pederastia. Giovanni XXIII fu accusato d'aver abusato di bambini che gli erano stati procurati da un certo Angelotto di Roma, chierico della Camera apostolica e canonico di San Giovanni in Laterano. Baldassarre Cossa, in seguito al concilio di Costanza, passò nelle mani del conte palatino del Reno e fu rinchiuso nel castello di Hausen presso Mannheim. 
    Monumento funebre a Giovanni XXIII, l'antipapa, nel battistero di Firenze
    Il giorno 11 di novembre del 1417 fu eletto papa Martino V, che prontamente iniziò le trattative per la liberazione del simoniaco e pedofilo Baldassare Cossa. L'antipapa deposto fu liberato in seguito al pagamento di una cifra notevolissima per i tempi, 30.000 fiorini, che furono sborsati da Giovanni Bicci de' Medici. Per i suoi meriti, non sappiamo esattamente quali dato che fu accusato di simonia e pedofilia, Martino V concesse al Cossa di rientrare nel Sacro Collegio come vescovo del Tuscolo. Morì il 22 dicembre del 1419 a Firenze e fu sepolto, come da lui richiesto, nel Battistero di Firenze, al quale aveva donato un dito di San Giovanni Battista. Alla sua sepoltura lavorarono il celebre Donatello e Michelozzo.

    Fabio Casalini


    Bibliografia
    Io GIOVANNI XXIII. La vita e i miracoli di Papa Roncalli narrati da lui stesso, Alberto Peruzzo editore, 1988

    L. F. Capovilla, I miei anni con Papa Giovanni. Conversazione con Ezio Bolis, Rizzoli 2013

    Indro Montanelli, Storie d'Italia, volume 2 dal 1250 al 1600

    Claudio Rendina, La santa casta della Chiesa, i peccati del Vaticano e l'oro del Vaticano, Newton compton, 2013

    Valerio Bartolucci, I peccati del Vaticano, preti e pedofilia, Roma, Malatempora, 2005

    Vania Lucia Gatto, Viaggio nel silenzio: i preti pedofili e le colpe della Chiesa, Milano, Chiarelettere, 2008


    FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
    Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.

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