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L'isola degli omosessuali al confino nell'Italia fascista

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L'isola di San Domino è una porzione di terra completamente circondata dal mare facente parte dell'arcipelago delle Tremiti, o Diomedee, nel mar Adriatico. Attualmente rientra nella provincia di Foggia. San Domino è l'isola dell'arcipelago che rileva le tracce di presenza umana più antiche poiché sono stati rinvenuti resti di un villaggio del Neolitico.
L'isola porta il nome del vescovo , e martire, San Domino al quale era consacrata, insieme a San Iacopo, una chiesa i cui primi documenti risalgono al IX secolo. Nello stesso periodo arrivarono i monaci benedettini per costruirvi un monastero. Dopo l'anno Mille iniziarono ad erigere un secondo monastero nella vicina isola di San Nicola. I benedettini furono sostituiti dai cistercensi sino al XV secolo, quando l'ordine decise di cedere il monastero al cardinale Marmaldo. Sino a questo punto la storia di San Domino è la storia di tanti piccoli borghi italiani. Nel corso del periodo fascista accadde un fatto unico, che dovrebbe essere conosciuto e insegnato alle nuove generazioni. San Domino durante il ventennio divenne una colonia penale per omosessuali. Occorre introdurre delle annotazioni poiché il reato di omosessualità non era presente nella legislazione italiana durante il fascismo, e nemmeno prima della salita al potere di Benito Mussolini. Nel 1927 quando si discuteva dell'introduzione del Codice Rocco, in sostituzione del Codice Zanardelli, fu previsto un articolo, il numero 528, che prevedeva il carcere da uno a tre anni per chiunque avesse relazioni omosessuali. La pena poteva essere aggravata dalle circostanze di accadimento. Nel momento finale della discussione l'articolo fu, a sorpresa, escluso dal Codice Rocco. Dalla lettura della relazione finale della Commissione Appiani, che si occupava della messa a punto del codice, comprendiamo i motivi della soppressione: “la previsione di questo reato non è affatto necessaria perché per fortuna e orgoglio dell'Italia il vizio abominevole che ne darebbe vita non è così diffuso tra noi da giustificare l'intervento del legislatore, nei congrui casi può ricorrere l'applicazione delle più severe sanzioni relative ai diritti di violenza carnale, corruzione di minorenni o offesa al pudore ma noto che per gli abituali e i professionisti del vizio, per verità assai rari, e di impostazione assolutamente straniero, la Polizia provvede fin d'ora, con assai maggiore efficacia, mediante l'applicazione immediata delle sue misure di sicurezza detentive”. 
La situazione in Germania, dopo la salita al potere di Hitler, fu diversa. Ancora oggi non esistono numeri precisi, ma possiamo comprendere che dopo ebrei e zingari gli omosessuali furono l'insieme di persone maggiormente colpito dalla follia nazista. Secondo l'Arcigay “furono 100.000 gli omosessuali arrestati dai nazisti tra il 1933 e il 1945. Tra questi 15.000 vennero internati nei campi di concentramento. Dai documenti ufficiali del regime è risultato che solo 4000 furono i sopravvissuti”. Nei campi di concentramento nacque un simbolo per differenziare gli omosessuali dalle altre persone internate: il triangolo rosa. In Italia la repressione era diversa. Dal 1936 il regime fascista preferì utilizzare il confino di polizia per punire gli omosessuali. Il confino consentiva alle autorità di arrestare e sottoporre al giudizio di una apposita commissione provinciale chi fosse sospettato di pederastia. In base alle prove raccolte, il sospettato poteva subire una diffida, un'ammonizione o il confino fino a 5 anni. Negli anni seguenti la situazione si aggravò poiché l'omosessuale fu definito antifascista perché la devianza era un attentato alla dignità della razza. Compreso il contesto storico dovremmo chiederci dove queste persone furono confinate. Il fascismo decise di inviare i gay a Lampedusa, Ustica e nell'isola di San Domino nelle Tremiti. Anche in questo caso non esistono numeri precisi, ma parliamo di alcune centinaia di persone rispetto alle decine di migliaia del regime nazista. Tra il 1936 ed il 1940 circa 300 omosessuali furono inviati al confino. Alcuni di loro scontarono la pena di 3 anni, altri di 5, alcuni, i più fortunati e con parentele importanti, tornarono a casa poco dopo l'applicazione della sentenza. Nel 1939 circa 60 omosessuali furono confinati nell'isola di San Domino. Un'annotazione particolare riguarda la provenienza di queste persone: 45 di loro provenivano da Catania. Gli altri uomini provenivano da ogni parte della penisola e svolgevano le più svariate mansioni. Una domanda che appare scontata attiene al perché la maggior parte dei confinati arrivasse dalla città siciliana. Possiamo ritenere che il questore dell'epoca, Alfonso Molina, fosse molto solerte nell'applicazione della strategia del confino per gli omosessuali? Nel documento ufficiale del provvedimento di confino per gli abitanti di Catania si legge: “il dilagare di degenerazione in questa città ha richiamato la nostra attenzione. Ritengo indispensabile, nell'interesse del buon costume e della sanità della razza, intervenire energicamente perché il male venga aggredito e cauterizzato nei suoi focolai. A ciò soccorre, nel silenzio della legge, il confino di polizia”. Per completezza d'informazione occorre ricordare che esiste un caso irrisolto di omicidio a Catania di un ragioniere che intratteneva molte relazioni sociali all'interno della comunità catanese. Le indagini sul delitto scateneranno una corsa alla detenzione di molti personaggi della città. Gli arresti giunsero in due momenti diversi: il primo gruppo, di venti persone, fu confinato a Ustica, Favignana e Lampedusa per un periodo variabile sino ad un massimo di 5 anni di pena, il secondo gruppo, circa di pari numero, fu condannato anch'esso a 5 anni di confino. Nel momento in cui fu emanato l'ordine di confino fu deciso di riunire tutti i deportati in un solo luogo e fu scelta l'isola di San Domino nelle Tremiti, all'epoca disabitata. Interessante compiere un passo indietro e risalire all'inizio delle indagini del questore Molina. All'interno del documento con cui avviò l’inchiesta si legge che “la piaga della pederastia in questo capoluogo tende ad aggravarsi e generalizzarsi perché giovani finora insospettati ora risultano presi da tale forma di degenerazione sessuale”. Dato che era sufficiente una denuncia senza prove, possiamo affermare che vi erano tutti i requisiti della nota caccia alle streghe di stampo contro-riformato. Leggendo il libro di Goretti e Giartosio, La città e l'isola, possiamo comprendere lo stato d'animo di questi ragazzi, che nessun reato avevano commesso. In una lettera di Leonardo a' Francisa, condannato a 5 anni di confino per omosessualità, datata 6 ottobre 1939 possiamo leggere: “è da otto mesi che sospiro la libertà tutti i giorni, in tutte le ore, in tutti i momenti. La legge umana fa espiare i delitti e i reati degli uomini, privandoli di essa, Dio nell'Eden punì l'uomo con la morte, ma non gli tolse la libertà. Dunque vale più della vita. La vita senza di essa è morta, specialmente per un ragazzo a vent'anni, che deve pensare seriamente al suo avvenire. Ed io quale delitto, quale male ho commesso per essere privato così inesorabilmente di questo grande tesoro? Di qual reato di quale scandalo mi si può incolpare?”. La lettera era indirizzata al Ministero degli Interni. 
Come trascorreva la vita dei confinati sull'isola di san Domino? Le persone furono portate in catene per poi essere lasciate liberi di muoversi, sempre sorvegliati dalle guardie. La giornata iniziava all'alba e terminava alle otto di sera, in alternativa alle ventuno nelle sere d'estate, quando una campana avvisava le persone che era giunto il momento di ritirarsi nelle camerate. L'unico svago della giornata era dato dal viaggio verso l'isola di San Nicola, a 15 minuti circa di barca, per effettuare la spesa. I confinati vivevano con 5 lire al giorno che passava lo stato, quando un chilo di pane costava circa 2 lire e quaranta. Molti dei detenuti ricevevano pacchi contenenti cibo dalle rispettive famiglie oppure svolgevano mansioni simili al lavoro che gli competeva prima dell'arresto. Molti omosessuali videro il confino come una vergogna personale e per le proprie famiglie. Alcune testimonianze indicano che altri vissero con più serenità la situazione di deportazione. Leggendo le testimonianze contenute nell'articolo di Arianna Pescini, per Focus storia, possiamo comprendere che alcuni trascorrevano la giornata senza troppe pressioni psicologiche. Nacquero anche storie d'amore e di prostituzione, perché i soldi non bastavano per mangiare decentemente. Interessante la testimonianza di un ragazzo di nome Giuseppe, confinato sull'isola: “là ci sono state perfino coltellate fra siciliani, per passione. Poi non avevamo abbastanza soldi, e qualcuno era costretto a fare marchette con chi era più ricco”. Nello stesso documento si comprende che alcuni pescatori passavano da San Domino la sera per togliersi lo sfizio di un rapporto omosessuale. Non solo pescatori ma anche rappresentati delle forze dell'ordine. Con l'ingresso dell'Italia in guerra, l'isola di San Domino fu riconvertita in campo d'internamento per stranieri. I femminielli, nomignolo spesso utilizzato in epoca fascista, fecero ritorno nelle città di provenienza. Pena scontata? Assolutamente no poiché furono soggetti all'obbligo di firma in questura ogni sera. Poi tutto mutò. Un giorno gli alleati sbarcarono in quella stessa Sicilia che anni prima vide una serie di arresti a catena nei confronti degli omosessuali. Passarono gli anni ma non la repressione. Dario Petrosino, sulla base della documentazione conservata all'Archivio Centrale dello Stato, scrive: “Nelle relazioni al capo della polizia conservate presso l’Archivio Centrale dello Stato (ministero dell’interno, dipartimento generale della pubblica sicurezza), emerge con chiarezza la consistenza del fenomeno: la raccolta dei dati ha inizio nel novembre 1952 e già in quell’anno in soli due mesi vengono eseguiti 518 provvedimenti di polizia che salgono a 1117 nel 1953 e 1407 nel 1954. Da 1955 inizia un calo che vede scendere il numero dei provvedimenti a 671 e poco sopra i 600 negli anni successivi. Poi la curva ricomincia a salire e a metà degli anni ’60 gli omosessuali finiti sotto la lente della pubblica sicurezza sono ancora di più: 1474 nel 1964, ben 3062 nel 1965. Possiamo affermare con rapido calcolo che tra il 1952 e il 1965 furono compiuti in Italia dalla polizia più di 11 mila provvedimenti tra fermi, ammonizioni, diffide, arresti e invii al confino nei confronti degli omosessuali. Credevamo che l’invio al confino fosse una prerogativa dell’odiato regime ed invece apprendiamo che la Repubblica in questo ha battuto il Fascismo per ben più di 100 a 1”. Chi era al governo del paese negli anni del dopoguerra?


Fabio Casalini


Bibliografia
Pescini Arianna, L'isola dei femminielli, Focus Storia , 2016
Nardella Massimiliano, Le Isole Tremiti nell'Italia fascista prigione per omosessuali al confino, Foggia Today del 17 maggio 2013
Giartosio Tommaso e Goretti Gianfranco, La città e l'isola: omosessuali al confino nell'Italia fascista, Donzelli Editore, 2006
Petrosino Dario, La repressione dell'omosessualità nei paesi occidentali negli anni della NATO. Due casi: Italia e Francia a confronto (1952-1994)

FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale, che si avvia a diventare un vero e proprio modello di diffusione della tradizione popolare, dell’arte meno conosciuta, dei misteri e delle leggende conosciuti o meno, in un felice connubio con le moderne tecnologie. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.

Un esperimento di nome Nazino, l'isola dei cannibali

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La Russia è un Paese transcontinentale con una superficie di 17 098 242 km², che si estende tra Europaed Asia. E’ il più vasto Stato del mondo. Oltre la metà del suo territorio è disabitata. Confina con molti stati, alcuni dei quali hanno nomi sconosciuti ai più. 
Numerosi sono i territori inospitali che la compongono. Il vento soffia in queste terre coperte di ghiaccio per molti mesi all’anno, rendendo ancora più freddo quello che alcuni definiscono inferno bianco.
Proprio in questi luoghi, nel 1933 ha avuto luogo un interessante “esperimento sociale di sopravvivenza”, così è stato definito dalle autorità sovietiche del tempo. Il governo era guidato da Iosif Vissarionovič Džugašvili, per molti rivoluzionario di professione, per altri “un caso clinico di un sadismo non sessuale” (cit. Erich Fromm). Tutti lo conosciamo come Josif Stalin, padre della rivoluzione bolscevica del 1917.
Dal 1924, dopo una vita avventurosa e ai limiti della legalità, divenne gradualmente dittatoredel suo Paese fino al 1953, anno della sua morte.
Josif Stalin, georgiano di origine, era per tutti l’uomo d’acciaio. Guidava il paese con fermezza, avvalendosi di uomini fedeli e preparati, che con la sua guida avrebbero riportato la Russia ai fasti di un tempo.
Tra il 1932 e il 1933 il paese visse un periodo davvero difficile. La nazione intera si trovò ad affrontare una mastodontica carestia, causata da diversi fattori, ma fondamentalmente riconducibile, a mio avviso, a due scelte fatte dal governo di Stalin. Prima causa fu la collettivizzazione forzata, iniziata con una imponente campagna di massa tra 1929e il 1933. I contadini sovietici ricevevano un certo tipo di dividendo soltanto dopo che erano stati inviati allo Stato i beni che obbligatoriamente dovevano essere prodotti entro le quote stabilite. La collettivizzazione forzata, non è da confondersi con la collettivizzazione volontaria, come quella che ha luogo nei Kibbutzisraeliani. La seconda causa fu lo sterminio dei kulaki, antica classe produttrice agricola, proprietaria di numerose terre, considerati nemici dello stato.
Nel 1927 Stalin, in occasione di una crisi agricola, decise di reintrodurre le misure sulla requisizione di cereali tipiche del comunismo di guerra, ed iniziò una dura campagna denigratoria contro i kulaki. Le loro terre, confiscate, entrarono nel meccanismo della collettivizzazione forzata. Vennero unificate in cooperative agricole chiamate Kolchozo in aziende di stato, chiamate Sovchoz, che avevano l'obbligo di consegnare i prodotti al prezzo fissato dallo stato. L’opposizione di contadini e kulaki non tardò arrivare, ma fu vana: nascosero le derrate alimentari, macellarono il bestiame senza autorizzazione del governo e in alcuni casi scesero in campo con le armi. La repressione dello stato fu spietata, eliminazioni fisiche e deportazioni di massa nei campi di lavoro colpirono milioni di contadini.
In questo clima di generale cambiamento e di grande difficoltà, nel febbraio del 1933, Genrich Grigor'evič Jagoda, capo della polizia segreta sovietica, e Matvei Berman, responsabile dei Gulag, presentarono a Stalin un grandioso progetto di “ricollocazione forzata”, che avrebbe coinvolto circa 2 milioni di persone. I territori prescelti per attuare il favoloso progetto furono Siberia e Kazakistan.
A questo punto i commenti sulla follia del piano e sull’assurdità nella scelta del territorio potrebbero essere innumerevoli. Ma non sta a me giudicare ciò che è ovvio per tutti quelli che leggeranno come si svolsero i fatti. Secondo i due strateghi, deportando un così elevato numero di persone nelle terre individuate, l’Unione Sovietica sarebbe riuscita a mettere in produzione in circa due anni, 1 milione di ettari di terre incolte, dando vita a comunità del tutto autosufficienti. Il numero dei candidati alla deportazione, dopo un’ attenta analisi, fu dimezzato nell’aprile del 1933, ed era costituito da contadini, kulaki, criminali e soggetti urbani socialmente sgraditi provenienti dalla grandi città. Il reclutamento, sarebbe stato favorito dal sistema dei passaporti sovietici, mediante il quale tutti i cittadini di età superiore ai 16 anni dovevano ricevere un passaporto russo, senza possibilità di libera scelta della nazionalità. In realtà questo esperimento era il secondo nel suo genere. Nei tre anni precedenti furono realizzati insediamenti forzati impiegando 2 milioni di kulaki, con una riuscita abbastanza soddisfacente. Ma la situazione interna attuale era differente, la Russia era fortemente indebolita dalla grave carestia e si trovava, in quel momento nell’incapacità di fornire un adeguato supporto logistico all’operazione. Nonostante questo, Stalin diede il via libera al progetto sociale.
Secondo il programma, i predestinati dovevano giungere a destinazione nell’isola di Nazino, una remota zona a nord di Tomsk, nel cuore della Siberia, che più che un’isola era una lunga e stretta lingua di terra, circondata dalla taiga, nel punto di confluenza tra i fiumi Orb e Nazina, coperti dal ghiaccio fino alla fine di maggio.
Il campo di prigionia più grosso era previsto proprio a Tomsk. Aveva la capacità di ospitare 15.000 deportati, ma all’inizio delle operazioni era in ristrutturazione.
In aprile arrivarono i primi ricollocati. Erano circa 25.000, costituiti per lo più da kulaki, contadini e cittadini della Russia meridionale. Nessuna struttura esistente era in grado di accoglierli tutti. Molti fra loro erano ammalati e malnutriti già in partenza. Arrivarono alla stazione di Tomsk su due treni, uno da Leningrado e uno da Mosca, che ci impiegarono 10 giorni per giungere a destinazione. Il viaggio fu tremendo. La razione di cibo giornaliera era costituita da 300 gr. di pane a testa. I più forti, si unirono per rubare ai compagni di viaggio cibo e vestiti. Impreparate all’arrivo di tanti disperati, tra cui molte persone pericolose, le autorità di Tomsk decisero di relegare il fiume umano in un luogo circoscritto e lontano dalle unità abitative. Abbandonati a loro stessi, con sempre meno cibo a disposizione, i deportati cominciarono a lamentare anche la necessità di acqua. I mezzi disponibili erano del tutto insufficienti e così pure il personale di sorveglianza. Per questa si decise di inviare una parte dei prigionieri verso il campo di Alexandro Vakhovskaya, non attrezzato e inadeguato per dare accoglienza a quella massa di disperati.
Il 14 maggio 6.000 coloni, seminudi e senza attrezzature adeguate, furono caricati per il trasferimento su quattro chiatte fluviali, usate in genere per il trasporto legname. Fu loro consegnata una razione giornaliera di 200 gr. di pane a testa. I prescelti erano per lo più criminali, allontanati dal resto del gruppo per alleggerire il clima al campo di raccolta, oppure cittadini indesiderati di Mosca e Leningrado.
A sorvegliare il folto gruppo vi erano due comandanti e 50 guardie inesperte, anche loro inadeguatamente attrezzate per fronteggiare il freddo ancora pungente. A completare il convoglio, un carico da 20 tonnellate di farina, che sarebbe dovuto servire durante i primi giorni per consentire di organizzare le attività e sfamare i deportati. Destinazione: isola di Nazino una striscia di terra lunga 3 chilometri e larga 600 metri nel punto più ampio, un inferno in terra. Il viaggio terminò il 18 maggio. Arrivarono 322 donne, 4556 uomini e 27 cadaveri. Pochi di quelli che sbarcarono lo fecero con le loro gambe, erano troppo deboli.
Il 21 maggio, tre ufficiali medici presenti sul posto, accertarono 70 nuovi decessi e riscontrarono i primi cinque casi di cannibalismo.
Il 22 maggio cominciò la distribuzione delle razioni di farina destinate a sfamare i prigionieri. Scoppiarono le prime risse per accaparrarsi una maggiore quantità di cibo. Intervennero le guardie in maniera sommaria per sedare gli scontri, aprirono il fuoco a caso sulla folla, colpendo nel mucchio impazzito. Il giorno successivo si ritentò la distribuzione, ma ancora una volta scoppiarono risse sedate volta a fucilate. Per evitare ulteriori problemi, i guardiani divisero in squadre da 150 unità tutti i superstiti, con a capo un brigadiere che aveva il compito di prendere in consegna la razione per tutto il suo gruppo, e che spesso si approfittò della propria posizione di privilegio. Non avendo forni per cuocere il pane, i prescelti per questo esperimento sociale si cibarono di farina cruda mescolata con acqua del fiume. Scoppiò un’epidemia di dissenteria che fece nuove vittime.
Il 27 maggio arrivarono altre 1200 persone, ma nessuna derrata aggiuntiva.
I più audaci cercarono di fuggire su zattere preparate in emergenza, che affondarono quasi subito. Molti annegarono, stroncati dalle acque gelide, dalla debolezza e dalle malattie che avevano fiaccato il loro fisico. In pochi riuscirono a sopravvivere, ma vennero comunque considerati morti, in quanto totalmente inabili ad affrontare la traversata della taiga verso il primo centro abitato, Tomsk.
Nel frattempo Stalin aveva ritirato la sua autorizzazione a procedere, ma ormai i selezionati erano già stati trasferiti. Nel mese di giugno vennero accertati altri casi di cannibalismo, furono in totale arrestate 50 persone. I cadaveri venivano accatastai in cumuli tenuti sotto controllo costante per scongiurare altri casi di antropofagia. I sopravvissuti, circa 2800 persone, furono trasferiti in altri insediamenti, sempre lungo il fiume Nazina. Molti morirono durante gli spostamenti a causa del tifo.
In luglio altri 250 superstiti furono trasferiti da Nazino, insieme ad un gruppo di 4200 persone proveniente da Tomsk. Le malattie e le privazioni fecero il resto sull’improvvisata popolazione di Nazino. Dei 7000 circa che giunsero in quella maledetta lingua di terra , 200 scamparono per miracolo alla morte.
Il caso dell’ Isola dei Cannibali, così venne ribattezzata, è rimasto sepolto dal segreto per oltre 50 anni.
I tragici fatti di quei giorni sono stati portati alla luce solo nel 1988, con l’inizio dell’apertura verso l’occidente e l’avvento della Glasnost.
Vorrei riportare qui una testimonianza inserita nel libro scritto da Nicolas Werth, L’isola dei cannibali, in cui si racconta tutta la verità che ci arriva dai documenti messi a disposizione dalle autorità sovietiche:
«Sull'isola c'era una guardia di nome Kostja Venikov, era giovane. Faceva la corte a una bella ragazza, anche lei deportata. La proteggeva. Un giorno dovendosi allontanare, disse a un compagno: "Sorvegliala tu", ma anche quello, con tutta quella gente intorno non riuscì a fare granché... qualcuno la prese e la legò a un pioppo: le tagliarono il petto, i muscoli, tutto quello che si poteva mangiare, tutto, tutto, avevano fame. Bisogna pur mangiare. Quando Kostja tornò la ragazza era ancora viva (...) Cose così erano all'ordine del giorno. Per tutta l'isola si vedeva carne avvolta negli stracci. Carne umana tagliata e appesa agli alberi».
Cosa posso aggiungere? La storia va raccontata tutta, sia quella dei vinti che quella dei vincitori.


Rosella Reali


Bibliografia

Emil Ludwig, Stalin. Saggio biografico, Roma, Vega, 1944. 

Erich Fromm, undicesimo capitolo, in Anatomia della distruttività umana, Milano, 1975.; Fromm definisce Stalin "un caso clinico di un sadismo non sessuale". 

N.Bucharin, E. Preobrazenskij, L'accumulazione socialista, Editori Riuniti, Roma, 1969 

Ivan Dzjuba, L’oppressione delle nazionalità in URSS, Roma, 1971 

Nicolas Werth, L’isola dei cannibali. Siberia, 1933: una storia di orrore all'interno dell'arcipelago gulag, Corbaccio, 2007

Rosella Reali 

Sono nata nel marzo del 1971 a Domodossola, attualmente provincia del Verbano-Cusio-Ossola. 
Mi piace viaggiare, adoro la natura e gli animali. 
L'Ossola è il solo posto che posso chiamare casa. 
Mi piace cucinare e leggere gialli. 
Sono solare. Sorrido sempre e guardo il mondo con gli occhi curiosi tipici dei bambini. 
Adoro i vecchi film anni '50 e la bicicletta è parte di me. Non me ne separo mai.
Da grande aprirò un agriturismo dove coltiverò l'orto e alleverò animali. Chi mi aiuterà? 
Ovviamente gli altri viaggiatori. 
Questa avventura con i viaggiatori ignoranti? 
Un viaggio che spero non finisca mai..

I Sentinelesi, il misterioso popolo che vive nel passato

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Esiste una piccola isola, North Sentinel nell'arcipelago delle Andamane, dove un popolo, o meglio una tribù, vive rifuggendo ogni contatto con quella che noi chiamiamo civiltà. Le Isole Andamane politicamente appartengono all'India, malgrado la città più vicina sia Calcutta ad oltre 1300 chilometri di distanza.
North Sentinel si trova nella parte meridionale del Golfo del Bengala, vicino alle coste della Birmania. L'ultima tribù che resiste al contatto con il mondo esterno è quella dei Sentinelesi, e sono l'ultimo baluardo delle antiche popolazioni a rimanere incontaminato rispetto alla civiltà moderna. Questa tribù appartiene all'antico popolo degli Andamanesi, che prima del contatto con gli europei non sapeva produrre il fuoco ma possedeva arco e frecce.
Il primo insediamento europeo nell'isola Grande Andaman risale al 1788. Fu presto abbandonato, nel 1795, per essere ricostruito poco dopo la metà del XIX secolo. Questi scarsi contatti tra indigeni ed europei ha permesso il mantenimento delle loro caratteristiche culturali sino agli inizi del secolo scorso, quando le relazioni tra i due mondi si fecero continue, tanto da condurre all'interno di alcune tribù Andamanesi malattie a loro completamente sconosciute, con le cause che tutti possiamo comprendere. Gli Andamanesi sono un gruppo etnico per statura affine ai Pigmei dell'Africa e ai Negritos delle Filippine. Per analizzare brevemente la cultura degli Andamanesi dobbiamo partire dalla loro socialità: il popolo è formato da uno svariato numero di tribù che si riuniscono in gruppi composti da un minimo di 30 ad un massimo di 50 individui. Ogni gruppo ha un proprio territorio con un insediamento stabile e uno variabile in funzione delle necessità stagionali. Ogni famiglia occupa una capanna mentre esiste un luogo comune per i celibi. Non esistendo veri capi tribù, i gruppi sono retti dalle persone di maggiore prestigio. Non esistono leggi o sanzioni tradizionali poiché la paura del disprezzo della comunità è sufficiente ad impedire ogni comportamento antisociale. La religione di questo antico popolo è concentrata sui riti di passaggio. Il primo di questi importanti momenti della collettività si caratterizza alla nascita del nuovo membro della comunità. Prima di partorire i genitori devono osservare alcuni tabù alimentari. In seguito perdono il nome proprio divenendo il padre e la madre del nascituro. Il bambino una volta cresciuto affronta un secondo rito di passaggio.
All'età di 7 o 8 anni è adottato da una famiglia che appartiene ad un gruppo locale diverso da quello di origine. Questo comportamento presenta diversi obiettivi: il primo è quello di preparare il bambino all'uscita dal proprio nucleo familiare; il secondo consiste nel rinsaldare i legami tra i diversi gruppi che formano la tribù. L'ultimo rito di passaggio è quello relativo alla morte del membro della comunità: il defunto è dipinto di bianco e rosso mentre i parenti piangono ed osservano determinati tabù alimentari. Il nome del morto diviene impronunciabile ed il suo corpo è inumato o issato sugli alberi. L'accampamento dove è accaduto il fatto è abbandonato sino al termine del periodo del lutto. Gli Andamanesi hanno un essere supremo celeste, onnisciente, creatore e punitore. A tale dio è attribuito un nome diverso in funzione della distribuzione geografica e territoriale della tribù.
All'interno dell'antico popolo degli Andamanesi esiste la tribù dei Sentinelesi, il gruppo etnico che rifugge il contatto con il mondo esterno. I Sentinelesi mantengono una società di sussistenza del tipo cacciatore-raccoglitore: cacciano, pescano e raccolgono i frutti delle piante selvatiche. Non sembrano esserci prove di pratiche agricole o di utilizzo e produzione del fuoco. Questa tribù è riconosciuta dalle autorità indiane. Il movimento internazionale per i diritti dei popoli indigeni Survival Internationalha definito i Sentinelesi come la società più vulnerabile al mondo. Ritengo che sia facile comprendere il significato di queste nefaste parole poiché questa tribù, rifuggendo il contatto con il mondo esterno, non ha sviluppato difese immunitarie contro le più comuni malattie. Essendo la tribù più isolata del mondo, tutto quello che concerne il loro passato rimane avvolto dalle nebbie del tempo. Si presume che possano vivere sull'isola da almeno 60.000 anni e che i loro antenati possano aver preso parte alle prime migrazioni preistoriche fuori dal continente africano. 
Le scarse informazioni di cui disponiamo derivano da osservazioni effettuate da imbarcazioni ormeggiate a distanza di sicurezza, o meglio dire di freccia. I Sentinelesi hanno scatenato la curiosità mondiale nei mesi successivi il terribile Tsunami del 2004, quando un membro della tribù fu fotografato mentre scoccava frecce in direzione di un elicottero che sorvolava l'isola per controllare il loro stato di salute. Tornarono alla ribalta internazionale e mediatica nel 2006 quando due pescatori, che avevano ormeggiato la barca nei pressi dell'Isola di North Sentinel, furono uccisi dai Sentinelesi. Questi eventi hanno acceso una luce su questa tribù da parte dei media internazionali, che nello spiegare ai loro lettori i Sentinelesi parlarono, e parlano tuttora, dell'ultima tribù appartenente all'età della pietra. Si tratta di una definizione fuorviante e per certi versi errata poiché, non conoscendo nulla del loro passato, possiamo solo ipotizzare come siano potuti giungere in queste condizioni sino a noi. Possiamo comprendere che sono un gruppo etnico molto adattabile perché utilizzano il ferro, arrivato via mare dalla deriva di alcune imbarcazioni, per costruire le punte delle frecce. 
Gli osservatori internazionali raccontano di un popolo in perfetta salute poiché sulle spiagge sono sempre stati avvistati bambini in tenera età e donne in stato di gravidanza. Nel corso della storia gli europei, e successivamente le autorità indiane, hanno provato alcuni approcci con i Sentinelesi. Nella seconda metà del XIX secolo un funzionario britannico, Portman, sbarcò con una squadra sull'isola di North Sentinel nella speranza di contattare la tribù. Trovarono villaggi abbandonati, ma nessun essere umano. Qualche giorno dopo incontrarono una coppia di anziani e alcuni bambini. La squadra britannica decise, nell'interesse della scienza, di prelevare le persone per condurle nella capitale delle Isole Andamane. Ben presto gli adulti si ammalarono e perirono. I bambini furono riportati sull'isola con numerosi doni.
Il ritorno dei più giovani può aver creato un'epidemia all'interno della popolazione?
Nel caso di risposta affermativa, può essere questo il motivo alla base della volontà di non accettare contatti con il mondo esterno?
Nel corso degli anni settanta del secolo scorso, le autorità indiane effettuarono viaggi sull'isola di North Sentinel allo scopo di rendersi amica la tribù. Durante uno sbarco le autorità lasciarono sull'isola due maiali e una bambola. Gli indigeni uccisero i maiali con le lance per poi seppellirli, insieme alla bambola.
Con il trascorrere degli anni le visite divennero più regolari sino alla metà degli anni ottanta quando le autorità riuscirono a sbarcare sull'isola portando doni alla tribù. I Sentinelesi però mostrarono comportamenti contrastanti: alcune volte accettarono i doni mentre in altre situazioni uscirono dalla foresta scagliando frecce in direzione delle squadre di contatto.
Alla fine degli anni Novanta le missioni cessarono per un semplice motivo: molti funzionari indiani iniziarono a mettere in dubbio l'idea di contattare un popolo, sano, che viveva da oltre 60.000 anni senza contatti con il mondo esterno. L'idea si basa sull'esperienza negativa dei contatti con le tribù Andamanesi dove le relazioni ebbero un impatto devastante sulla salute degli indigeni.
Le autorità indiane hanno deciso che non ci sarebbero stati ulteriori tentativi di contattare i Sentinelesi.
Nella speranza che questo popolo possa continuare a vivere nel passato, ritengo assolutamente idonea la scelta del governo indiano.

Fabio Casalini

Per qualsiasi altra informazioni vi invito a visitare il sito di Survival.

FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti

Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale, che si avvia a diventare un vero e proprio modello di diffusione della tradizione popolare, dell’arte meno conosciuta, dei misteri e delle leggende conosciuti o meno, in un felice connubio con le moderne tecnologie. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.

La folle guerra nel ventre delle montagne

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Quanto segue è la sintesi “rapsodica” di un capitolo del mio libro “Nella valle del Boite”. Ho deciso di riportarlo qui in questa forma perché credo sia un modo, uno dei tanti possibili, per raccontare luoghi e vicende storiche che hanno sempre la necessità di essere mantenute vive nella memoria di tutti, in tutte le forme possibili.
La narrazione prende il via dall’arrivo in un albergo in val di Landro, quando alla registrazione dei documenti la signora che gestisce la struttura mi chiede come mai sono da quelle parti, e io rispondo che quei luoghi mi piacciono molto, e quando posso ci torno perché mio padre è originario di Cortina d’Ampezzo.
Saputo del genitore di quelle parti, rilegge il cognome sulla carta d’identità (e quanto al mio povero nome, in quali alberghi l’ho lasciato?) e dice: ah… Strano, non è un nome di qui.
No, è la risposta in effetti è di origine piemontese, però mio nonno già era qui.
Lei sembra fare un equazione che probabilmente ha già fatto tante volte. Eh già… allora è la grande guerra … ne sono venuti tanti qui, molti sono rimasti.

Eh già. La Grande Guerra.
Tanti, tutti, a difendere il Piave che mormorava. La Signora non conosce date e non può fare conti, e quindi non può sapere che la sua ipotesi non regge del tutto. Probabilmente talmente abituata, in forza della sua generazione, ad attribuire tutti gli arrivi da ovest alla prima guerra mondiale, avrà pensato che magari sia stato un bisnonno a spostarsi, in forza dell’esigenza della patria, per poi trovare una buona ragione, la sola vera buona ragione per spostarsi e cambiare vita da quando esiste l’umanità, un rapporto umano, una speranza, una promessa di una vita diversa dalle trincee che facilmente facevano dimenticare qualsiasi altra parte di mondo esistesse o si fosse anche già conosciuta.
(…)
Del resto basta fare qualche passeggiata anche di quelle più turistiche fra quelle meravigliose montagne per vederla, la grande guerra, e per passarci attraverso. E per rendersi conto di quale assurdità e di quale mondo insensato doveva essere. Sali su qualche grande cima, magari con una funivia, imbocchi un sentiero che strapiomba su pareti verticali, dove spazza un vento freddo anche in agosto e l’aria è di una pulizia quasi da togliere il fiato, e nei punti più impensati te le trovi lì. Le trincee.  Non solchi nella terra, che è più facile anche immaginare qualcuno che le scava, ma buchi nella roccia, camere intere, gallerie che entrano da una valle e sbucano in un'altra. Bucavano le montagne. A mano. Con un po’ di dinamite e poi picconi, martelli, mazzette. A mano. Una follia. Una follia ragionata e transnazionale (lo facevano gli italiani e lo facevano gli austriaci). Bucavano a mano le montagne per combattersi, per tenere le posizioni (rispetto a cosa?), per difendere un pezzo di roccia, un prato verde, uno spuntone di dolomia.Fra tutte le montagne dove ancora si vedono le tracce indelebili di queste follie ce ne sono alcune davvero impressionanti. Musei a cielo aperto, li chiamano. Li chiamano così perché sono state ricostruite alcune postazioni, nei luoghi esatti, con tanto di manichini dei soldati e tavoli e equipaggiamenti e suppellettili, per darti un’idea. E infatti l’idea della follia te la danno tutta.

Una di queste zone è a poca distanza da Cortina d’Ampezzo, sulla strada che sale verso il passo Falzarego. Da una parte c’è il Lagazuoi, montagna dal nome improbabile che si impenna dietro le Tofane dopo aver lasciato spazio ad una valle glaciale sconfinata, dall’altra le Cinque Torri, paradiso di rocce sfrangiate, Manhattan di pietra fragile e millenaria, palestra di alpinisti e rocciatori, luogo magico e perduto nel tempo e fra i boschi. 
Al Lagazuoi ci arrivi fin sotto, e ti trovi davanti una parete dritta e alta, senza niente in mezzo. Talmente senza niente che la funivia che ti ci porta in cima è fatta nel modo più semplice e spaventoso che possa venire in mente. Non ha piloni. Come fosse costruita da bambini che giocano con le costruzioni. Una stazione a valle, una a monte, un unico cavo teso fra le due, sospeso sull’abisso, e la cabina che viaggia fra l’una e l’altra come una molletta su un filo da bucato quando la mamma tira la corda per fare spazio agli altri panni.
Gioco di costruzioni un corno, naturalmente. Un capolavoro di ingegneria. Funzioni matematiche, delirio di curve catenarie per calcolare l’iperbole creata nello spazio da quel cavo e le sue oscillazioni e il peso delle cabine e la velocità e il comportamento in base al vento e chissà quanto altro ancora.
Mai come su quella funivia, se ti imbarchi per raggiungere in cabina la cresta del Lagazuoi, puoi almeno intuire cosa significhi davvero volare. Se non guardi sopra di te la morsa che tiene attaccata la tua scatoletta di metallo al cavo, intorno e sotto non hai altro che aria. Il vuoto. E giù, ma molto più giù, prati, rocce, alberi così piccoli che sembrano quelli di un plastico del treno, di quelli che si facevano una volta, costruendo tutto a mano. 
(…)
Mentre sali e ti guardi intorno affascinato e terrorizzato, le rocce della parete che scende sotto la cresta cominciano ad avvicinarsi, e se guardi bene vedi già i buchi. Le trincee. Ne vedi uno che si apre a metà di una parete impossibile. Come fa a stare lì? Capisci che è stato scavato dall’interno, ma dall’interno di cosa? Lì dietro c’è tutta la montagna intera, compatta, immensa. Da dove sono partiti, là dietro, a scavare, esplodere, togliere montagne di pietra per arrivare a sbucare proprio lì? E poi una volta arrivati? Un affaccio sul vuoto, di sicuro una postazione da avvistamento magnifica, ma nell’eventualità per sparare a cosa? Qualunque forma, vivente e non, è distante, immensamente distante. Forse bisogna cambiare un po’ i parametri di riferimento, non si può ragionare con la logica che avremmo oggi. Forse un secolo fa affacciato da lì sentivi qualunque rumore, anche a decine di chilometri, vedevi qualunque movimento, anche il più lontano e impercettibile. Altri silenzi, altri sguardi.
La migliore passeggiata che puoi fare da quelle parti, per scoprire insieme la magnificenza delle montagne e la sofferenza della prima grande guerra mondiale sulle nostre Alpi, è arrivare in cima al Lagazuoi con quella cabina sospesa nel vuoto, e poi scendere a piedi lungo il sentiero che passa sotto alla cresta e ritorna fino a giù.
Quando arrivi in cima e ti affacci dall’altra parte vieni investito tutto insieme dal vento più freddo che puoi immaginarti, anche in piena estate, e dai panorami più ampi e mozzafiato che ti possa capitare di vedere. Alla tua destra le Tofane ti mostrano la loro nuca (rispetto alla fronte che affacciano sulla valle di Cortina), davanti a te un vallone immenso con larghe chiazze di neve in qualunque stagione dell’anno. Più lontane, verso ovest, il Sella e la Marmolada con il suo ghiacciaio perenne, dietro di te, se ti volti verso l’abisso dal quale sei salito appeso al filo, il Civetta, il Pelmo, e sotto, quasi piccole e poco distinguibili perché le stai guardando dall’alto, le Cinque Torri. 
Quando ti sei ubriacato a sufficienza di aria, di spazi, di panorami e di forze della natura senza limiti, puoi cominciare a scendere lungo il sentiero che cala a destra, sotto la cresta principale. E lì comincia un’altra montagna, fatta di storia, di vite umane, di armi, di uomini al freddo e al gelo, di assurdità programmatica e lucida, di strenua difesa del tutto e del nulla.
Trovi quasi subito le prime gallerie. Puoi entrarci, soprattutto se hai una torcia perché naturalmente sono buie. Ed entri letteralmente dentro la roccia, perché nessuna di queste è una galleria naturale, sono proprio quelle scavate dai soldati a colpi di dinamite e piccone. Un lavoro pazzesco, svolto in condizioni che puoi facilmente immaginare, anche se sei un turista che arrivi lì con tutti i comfort possibili. Freddo, neve, vento, vestiti inadeguati, mani che si spaccano, schegge di roccia, esplosioni, armi che si inceppano, arnesi che si frantumano.
Fra quelle montagne ti rendi conto di quanto l’uomo possa aver lasciato un segno perenne in quegli anni feroci, e al tempo stesso di quanto le montagne vivano in un tempo totalmente diverso, tanto più lungo e più ampio nei suoi movimenti e nelle sue dimensioni da sentire quelle ferite niente più che come punture di zanzara sulla pelle di un dinosauro. Da queste parti la Grande Guerra non ha soltanto lasciato il segno, è proprio qui che ha avuto il suo vero svolgimento, le sue epiche battaglie, il suo epilogo e le sue conseguenze indelebili. La seconda guerra mondiale, tanto altrettanto terribile, ci è passata molto più di striscio. Non era un vero fronte di guerra, e quindi ha avuto la sua occupazione, le sue storie locali di fascisti, di ruffiani che fraternizzavano con i nazisti, di spioni e di partigiani, soprattutto quelli che si venivano a nascondere nei boschi e sui monti. Le famose staffette partigiane, donne bellissime e fatte di roccia che biciclettavano fra i monti, vengono da qui. Ma molto altro arrivava da più lontano, le follie del piccolo nuovo imperatore che da sbraitava da un balcone di Roma, le atrocità naziste in giro per l’italia. 
(…)


Nel pieno della Grande Guerra invece, le dolomiti d’Ampezzo divennero uno dei fronti più caldi, più strategici e più logisticamente folli dell’intero conflitto. L’esercito italiano avanzava da sud, a conquistare una valle dopo l’altra per raggiungere la Val Badia e la Val Pusteria, avamposti del Brennero, il vero punto di confine, come lo è ancora oggi. Ma lì, proprio dalle parti del Falzarego, si dovettero fermare.  Lì c’era il fronte austriaco.  Chissà quanti avranno visto su di un plastico con i trenini elettrici una tipica chiesetta alpina, bianca con il mattonato scuro agli angoli, con la forma svasata verso il basso, il tetto in legno. Talmente tipica da sembrare un modello immaginario. Chissà quante volte sarà capitato di vederla in una scatola di montaggio in un negozio di modellismo. Negozi che una volta erano molto più frequenti, ma dei quali ancora oggi qualcuno è sopravvissuto, per gli appassionati. Bé, è proprio lì. Al Passo Falzarego c’è proprio quella chiesetta. Vai a sapere se lei è il modello per tutte le riproduzioni venute poi, o se quella è stata costruita proprio tenendo in conto i modelli già famosi. Comunque è quella, perfetta. Di sicuro perché lì c’era una croce, un luogo dove pregare, e dove chissà quanti hanno pregato una volta arrivati lì. Per esserci arrivati vivi, per sperare di restare vivi dopo quello che lì li attendeva, o per altre migliaia di motivi, tutti validi e tutti giusti.
Lì, poco più avanti, o meglio ancora da lì in poi, c’era il fronte austriaco.
E lì si andò formando la più vasta e pazzesca contrapposizione di fronti di guerra che l’insaziabile voglia di combattimento dell’uomo abbia mai prodotto, almeno in questa parte di continente. 
Gli attacchi di superficie si rivelarono ben presto inutili e dispendiosi. Così si iniziò a scavare gallerie. Per sorprendere il nemico nel cuore del suo terreno, per scavalcare passaggi controllati e pericolosi. Per prendersi il territorio da sotto, come talpe, come clan di marmotte in lotta fra loro per il pascolo migliore.
Scavavano gli italiani, e scavavano gli austriaci. Dalle Tofane al Lagazuoi, oltre il Falzarego fino alla Marmolada. Tutte le dolomiti erano il fronte, e ad esplodere e scavare ci si intrecciava, ci si sorpassava, e si arrivava all’assurdo di luoghi come la Cengia Martini, proprio sul frontale a picco del Lagazuoi, dove gallerie italiane e austriache si scavalcano e si superano l’una con l’altra, lungo un fronte che non ha più un nord e un sud, ma solo le gallerie di un esercito intrecciate con quelle dell’altro.
Qui si realizzava l’altro stato permanente di sicurezza e angoscia contemporanee che questo sistema inevitabilmente comportava. Lo scopo principale delle gallerie era riuscire ad arrivare sotto il fronte avversario e farlo saltare. Così, insieme al senso di sicurezza che le grotte costruite con le proprie mani donavano, al riparo dal freddo e dai proiettili, era costante il terrore che da un momento all’altro i nemici facessero saltare in aria con la dinamite il tuo rifugio. Si viveva, in quelle grotte, sentendo i tonfi e i colpi dell’altro esercito che scavava, che chissà in questo momento dove si trovava, chissà se stava già piazzando una mina che fra poco ti avrebbe seppellito per sempre insieme alla roccia. E se proprio doveva saltare, che ti uccidesse sul colpo e non ti facesse la carognata di mantenerti vivo a morire di fame e di freddo dentro il cuore di una montagna.
Di fronte al Falzarego, il fronte delle Cinque Torri era l’altro punto davvero strategico della zona, perché una volta entrati nella logica della follia secondo la quale luoghi come questi potevano essere teatro di guerra, allora quello era davvero un punto strategico. Lo conquistarono gli italiani, all’inizio dell’estate del millenovecentoquindici. Lo mantennero e lo dotarono di attrezzature, telegrafo, postazioni. Da lì si dominava tutto il Lagazuoi, si potevano cogliere gli spostamenti, le aperture di gallerie, la disposizione dei nemici. Lì accadeva qualcosa che riuniva perfino la propensione all’arte con il genio militare, entrambi sublimi e scellerate virtù dell’uomo, come secoli prima aveva fatto Leonardo con le sue invenzioni truculente per le macchine da guerra dei Signori del Rinascimento. Lì fotografi e disegnatori passavano la giornata a riprodurre la montagna che avevano di fronte, per cogliere, giorno dopo giorno, ogni eventuale cambiamento in una cengia di roccia, in un costone, nella disposizione di un ghiaione. Perché un minimo cambiamento del paesaggio da un giorno all’altro, in un luogo che conosce i tempi geologici e non quelli umani, significava che l’esercito nemico aveva fatto qualcosa. Aveva magari aperto un nuovo tunnel, aveva spostato dell’artiglieria, stava predisponendo un nuovo fronte.
Nessuno potrà mai dire quanto quegli uomini abbiano penetrato la natura e le forme di quei monti fino all’inverosimile, fino alla nausea, fino a potersi accorgere anche solo ad uno sguardo se uno fra i milioni di sassi che li compongono aveva cambiato posizione, o era rotolato giù, o si era imbiancato per la neve.
Alle Cinque Torri portarono l’artiglieria pesante. Cannoni provenienti dalla marina che sparavano palle da trenta centimetri di diametro. Cannoni giganteschi, e c’è solo da immaginare cosa sia significato portarli lassù. Ora alle Cinque Torri ci arrivi con una seggiovia, volo meraviglioso e silenzioso fra gli abeti fino ad atterrare sul piano che si stende ai piedi dei grattacieli di roccia dove non mancherà mai qualche alpinista ad allenarsi aggrappato ai chiodi. Alpinisti veri, come i tanti che questi luoghi hanno prodotto, e alpinisti meno veri, aggrappati alle rocce più per moda e col sostegno della tecnologia che per l’autentica, rispettosa sfida alle montagne eterne che la scalata ha rappresentato per secoli.
Allora si saliva a piedi, si trascinavano a piedi, e con gli incredibili muli, i pezzi delle artiglierie destinati a puntare la montagna di fronte e a cannoneggiare il nulla.
La forza brutale dei cannoni era destinata ad avere la meglio sulle strategie e sulle protezioni, perfino su quelle naturali. A furia di colpi, mirati coi goniometri e messi a punto prove dopo prove e tonnellate di proiettili persi, l’esercito austriaco fu costretto ad abbandonare una delle sue postazioni privilegiate, il Forte tre Sassi sulla Valparola. 
Non fu così per il Lagazuoi. La sconfinata parete di roccia di fronte alle Cinque Torri conosceva solo le ere geologiche, e solo a quelle poteva sottostare. 
I due fronti restarono così in un arrocco permanente, intrecciati fra le gallerie, conquistando una roccia e perdendone un'altra, fino al novembre del millenovecentodiciassette, quando arrivò Caporetto.
La disfatta più proverbiale di tutta la storia patria pose fine drasticamente al gioco perverso in scena da anni sulle montagne dolomitiche. 
Anche a Caporetto fu questione di trincee. Lì, per alcune mosse da manuale del vincitore da un lato e da manuale del perdente dall’altro, il fronte italiano si trovò all’improvviso con il fronte austriaco alle spalle. Sorpassato mentre difendeva il nulla, e accerchiato nella posizione che doveva difendere. Per definizione, due fronti contrapposti che non sono più uno di fronte all’altro non sono più fronti. Divennero in una giornata un esercito circondato dall’altro, senza più riferimenti, senza un davanti e un dietro, e senza via di fuga.
Sui monti Ampezzani invece, la natura di guerra sotterranea che era stata fino a quel momento rappresentò anche la parziale salvezza. A seguito della disfatta, l’esercitò italiano si ritirò anche dal Falzarego lasciando le gallerie del Lagazuoi. E poté ritirarsi, protetto dalle stesse pareti di roccia che aveva scavato per infilarsi sotto il nemico. Gli intricati tunnel rimasero in mano agli asburgici, tanto che a loro si devono le dettagliate piantine delle gallerie di entrambi gli eserciti che ancora oggi fanno testo storico per comprendere il reticolato di trincee che quelle superiori e probabilmente indifferenti montagne dovettero subire.
Come vuole la storia, la Grande Guerra verrà poi vinta, e Caporetto e tutte le ritirate del diciassette verranno parzialmente cancellate da una grande vittoria nazionale e continentale.
Per la storia di queste montagne i vincitori e i vinti hanno invece poca importanza. Importa molto, piuttosto, l’immensità di queste rocce, il loro essere salite dal mare milioni di anni fa sotto spinte spaventose ed essersi innalzate verso il cielo nelle forme e nelle dimensioni più straordinarie e irripetibili, avere aperto le valli destinate ad ospitare i paesi e le cittadine, i pascoli, i boschi, i laghi aperti come occhi blu fra le cime, e di certo, perché no, anche avere sopportato la dinamite e le cannonate della follia umana per giungere fino a qui con le loro forme ancora intatte, con le discese verdi d’estate e innevate d’inverno (…).

Alessandro Borgogno

Alessandro Borgogno
Vivo e lavoro a Roma, dove sono nato il 5 dicembre del 1965. Il mio percorso formativo è alquanto tortuoso: ho frequentato il liceo artistico e poi la facoltà di scienze biologiche, ho conseguito poi attestati professionali come programmatore e come fotoreporter. Lavoro in un’azienda di informatica e consulenza come Project Manager. Dal padre veneto ho ereditato la riservatezza e la sincerità delle genti dolomitiche e dalla madre lo spirito partigiano della resistenza e la cultura millenaria e il cosmopolitismo della città eterna. Ho molte passioni: l’arte, la natura, i viaggi, la storia, la musica, il cinema, la fotografia, la scrittura. Ho pubblicato molti racconti e alcuni libri, fra i quali “Il Genio e L’Architetto” (dedicato a Bernini e Borromini) e “Mi fai Specie” (dialoghi evoluzionistici su quanto gli uomini avrebbero da imparare dagli animali) con L’Erudita Editrice e Manifesto Libri. Collaboro con diversi blog di viaggi, fotografia e argomenti vari. Le mie foto hanno vinto più di un concorso e sono state pubblicate su testate e network nazionali ed anche esposte al MACRO di Roma. Anche alcuni miei cortometraggi sono stati selezionati e proiettati in festival cinematografici e concorsi. Cerco spesso di mettere tutte queste cose insieme, e magari qualche volta esagero.

I Korowai, i cannibali che vivono sugli alberi

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La Papua Nuova Guinea è costituita dalla parte orientale dell'isola di Nuova Guinea e da numerose isole che appartengono all'arcipelago di Bismarck. Nel cuore delle foreste pluviali di questo magnifico angolo di terra vive un popolo, i Korowai, che costruisce magnifiche case sugli alberi.
La conoscenza del mondo occidentale con questo gruppo etnico è recente, molto recente. Correva il marzo del 1974 quando un gruppo di scienziati, al seguito di alcuni missionari cristiani provenienti dall'Olanda, si addentrò per la prima volta nel verde di questa natura incontaminata. Lo strano insieme di scienza e fede scoprì un popolo che per millenni aveva vissuto nell'ignoranza del mondo esterno, indigeni convinti di essere gli unici abitanti della foresta a loro conosciuta. Alcuni missionari, evangelizzatori, iniziarono a vivere stabilmente a stretto contatto con i Korowai nell'intento di convertirli al cristianesimo, protestante. Scoprirono ben presto quanto fosse difficile modificare le tradizioni che da millenni si propagano in quelle terre. 
Durante un'intervista telefonica, rilasciata al Magazine dello Smithsonian, il reverendo Johannes Veldhuizen, missionario olandese, disse che abbandonò l'idea di convertirli al cristianesimo poiché “un Dio della montagna molto potente aveva avvertito i Korowai che il loro mondo sarebbe stato distrutto da un terremoto se gli stranieri entravano nella loro terra per cambiare le loro abitudini”. Dopo diverso tempo riuscirono a convertire alcuni indigeni, modificando per sempre la loro cultura. I missionari olandesi convinsero alcuni Korowai che fosse necessario compiere un rito a loro completamente avulso. I nuovi civilizzatori di anime, e di terre, battezzarono alcuni abitanti delle foreste accogliendoli nelle case, divenuti villaggi, che avevano costruito nelle nuove terre evangelizzate. Si susseguirono visite scientifiche conoscitive. Nel 2006 una troupe televisiva, guidata dal giornalista Paul Raffaele, riuscì a guadagnare la fiducia di alcuni Korowai che vivevano ancora nella foresta. Raffaele riuscì ad approfondire la tematica di maggior interesse per i lettori e telespettatori, il cannibalismo. 
Lo stesso giornalista commentò che “consumano la carne umana avvolta in foglie di banano. La parte preferita è il cervello, ma mangiano tutto tranne capelli, unghie e pene. I bambini che hanno meno di 13 anni sono esonerati in quanto ancora vulnerabili e potenzialmente esposti al contagio degli spiriti maligni”. Con molta probabilità dovremmo vedere questo comportamento come una forma di giustizia sociale. Il cannibalismo dei Korowai non ha un obiettivo alimentare, anche se l'uomo ucciso è considerato alla stregua di un maiale di cui non si butta quasi nulla. Per comprendere dobbiamo fare un passo indietro: i Korowai sono in grado di capire la morte accidentale causata da una caduta da un albero o la morte violenta in seguito a ferimento da freccia o lancia. Questo popolo non conosce l'esistenza dei batteri, per cui quando uno di loro si ammala sono portati a ritenere che uno spirito sia entrato nel corpo della persona con l'obiettivo di divorarlo dall'interno. Questo spirito maligno ha un nome: Khakhua. Quando un Korowai si ammala è ricoverato all'interno delle case sugli alberi circondato dai membri del proprio clan. Durante la malattia sussurra il nome del demone Khakhua che si è impossessato del proprio corpo. Il colpevole può essere un parente, un membro del proprio clan oppure un individuo di una tribù rivale. Colui che viene individuato dall'ammalato è catturato, ucciso e divorato dai membri dello stesso clan di appartenenza della persona posseduta dallo spirito maligno. 
Lo divorano come lui ha divorato dall'interno l'individuo ammalato. Consumato il pasto cannibalico conservano il teschio della persona considerata stregone, mentre le ossa sono utilizzate per scacciare altri eventuali Khakhua che possono infestare la famiglia. I membri del clan per allontanare gli spiriti maligni usano battere per tutta la notte le ossa del divorato sugli alberi nei pressi dell'abitazione. E' una forma di delazione non dissimile da quella che avveniva nel periodo della caccia alle streghe in Europa durante i secoli dell'Inquisizione. In quel periodo buio bastava che una persona si presentasse ai frati domenicani facendo il nome di un vicino o parente che non gradiva per far scattare le indagini e le successive torture, per non parlare del rogo liberatore. Negli ultimi anni questo fenomeno sembra in diminuzione grazie all'intervento delle forze dell'ordine. Alla fine del secolo scorso la polizia intervenne in seguito alla denuncia di una donna che si vide divorato il marito dal clan del proprio fratello in seguito all'accusa di essere un Khakhua. La polizia intervenne duramente arrestando l'uomo, il capo villaggio e un complice. Le forze dell'ordine, nel tentativo di scoraggiare questa pratica, chiuse i sospettati in alcune botti facendoli rotolare in un laghetto pieno di sangue, costringendoli a mangiare tabacco, peperoncini e feci di animali. A noi tutto questo pare inaccettabile poiché si scontra con i pilastri della cultura occidentale. Dobbiamo fare lo sforzo di ragionare in base alle terre ove questi avvenimenti si consumano. Quando fu chiesto ai Korowai se mangiassero carne umana, loro risposero “certamente no, noi mangiamo Khakhua”. 
I Korowai, come molti popoli non ancora contattati o che vivono ai margini di quella che noi consideriamo civiltà, vivono di una economia di sussistenza che si basa sul principio dell'uomo cacciatore-raccoglitore. Questo popolo ha notevoli capacità relative alla caccia e alla pesca. Inoltre praticano un'agricoltura itinerante, sfruttando un terreno sino a quando ritengono che sia da abbandonare per permettere alla natura di riprendersi e riuscire, in un vicino futuro, a dare nuovamente un raccolto soddisfacente. Il loro numero oscilla sulle 3000 unità raccolte in clan, all'interno dei quali i nuclei familiari sono composti da un capo-famiglia con le proprie mogli, in aggiunta ai figli celibi. La vera peculiarità dei Korowai attiene alle abitazioni che costruiscono sugli alberi. Questi capolavori possono trovarsi anche a 45 metri d'altezza. Le case possono essere costruire su un solo albero oppure utilizzare come base più alberi ravvicinati. Ogni singola abitazione può ospitare un numero variabile di persone compreso tra 8 e 15. Tutto questo sta lentamente sparendo, poiché i giovani si trasferiscono con maggior frequenza rispetto al passato presso le costruzioni e villaggi messi loro a disposizione dalle autorità governative e religiose. Rimarrà una sola generazione di Korowai che vivrà nel cuore della foresta pluviale e quando scomparirà potremmo dire che la profezia del potente Dio della montagna si è avverata.

Fabio Casalini

Bibliografia

Paul Raffaele, Sleeping with cannibals, Smithsonian magazine, settembre 2006

Georgia Rose, Meeting the Cannibal Tribes of Indonesian New Guinea, Vice, dicembre 2014

FABIO CASALINI– fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale, che si avvia a diventare un vero e proprio modello di diffusione della tradizione popolare, dell’arte meno conosciuta, dei misteri e delle leggende conosciuti o meno, in un felice connubio con le moderne tecnologie. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.


Guglielmo da Fenoglio, un santo burlone

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Il beato Guglielmo da Fenoglio, nacque a Garessio, in provincia di Cuneo, nel 1065 e mori con ogni probabilità nel 1120, nella Certosa di Valcasotto. Si hanno delle incertezze a proposito delle date della sua vita, a causa degli incendi e distruzioni cui andò incontro la Certosa di Casotto. Gli annalisti dell'ordine pongono la sua morte tra il 1200 e il 1205, mentre la tradizione locale ed altri autori, anticipando l'origine della Certosa rispetto alla data consueta del 1172, suggeriscono quali anni di nascita il 1065 e di morte il 1120 (19 dicembre). E’ sorprendente che un semplice converso (cioè un “fratello laico) abbia goduto di così grande fama non solo nel Monregalese ma addirittura in mezza Europa (tra l’altro è patrono dei conversi certosini) e sia stato cosi frequentemente raffigurato in pitture e sculture. E questo non lo si spiega soltanto con la fama, che si era acquistato, di “santo dai miracoli burleschi” avvenuti sia da vivo che da morto, con l’ondata di eventi prodigiosi che si verificarono anche dopo la sua morte, ma soprattutto dal fatto che fu una grande personalità, che seppe attrarre magneticamente le folle con la sua testimonianza di vita e con la sua disarmante semplicità. Della gioventù abbiamo scarne notizie , ma si sa che subito permeato da profonda fede si ritirò in eremitaggio in località Torre di Mondovì, dove ebbe una prima esperienza anacoretica compiuta nel più alto ascetismo. Perciò quando, a vent’ anni, fece il suo ingresso nella Certosa di Casotto egli aveva già compiuto un intenso cammino di perfezione e di profonda unione con Dio. La Certosa di Val Casotto fu la prima Certosa in Italia e venne fondata nel secolo XI, forse dallo stesso San Bruno che giungendo dalla Grande Chartreuse presso Grenoble si stava recando a Roma. 
A Guglielmo fu preposto il compito di provvedere ai viveri per il monastero, perciò questuando per le cascine questa attività lo portava in giro a recuperare granaglie e legumi nelle località limitrofe e fino ad arrivare in Liguria ad Alberga e Mondovì. Le strade ed i boschi erano infestate da briganti, che spesso assalivano il povero converso per rapinarlo dei viveri, portandogli via tutto quanto era riuscito ad ottenere in elemosina. Guglielmo rammaricato per queste vili aggressioni cercava spesso conforto nel suo priore. Lamentandosi con di questa situazione, tra il serio ed il faceto venne invitato dal Priore a difendersi usando se necessario “anche la zampa della mula”. L’umile converso certosino, che dell’obbedienza aveva fatto lo scopo della sua vita, alla prima occasione di assalto dei briganti afferrò la zampa della mula, la staccò impugnandola come una clava contro gli assalitori, che se la diedero a gambe terrorizzati da quel gesto. Guglielmo provvide a risistemare il carico di viveri sul dorso della mula, e si avviò verso la Certosa, ma nella fretta riattaccò a rovescio la zampa, così che il malcapitato animale zoppicava in modo vistoso. Il Priore se ne accorse e per accertarsi quanto di prodigioso effettivamente si diceva in giro sul conto di Guglielmo, lo rimproverò per la sbadataggine e gli ordinò di rimettere la zampa come si conveniva, cosa che Guglielmo fece con tutta naturalezza, staccando e nuovamente e riattaccando, questa volta dal verso giusto, la zampa scusandosi per il suo errore. Il tutto, naturalmente, senza che l’animale perdesse sangue o ragliasse dal dolore, come accertato dal Priore e da numerosi testimoni. Di questo fatto si è impadronita l’agiografia del Beato, che spesso lo rappresenta nell’atto di impugnare la fatidica zampa, tanto che nella Certosa di Pavia è scherzosamente chiamato “il santo del prosciutto”. Infatti dietro la facciata della Certosa, nel risvolto a sud, c'è un tondo scolpito che raffigura un santo dalle caratteristiche inusuali. Fra le mani, infatti, stringe un cosciotto di animale, con l'inconfondibile sagoma di un prosciutto. Il bassorilievo si trova all’ uscita dal chiostro piccolo, a circa due metri e mezzo di altezza. 
Vi è un'altra leggenda legata al Beato Guglielmo. Nell’ambito territoriale i monaci contribuivano in maniera fondamentale per lo sviluppo rurale della zona, attraverso diverse attività: il mantenimento della pulizia dei pascoli, la raccolta della legna nei boschi, la lavorazione del latte, tutte attività che i svolgevano quotidianamente. In questo ambito Guglielmo come già affermato riguardo al precedente episodio in qualità di fratello converso era solito avventurarsi in frequenti spostamenti per provvedere con le elemosine ai bisogni del monastero e era costretto ad attraversare luoghi impervi e pericolosi e sfinito per le avverse condizioni climatiche spesso riposava la notte in domicili di fortuna, per poi ripartire il giorno successivo. E non solo i briganti incontrò durante le suoi spostamenti ….In questi suoi andirivieni si trovava spesso a dover guadare il Rio Roburentello, e si racconta che un giorno si imbattè addirittura nel diavolo. Il demonio gli propose per agevolargli il cammino, di costruirgli un ponte in cambio dell’anima del primo essere che lo avesse attraversato. Il maligno, pensando di aver persuaso il povero certosino a passare per primo era già sicuro di poter disporre dell’anima del beato, ma rimase beffato quando vide che Guglielmo fece attraversare il ponte, per primo, al sua fidata compagna di viaggio, la sua mula!!! Da allora il ponte che si trova salendo a Roburent , appena passato il bivio per Montaldo è chiamato “ponte dell’Asino”, in ricordo di questo episodio leggendario accorso tanti secoli orsono, e che testimonia l’immutata devozione al beato certosino in questi territori.
La sua morte avvenne intorno al 1120, fu proclamato patrono dei monaci conversi certosini, e la sua fama di santità si diffuse ben presto cosicché la sua tomba, collocata all'esterno del complesso monastico, presso la "casa bassa" dove abitavano i conversi, era meta di numerosissimi pellegrini, che accorrevano al convento per venerarne le spoglie. Poiché presso la sua tomba si verificavano numerosi prodigi, e l’accorrere di tanti pellegrini disturbava troppo la vita solitaria ed il silenzio della Certosa (anche se faceva piovere molte offerte) i monaci per avere più calma tentarono più volte di traslare il suo corpo all'interno del monastero ma prodigiosamente si racconta che il corpo ogni qualvolta veniva spostato, come per scherzo ritornava miracolosamente al suo posto originario di sepoltura. e inoltre si racconta che fosse rimasto prodigiosamente incorrotto per tre secoli. Nel 1802 onde evitare che le truppe napoleoniche violassero le reliquie del monaco, il suo corpo venne nascosto, e murato in una cappella che Papa Pio V aveva consacrato nel XVI secolo. Sebbene numerose spedizioni di scavo siano state intraprese a partire dal 1864, suo corpo non fu mai ritrovato. Il suo culto si diffuse nel corso dei secoli, fu beatificato da Pio XI il 29 marzo del 1860, e fu deciso di celebrare la sua festa dapprima il 19 e poi successivamente il giorno 16 di dicembre. La fama di questo beato è legata alle numerosissime raffigurazioni del suo principale miracolo, che fu rappresentato dappertutto in Europa, in pitture e sculture realizzate all’interno delle certose: dalla Spagna al Portogallo, dall’Inghilterra alla Francia, all’Italia. La Certosa del Casotto fu ristrutturata e ampliata nel 1700 ad opera di Francesco Gallo e Bernardo Vittone; nel 1837 dopo le spoliazioni napoleoniche Carlo Alberto la ricostruì in parte, accentuandone l’aspetto di castello-villa, che Vittorio Emanuele II la frequentò come riserva di caccia. Oggi Il complesso, costituito da un corpo centrale e due ali avanzate, ha un aspetto monumentale che contrasta con sobrietà e carattere privato degli interni. Una serie di recenti campagne di scavo condotte dall'Università di Torino hanno riportato alla luce le fondamenta dell'originaria Certosa e di un successivo ampliamento quattrocentesco.

La Reggia è inclusa nel circuito delle Residenze Sabaude, purtroppo è attualmente chiusa alle visite.

Luciano Querio


Bibliografia
R. Arneodo, Garessio - Pagine di storia, ed. Nicola Milano, Farigliano, 1970.

Anna Ferrari I Santi in Piemonte tra arte e leggenda, Edizioni Blu 2017

Aldo Ponso Duemila anni di santità in Piemonte e Valle d'Aosta: i santi, i beati, i venerabili, i servi di Dio, le personalità distinte : guida completa dalle origini ai nostri giorni Effata Editrice IT, 2001 

LUCIANO QUERIO
Sono di origine canavesana essendo nato a Cuorgnè nel 1958. Sono sempre stato amante dell’arte, della storia e della filosofia medievale. Nel tempo libero mi diletto a fotografare. Pur amando i viaggi mi sento profondamente radicato alla mia terra. Così parafrasando Cesare Pavese il paese dove sono nato ho creduto da bambino che fosse tutto il mondo. Adesso che il mondo in piccola parte l' ho visitato davvero, ho visto che è fatto di città e di tanti piccoli paesi… perciò da bambino non mi sbagliavo poi di molto...Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, nel fiume e nella montagna che ti guarda dall’ alto c'è qualcosa di tuo che anche quando non ci sei resta sempre ad aspettarti…




L'Olocausto sulle figurine. La storia di Anna Frank

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In questi giorni TG e giornali hanno parlato diffusamente di me e dell’uso improprio che alcuni tifosi ultras di una squadra di calcio di serie A hanno fatto della mia foto. Non capisco come si possa associare la mia diafana immagine di adolescente  a quella di qualche nerboruto e urlante tifoso moderno.
Sono morta 72 anni fa nel campo di sterminio di Bergen-Belsen a soli 16 anni, dopo 5 mesi di internamento, uccisa da una epidemia di tifo esantematico. Il mio nome è Annalies Marie Frank, ma tutti mi conoscete come Anna.
Sono una delle tante vittime della folle politica antisemita attuata dal partito nazista tedesco.
In seguito alla promulgazione delle leggi di Norimberga del 15 settembre 1935, la situazione per la comunità ebraica in Germania, ed in seguito in tutta Europa, è diventata molto complessa. Sono leggi fatte apposta per salvaguardare la purezza della razza ariana e discriminare tutti coloro che non possono essere considerati tedeschi di almeno quarta generazione. I più colpiti sono rom, omosessuali, portatori di handicap ed ebrei.
Ero piccola quando mi sono resa conto che al mia famiglia avrebbe avuto difficoltà nel vivere libera e in pace in quel clima di odio crescente. Ma ero troppo piccola, guardavo il mondo con positività, avevo fiducia negli esseri umani.
La mia famiglia è una come tante. Papà si chiama Otto Heinrich Frank e mamma Edith Holländer. Prima di me è nata mia sorella, di 3 anni più grande, Margot Elisabeth. È bella la mia famiglia, è unita e io sono felice con loro, come dovrebbe esserlo una bambina della mia età. Cresco in un quartiere misto a Francoforte; gioco con bambini cattolici e protestanti. Li chiamo amici. Nel 1933 purtroppo la mia famiglia si divide. Mamma, Margot ed io ci trasferiamo ad Aquisgrana. Papà teme per la nostra vita, dato che le manifestazioni di intolleranza verso gli ebrei sono sempre più frequenti, quasi all’ordine del giorno. Lui rimane  a Francoforte per curare gli affari di famiglia. In seguito si trasferisce nei Paesi Bassi per aprire una società con una persona di fiducia e preparare tutto per il nostro ricongiungimento. Finalmente nel 1934 torniamo a vivere tutti insieme. Ci trasferiamo in un palazzo in Merwedeplein al 37, nel quartiere Rivierenburt, che accoglie in quei giorni molti ebrei di origine tedesca, tutti arrivati con la stessa motivazione: cercare un luogo sicuro in cui vivere. Studio alla scuola pubblica. Adoro leggere e scrivere. Sono felice. Ho molte nuove amiche. Sono una bambina come le altre, ma di origine ebrea.
Nel 1938 papà apre una seconda ditta, con un socio anche lui ebreo. Commercializzano sale da conservazione, erbe e spezie. Tutto sembra andare bene, ma dopo poco tempo arriva una notizia che sconvolge la nostra serenità. Ad Aquisgrana i nazisti confiscano tutti i beni del nonno. La situazione sta peggiorando. Nonna ci raggiunge un anno dopo, viene a vivere con noi ad Amsterdam. Qui starà bene.
In Germania, Austria e Cecoslovacchia, nel frattempo, la situazione per gli ebrei si fa più complicata.
Sento i miei genitori parlare alla sera di ciò che accade in Europa, mentre io e Margot siamo a letto. Mamma spesso dice: «Otto, temo per le nostre vite.» Non capisco cosa sta succedendo, da dove arrivi tutto questo odio verso la comunità ebraica. Abbiamo sempre vissuto in pace, ora è pericoloso camminare per strada.  Mamma e papà dicono che in alcune città gruppi di persone appartenenti al partito nazista hanno incendiato le sinagoghe, profanato i nostri cimiteri, distrutto case e negozi. Parlano di molti morti, oltre 1300, fra omicidi, suicidi, vittime di atti di terrorismo e maltrattamenti, e di deportazioni in campi di concentramento. Parlano, si stringono e piangono. Con me e Margot dicono che è solo un momento, che tutta questa follia si sistemerà presto e torneremo alla nostra vita normale, senza timore di camminare per strada. Io gli credo, so che papà non mi mentirebbe mai.
Arriviamo a settembre del 1939. Scoppia la II guerra mondiale. Tutto sembra ancora lontano, io continuo ad andare a scuola, a giocare con le mie amiche. Papà dice che saremo al sicuro fino a che i Paesi Bassi resteranno neutrali. Nel maggio 1940 l’Olanda è attaccata e occupata dall’esercito tedesco. Il nostro destino è segnato, ma ancora non ce ne rendiamo conto. Nuove leggi restringono ulteriormente la nostra libertà di agire: non posso frequentare nessuno che non sia ebreo, non posso andare al cinema, non posso andare alla scuola pubblica dove sono andata fino a ieri e vedere i miei compagni di sempre. Sono costretta ad andare in una scuola per sole ragazze ebree. Ci costringono ad iscriverci ad un registro anagrafico, con foto e impronte digitali, come se fossimo dei criminali. Sui nostri abiti mamma e nonna devono cucire una grossa stella gialla, che ci distingue dagli altri cittadini, che urla a tutti “ecco, sono ebrea”. Ma non capisco, cosa c’è di male ad esserlo? Papà per proteggere le sue aziende e il nostro futuro, è costretto a cederne la direzione a suoi collaboratori ariani, che sono amici fidati e faranno i nostri interessi. Per lui è un duro colpo, anche se a noi a casa cerca di trasmette serenità. 
Gli anni passano. A gennaio del 1942 nonna muore. Un duro colpo per noi. Era lei che ci accoglieva ogni giorno al rientro da scuola, che ci raccontava le vecchie storie di famiglia, che ci spiegava che essere ebrei non era una cosa di cui vergognarsi, come ci volevano far credere. Sono giorni davvero difficili. Anche il suo funerale è un problema a causa delle leggi razziali.
Il 12 giugno è il giorno del mio tredicesimo compleanno. Tra i regali che ricevo c’è una cosa speciale: un quaderno a quadretti bianco e rosso. Fin da subito so che diventerà il mio diario. Sulle sue pagine  bianche scriverò gli ultimi anni della mia vita, i miei pensieri, le mie paure.
La guerra intanto sconvolge tutta Europa. Le voci sulle leggi raziali diventano sempre più preoccupanti ogni giorno che passa. C’è diffidenza verso tutti, abbiamo paura a girare per strada. Mamma e papà temono che da un momento all’altro la  Gestapo ci  possa arrestare. Non capisco per quale motivo, non facciamo nulla di male, siamo ebrei non mostri.
Papà a nostra insaputa, per non allarmarci, prepara un nascondiglio per tutta la famiglia nel retro di una delle sue ditte. È un edificio anonimo in Prinsengracht 263, che potrà consentirci, se servirà, di rimanere nascosti. Ha seguito il consiglio di un amico, preoccupato dell’inasprirsi delle leggi raziali. Quella sarebbe diventata la nostra nuova casa: 50 m², un bagno, due camere e un sottotetto. Tutto nascosto da una libreria che fa da porta alla nostra “tana”. Nonostante le difficoltà quotidiane, ci sentiamo molto fortunati. Possiamo contare sull’aiuto di alcuni collaboratori di papà, che si stringono attorno a noi per proteggerci, rischiando la propria vita. È quasi tutto pronto, quando il 5 luglio Margot riceve una lettera che getta tutti nel panico: l’Ufficio Centrale per l’emigrazione ebraica ad Amsterdam la invita a recarsi alla loro sede ai fini della “deportazione in un campo di lavoro”. In casa cala il gelo. Se Margot non si presenterà entro pochi giorni, tutta la famiglia verrà arrestata e deportata. Papà guarda mamma negli occhi pieni di lacrime e dice: « Prendi lo stretto necessario. Prepariamoci per andare via domani.»
Il 6 luglio siamo spariti, per tutti, con tutti, senza dire nulla, senza salutare nessuno. Non è un addio, è un arrivederci, quando sarà finito tutto torneremo a casa, alla routine di tutti i giorni. Oggi però è il nostro primo giorno di clandestinità. Pochi giorni da soli e ci raggiunge un’altra famiglia, i van Pels, che condividerà il nascondiglio con noi.  Qualche mese dopo arriva il signor Fritz Pfeffer, dentista amico di famiglia. Divideremo la stanza. Ora siamo al completo. Papà dice che rimarremo qui segregati poche settimane, al massimo qualche mese. Non immagina che quelle mura saranno il nostro rifugio per più di 2 anni, che saranno l’ultima casa per la nostra famiglia.  Io sono quella più contenta fra gli abitanti del rifugio. Posso annotare sul mio diario tutto  ciò che accade, i miei pensieri, i discorsi, le speranze di ciascuno di noi.
La vita qui dentro non è facile, dobbiamo ogni giorno stare attenti a non fare rumore, per non essere scoperti; se qualcuno che non deve sapere della nostra esistenza  si accorgesse che siamo nascosti, potrebbe denunciarci e sarebbe la fine per noi. Sembriamo topolini in gabbia, non è facile mantenere l’armonia fra di noi, gli spazi da condividere sono limitati, a volte mi sembra di soffocare. Mamma ed io litighiamo spesso.
Non sopporto la sua malinconia, la sua negatività. Io ho fiducia nel fatto che tutto si sistemerà. Quando tornerò a casa potrò raccontare la mia avventure  agli amici di scuola. Sarà divertente vedere la loro reazione.
Ogni giorno possiamo contare sui nostri aiutanti che ci portano viveri e tutto ciò che ci può servire. All’ora di pranzo ci aggiornano sugli eventi della guerra. È  Miep Gies a farlo, la segretaria di papà.  È tanto gentile e porta sempre un grazioso cappellino quando viene da noi, cammina con passo veloce, ci abbraccia. Ci sono giorni in cui sorride apertamente, altri in cui il suo sorriso non va d’accordo con la tristezza dei suoi occhi. Io me ne accorgo, ma è inutile dirlo agli adulti. Siamo già abbastanza in tensione.
La sera quando tutti i lavoratori vanno a casa, usciamo nel cortile interno dell’edificio principale e ascoltiamo la radio che passa le novità della guerra, sempre più preoccupanti. Il 17 luglio arriva la notizia che il primo treno carico di ebrei è partito per Auschwitz. Non sapevamo che ce ne sarebbero stati molti altri.
Il tempo passa lento. Leggo molto, osservo i miei compagni si avventura, do a ciascuno di loro un soprannome, annoto sul diario tutto ciò che mi passa per la testa. Siamo chiusi qui dentro da oltre un anno. Papà si è sbagliato circa la nostra permanenza qui, è molto più lunga del previsto. In tutta Europa gli ebrei vengono rastrellati, arrestati e portati nei campi di lavoro. Voci sempre più insistenti parlano di una ricompensa per chi denuncia la presenza di ebrei nascosti o sotto falsa identità. Una taglia vera e propria. Sento mamma e papà  che ne parlano spesso, temono i delatori. Viviamo come fantasmi, paralizzati dalla paura di essere scoperti.
È il 4 agosto 1944, un giorno che pensavo come tanti quando mi sono alzata. Verso le 10 del mattino sento delle urla  provenire dal cortile interno dell’edificio, voci concitate e passi pesanti che fanno tremare le pareti del nostro rifugio. Papà  ci fa segno di stare zitti. Trattengo il fiato. Margot piange in silenzio. Siamo tutti in una stanza, stretti, immersi nel terrore.
Qualcuno sposta la libreria. È la fine. Uomini in divisa, con i mitra in mano, fanno irruzione nella stanza. È la Gestapo. Ci arrestano tutti, compresi due dei nostri aiutanti, Kugler e Kleiman, che non riescono a fuggire. Gli altri sono tutti in  salvo, anche Miep. Sarà lei a trovare il mio diario, a consegnarlo a papà insieme ad altre carte trovate nell’alloggio segreto. Ho tanta paura, mi stringo forte al braccio di papà, che mi guarda e mi rincuora. Ma so che le sue sono solo parole. Povero papà, ha fatto di tutto per proteggerci, per tenerci uniti. Ora l’odio di qualcuno ci sta distruggendo. Ci portano al quartier generale della SD per interrogarci e poi alla prigione di Weteringschans, dove rimaniamo per 3 giorni. L’8 agosto ci portano ad un campo di smistamento e da li, 2 giorni dopo al campo di Westerbork, dove ci dividono da papà. Non lo rivedrò mai più.
In quel posto facciamo lavori molto duri, ci considerano come criminali perché abbiamo vissuto nascosti. Corpo e spirito sono fiaccati. Mi sento persa senza papà. Qualche tempo dopo ci separano anche da mamma. L’ultimo ricordo che ho di lei è il suo sguardo vitreo, i suoi occhi inespressivi e la bocca a forma di o, paralizzata in un silenzioso urlo che solo io e mia sorella possiamo sentire. Mamma si è lasciata morire a gennaio del 1945, consumata come una candela, annientata dal dolore per aver perso il suo bene più prezioso: le sue figlie. Per fortuna Margot ed io restiamo insieme. Ci sosteniamo a vicenda.
Ci trasferiscono a Bergen-Belsen. Da lì non usciremo mai. L’inverno rigido e impietoso ci ha indebolito molto. Le notti, stese sulle tavole di legno che chiamiamo letti, sono lunghe e dolorose. Quando mi addormento sogno papà, mi manca molto, sogno casa nostra, mamma in cucina, nonna fuori in giardino a sistemare le sue rose. Mi sembra di sentirne il profumo, Margot è accanto a me, dorme e si lascia andare, cerca di fuggire anche lei da questa baracca gelata, dall’odore di morte, dai lamenti delle donne senza nome accanto a noi. Margot si è addormentata anche quella notte, l’ultima insieme. Il tifo se l’è portata via. Mi sembra di sentire il suo respiro sempre più lento, mi sembra di vederla volare via, sopra la miseria e l’inumanità di queste mura. Forse immagino tutto, ho la febbre alta. Tre giorni dopo tocca a me volare via. Ora sono libera. Niente più soffitta, niente più stella gialla sui vestiti. Posso camminare per strada senza paura, mangiare il gelato, vedere le mie amiche.
Papà ce l’ha fatta. È tornato a casa, solo. Noi siamo rimaste prigioniere della morte e del delirio di un popolo che voleva affermare con la violenza la sua superiorità sul mondo. Resta il quadernino bianco e rosso a cui ho affidato la mia giovinezza. Oggi mi strumentalizzano, come un vessillo di scherno, non capendo o non sapendo il significato della mia morte, della sofferenza di un popolo condannato alla cancellazione dalla follia di qualcuno. Chi mi esibisce allo stadio, chi chiede scusa mettendo in scena una pagliacciata per salvare la faccia, chi urla frasi di odio, dovrebbe solo ricordare che io, Anna Frank, ero una ragazzina come tante, con sogni, incertezze, desideri e paure. Ero solo una ragazzina ebrea di nascita.

Rosella Reali

ROSELLA REALI
Sono nata nel marzo del 1971 a Domodossola, attualmente provincia del VCO.  Mi piace viaggiare, adoro la natura e gli animali. L'Ossola è il solo posto che posso chiamare casa. Mi piace cucinare e leggere gialli. Solo solare, sorrido sempre e guardo il mondo con gli occhi curiosi tipici dei bambini. Adoro i vecchi film anni '50 e la bicicletta è parte di me, non me ne separo mai.  Da grande aprirò un agriturismo dove coltiverò l'orto e alleverò animali. 
Chi mi aiuterà?Ovviamente gli altri viaggiatori.
Questa avventura con i viaggiatori ignoranti? Un viaggio che spero non finisca mai...

Ognissanti e Halloween, tra storia e tradizioni

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Da quando ero bambino il Primo Novembre era la festa di Ognissanti, seguita dal giorno della commemorazione dei defunti. Il ricordo di quando ho sentito parlare per la prima volta di Halloween è sfocato nella mia mente, ma tutti gli anni si ripropone il dilemma: Ognissanti o Halloween? 
Ho provato a fare qualche ricerca sulle origini delle due feste, apparentemente lontane tra loro. Nel seguito dell'articolo potrete leggere quello che ho trovato.
Premetto che lo scritto si ripropone esclusivamente di fornire qualche spunto di riflessione, lungi da me la volontà di denigrare lʼuno in favore dellʼaltro. Soprattutto, nonostante la buona volontà, senza dubbio qualche cosa mi sarà sfuggita pertanto vi invito, qualora vi faccia piacere, a  suggerire opportune precisazioni o differenti punti di vista.
La storia che voglio provare a raccontare affonda le proprie radici nella verde Erin, oggi Irlanda, dominata dal popolo dei Celti. In quella terra il primo novembre segnava la fine dell'estate a cui seguiva un lungo festeggiamento: il Samhain, che deriva dal gaelico Samhuinn, con il significato "summer's end" ovvero fine dell'estate. I celti erano un popolo di pastori e contadi. Durante l'estate avevano coltivavano con fatica i campi che il quel periodo donavano frutti, ed il bestiame era pronto per affrontare l'inverno. Finalmente il tempo del riposo era giunto, ma il momento più difficile doveva ancora giungere. Per questo motivo tramite il Samhain era esorcizzato l'arrivo dell'inverno, con un rito di passaggio e di ringraziamento alle divinità.
Nell'ottavo secolo papa Gregorio III dedicò una cappella di San Pietro alle reliquie dei Santi Apostoli e di tutti i santi, martiri e confessori, stabilendo il Primo Novembre come data commemorativa. Nacque così la festa di Ognissanti, che fu ufficializzata quasi un secolo più tardi in tutto l'impero di Carlo Magno. In realtà una ricorrenza simile si festeggiava già il giorno dell'anniversario della consacrazione della chiesa di Santa Maria ai Martiri, avvenuta il 13 maggio del 609 o del 610. Papa Gregorio III decise di unificare le ricorrenze in un unico giorno, appunto il Primo Novembre.
Circa trecento anni più tardi San Odilo, abate del monastero di Cluny, stabilì nella data del 2 novembre il giorno di commemorazione dei defunti. Secondo antiche credenze, in quel giorno i morti ritornerebbero nel mondo terreno peregrinando per le strade o tornando alle proprie case. Così, seguendo la tradizione, i fedeli si travestivano da diavoli o santi accendendo dei grandi falò: ecco gli albori della festa dei Morti che si diffuse a macchia d'olio in tutta Europa. 
Alle soglie del secondo millennio, il calendario liturgico si arricchiva quindi di due nuove feste tra le già molteplici esistenti nel Medioevo e di cui oggi per la maggior parte se ne è persa traccia. In epoca medievale, il territorio Europeo, fu teatro di una molteplicità di espressioni liturgiche in cui la celebrazione della messa era solo una parte della “festa” a cui i fedeli partecipavano mangiando insieme, ballando e divertendosi.
Ancora ai giorni nostri parte di questa “festa”, al di là della celebrazione Eucaristica, permane specialmente in alcuni momenti, come ad esempio Natale e Pasqua in cui ci si ritrova intorno a una tavola imbandita a festeggiare preparando dolci particolari a seconda del periodo. Anche per il giorno dei morti, ad esempio, è uso preparare le “ossa dei morti” oppure le fave dei morti con tutte le varianti di nomi e ricette del Belpaese.
Ma torniamo a noi: nella Francia del Trecento, nel giorno del 2 novembre, si iniziò ad inscenare la danza macabra in cui figuranti mascherati da cittadini di diverso rango della società del tempo, venivano traghettati nella tomba da un uomo mascherato da morte o diavolo. La danza macabra oltre ad essere stata musicata da famosi compositori quali Litz, la ritroviamo raffigurata in numerosi affreschi sparsi in tutta Europa. Alcuni esempi si possono trovare presso l'Oratorio dei Disciplini a Clusone, in provincia di Bergamo, oppure presso il Camposanto di Pisa con il Trionfo della Morte. Tra i più antichi, purtroppo ormai distrutta ma riprodotta in altri capitali europee, ricordiamo quella realizzato nel 1424 a Parigi lungo una delle mura del Cimitero degli Innocenti. Negli affreschi, oltre alla raffigurazione di soggetti dell'epoca, trovavano spazio scheletri, teschi, ossa e altri riferimenti alla morte. Sulle pareti e capitelli di alcune chiese, come ad esempio la meravigliosa San Bernardino alle Ossa a Milano, di cui ho scritto qualche anno fa per questo blog, troviamo resti umani veri, con tanto di leggenda che narra, proprio nella notte del 2 novembre, del ritorno in vita di una ragazza tramite un passaggio segreto della cappella. La giovane guiderebbe una danza macabra di scheletri che lascerebbe udire i rumori di ossa anche fuori dalla cappella stessa. Altri personaggi che ricordano la morte o creature mostruose si trovano in chiese, luoghi e persino opere letterarie. Pensiamo, per esempio, ai gargoyles messi a protezione e custodia delle cattedrali gotiche, agli incontri del Sommo Poeta nel suo viaggio all'inferno e la descrizione dello stesso Dante di atti di cannibalismo con i noti versi del Canto XXXIII dell'inferno dedicato al conte Ugolino della Gherardesca: La bocca sollevò dal fiero pasto quel peccatore, forbendola a' capelli del capo ch'elli aveva di retro guasto.
La morte, tra i temi principali di questo racconto, è vista non come un punto di arrivo, ma come un punto di partenza della vita vera, quella ultraterrena. Si  rammenta ai credenti, con il monito cristiano memento mori, ricordati che devi morire, la brevità e  la fragilità della vita terrena. I riferimenti a queste creature mostruose mettono altresì in guardia dalle tentazioni e insidie perpetrate dal demonio per il tramite di persone a loro simili, permettendo ai credenti di guardare il male e la morte con serenità, nella certezza che il Cristo abbia sconfitto entrambi.
Gli storici hanno ragione di credere che un tempo venissero regolarmente festeggiate anche le vigilie, noi stessi ne festeggiamo almeno due: quella di Natale e il martedì grasso che precede le Ceneri, e così anche il 31 ottobre si sarebbe tenuto un festeggiamento propiziatorio al giorni di Ognissanti. In alcune parti d'Europa, anche in Italia, è ancora festeggiata la notte del 31 ottobre con modalità molto simili alla festa americana di Halloween. Tra le tradizioni più antiche ricordiamo che già in epoca carolingia, in Irlanda, i contadini esponevano sui davanzali delle finestre, oppure fuori dalle porte, delle rape intagliate e illuminate dall'interno, sfilando per le strade sbattendo rumorosamente delle padelle. La luce delle rape onorava le anime bloccate in purgatorio mentre il rumore delle padelle serviva a spaventare e tenere lontane quelle dannate. 
Ci spostiamo in Inghilterra tornando al pomeriggio del 5 novembre del 1605, quando un gruppo di cattolici, guidati da Guy Fawkes, progettarono di uccidere Re Giacomo I d'Inghilterra tramite un esplosione nel Palazzo di Westminster. L'esplosivo ammassato avrebbe gravemente danneggiato il palazzo del governo, l'abbazia e molti caseggiati nei dintorni. Purtroppo per Guy Fawkes e la sua banda il tentativo fallì: furono giustiziati per impiccagione il 31 gennaio dell'anno successivo. Il 5 novembre di ogni anno gli inglesi celebrano ancora questa vicenda storica: i bambini trascinando un fantoccio, guy, per le strade chiedono a penny for the guy per comprare i fuochi d'artificio per la festa. Il fantoccio è bruciato con un grande falò.
Seguirono le grandi migrazioni di europei verso gli Stati Uniti d'America. Come accadde in Europa, dove le tradizioni erano contaminate dalle diverse culture, probabilmente anche gli immigrati europei, che contribuirono a costruire una parte della civiltà americana, plasmarono una nuova cultura come sintesi di molte altre. Arriviamo finalmente al 31 ottobre. Halloween, che è innanzitutto la ricercata crasi di All Hallows Eve ovvero notte di Ognissanti, si festeggia come una vigilia. Durante questa festa ci si traveste da mostri e streghe girando per le strade dei paesi come in una danza macabra. Sui davanzali si espongono zucche illuminate dall'interno come possibile evoluzione delle rape irlandesi di molto tempo fa e, spesso, si fa un gran baccano come per spaventare le anime dannate. Le origini di dolcetto o scherzetto andrebbero ricercate nella tradizione di Guy Fawkes Day del 5 novembre che dall'usanza medievale inglese, ancora viva ai tempi di Shakespeare, di dare ai poveri cibo in cambio di preghiere per i cari defunti proprio nei giorni dei santi e morti. Se quanto sopra fosse corretto potremmo dire che Halloween è una festa di origine cattolica in una terra non cattolica. I puritani del Nord America erano poco tolleranti verso il cattolicesimo ed in alcune nazioni per certi periodi furono vietati diversi festeggiamenti tra i quali quelli del Natale. Nonostante tutto la festa di Halloween riuscì a rimanere viva sebbene nel tempo alcuni antropologi e studiosi cercarono di associare questa festa a riti pagani e celebrazioni di sabba da parte di satanisti o streghe. Più probabilmente, come spesso capita, oggi Halloween, come molte altre feste, è principalmente una festa materialista a scopo commerciale. A mio parere potremmo semplicemente fare come nel medioevo: approfittare di questo momento per fare festa, stare insieme e divertirci in preparazione ad una più formale festa di Ognissanti, per poi onorare la memoria dei nostri morti. Del resto di questi tempi quando ci capita di fare festa e stare insieme 3 giorni di fila?
Personalmente continuerò a festeggiare Halloween con la famiglia approfittando di questo dono che ci arriva da oltre oceano senza che per questo venga scalfita la mia identità o le cose in cui credo. Mi auguro che dopo questa lettura qualcuno approfitti di uno dei giorni di festa per trovare del tempo e raccontare ai figli la storia sopra descritta, magari rivista e corretta nel caso in cui abbia commesso degli errori, per capire meglio chi siamo e da dove arrivano le nostre tradizioni, o più semplicemente per scoprire insieme che possiamo per una volta guardare con leggerezza anche il lato più oscuro della vita rappresentato dalla morte. Come ho detto l'articolo è solo uno spunto non una verità assoluta, un elenco di avvenimenti storici, qualche leggenda ed un tentativo di legarli insieme. Come il filosofo Michel de Montaigne disse: "nel mondo non ci sono mai state due opinioni uguali. Non più di quanto ci siano mai stati due capelli o due grani identici: la qualità più universale è la diversità".

Marco Boldini


MARCO BOLDINI
Nato nel 1969 sposato, 3 figli e il gatto Balthazar, 47 anni ma in realtà ventisettenne con vent’anni di esperienza, cittadino del mondo e milanese di nascita ma miazzinese e, più recentemente, tainese di adozione. Volubile e curioso cerco quando posso di fuggire dalla noia e dalla routine, ho potenzialmente sempre la valigia aperta, pronto a passare da un aeroporto all'altro, a conoscere lingue, persone, culture e paesi diversi che ritraggo in maniera dilettantistica con la macchina fotografica. Amo in uguale maniera la montagna, che ti parla con i suoi silenzi e ti regala indimenticabili albe e romantici tramonti; da qui forse l’interesse per questo blog.

Nel tempo in cui i bimbi nati-morti erano degni al più di qualche sorriso

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Dal XII al XIX secolo almeno, decine, centinaia, migliaia di casi di ritorno effimero alla vita di bimbi nati-morti si verificarono in tutta Europa, divenendo una delle manifestazioni rituali più diffuse e longeve della cristianità.
Il fenomeno esplode soprattutto a partire dal Cinquecento. Un evento eclatante è quello documentato nelle vicinanze di Aix-en-Provence nel 1558. In quell'anno"uno di questi bimbi fu lasciato sull'altare per diverso tempo. Dopo le preghiere, riprende vigore, e viene battezzato. Sette candele disposte su un lampadario al centro della chiesa, ad oltre 12 passi da terra, miracolosamente si accendono. Erano presenti il vicario generale e sette testimoni".
La chiesa cui si riferisce il miracolo apparteneva all'Annonciade di Aix-en-Provence, monastero dedicato all'Annunciazione della Beata Vergine, costruito nel XIII secolo sulle rovine di una cappella dedicata a Sant'Antonio. Gli abitanti della città avevano stabilito di edificare l'edificio fuori le mura in seguito all'incremento dei casi della malattia conosciuta con il nome di fuoco sacro, male degli ardenti o fuoco di Sant'Antonio. Tale pericoloso morbo poteva avere effetti devastanti sulle comunità colpite. Si manifestava in due forme: la prima caratterizzata da sintomi epilettici, la seconda da gangrena alle estremità che conduceva all'amputazione dell'arto colpito. Le parti del corpo interessate dalla malattia diventavano secche e nere, come se fossero state bruciate, caratteristica dalla quale potrebbe essere derivato il nome, che evoca il fuoco, della patologia. La medicina del tempo non conosceva rimedi efficaci, perciò le popolazioni del XIII secolo si rivolgevano a Sant'Antonio, considerato l'intercessore prediletto contro questo malanno. Con il tempo il convento dell'Annonciade fu abbandonato sino a cadere in rovina. 
Soltanto i libri parrocchiali rimangono a testimoniare, come spesso accade, l'incredibile, miracoloso evento svoltosi presso l'altare di quella cappella dedicata all'Annunciazione della Beata Vergine. Intanto il répit si diffonde anche in Italia. A Rimella, in Val Mastellone in provincia di Vercelli, nel 1590 si registra un caso clamoroso. L'allora vescovo di Novara, Cesare Speciano, durante una visita pastorale in Valsesia decise di spingersi fino a quello sperduto villaggio, perché aveva udito che vi si perpetravano strani riti. Cosi scrisse di proprio pugno: "In Rimella perdura questa superstizione e cioè che gli infanti morti senza il sacramento del battesimo se fossero collocati sotto l'altare di Santa Maria sarebbero tornati alla vita fino che avessero ricevuto il battesimo, ma essendo stati interrogati il curato ed altri testimoni sul fatto che uno di questi bimbi fosse tornato alla vita, risposero nessuno. La qual cosa fu giudicata piuttosto degna di riso e fu vietata, affinché quei bimbi nati morti e creduti vivi non fossero battezzati ne sull'altare della chiesa ne in altri luoghi".
Il presule novarese era nato a Cremona nel 1539, nobile rampollo della famiglia degli Speciani, e avviato sin da giovane età alla vita clericale. Ordinato presbitero dell'arcidiocesi di Milano nel 1567, fu nominato vescovo di Novara nel 1584 e già all'indomani dell'incarico si impegnò fortemente nell'applicazione dei dettami del Concilio di Trento. 
Lo Speciano si sentì investito d'estirpare le superstizioni antiche dalla sua diocesi, compresa l'ignobile pratica del répit che decise di vietare con violenza, seguendo il sentimento istituzionale dell'epoca, destinato a rimanere tale per molto tempo. Ancora nel 1702 il teologo Jean-Baptiste Thiers avrebbe espresso il medesimo parere: quel rito era di certo superstizione e in piena opposizione alla dottrina cristiana. Il répit veniva vietato non solo in Italia, ma anche nella terra d'origine, la Francia. Nella diocesi di Sens, dopo quasi 150 anni dalla prima perentoria proibizione, il rito continuava ad essere praticato. Il vescovo si era scagliato violentemente contro i genitori accusati di ricorrervi già nel 1524, ma i ritorni effimeri alla vita dei bimbi nati-morti a Pringy si verificarono con regolarità. Abbiamo documenti che attestano tale pratica: "il venti di ottobre del 1662, hanno portato un bambino nato morto dalla parrocchia di Nandi, figlio di Etienne Colin e Catherine Colas. Il bambino è stato esposto di fronte all'immagine della Vergine nella cappella del Priore di Pringy. Dopo le preghiere alla Vergine il piccolo ha mostrato segni di vita come perdita di sangue dalle narici e dall'ombelico, e la piuma che era stata posta sulle sue labbra è sventolata. E' stato battezzato e sepolto nel cimitero. Presenti Claudine Vignier, ostetrica, Simonne Delacroix, vedova di Tourbillon, Guy Dealcroix e Marie Delacroix".
Ovunque vi fossero santuari a répit, le resurrezioni effimere continuavano. In Italia un caso unico è quello di Soriso, provincia di Novara. Nel piccolo paese, che sorge lungo la direttrice che collega la Valsesia con il medio novarese, tutto ebbe inizio nel 1676: "dalla parte occidentale in bassa e angusta valletta si venera, in vago oratorio, la miracolosa immagine della Madre di Dio, appellata della Gelata, le cui prodigiose grazie, e portenti, non devono essere passate sotto silenzio. L'anno passato 1676 circa l'ora 11 del 30 ottobre Livia Vercelli di questo luogo, diede alla luce una bambina nata morta. Angosciata cercò il denaro per un viaggio nella diocesi di Tarantasia in Savoia, dove per intercessione della beata vergine innumerevoli bambini nati morti hanno dato segni di essere risorti a vita sufficiente per ricorrere al battesimo convenzionale. Mancandogli i soldi ma avendo viva fede, chiese al parroco di esporre la sua bambina davanti alla miracolosa immagine. Si recò il giorno 3 di novembre circa all'ora 13, si recitò il rosario con orazioni ma non comparendo indici sospirati e partendo già il popolo esclamò l'ostetrica di aver quell'istante evacuato dal corpicciolo alcuni escrementi. Disse l'ostetrica sentir palpitare il cuore a quel cadavere e tremare l'occhio sinistro. Onde il parroco pieno di allegria spirituale diedegli il battesimo condizionato. Si terminò il rosario, si resero grazie a Dio e alla beata vergine con l'inno Te Deum e si portò alla sepoltura la bambina a suono festoso delle campane. Fu veduto quel piccolo cadavere prima di seppellirlo essersi colorito da livido a bianco e rubicondo al pari di un ben sano vivente". La miracolosa immagine era soltanto un dipinto protetto da una piccola cappella sulla strada che, uscendo dal paese verso occidente, raggiungeva la Valsesia. In seguito a quel primo prodigio e agli altri dieci che si verificarono poco dopo, l'edicola diventò un oratorio e poi un santuario. 
Dal manoscritto si comprende che il ricorso al répit era conosciuto e di prassi comune nella zona del novarese nel seicento. Al 1739 risale l'ultimo caso di ritorno effimero alla vita di cui si abbia traccia nell'archivio parrocchiale di Soriso. Possiamo avere la certezza che nel 1739 si sia verificato l'ultimo caso di ritorno alla vita? Dopo tale data i registri parrocchiali e le memorie non menzionano più tale fenomeno. Che ne siano accaduti altri o meno, i divieti vescovili e papali di certo spinsero i parroci a seguire scrupolosamente le nuove disposizioni. In altre regioni europee il culto non si spense fino alle soglie del XX secolo. Non lontano da Soriso un altro santuario divenne luogo di ritorni effimeri alla vita. L'esistenza del répit a Ornavasso, provincia di Verbania, divenne pubblico nel 1759, quando l'allora vescovo di Novara, Marco Aurelio Balbis Bertone, ne viene a conoscenza durante una visita pastorale. Le parole del segretario episcopale negli Atti di Visita non lasciano dubbi: in quel luogo i bimbi che nascevano privi di vita erano portati in un santuario de paese per tornare temporaneamente tra i vivi al fine d'ottenere il battesimo. Il luogo era quello della Madonna dei Miracoli, chiamato Boden ovvero pianoro nella locale lingua walser, che sorge al di sopra di unabalza incuneata all'ingresso di uno stretto vallone. Il vescovo si espresse duramente nei confronti del répit che in quel luogo si praticava. Sicuramente a tale sentimento fu spinto dalla condanna generale espressa pochi anni prima dal De Synodo Diocesana, testo con il quale papa Benedetto XIV condannò in via definitiva il rito del ritorno effimero alla vita per abuso del sacramento del battesimo.
Negli anni seguenti il ricorso al répit non declinò ne scomparve. Chi vi faceva ricorso si nascondeva, si riparava in luoghi isolati. Non lontano dall'abitato di Ornavasso è il Canton Vallese, in territorio svizzero. Nel 1794 il vescovo di Sion,  Joseph-Antoine Blatter, prima di intraprendere un viaggio nella diocesi, inviò a tutti i parroci un questionario sullo stato della parrocchia. Le domande riguardavano le pratiche svolte nei santuari a répit. I parroci di Moerel e di Reckingen confermarono che i bimbi nati-morti erano abitualmente portati alla cappella di Hohen-Fluhen, nel comune di Rieredalp, affinché potessero ricevere il sacramento del battesimo. Il parroco di Moerel aggiunse che la cappella era luogo di pellegrinaggio molto frequentato e che vi erano stati comportamenti scandalosi, da parte dell'uno e dell'altro sesso, nelle locande dei dintorni. Voci simili si levarono anche da Munster, Biel, Naters e Mund. L'ultimo battesimo impartito a Hohen-Fluhen sembra risalire al 1852. Il registro dei battesimi di Biel menziona alla data del 22 maggio del 1863 il decesso di bimbi non battezzati e portati alla cappella di Hohen-Fluhen, in seguito ad "una stupida credenza". 
La certezza che il 1863 sia stato l'anno finale della pratica non è credibile poiché ancora nel 1879, nello Stato della parrocchia di Moerel, era menzionato, come destinatario dei bimbi morti senza il battesimo, il cimitero della cappella di Hohen-Fluhen.

Fabio Casalini



Bibliografia
Fabio Casalini e Francesco Teruggi, Mai vivi, mai morti, Giuliano Ladolfi editore, Borgomanero, 2015

Marcel Bernos, Réflexions sur un miracle de l'Annonciade d'Aix. Contribution à l'etude dex sanctuaries à repit, in Annales du Midi, Edition Privat, Tolosa, 1970

Fiorella Mattioli Carcano, Santuari à répit, Priuli e Verlucca, Ivrea, 2009

Jean-Baptist Thiers, Traité de l'exposition du Sain Sacrament de l'autel, Louis Chambeau, Avignone, 1977

Gabriel Leroy, Notre-Dame de Pringy, son culte et sa légende, Dumoulin, Paris, 1862

Fiorella Mattioli Carcano e Valerio Cirio, Santa Maria della Gelata nel contesto europeo dei santuari fonte di vita, Parrocchia di Soriso, Soriso, 1993

FABIO CASALINI– fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.

Il Nero e il Bianco

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Nell’atrio del Caesar Palace di Las Vegas c’è la statua di un pugile. Si chiamava Joe Louis. La statua non è lì perché abbia combattuto incontri particolarmente importanti a Las Vegas, ma perché a fine carriera era diventato un ospite fisso dell’hotel e del suo casinò. Era pagato solo per stare lì. Per fare l’ospite e farsi vedere in giro per le sale. Attirava i clienti.   Joe Louis è stato il protagonista di una delle storie sportive e umane più straordinarie che si possano raccontare. Uno dei due protagonisti. L’altro era un tedesco, Max Schmeling. 
Il pugilato è uno di quegli sport che per motivi ancora non del tutto chiari riesce più di ogni altro a creare e intrecciare vicende umane fuori dal comune. Sarà per la fatica, il sudore, la violenza. Sarà per la provenienza quasi sempre poverissima dei suoi campioni. Fatto sta che mai come dalla boxe emergono storie così esemplari e persone così autentiche, più vere di qualsiasi invenzione narrativa.
La storia è lunga e complessa. La sfida sarà riuscire a sintetizzarla.
Joe Louis era un pugile americano, nero. Una veloce carriera lo portò ai vertici della boxe negli anni 30, nella categoria dei pesi massimi. Fu uno dei primi a volere e mantenere a tutti i costi un manager anch’esso nero, mentre tutti premevano perché si facesse gestire da un manager bianco.
L’America era ancora profondamente razzista, negli stati del sud ancora dominavano le grandi proprietà terriere dei bianchi lavorate da masse di neri. L’integrazione era ancora una cosa molto lontana.
Fu in quegli anni, nel 1936, che Louis incontrò per la prima volta Max Schmeling. Era tedesco, gran pugile. Lo incontrò il 29 maggio a New York. Nonostante la Germania di Hitler fosse già poco simpatica negli States, molti, moltissimi americani non furono così dispiaciuti della vittoria del tedesco. Era pur sempre un bianco, e sovvertendo i pronostici sconfisse Louis alla 12esima ripresa, riaffermando agli occhi di molti la supremazia della razza bianca su quella africana.
Fu un colpo durissimo non solo per Louis, ma per l’intera comunità nera degli Stati Uniti.
Schmeling, dal canto suo, avendo avuto la bella idea di chiudere l’incontro urlando alla folla “Heil Hitler!” si vide subito mitizzato e coccolato dal regime nazista. Era diventato un simbolo della superiorità ariana sulle altre razze, e della invincibilità della potenza germanica.
Schmeling si tenne in bilico come poté, accettò le onorificenze del regime, ma al tempo stesso si rifiutò sempre decisamente di licenziare il suo manager ebreo, Joe Jacobs, come invece insistentemente veniva “invitato” a fare dal ministero dello sport nazista.
Tanto per dare un’idea di come queste vite si intreccino con le traiettorie più disparate, Schmeling nel 1933 aveva sposato Anny Ondra, che per noi cinefili non è un nome qualunque. Era un’attrice cecoslovacca di origine ungherese che quattro anni prima aveva raggiunto la notorietà in Inghilterra recitando nel primo film sonoro inglese della storia del cinema, “Blackmail” (Ricatto), diretto da un giovanissimo talento, tale Alfred Hitchcock (il quale tra l’altro, due anni prima aveva proprio girato una splendida storia muta sulla boxe, “The Ring”, magistrale gioco di parole fra l’arena della boxe e l’anello, ring, protagonista della storia d’amore e matrimonio intrecciata a quella sportiva, maldestramente tradotto in italiano “Vinci per me!”). C’è chi addirittura ipotizza, con diverse prove a carico, che la passione del grande Hitch per le bionde abbia avuto inizio proprio con questa attraente e ironica giovane attrice dell’est.
Ma torniamo, appunto, al ring.
Dopo la sconfitta del 1936 subita dal campione tedesco, Joe Louis riparte e risale. E’ abituato alla fatica, alle sconfitte, alle delusioni, ed è forte abbastanza da ripartire e riprendersi tutto ciò che ha perso. Un anno dopo conquista il titolo mondiale battendo James Braddock (il Cinderella Man del film di Ron Howard con Russel Crowe).
E ora, conquistata la corona, è deciso non solo a conservarla, ma anche a ripetere la sfida che ancora resta una macchia sulla sua carriera.
Fra le difese del titolo arriva infatti anche l’incontro destinato a passare alla storia. Arriva nel 1938, sempre a New York, sempre allo Yankee Stadium.
Ma stavolta è molto più di un incontro di boxe. Stati Uniti e Germania sono ormai decisamente ostili, e la propaganda di entrambi i governi pompa sui due in modo esasperante. Schmeling è chiamato a ribadire la superiorità della Germania nazista e della razza ariana, Louis è chiamato a difendere l’idea stessa della democrazia degli Stati Uniti, e anche la dignità e la forza della comunità nera americana. Loro, gli americani, sono un po’ meno razzisti dell’ultima volta. Ora ci sono da difendere i loro valori e dare una bella lezione a quella dittatura violenta e pericolosa che sta facendo sfracelli oltreoceano.
Dittatura contro Democrazia. Altro che incontro di boxe.
Quella sera tutta l’America è ferma, radunata davanti alla radio. Gruppi di neri radunati sotto i portici della casa del loro padrone bianco tifano tutti per la stessa parte. Almeno per questa sera è la parte di tutti.
L’incontro comincia, e dura esattamente due minuti e quattro secondi. In quei due minuti della prima e unica ripresa Joe Louis si abbatte come un tifone sul pugile tedesco. Gli scaraventa una quantità di colpi con forza e velocità pazzesche, tanto da far ammutolire i commentatori. Max Schmeling non ha neanche il tempo di reagire, viene abbattuto come un toro sotto la scarica di un mitragliatore. K.O. alla prima ripresa.
Un trionfo per Louis. La sconfitta definitiva per Schmeling, che viene ovviamente subito scaricato dal regime nazista.
L’America esulta, tutti i neri in ogni angolo degli States si sentono un po’ meno soli e un po’ meno deboli.
Louis diventa un simbolo, non solo per i suoi simili, ma per l’America intera. La sua impresa è considerata storicamente come parte determinante della crescita del sentimento anti-nazista che porterà infine all’entrata in guerra degli Stati Uniti contro il regime di Hitler.
Dopo l’apoteosi Louis difenderà il titolo per 27 volte, vincendo sempre, e si ritirerà dai combattimenti nel 1948, imbattuto.
Ma qui probabilmente inizia l’altra parte della storia, quella che a volte solo la boxe riesce a mettere in scena. Quei terribili due minuti di quella sera del 22 giugno sembra abbiano segnato, insieme al trionfo dell’uno e al tracollo dell’altro, anche l’inizio di un’amicizia destinata a durare assai più a lungo di una manciata di round.
Appena finita la guerra Schmeling è ovviamente in disgrazia, e Louis dagli Stati Uniti fa in modo di farlo rialzare in piedi aiutandolo ad ottenere la concessione per l’imbottigliamento della Coca-Cola in Germania. Gran bel colpo, che lo sistemerà stabilmente assicurandogli anche una lunga e tranquilla vecchiaia.
I tempi bui arriveranno poi anche per Louis, che dopo un ultimo tentativo di tornare sul ring ormai fuori tempo massimo rimane povero e dimenticato, e sarà soccorso proprio dal vecchio amico tedesco, che ora se la passa assai meglio.
È della fine della sua carriera la strana occupazione di “ospite” del Caesar Palace di Las Vegas. Lui sta lì, pagato e ospitato solo per girare per l’albergo, farsi vedere dagli ospiti, attirarli all’hotel e soprattutto al Casinò.
Con l’andare degli anni si scoprirà malato al cuore, sarà sottoposto a diversi interventi, e si arrenderà alla morte nel 1981, a 66 anni.
Il suo rivale vivrà più a lungo, saluterà questo strano mondo addirittura nel nuovo millennio, nel 2005, da perfetto centenario.
Ma è sugli ultimi particolari che alla fine la loro storia assume i toni unici e commoventi della leggenda.
Joe Louis viene sepolto come eroe nazionale, con gli onori militari, nello storico cimitero di Arlington.
La sua lapide è straordinaria. Le date incise sul marmo scuro non sono 1914-1981 come avrebbero dovuto essere.
Le due date incise sono 1937-1949.
Come se la sua vita fosse stata davvero vissuta soltanto nei pochi anni in cui è stato imbattuto campione del mondo dei pesi massimi.
E l’ultima voce dalla leggenda, immancabile e per questo più vera del vero, vuole che le spese del funerale siano state interamente pagate da Max Schmeling, il suo unico, vero, grande, vecchio amico.
Joseph Louis Barrow detto Joe Louis
(Lafayette, 13 maggio 1914 – Las Vegas, 12 aprile 1981)
Max Adolph Otto Siegfried Schmeling
(Klein Luckow, 28 settembre 1905 – Wenzendorf, 2 febbraio 2005)
Primo incontro: New York - 29 Maggio 1936 – Schmeling batte Louis alla 12° ripresa
Secondo incontro: New York – 22 Giugno 1938 – Louis batte Schmeling a 2’04’’ della 1° ripresa

Alessandro Borgogno

ALESSANDRO BORGOGNO
Vivo e lavoro a Roma, dove sono nato il 5 dicembre del 1965. Il mio percorso formativo è alquanto tortuoso: ho frequentato il liceo artistico e poi la facoltà di scienze biologiche, ho conseguito poi attestati professionali come programmatore e come fotoreporter. Lavoro in un’azienda di informatica e consulenza come Project Manager. Dal padre veneto ho ereditato la riservatezza e la sincerità delle genti dolomitiche e dalla madre lo spirito partigiano della resistenza e la cultura millenaria e il cosmopolitismo della città eterna. Ho molte passioni: l’arte, la natura, i viaggi, la storia, la musica, il cinema, la fotografia, la scrittura. Ho pubblicato molti racconti e alcuni libri, fra i quali “Il Genio e L’Architetto” (dedicato a Bernini e Borromini) e “Mi fai Specie” (dialoghi evoluzionistici su quanto gli uomini avrebbero da imparare dagli animali) con L’Erudita Editrice e Manifesto Libri. Collaboro con diversi blog di viaggi, fotografia e argomenti vari. Le mie foto hanno vinto più di un concorso e sono state pubblicate su testate e network nazionali ed anche esposte al MACRO di Roma. Anche alcuni miei cortometraggi sono stati selezionati e proiettati in festival cinematografici e concorsi. Cerco spesso di mettere tutte queste cose insieme, e magari qualche volta esagero.

I Khmer Rossi, flagello di un popolo

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Nel periodo compreso fra il 31 dicembre 1977 e il 6 gennaio 1979, un uomo di nome Saloth Sar, governò la Cambogia mettendo in atto quello che la storia contemporanea ricorda come il genocidio cambogiano o autogenocidio cambogiano. Un fenomeno che per le sue immani proporzioni e la capillarità della sua azione, può essere considerato come un caso senza precedenti nella storia. 
Neppure Hitler e Stalin riuscirono ad eguagliare, in proporzione al tempo considerato, il numero di vittime presunte attribuite al governo di questo piccolo uomo dall’aria rassicurante. Saloth Sar, al secolo Pol Pot o Fratello n° 1, fu capo del partito comunista cambogiano e del governo nel periodo che prenderemo in esame.
Il numero di vittime attribuito al suo operato non è di facile determinazione, mancano documenti a suffragio delle ipotesi avanzate. Si va da 800.000 a 3.800.000 persone, ma la cifra più credibile, suffragata da alcune testimonianze di collaboratori di Pol Pot, si aggira intorno ai 2.500.000 cambogiani. I dati riportati sono tratti da studi fatti da organismi internazionali riconosciuti, in base al numero di vittime rinvenute nelle fosse comuni, senza tener conto della numerica delle persone scomparse senza lasciare traccia per i più disparati motivi.
Prima di questo periodo insanguinato, la Cambogia fu protettorato francese dal 1863 al 1953, anno in cui ottenne l’indipendenza. La maggioranza della popolazione era composta dall’etnia Khmer, la cui religione era il Buddhismo Theravada. La lingua khmer, appartenente al gruppo mon-khmer, ha una tradizione molto antica, fatta risalire al VII secolo d.c. Nel paese erano presenti anche una minoranza cinese, dedita al commercio, una vietnamita e una Cham, composta da circa 100.000 individui di fede islamica, discendenti degli abitanti del glorioso Regno Champa, che per molti secoli ebbe il controllo dei territori costieri.
Nel 1955, prese il potere un nuovo movimento politico, guidato dall’ex sovrano Norodom Sihanouk, la Comunità Socialista Popolare, che rimase al potere fino alla fine degli anni Sessanta. La politica attuata da Sihanouk fu di neutralità soprattutto nell’ambito delle relazioni internazionali, mantenendo distacco sia dall'Occidente sia del blocco comunista. Cercò anche di rilanciare l'economia nazionale e di ristrutturare l'educazione e la sanità, dando nuovo slancio al proprio paese. Cercava di mantenere la Cambogia libera e di non farla coinvolgere nella guerra del vicino Vietnam, che durò dal 1955 al 1975. La situazione mutò improvvisamente nel 1970, quando il primo ministro Lon Nol, appoggiato dalla CIA, rovesciò il governo di Sihanouk, approfittando di un suo viaggio all’estero, istituendo il 18 marzo la Repubblica Khmer.
Sihanouk per non uscire totalmente dalla scena politica del paese, godendo ancora di una certa influenza sulla popolazione, si alleò con i Khmer Rossi, guerriglieri comunisti capeggiati da Pol Pot. Sihanouk durante il conflitto si rifugiò a Pechino, dove fondò il FUNK Fronte Unito Nazionale di Kampuchea, che comprendeva Pol Pot e il suo esercito. Insieme costituirono il primo nucleo combattente Khmer Rosso, che occupò gradualmente le regioni lasciate dai nord vietnamiti durante la loro ritirata.
Le zone conquistate furono la sede del primo esperimento di società basato sul modello di Pol Pot e l’occasione per attuare una campagna di epurazione contro i vietnamiti residenti nelle zone orientali della Cambogia e contro i comunisti rientrati dal Vietnam del Nord.
Lo scontro fra l’esercito di Lon Nol, sostenuto dagli americani e i guerriglieri di Pol Pot, durò fino al 1975, quando la capitale Phnom Penh fu posta sotto assedio. All’inizio la popolazione, più che triplicata a causa dell’immigrazione dalle campagne, vedeva l’arrivo dei "piccoli uomini neri usciti dalla foresta" con gioia, ma ben presto si resero conto che i soldati Khmer non erano venuti con intenzioni pacifiche, ma per sgomberare città e zone conquistate. Il nuovo regime fece in quei giorni le prime vittime. Tutte le persone furono censite al fine di individuare gruppi di corrotti.
Il 17 aprile Phnom Penh venne conquistata. Lon Nol fuggì negli Usa, mentre i vertici del vecchio regime e ogni potenziale oppositore politico furono uccisi senza tanti convenevoli.
La popolazione fu divisa in due gruppi: i NUOVI, o popolo del 17 aprile 1975, ed i VECCHI o popolo del 18 marzo 1970. I secondi erano considerati corrotti. La popolazione della capitale fu rastrellata e costretta a marciare verso le campagne, disabili e infermi compresi. Oltre 3.000 persone perirono lungo il tragitto. Tutti i partiti furono messi al bando, ad eccezione di quello Khmer. I cittadini stranieri presenti sul territorio furono espulsi dal paese.
La Cambogia da quel giorno visse isolata dal resto del mondo e si trasformò in un gigantesco campo di lavoro. Solo pochi collegamenti aerei con la Cina, per motivi di commercio, rimasero attivi. Pochi altri voli erano permessi ai quadri cambogiani o ai funzionari dell’esercito di Pol Pot. Il 12 maggio in seguito al sequestro della nave mercantile americana S.S. Mayaguez, iniziò la crisi della Mayaguez, che si concluse con la morte di 41 soldati statunitensi, il ferimento di molti altri e la vittoria morale dell’esercito di Pol Pot.
Pochi giorni dopo, il 22 maggio, caddero le ultime roccaforti fedeli a Lon Nol, all’estremo confine con la Thailandia: il pese passò da quel momento completamente in mano di Pol Pot. Nasceva ufficialmente così la Kampuchea Democratica. Iniziava coì un regime di vero orrore.
Il governo manteneva saldamente le redini del paese, nominando ministri di sola facciata. In realtà la direzione del paese era in mano all’Angkar, misteriosa organizzazione a completa disposizione di Pol Pot e dei suoi. Secondo video di propaganda dell’epoca, “l'Angkar ha occhi ed orecchie dappertutto". La popolazione, intimorita, era spinta a venerare l’Angkar Padevat o Angkar Loeu, con fanatismo quasi religioso. In lingua cambogiana significava “Organizzazione Rivoluzionaria o Organizzazione Suprema”. I leader di partito non erano mai chiamati per nome, ma con l’appellativo Fratelli e un numero, oppure con nomi di battaglia.
L’organo principale del partito era costituito dal Comitato Centrale, i cui membri rimasero segreti. Quelli permanenti formavano il Nucleo del Partito. Sulla sua composizione non ci sono certezze. Si presume che fra i suoi componenti vi fossero, oltre a molti altri: Pol Pot, detto "Fratello Numero 1", leader supremo e Segretario Generale del Partito; Khieu Ponnary, detta "Sorella Numero 1", moglie di Pol Pot e sorella di Khieu Tirith; Nuon Chea, detto "Fratello Numero 2", Presidente dell'Assemblea del Popolo dal 1976 al 1979, Vicesegretario del Partito, vice Primo Ministro e sostituto di Pol Pot; Ta Mok, altrimenti detto "Fratello Numero 5" , soprannominato "Il Macellaio", Capo di Stato Maggiore dell'Esercito a partire dal 1976, mentre dall'anno dopo fu Primo Vicepresidente dell'Assemblea del Popolo; Khieu Thirith, detta anche Phea o Hong, prima Ministro degli Affari Sociali e poi corresponsabile con il marito degli Affari Esteri, nonché responsabile della famigerata organizzazione segreta Alleanza della Gioventù Comunista della Kampuchea, formata da ragazzini totalmente devoti al regime, strumento di Pol Pot nel controllo dell'apparato del Partito. Organo esecutivo del Comitato era l’Ufficio 870.
La vita sociale ed economica del paese fu totalmente riorganizzata. Il primo provvedimento preso consisteva nella totale abolizione della proprietà privata. Nacquero enormi comuni agricole, ognuna isolata dall’altra, autosufficienti, in cui si consumavano i pasti collettivamente. Erano popolate dalle genti evacuate dalle grandi città. Tutti, compresi i bambini, erano impiegati nel lavoro nei campi. La moneta fu abolita, in quanto fonte di disparità sociale. Venne introdotto il baratto, e il riso, prodotto in tutto in paese, diventò moneta di scambio. Questa nuova politica agricola causò lunghi periodi di carestia. Ben presto il governo centrale si accorse della necessità di riavviare l’industria, anche se incontrarono notevoli difficoltà legate all’impreparazione generale.
Istituzioni giudiziarie e scuole furono abolite. Chiunque trasgredisse la legge dei campi di lavoro era giustiziato. Le guardie che vigilavano sui campi erano chiamate Mékong. Non superavano i 10 - 15 anni di età.
Disabili e infermi furono eliminati, i malati trattati solo con preparati della medicina tradizionale cambogiana. L’applicazione del pensiero del nuovo governo era assicurata da guardie adolescenti chiamate Yotear, che non esitavano a uccidere alla minima trasgressione. 
I Khmer Rossi erano profondamente nazionalisti e xenofobi. Per questo motivo procedettero all’eliminazione dell’80% della comunità Cham, presente principalmente lungo la costa e nella città costiera di Sihanoukville. Con loro furono decimati anche la minoranza cinese e quella vietnamita. Alcune testimonianze parlavano di sommarie esecuzioni, solo per aver utilizzato più o meno volontariamente uno degli innumerevoli vocaboli proibiti, per aver pianto un congiunto, per aver avuto relazioni sessuali non autorizzate, per aver pregato, per aver rubato del cibo, per il possesso di oggetti preziosi, per essersi lamentati di qualcosa o per aver "lavorato poco". Per trasgressioni minori si riceveva una ammonizione, alla seconda la condanna a morte.
Per far capire quanto poco valesse la vita del singolo uomo per il Comitato Centrale, Pol Pot era solito dire durante i discorsi pubblici: «Lasciarli vivere non ci porta alcun beneficio, farli sparire non ci costa nulla.» 
La giornata nei campi si svolgeva così: 12 ore di lavoro, 2 ore per mangiare, 3 ore per il riposo e l'istruzione (indottrinamento) e 7 ore di sonno. L’obiettivo del Regime di Pol Pot era quello di forgiare il cosiddetto “uomo nuovo”, ateo, rivoluzionario, privo di affetti, dedito esclusivamente al lavoro dei campi, fedele alla patria e all’Angkar. I bambini, considerati incontaminati dal vecchio sistema di vita, ricoprivano cariche importanti e di responsabilità, esercitando il loro potere anche sugli adulti. Erano educati alla violenza e alla crudeltà, sia sugli uomini che sugli animali. 
La classe intellettuale fu considerata reazionaria e pertanto epurata. Possedere un libro, il portare gli occhiali, conoscere una lingua straniera, avere materiale per scrivere era considerato reato punibile con la morte. La cultura doveva essere impartita a partire dalla politica, secondo le direttive del governo.
Erano vietate le espressioni di affetto parentale, l’amicizia o qualsiasi altro sentimento individuale, ci si poteva rivolgere agli altri usando solo gli appellativi “compagno” o “fratello”. I gesti ossequiosi erano proibiti in quanto reazionari. Il calendario occidentale fu abolito in favore di un "calendario rivoluzionario" che escludeva qualunque periodo o evento precedente al 1975, che fu considerato come Anno Zero. Il 5 gennaio 1976 entrò in vigore la Costituzione della Kampuchea Democratica. Era composta da 16 capitoli e 21 articoli che definivano gli obiettivi della politica economica, sociale, culturale ed estera. L’'articolo 12 racchiudeva diritti e doveri di ciascun individuo: “gli uomini e le donne sono sotto tutti gli aspetti uguali…tutti gli operai e tutti i contadini sono padroni delle loro fabbriche e dei loro campi… non c'è assolutamente disoccupazione nella Kampuchea Democratica.” Quindi tutti sono obbligati a lavorare.
Il potere legislativo era attribuito all'Assemblea Rappresentativa del Popolo Cambogiano (ARPC), un organismo di 250 membri, che rappresentavano gli operai, i contadini, i lavoratori e l'Esercito Rivoluzionario. Il ramo esecutivo del governo, scelto dall'ARPC, prendeva il nome di Praesidium. Rappresentava lo Stato della Kampuchea Democratica sia all'interno che all'esterno del paese. Il sistema giudiziario era composto di Corti del Popolo, i cui giudici erano nominati dall'ARPC.
Questo tipo di organizzazione istituzionale è solo presunta e arriva a noi tramite testimonianze orali, in quanto i Khmer Rossi non erano soliti usare documentazione scritta. 
La libertà di religione era sancita dalla costituzione, ma al tempo stesso erano bandite "tutte le religioni reazionarie, dannose per lo Stato e per il Popolo cambogiano", quindi ogni fede che avesse come punti di riferimento qualcosa di diverso dall'Angkar. Aspramente perseguitati furono i Buddhisti, che costituivano l'85% della popolazione: i monasteri furono chiusi o distrutti, i monaci, circa 50.000, vennero uccisi o rinchiusi nei campi di lavoro. Cristiani, ebrei e musulmani, pur essendo una minoranza, furono perseguitati in modo mirato: gli ebrei ad esempio erano marchiati a fuoco con la Stella di Davide, mentre i mussulmani erano costretti mangiare carne di maiale. 
Pol Pot e i suoi fedeli collaboratori diedero vita ad un vero e proprio genocidio. Campi di concentramento e prigioni si diffusero in tutto il paese. Il numero dei bambini uccisi fu altissimo, ma imprecisato. Le esecuzioni cruente. Le vittime erano picchiate, bastonate o accoltellate a morte, altre volte si ricorreva al soffocamento per mezzo di un sacchetto di plastica in cui veniva infilata la testa del condannato, oppure a colpi di zappa sul cranio, od ancora si versava gasolio nella vagina delle donne e appiccando il fuoco. Quasi mai venivano utilizzate pallottole, considerate troppo preziose per tali scopi. Alcune testimonianze, parlano di episodi di cannibalismo ai danni di adulti e bambini, sventrati ancora vivi allo scopo di mangiarne il fegato cotto o la cistifellea essiccata, considerata curativa nella medicina tradizionale, la sola consentita. Le guardie di alcune carceri erano solite mutilare i condannati a morte prima dell’esecuzione, asportando le loro orecchie che poi erano costretti ad ingoiare. I resti umani erano utilizzati come fertilizzante per i campi. Il numero maggiore di vittime lo fecero, nonostante tutto, le carestie, le malattie e le guerre. Restano comunque come un monito per tutti le epurazione di massa messa in atto dal governo dei Khmer Rossi. Molte stragi furono ordinate da funzionari locali, anche se pare difficile credere che Pol Pot ne fosse all’oscuro. La ripresa del conflitto contro il Vietnam e le diverse potenze politiche internazionali coinvolte portarono alla caduta del governo di Pol Pot. Questa in sintesi la folle politica di epurazione attuata in 2 anni e 6 giorni dal Nucleo Operativo. Non voglio qui affrontare le vicende successive e capire perché uno spietato assassino, che agì sotto gli occhi del mondo, non fu giudicato e condannato per i crimini commessi. Sempre presente nella scena politica della Cambogia, Pol Pot morì nel 1998, in fuga dall’esercito governativo, pare stroncato da un infarto. Della sua politica restano molte tracce, fosse comuni, teschi, resti di ossa, numerosi musei alla memoria e il ricordo indelebile dei testimoni che sopravvissero a quei giorni. Non dimentichiamo gli assassini, di qualsiasi colore possano essere, la storia va raccontata nella sua interezza, anche se è lontana da noi, perché l’orrore di un tempo non possa tornare con nuovo vigore e rinnovate forze.

Rosella Reali


Bibliografia

Philip Short - Pol Pot. Anatomia di uno sterminio - Rizzoli, 2005 

Tiziano Terzani - Fantasmi. Dispacci dalla Cambogia - Longanesi, 2008 

Piergiorgio Pescali – Indocina - Emil, 2010 

Domenico Vecchioni - Pol Pot. L'assassino sorridente - Milano, Greco e Greco Editori, 2013 

Piergiorgio Pescali - S-21 Nella prigione di Pol Pot - Milano, La Ponga Edizioni, 2015 

Rithy Panh, Christophe Bataille - L’eliminazione - Feltrinelli Editore, 2008


ROSELLA REALI
Sono nata nel marzo del 1971 a Domodossola, attualmente provincia del VCO.  Mi piace viaggiare, adoro la natura e gli animali. L'Ossola è il solo posto che posso chiamare casa. Mi piace cucinare e leggere gialli. Solo solare, sorrido sempre e guardo il mondo con gli occhi curiosi tipici dei bambini. Adoro i vecchi film anni '50 e la bicicletta è parte di me, non me ne separo mai.  Da grande aprirò un agriturismo dove coltiverò l'orto e alleverò animali. 
Chi mi aiuterà?Ovviamente gli altri viaggiatori.
Questa avventura con i viaggiatori ignoranti? Un viaggio che spero non finisca mai...

Gli scivoli delle donne e il rito di fertilità

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Un rito di fertilità è un rituale religioso che rimette in scena un atto sessuale o un processo riproduttivo. Già nelle pitture rupestri erano rappresentati animali in procinto di accoppiarsi. Tale raffigurazione la possiamo considerare come un rito di fertilità magica. Queste ritualità avevano lo scopo di assicurare la fecondità della terra o di un gruppo di donne. 
Inizialmente il culto della fertilità era legato alla Grande Madre, generatrice e portatrice di fecondità. L'uomo primitivo rappresentava la Madre come una donna formosa con il ventre marcato per simboleggiare la fertilità. A partire dal VIII millennio prima della nascita di Cristo si assiste alla proliferazione di raffigurazioni femminili legate al culto della fertilità. Il passo successivo è legato all'acquisizione del valore miracoloso della roccia. In questo contesto si inserisce lo studio legato agli scivoli della fertilità, massi utilizzati dalle donne che desideravano procreare. Perché le pietre? Per la coscienza religiosa dell'uomo primitivo, la durezza, la ruvidità e la permanenza della materia sono una rivelazione del divino. La pietra è, rimane sempre se stessa, perdura nel tempo e colpisce. Ancora prima di afferrarla per colpire, l'uomo urta contro la pietra, non necessariamente con il corpo, ma per lo meno con lo sguardo. In questo modo ne constata la durezza, la ruvidità e la potenza. La pietra gli rivela qualcosa che trascende la precarietà dell'esistenza umana. 
L'uomo primitivo non adorava la pietra in quanto tale ma per quello che incorpora ed esprime. Molto spesso il rito di fertilità era un rituale sessuale basato sull'adorazione della pietra come organo sessuale maschile in stato di erezione. L'usanza detta scivolata è nota: per avere figli le donne scivolavano lungo una pietra consacrata. Nel caso in cui non scivolassero, giravano attorno ad essa o sfregavano le parti intime sulla dura roccia. Abbiamo smarrito questi concetti? In Storia delle Religioni si utilizza un termine che permette di comprendere i passaggi successivi, il sincretismo. Tale terminologia indica un complesso di fenomeni e concezioni costituite dall'incontro di forme religiosi differenti. Il cristianesimo si è accaparrato alcune rappresentazioni della fertilità. Come può essere avvenuto? Inizialmente la Chiesa ha combattuto queste usanze. Si citano numerosi divieti del clero e del Re, nel Medioevo, contro il culto delle pietre e specialmente contro l'emissione di sperma davanti alle rocce. La loro sopravvivenza malgrado le pressioni del clero è prova del vigore di tali pratiche. Quasi tutte le altre cerimonie relative a pietre consacrate sono scomparse. Rimane soltanto quel che avevano di essenziale: la fede nella loro virtù fecondatrice. Con il trascorrere del tempo la credenza non si basò sulla considerazione teorica della pietra, ma fu giustificata da leggende recenti o interpretazioni sacerdotali. Esempi possono essere rappresentati dal santo che si fermò a riposare su una determinata roccia o dalla visione di un santo o della Madonna su una pietra. 
Alcune di queste pietre furono inglobate nelle chiese nascenti per eliminare il culto antico. Un caso eclatante è quello di Londra: ancora nel 1923 le contadine che andavano nella capitale abbracciavano alcune colonne della cattedrale di San Paolo per avere figli. Altre leggende sono nate di recente, come quella inerente la sedia della fertilità che si trova nella chiesa di Santa Maria Francesca delle Cinque piaghe a Napoli. La sedia è quella dove solitamente si appoggiava Maria Francesca per riposare e trovare sollievo mentre alleviava i dolori della passione. Il rituale di sedersi e rivolgere una richiesta di grazia alla santa è seguito dalle donne sterili che desiderano il concepimento di un figlio. Il caso nacque nel Settecento riuscendo a resistere sino ai giorni nostri. Un altro caso rilevante è quello relativo al Santuario di Oropa in Piemonte. Nelle cronache relative alla fondazione del santuario si narra che la statua della Madonna Nera fosse stata nascosta da Sant'Eusebio sotto un masso erratico per impedire che cadesse nelle mani degli eretici. Sopra tale masso, nel Settecento, fu eretta la prima cappella. La chiesa vecchia di Oropa fu costruita inglobando un secondo masso erratico detto Roc 'dla vita, masso della vita. La pietra era nota per essere oggetto di culti pagani legati alla fecondità. Il ricorso agli scivoli delle donne o delle fertilità è attestato ancora alla fine del XIX secolo. Nel 1884 Giovanni Roggia di Varzo, comune della provincia di Verbania, in occasione dell'inaugurazione del rifugio alpino dell'Alpe Veglia invitava all'uso delle acque minerali con la seguente affermazione: “alle donne che non hanno la buona sorte d'avere eredi, invece di andare in pellegrinaggio da una madonna all'altra e sfregarsi il sedere sulle pietre miracolose cercando grazie, sappiano che con l'acqua minerale che abbiamo qui vicino potranno avere figli in abbondanza”
Anche a Sebillot, nei pressi di Carnac in Francia, avveniva qualcosa di similare: “Verso il 1880 due coniugi sposati da parecchi anni e che non avevano figli, si recarono, alla luna piena, presso un menhir; si spogliarono e la moglie cominciò a girare intorno alla pietra, cercando di sfuggire all'inseguimento del marito. I genitori si erano messi di guardia nelle vicinanze per tenere lontano i profani”. Questo caso è più complesso: innanzitutto è da ricordare il periodo dell'accoppiamento, plenilunio, che indica tracce di culto lunare; poi l'accoppiamento dei coniugi e l'emissione di sperma davanti alla pietra si spiegano con il concetto delle nascite dovute alle pietre corrispondenti a certi riti di fecondazione della pietra. La teoria tradizionale del rito di fertilità legato ai massi delle donne fu sostituito, o almeno contaminato, da una nuova teoria. Esempio è l'usanza, viva ancora oggi, di far passare il neonato per il foro di una roccia. Indubbiamente questo si riferisce a una rinascita, a un rito di passaggio. 
Un caso emblematico di culto delle pietre forate è quello relativo alla sacra roccia di San Vito, megalite inglobato nel centro del pavimento di un luogo cristiano dedicato a San Vito nel paese di Calimera in provincia di Lecce. La sacra pietra è meta di visite tutto l'anno. Il lunedì dell'angelo le persone attraversano la roccia per ottenere vantaggi spirituali, tra cui la propiziazione della fertilità. Il buco della pietra rievoca l'organo sessuale femminile e l'attraversamento è una chiara e lampante metafora sessuale.
L'idea implicita in tutti questi riti è che certe pietre possano fecondare le donne sterili, ma la teoria che diede origine a queste pratiche e la giustificò, non sempre si è conservata nella coscienza di chi ancora continua a osservarle.

Fabio Casalini



Bibliografia

Eliade Mircea, Immagini e simboli. Saggi sul simbolismo magico e religioso, Milano: Jaca Book, 1981 

Eliade Mircea, La nascita mistica, riti e simboli d'iniziazione, Brescia: Morcelliana, 1988

Eliade Mircea, Trattato di storia delle religioni, Torino: Bollati Boringhieri, 1999

Fabio Copiatti e Alberto de Giuli, Incisioni rupestri e scivoli della fertilità nei dintorni dell'insediamento protostorico di Miazzina, Gruppo Archeologico Mergozzo

FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.


Giulio Cesare Vanini, il bestemmiatore cui tagliarono la lingua

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Le fredde biografie ci ricordano che Giulio Cesare Vanini nacque nella notte tra il 19 e il 20 gennaio del 1585 a Taurisano, casale di Terra d'Otranto, da Giovanni Battista, uomo d'affari toscano trasferitosi in terra pugliese, che aveva sposato una ragazza dell'influente famiglia spagnola dei Lopez de Noguera.
In un censimento del 1596 sulla popolazione delle terre d'Otranto, risulta che nel casale di Taurisano risiedevano Giovanni Battista Vanini, il figlio legittimo Alessandro e il figlio naturale Giovan Francesco. La madre e Giulio Cesare non comparivano. Giulio Cesare lo ritroviamo nel 1599 a Napoli, come studente alla facoltà di giurisprudenza. Nel 1603, dopo la morte del padre, abbandonò gli studi per mancanza di fonti di sostentamento e decise d'entrare nell’ordine carmelitano assumendo il nome di Fra Gabriele. Nel 1606 ottenne la laurea in diritto civile e canonico. Nel 1608 fu trasferito a Padova, dove decise d'iscriversi alla facoltà di teologia. Gli anni trascorsi nella città veneta furono importanti per la sua formazione di filosofo, ed eretico. La città veneta era attraversata da continue polemiche antipapali poiché Paolo V voleva assoggettare la Serenissima Repubblica, di cui Padova faceva parte, all'autorità vaticana. Vanini si schierò arditamente contro Paolo V, favorendo nei suoi pensieri e nelle sue parole la Serenissima. Nello stesso periodo decise d'entrare a far parte del gruppo del frate Paolo Sarpi, colui che scatenò il conflitto antipapale. Agli inizi del 1612, in conseguenza dei suoi atteggiamenti antipapali, fu allontanato dal convento di Padova ove dimorava e rinviato, in attesa di provvedimenti disciplinari, al Provinciale di Terra di Lavoro. Vanini a Napoli non giunse mai, poiché si fermò a Bologna tramando in segreto con ambasciatori inglesi il suo passaggio in terra d'Albione. 
Poco tempo dopo, insieme al confratello genovese Bonaventura Genocchi, fuggì, attraverso la Svizzera e l'Olanda, in Inghilterra trovando rifugio presso Lambeth, sede arcivescovile del Primate d'Inghilterra. In questa località i due fuggiaschi si fermarono due anni, nascondendo, inizialmente, a tutti la loro vera identità. Vanini e Genocchi presero la decisione d'abbandonare pubblicamente la fede cattolica all'interno di una chiesa londinese di fronte ad un folto pubblico, tra i presenti anche Francesco Bacone, celebre filosofo, per abbracciare quella anglicana. Le autorità cattoliche furono prontamente informate dell'accaduto. Il nunzio apostolico a Parigi avvertì la segreteria di Stato vaticana che due frati non meglio identificati erano fuggiti in Inghilterra e “s'erano fatti ugonotti”. Il referente a Roma, cardinal Borghese, rispose dicendo d'essere già al corrente dei fatti e della esatta identità dei frati fuggiaschi. A Roma sapevano inoltre che Paolo Sarpi nutriva intenzioni di fuga, e che altri avrebbero seguito le orme dei fuggitivi, cercando di ricostruire in terra straniera un forte movimento antipapale. I mesi che seguirono furono intensi sull'asse Parigi, ove operava il nunzio Ubaldini, e Roma, dove la macchina della Santa Inquisizione stava pulendo gli ingranaggi. Improvvisamente i dispacci di Ubaldini in direzione di Roma mutarono tenore. Il Nunzio attestò al cardinal Borghese che i due preti fuggiaschi godevano di ottima reputazione in Inghilterra e trasmetteva grande fiducia sul fatto che si potessero recuperare per la Chiesa di Roma.Gli ingranaggi della Santa Inquisizione erano altamente ripuliti, tanto che iniziarono ad istruire un processo contro Vanini. I due frati, riparati in Inghilterra, supplicarono il perdono e la possibilità di rientrare in seno al cattolicesimo. Le autorità anglicane, informate delle lettere contenenti richieste di supplica, iniziarono una forte sorveglianza sulle persone di Vanini e Genocchi. Tra la fine del 1613 e l'inizio del 1614, Vanini si recò in visita alle Università di Cambridge ed Oxford, dove confidò ad alcuni conoscenti la sua imminente fuga dall'Inghilterra. Le autorità, immediatamente avvisate dell'accaduto, decisero di arrestare i due frati italiani e di rinchiuderli nelle case di alcuni servi dell'arcivescovo. Lo scandalo che scoppiò fu enorme: furono avvisati il Re e le massime autorità dello stato. Pochi giorni dopo, approfittando degli scarsi controlli e godendo dell'aiuto di agenti di stati stranieri, Genocchi fuggì dalla prigionia e dall'Inghilterra. 
La conseguenza immediata ricadde su Giulio Cesare Vanini, che fu trasferito e rinchiuso in un carcere nei pressi dell'abbazia di Westminster. La fuga del Genocchi ingigantì lo scandalo. Andavano trovati i collaborazionisti. Le voci si concentrarono sull'ambasciatore spagnolo a Londra e sul cappellano dell'ambasciatore veneziano. Nel frattempo Roma tacque, seguendo con molto calore le vicende. Le autorità di Londra decisero d'istruire prontamente il processo ai danni di Giulio Cesare Vanini. L'arcivescovo Abbot suggerì al Re la deportazione in colonie lontane come punizione, non il rogo che avrebbe trasformato il pensatore in martire. Le autorità londinesi non compresero che il silenzio dei cattolici era motivato dalle operazioni che stavano eseguendo in terra inglese. Nella seconda settimana di marzo, sempre del 1614, Giulio Cesare Vanini fece perdere le proprie tracce, aiutato dal cappellano dell'ambasciatore veneziano e dall'ambasciatore spagnolo. Vanini e Genocchi si ricongiunsero nell'aprile di quell'anno presentandosi al Nunzio di Bruxelles, che attendeva con trepidazione l'arrivo dei fuggiaschi. Prontamente iniziò la stesura della lettera di perdono per la fuga in Inghilterra e per l'apostasia. Le autorità cattoliche accordarono ai due frati il rientro in Italia previo l'abbandono dell'abito religioso. Con i documenti nelle loro mani, Genocchi e Vanini furono inviati a Parigi, dove gli attendeva il Nunzio Ubaldini. Dopo aver trascorso alcuni mesi nella sede del Nunzio parigino, i due frati ripresero la strada verso Roma, consci che la fase finale del processo di fronte alla Santa Inquisizione attendeva la loro persona. Si fermarono qualche mese a Genova insegnando filosofia. Nella città adagiata sul mare della Liguria accadde un fatto inaspettato: l'inquisitore generale decise d'arrestare Genocchi. Giulio Cesare Vanini, probabilmente intimorito dal fatto che sarebbe finito violentemente nelle mani degli inquisitori, fuggì verso la Francia, abbandonando l'idea di ritornare a Roma. Riparò a Lione dove, nel 1615, pubblicò l'Amphitheatrumn dedicandolo a Francesco de Castro, ambasciatore spagnolo presso la Santa Sede. Vanini intendeva esibire tale pubblicazione a Roma in difesa della sua persona e dei suoi pensieri. La dedica all'ambasciatore spagnolo fu un atto per convincerlo a prendere le sue difese. Lo scritto ebbe un buon successo negli ambienti cattolici, tanto da convincere il Vanini di ripresentarsi al Nunzio di Parigi. Ubaldini, dopo alcuni incontri con il filosofo, decise di scrivere al cardinal Borghese a Roma per sapere quali fossero le condizioni esatte per il rientro in Italia. Vanini, scarsamente interessato alla risposta di Roma, entrò a far parte di alcuni ambienti molto influenti della nobiltà parigina. Nel 1616 pubblicò un'altra opera che ebbe un grande riscontro all'interno della nobiltà francese. Alcuni giorni dopo la pubblicazione due teologi della Sorbona, che avevano dato il benestare alla pubblicazione dell'opera, si presentarono ai membri della facoltà di Teologia dell'Università spiegando che il testo che circolava per le strade di Parigi non era lo stesso che loro avevano letto ed approvato e che in esso vi erano “errori contro la comune fede di tutti”. La Sorbona accolse la richiesta dei teologi: l'opera del Vanini non poteva circolare con la loro approvazione. Tale evento costituiva di fatto un divieto alla circolazione del volume. La risposta della Santa Inquisizione non si fece attendere: il vicario episcopale di Tolosa la condannò espressamente. Altri inquisitori firmarono e sottoscrissero la condanna del vicario di Tolosa. La Congregazione dell'Indice pronuncerà una condanna esplicita al testo del Vanini il 3 luglio del 1620. Fuggito dall'Inghilterra, impossibilitato a rientrare in Italia e minacciato dal alcuni settori cattolici francesi, il Vanini vide restringersi lo spazio di azione e la possibilità di trovare stabile sistemazione nella società francese. 
Giulio Cesare decise di fuggire dalla capitale francese e di rifugiarsi presso un monastero della Bretagna ove l'abate commendatario era un suo amico e protettore. Inaspettatamente e senza nessuna plausibile ragione, un personaggio sconosciuto fece parlare di se a Tolosa pochi mesi dopo la condanna esplicita del suo testo da parte del vicario episcopale della città del sud della Francia. Questo personaggio, dotato di grande intelletto e cultura, iniziò ad essere sorvegliato dalle autorità. Il 2 agosto fu arrestato e tradotto nelle carceri cittadine. Le autorità non riuscirono a conoscere le generalità di quell'uomo. Lo interrogarono sulle idee in materia di religione e di morale. Gli interrogatori procedettero speditamente. Il 9 febbraio del 1619 quello strano personaggio che si aggirava per le strade di Tolosa, al secolo Giulio Cesare Vanini, fu riconosciuto colpevole dal parlamento della città di bestemmie contro il nome di Dio e di apostasia. Vanini morì abbandonato da tutti. La sentenza fu terribile condannando il filosofo, sulla base delle normative del tempo previste per i bestemmiatori, alla stessa pena cui andarono incontro altri pensatori: gli fu tagliata la lingua. Fu strangolato. Infine fu gettato nel fuoco.

Fabio Casalini


Bibliografia

F. P. Raimondi (a cura di),Giulio Cesare Vanini: dal tardo Rinascimento al Libertinisme érudit, Atti del Convegno di Studi, Lecce-Taurisano 24 - 26 ottobre 1985, Galatina, 2002

G. Spini, Vaniniana, in «Rinascimento», I, 1950

F. De Paola, Vanini e il primo ‘600 anglo-veneto, Cutrofiano, 1979

F. De Paola, Giulio Cesare Vanini da Taurisano filosofo Europeo, Fasano, 1998

F. De Paola, Nuovi documenti per una rilettura di Giulio Cesare Vanini, in «Bruniana & Campanelliana», V, 1999

D. Foucault, Un philosophe libertin dans l'Europe baroque: Giulio Cesare Vanini (1585 – 1619), Paris, 2003

F. P. Raimondi, Documenti vaniniani nell'Archivio Segreto Vaticano, in «Bollettino di Storia della Filosofia dell'Università degli Studi di Lecce», VIII (1980 - 1985), ma 1987

FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.

Rina Fort, la belva dalla sciarpa color canarino

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Mi chiamo Caterina, ho 31 anni, sono nata in un piccolo paese in provincia di Pordenone, Santa Lucia di Budoia,  il 28 giugno 1915. La mia esistenza è sempre stata  segnata dal dolore.  Il mio bene più grande, mio padre,  è morto in montagna davanti a me, mentre mi aiutava a superare un passaggio difficile. 
E’ precipitato nel vuoto e il mio cuore con lui.  Non sono mai stata più quella di prima. Le sue urla mentre precipitava mi hanno accompagnata per tutta la vita. Il senso di colpa ha divorato la mia anima adolescente. Nessuno ha capito. Nessuno ha infranto quella barriera di dolore che mi sono costruita attorno.
Poi  è  arrivato l'amore, il primo, quello che ti fa tremare le gambe, travolgente, ristoratore.
Ma potevo essere davvero felice?  La tubercolosi lo ha portato via da me, lasciandomi sola di nuovo. È morto a pochi mesi dal matrimonio e io sono ripiombata nello sconforto. Povera Caterina, dicono tutti, che ragazza sfortunata. Forse non merito la felicità. Dopo poco tempo un malessere mi colpisce. Il medico di famiglia mi fa visitare e mi prescrive degli accertamenti. Scopro di essere sterile. Non sarò mai mamma.
Il tempo mitiga il dolore, lo rende più sopportabile o forse crea solo rassegnazione. Conosco un altro uomo, Giuseppe Benedet,  mio compaesano. Ci sposiamo,  ho solo 22 anni e alle spalle una vita di dolore.  La prima notte è un trauma:  mi aspetto amore e tenerezza, invece  mi lega al letto.  Ho pensato che volesse tagliarmi con i suoi coltelli unti di burro.  Sono lucidi e  puzzano molto.  Non mi fa niente,  mi lascia lì tutta la notte al freddo a pensare. Il giorno dopo  avrei voluto scappare, ma rimango perché mi vergogno.  Ormai sono sposata e,  a poco a poco, mi abituo alle sue stranezze. Qualche anno dopo mio marito viene internato in manicomio e così ottengo la separazione. Sono di nuovo libera di ricominciare.
Mi trasferisco a Milano, a casa di mia sorella. Cerco un lavoro perché voglio farcela da sola, voglio diventare indipendente. È il 1945, la guerra è finita da poco,  ma ancora i segni del suo devastante passaggio sono sotto gli occhi di tutti. In via Tenca c'è un negozio di tessuti. Cercano una commessa come aiuto perché il lavoro sta aumentando. Il proprietario è un uomo siciliano, distinto, elegante, occhi scuri e profondi.  Poche parole e mi assume. Il suo nome è Giuseppe Ricciardi e io sono Rina Fort,  la belva di via San Gregorio.
Giuseppe è un uomo taciturno. non so molto di lui. Ha fiducia in me,  a tal punto che mi affida  il negozio durante la  sue  assenze per viaggi di lavoro.  Cerco di fare del mio meglio, di non deluderlo. È un uomo affascinante, sempre ben vestito, con abito scuro e camicia bianca. Osserva silenzioso il mio “fare”,  mi fa complimenti sottovoce, mi sfiora una mano, un gomito.  I suoi sguardi si fanno più intimi,  le sue parole più audaci.  Da commessa ad amante il passo è breve. La prima volta che abbiamo fatto l'amore me la ricordo bene. Siamo stati in una stanza d'albergo con le tende bianche.  Mi ha fatta sentire importante.  Dopo quell'incontro ce ne sono stati molti altri. Ma posso essere solo la sua amante, nulla di più perché Giuseppe è sposato con una donna di nome Franca Pappalardo,  di 40 anni.  Lui dice che la lascerà per me, ma io fatico a credergli.  Hanno tre figli, quelli che io non potrò mai avere, Giovannino di 7 anni, Giuseppina di 5 anni e Antonuccio di soli 10 mesi.  Abitano a Catania. Sono lontani. Forse è vero quello che dice Giuseppe, tra loro è tutto finito,  è solo questione di tempo perché lasci la sua famiglia per me.
Con me Giuseppe è molto gentile.  Quando siamo nell'intimità mi paragona al profumo Violetta di Parma. Mi piace questo suo modo di dire,  ma non è sempre così. A volte diventa scontroso, addirittura prepotente, ma non posso rinunciare a lui. La gente comincia a  parlare di noi, della nostra relazione.  A volte Giuseppe,  o Pippo come lo chiamo io, mi presenta come sua moglie.  Le voci fanno presto ad arrivare a Catania all'orecchio di Franca  che,  nell’ottobre del 1946, decide di venire a vivere a Milano.  Tutto cambia.
Appena arrivata mi fa licenziare.  Non posso fare altro che andarmene. Così trovo impiego  nella pasticceria di un amico, non lontano dal negozio di stoffe. La nostra relazione va avanti, anche se ormai le cose peggiorano  sempre di più.  Una mattina Franca si presenta da sola in pasticceria,  mentre sto servendo dei clienti. Quando la vedo entrare mi si gela il sangue. Compra dei dolcetti, beve un caffè e mi viene vicino. Mi guarda dritto negli occhi e mi dice solo poche parole: «Lascialo in pace, esci dalla sua vita, ha scelto me e i suoi figli. E poi sono incinta.»   Il mondo si ferma.  Milano stessa si ferma fuori dalla porta.
È il 29 novembre, un giorno come gli altri. Per me no. Ho deciso cosa farò. Ci ho pensato. È oggi che devo andare da lei. Apro la finestra e guardo il cielo:  è cupo, sembra triste.  Non so come mi sento. Forse non sento niente, ho solo deciso. Pippo mi ha mentito. È un “porco”, io credevo  alle promesse che mi ha fatto. Diceva che mi avrebbe sposata,   che avrebbe lasciato Franca e i bambini per me e che insieme saremmo stati felici.  Sono tutte bugie perché Franca è incinta. Prima viene nel mio letto, poi torna dalla moglie.
Mi vesto come per andare al lavoro, metto le scarpe con i tacchi, il cappotto, ma non prendo la borsa. Esco  di casa. Il mondo sembra di nuovo aver preso a girare,  ma lentamente, come quel giorno in pasticceria.  Cammino per strada, attraverso due o tre vie, non vedo i semafori, non vedo la gente che mi passa a fianco, non sento i rumori. È come se fossi sorda e cieca. Qualcosa dentro di me guida i miei passi. Giro in via San Gregorio. Al numero 40 abitano i Riccardi. Sono arrivata.
Il portone è accostato perché la maniglia è rotta. Non c'è nessuno nell'atrio. Si sente solo un fresco odore di candeggina. Qualcuno ha fatto le pulizie. Salgo le scale di marmo, lentamente, un gradino alla volta, fino al primo piano. Busso alla porta, aspetto pochi istanti, poi una voce di donna, quella di Franca, chiede chi è. Non rispondo, non serve, mi apre senza troppi problemi. Indossa una vestaglia nera.  Quasi non mi guarda, si volta e mi fa entrare.  Salendo ho raccolto una sbarra di ferro lasciata nell'atrio incustodita. La porto in casa, Franca non se ne accorge, in braccio ha Antonuccio a cui badare.  Lo mette nel seggiolone, è l'ora della pappa.
Mi sento male. Non sono a mio agio o forse mi rendo conto che ho preso la decisione sbagliata ma ormai non posso più tornare indietro.  I bambini più grandi giocano tra loro, prendo  un respiro profondo e sento quell'odore che mi porta indietro alla mia infanzia:  famiglia, figli, casa, quello che io non potrò mai avere. Mi offre da bere del Liquore mentre mi dice che devo lasciare  perdere Pippo, che quella  che vedo è la sua vita. Ascolto le sue parole senza dire nulle. Ho la testa annebbiata: rabbia, gelosia, dolore, tutto si confonde in me. Mi alzo con la sbarra in mano e la colpisco forte Franca alla testa, sento  quel rumore come di qualcosa che si rompe. Sangue e materia grigia escono dalla ferita.  La colpisco ancora, il sangue schizza ovunque anche su di me. Giovannino vede tutto e cerca di fermarmi, mi afferra per le gambe ma è solo un bambino e io una donna accecata dall'odio. lo spingo via, come una bambola di pezza. Ora tocca a lui. Di nuovo quel rumore. Cos'è?  È la sua testa di bambino di 7 anni che si spacca. Sangue e materia grigia di nuovo finiscono sul pavimento. Giuseppina scappa in cucina, urla spaventata, piange. La raggiungo alle spalle, non provo nulla, e di nuovo quel rumore. La bimba cade a terra supina, gorgoglia, mentre il sangue esce dalla sua testa inondando il pavimento. Antonuccio mi guarda, il  cucchiaino della pappa in mano, la bocca semiaperta, gli occhi increduli, quelli tipici dei bambini piccoli, quelli che chiedono sempre cosa sta succedendo.  Un colpo solo e il suo sguardo cambia. Si accascia e non si muove più. Il rumore della sua testa spaccata è diverso da quello degli altri, più sordo. Mi giro e mi accorgo che Giovannino non è morto, si alza, striscia sanguinante verso la porta, piange e vomita. lo colpisco ancora e ancora, sembra un sacco informe.  Smette di muoversi.
Aria. devo prendere aria, uscire da lì. L'odore del sangue mi toglie il fiato, non riesco più a respirare.  Apro la porta e scendo le scale, mi siedo su un gradino e respiro a fondo. Il profumo di candeggina è sparito, nel naso ho solo l'odore dolciastro del sangue.  Risalgo in casa, voglio vedere che cosa ho fatto,  voglio vedere se è tutto vero o se è solo un sogno, voglio vedere se è tutto finito.
Entro nell'appartamento e di nuovo quell'odore mi assale. È forte. Persistente. Sento dei lamenti,  è Franca: «Aiutami….»  mi dice guardandomi con gli occhi pieni di sangue, «… ti prego i bambini….»  
Nessuno vuole morire, respirano ancora. Prima di uscire metto loro in bocca dei pannolini intrisi di qualcosa, un liquido, ma non so cosa sia.  Magari smetteranno di respirare e tutto sarà finito.
Così come sono venuta me ne vado, accosto la porta e torno a casa percorrendo lo stesso tragitto. Ho fame.  Di colpo tutti i rumori della città si fanno più vividi. Quando entro nel mio appartamento cucino due uova fritte con dei grissini. Mangio e mi stendo, sono stanca come se avessi fatto un doppio turno in pasticceria. Mi sdraio, immobile, non so quante ore resto così, non sento nulla, non sono pentita della mia decisione.  Resto sveglia tutta la notte e penso a cosa farò ora che tutto è cambiato. Intanto in via San Gregorio al 40 la luce in casa Ricciardi-Pappalardo resta accesa per tutta la notte,  ma nessuno ci fa caso . E Pippo?  Non lo so. Non lo sento da giorni.
È mattina, vado al lavoro. Quel giorno, uno come tanti all’apparenza, la nuova commessa del negozio di tessuti va dalla Franca per prendere le chiavi e aprire. Trovando la porta di casa socchiusa, entra e si trova davanti una scena che mai avrebbe  potuto immaginare. La moglie e i figli del Ricciardi sono massacrati a terra.  Sangue, materia grigia, vomito, l'odore è insopportabile. La polizia arriva dopo i reporter. La scena che si presenta è indescrivibile. La ferocia di quelle esecuzione è senza un perché.  Gli inquirenti chiedono immediatamente del Ricciardi,  che sembra sia a Prato per un viaggio di lavoro.  lo hanno avvisato che deve tornare. I bicchieri in cucina fanno pensare alla polizia  che la persona entrata in casa fosse una conoscenza di Franca. L'ipotesi della rapina andata male è scartata quasi subito, anche se la casa è a soqquadro, dato che ormai il negozio di tessuti non va bene e Ricciardi ha molte cambiali in protesto. Dopo il mio licenziamento gli affari sono andati male. Ero brava nelle vendite,  anche se Pippo non lo ha mai ammesso davanti a me.
Tra le mani di Franca la polizia trova dei capelli.  Sono i miei, me li ha strappati mentre la colpivo, ma io non me ne sono neppure accorta. Non sentivo nulla.  Per terra,  tra il sangue, trovano una foto di famiglia strappata. Questo fa pensare al delitto passionale.
Arrivato da Prato il Ricciardi viene interrogato e subito fa il mio nome. Mi cercano a casa in via Macchi all'89. Poi in pasticceria in via Settala al 43.  Sono lì a servire i clienti, serena e sorridente come sempre. La polizia entra e mi arresta davanti a tutti. È il 30 novembre. In questura mi interrogano.  Ammetto di avere lavorato per Giuseppe, di conoscerlo, ma non di essere stata la sua amante. Del delitto poi non so assolutamente nulla. Il 2 dicembre mi portano in via San Gregorio. Entro, sento ancora quell'odore forte, ma non faccio nulla, non ho cedimenti. E poi perché dovrei averne? Tornata in questura, dopo 17 ore di interrogatorio, condotte dal commissario Serafino,  comincio a cedere. Sì, sono stata l'amante del Ricciardi per un anno. Mi ha anche regalato una fede, promettendomi che mi avrebbe sposata. Poi è arrivata Franca  con i bambini e tutto è finito. È lui che li voleva morti, lui che mi ha chiesto di farlo;  con l'aiuto di Carmelo, un complice che non verrà mai identificato, ho commesso il delitto.  Ricciardi viene portato in questura, lo vogliono interrogare, mettere a confronto con me. Ci incontriamo per la prima volta dal giorno del delitto. Mi guarda, mi viene incontro, mi abbraccia, per l’ultima volta, e sussurra: «...  Rina mia….» Interrogato Pippo nega tutto, ogni coinvolgimento. Urla, inveisce contro di me, dice che mi sono inventata tutto.
Il 10 gennaio 1950 inizia il processo. In aula ci sono sempre, da me non trapela nessuna emozione. Durante tutto il dibattimento indosso un abito scuro e una sciarpa gialla, dono di Pippo quando le cose tra noi andavano bene. Per l'opinione pubblica divento la “belva con la sciarpa color canarino”. Indosso anche dei guanti neri,  che secondo l'accusa servono per coprire le mie mani sporche di sangue. Giuseppe, alla sbarra, urla la sua innocenza, anche se la sua figura non appare molto limpida, soprattutto dopo l'abbraccio in questura. Per salvare la faccia si costituisce come parte civile contro di me. Ma il fratello di Franca non gli crede, lo accusa di essere stato un cattivo marito, di aver maltrattato sua sorella per anni. Il processo è in corso quando decidono il mio trasferimento da San Vittore al carcere di Perugia. Non ho mai avuto un attimo di cedimento, l'orrore di quella casa  non ha intaccato le mie giornate, almeno fino ad ora.
Il 9 Aprile 1952 sono condannata all'ergastolo. Per tutti l'unica colpevole sono io, Rina Fort, la belva di via San Gregorio. Giuseppe, nonostante i sospetti, è prosciolto completamente. L'anno dopo con il mio avvocato faccio domanda di ricorso. Il 25 novembre 1953 l'ergastolo è confermato. Sono rimasta nel carcere di Perugia fino al 1960 quando il mio stato di salute si è aggravato e sono stata trasferita  a  Trani e da lì a Firenze.  
Il tempo passa, il peso delle mie azioni si fa sentire. Nei miei sogni salgo le scale di via San Gregorio ogni notte per molti anni, chiedo perdono alla famiglia Pappalardo ma non a Giuseppe. Lui è stato mio complice non mi stancherò mai di dirlo, lui ha armato la mia mano. Il 12 settembre 1975 ottengo la grazia dal Presidente Giovanni Leone. In quell'anno Giuseppe muore. Nel frattempo si era sposato ed ha avuto un figlio.
Muoio il 2 marzo 1988, a Firenze, presso una famiglia che mi ha accolta fin dal giorno della mia scarcerazione. Oggi pochi in via San Gregorio 40 ricordano l'orrore di quel 29 novembre. Porto con me la verità di quel giorno, la follia di quei minuti in cui ho ucciso senza pietà una donna incinta e i suoi tre figli.  Amore, gelosia, odio, dolore, la mia vita è stato questo. I fantasmi di quella casa non mi hanno più lasciato. Resterò per sempre la belva di via San Gregorio,  la donna che in una fredda giornata di novembre ha sterminato a sprangate  un'intera famiglia.

Ho scritto in prima persona questa storia per cercare di capire cosa abbia spinto Caterina Fort a commettere un omicidio così efferato. Ho letto tutto il materiale a mia disposizione ma non sono riuscita a giungere ad una conclusione, almeno non una che mi soddisfacesse. Nel cuore di ogni donna esiste quella cosa che si chiama istinto materno. Caterina ne era priva. Non aveva neppure umanità. Ha guardato i piccoli Ricciardi con freddezza ed ha agito, non ha avuto nessuna pietà. Lascio ora a voi l’interpretazione di questa agghiacciante vicenda che ha scosso il mio animo.

Rosella Reali


ROSELLA REALI
Sono nata nel marzo del 1971 a Domodossola, attualmente provincia del VCO.  Mi piace viaggiare, adoro la natura e gli animali. L'Ossola è il solo posto che posso chiamare casa. Mi piace cucinare e leggere gialli. Solo solare, sorrido sempre e guardo il mondo con gli occhi curiosi tipici dei bambini. Adoro i vecchi film anni '50 e la bicicletta è parte di me, non me ne separo mai.  Da grande aprirò un agriturismo dove coltiverò l'orto e alleverò animali. 
Chi mi aiuterà?Ovviamente gli altri viaggiatori.
Questa avventura con i viaggiatori ignoranti? Un viaggio che spero non finisca mai...

Giacomo Martino Modanesi, il prodigioso bimbo di Budrio

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Le origini del paese di Budrio, attualmente in provincia di Bologna, sono molto antiche. Con molta probabilità fu il popolo degli Umbri a fondarla, malgrado siano presenti segni di civilizzazione più antichi. 
La fondazione del nucleo originario della Budrio moderna risale al periodo compreso tra il secolo X e il seguente. Esiste una storia, dimenticata tra le pieghe del tempo, che lega profondamente l'abitato ad un bimbo, definito prodigioso. Il fanciullo si chiamava Giacomo Martino Modanesi e questa è la sua triste vicenda. Tutte ebbe inizio tra le paludose campagne del Veneto, dove Giacomo vide la luce all'interno di una famiglia poverissima. La madre morì in giovanissima età poco tempo dopo aver partorito il fanciullo. Il padre, che si occupava di conciare la canapa, decise di trasferirsi nel cuore dell'Emilia, esattamente a Budrio, dove la lavorazione della fibra tessile era una delle principali fonti di sostentamento del popolo. La canapa e il lino sono state tra le prime specie vegetali ad essere coltivate in Europa. L'introduzione della canapa nel nostro paese è dovuta agli Sciiti, che giunsero sulle coste della penisola italiana tra il secolo X e il secolo VIII antecedenti la nascita del Cristo. Le prime informazioni sulla coltivazione della canapa in Italia le troviamo nella Naturalis Historia di Plinio il Vecchio. Immediatamente dopo il trasferimento in Emilia, il padre di Giacomo si scordò del fanciullo che trascorreva le giornate tra le vie del paese mendicando il cibo per arrivare a sera. Uno di quei giorni, uguali ai precedenti e non diversi dai seguenti, incontrò l'uomo che gli avrebbe cambiato la vita, almeno per un breve periodo di tempo. Quella persona era Giovanni Battista Mezzetti definito “predicatore, gran teologo, praticone di tutte le scienze e lingue, uno dei teologi del Collegio di Bologna”. Mezzetti era un frate appartenente all'ordine dei Serviti e dimorava nel convento di Budrio. Uomo di grande intelletto, poliglotta, letterato e molta ambizione. Giovanni Battista, sempre indaffarato, quel giorno incrociò lo sguardo di un bimbo di tre anni, deperito e dall'incedere incerto. Decise di offrirgli un piatto di minestra calda e Giacomo, in segno di ringraziamento, recitò tutto l'ufficio divino in latino. La sorpresa nella mente, sicuramente nell'aspetto, del frate fu grande. Sconcertato chiese al malsano infante dove avesse appreso tale conoscenza. 

Giacomo rispose semplicemente che l'aveva appresa ascoltando la messa fuori dalla chiesa. L'ambizioso frate in quel preciso istante comprese d'essere di fronte a qualcosa che non aveva mai veduto, e nemmeno immaginato. Un bimbo di neppure 4 anni, malvestito, malnutrito e dall'incedere titubante, che recitava a memoria il divino ufficio in latino. Nella mente del Mezzetti scoppiò la scintilla poiché aveva intuito le profonde e incredibili doti del bimbo. Dopo una trattativa con il padre, per ottenere il riscatto del fanciullo, decise di portarlo nel convento ove dimorava. Giacomo in quel luogo trovò una stanza, un letto, un insegnante, dei pasti caldi e una grandissima educazione. Non trovò mai affetto. Non conobbe l'amore dei genitori. Nel Seicento, come nei secoli precedenti, la perdita di un bambino era una tragedia sopportabile. La loro presenza all'interno della società era tanto effimera che la prematura morte era concepita come un male quasi necessario. All'interno del convento Giacomo mangiava, studiava, dormiva. Nessuna distrazione, se non qualche passeggiata nel chiostro attiguo all'edificio religioso, in compagnia di frati e novizi.
Udiva le voci dei coetanei che allegramente giocavano fuori dal convento?
Soffriva per la mancanza di incontri amichevoli?
Giacomo imparò il greco, il latino e l'aramaico, di cui Giovanni Battista Mezzetti era gran conoscitore. Si dedicò alla filosofia, alle lettere antiche e alle scienze. Tutto questo tra i 3 e i 7 anni di vita.
La domanda che sorge spontanea attiene all'ambizione del Mezzetti. Perché si ostinò ad educare quel bimbo trovato casualmente tra i vicoli di Budrio?
Il frate, ambizioso, voleva portare quel bimbo alla presenza del Papa, per dimostrare la sua bravura e la sua capacità d'insegnamento. Dove volesse arrivare non lo sappiamo. All'interno degli ambienti ecclesiastici era considerato un “unto dal Signore” poiché era stato nominato teologo su richiesta diretta del pontefice.
Dopo aver compiuto i 7 anni d'età Giacomo, in compagnia dell'immancabile Mezzetti, fu ricevuto a Roma. La fama lo precedeva. La domenica di Pentecoste del 1647, nella chiesa di San Marcello al corso, il bimbo sostenne una disputa teologica e filosofica di fronte ad un folto pubblico composto da vescovi e cardinali, tra cui il famoso teologo Pallavicino. Appare interessante rileggere le dichiarazioni di un quasi contemporaneo degli eventi: “nel 1647 il nostro Pallavicino fu uno dei soggetti eminenti che argomentarono contro Giacomo Martino Modanesi, quel maraviglioso fanciulletto, discepolo di Padre Giovanni Battista Mezzetti, che di anni sette per istupendo privilegio della natura sostenne al cospetto di undici cardinali e di Roma tutta conclusioni in teologia, filosofia, legge, medicina e d'altre scienze. Le quali conclusioni furono dedicate ad Innocenzo X, che allora reggeva il pontificato”.
Giacomo Martino Modanesi fu considerato un prodigo senza precedenti.
La domenica seguente riuscì nell'impresa di ripetere l'incredibile audizione nei confronti di vescovi e cardinali.
Il genio di un fanciullo al cospetto di dotti, medici e sapienti?
Adulti pomposi, con abiti sfarzosi e chioma irriverente, possono accettare il confronto, e perderlo, con un bimbo di sette anni d'età?
Qualcosa iniziò a scricchiolare, come una sedia mangiata dai tarli.
I gesuiti, con l'appoggio dei cappuccini, criticarono fortemente la scelta di esporre i propri dotti teologi al confronto con Giacomo. Il rischio, intravisto, fu quello di cadere nel ridicolo. Roma tutta parlava del bimbo prodigioso, dimenticando la ferma conoscenza degli uomini di chiesa.
Nessuno dei dotti, medici e sapienti, s'interessava delle condizioni di salute e mentali del piccolo Giacomo.
Questi problemi erano estranei a Giovanni Battista Mezzetti, che fece ritorno insieme al fanciullo nella piccola Budrio.
L'umore nell'animo di Giacomo era diverso, completamente, da quello che animava il frate ambizioso. Il bimbo voleva giocare, correre e divertirsi con i suoi coetanei. Mezzetti aveva la ferma convinzione di dover completare il percorso di conoscenza del fanciulletto.
Nelle calde sere d'estate Giacomo sognava il roteare di una trottola, pensava al moto delle biglie, immaginava il volo di un aquilone. Giacomo tornò ad essere quello che era, un bambino.
Nel frattempo gesuiti e cappuccini riuscirono nell'intento di sminuire le doti di Giacomo.
Le voci, insistenti, si fecero urli.
Giovanni Battista Mezzetti aveva stretto un patto con il demonio per avere in dono lo strepitoso talento di Giacomo.
Le autorità decisero di sottoporre il fanciullo ad una nuova prova di conoscenza. Il bimbo all'improvvisò sembrò aver scordato tutto. Mezzetti fu letteralmente sopraffatto dagli eventi. Non riuscì a comprendere l'animo dolce di un bambino speciale. Una afosa mattina di luglio prese la decisione: salì sul campanile della chiesa di San Lorenzo e si gettò nel vuoto. Le solite maledette malelingue videro nel suicidio un'ammissione di colpa. Giovanni Battista Mezzetti aveva stretto un patto con il demonio. Ne erano certi. Anche loro non erano in grado di comprendere lo spettacoloso talento di un cervello straordinario. Giacomo fu allontanato velocemente dal convento nel quale risiedeva da diversi anni. Fu trasferito in un lontano e sperduto edificio religioso.
Troverà la morte nel 1658, a soli 18 anni, senza aver mai recuperato l'insieme di conoscenze che lo aveva portato a cento passi dal pontefice.


Fabio Casalini

Bibliografia
Magli Anna, Il dotto putto, Focus storia, 2016
Nanetti Angela, Il bambino di Budrio, 2014
Raccolta di opere religiose di celebri autori dal secolo XIV al XIX, Roma, 1845
Miscellanea di varie operette di Calisto Palombella, Venezia, 1763

FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.

Franz Schmidt, il boia venuto da una foresta della Baviera

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Le origini della parola boia andrebbero fatte risalire all'Antica Grecia poiché, in occasione dei sacrifici, vi era una persona incaricata di uccidere i buoi. Seguendo il corso della storia, il termine greco boietai indicava le strisce di cuoio di bue con cui erano fatti i lacci e la frusta impiegati dai carnefici. In epoca romana il termine passò dall'indicare il collare con cui il prigioniero era tenuto fermo, durante la tortura, alle catene ed infine alla professione stessa di carnefice. Franz Schmidt, nato nel 1555 e morto nel 1634, fu un esecutore di pene capitali, un boia, prima per l'abitato di Hof, dal 1573 al 1578, e in seguito per la città di Norimberga, dal 1578 al 1617. L'importanza di questo personaggio è da attribuirsi al fatto che lasciò un dettagliato diario con le 361 esecuzioni eseguite durante la sua più che quarantennale carriera. La storia di Schmidt non si discosta molto da quella di Charles-Henri Sanson, noto tagliagole della rivoluzione francese. La famiglia Schmidt, come la Sanson, si tramandava la mansione di padre in figlio. A differenza di Sanson, Charles-Henri apparteneva ad una famiglia di boia di lunghissimo corso, Franz fu il secondo della propria famiglia ad occuparsi di esecuzioni capitali. Ritengo molto interessante risalire alle cause per cui la famiglia Schmidt abbia iniziato a svolgere questa mansione. Il padre di Franz, Heinrich, in origine svolgeva il lavoro di tagliaboschi nelle vicinanze dell'abitato di Hof in Baviera, tradotta letteralmente in corte.
Dato che esistono molte località che portano questo nome, per distinguerla dalle altre il paese è talvolta chiamato Hof an der Saale, Hof sul Saale, oppure Hof in Bayern, Hof in Baviera. La vita di Heinrich e della famiglia Schmidt mutò improvvisamente il giorno in cui Albrecht II margravio, che corrisponde al titolo italiano di marchese, del Brandenburg-Kulmbach cercò tra la folla un uomo in grado di eseguire l'impiccagione di tre uomini, armaioli, che si erano macchiati del reato, presunto, di attentare alla vita dello stesso margravio. Hof era un piccolo borgo che non aveva la possibilità, il denaro, di mantenere un boia di professione. Normalmente si attendeva l'arrivo di un esecutore di pene capitali professionista dalle città vicine. Quel giorno, per rabbia o per l'impossibilità di chiamare un boia da altri luoghi a causa della presenza di eserciti nemici, Albrecht II decise di riesumare una vecchia tradizione locale secondo la quale colui che doveva porre fine alla vita del criminale, o presunto tale, poteva essere scelto tra le persone presenti alla lettura della sentenza. Accadde che «non avevano un boia in carica e il principe, tra la folla, disse a Heinrich Schmidt, il padre di Franz, “Tu! Sarai tu a impiccarli.” Heinrich ripose “non lo farò”. Disse il principe “o li impiccherai o sarò io ad appenderti, così come i due uomini accanto a te”. Per cui Heinrich obbedì. Dopodiché, non c'era più nulla da fare. Nessuno voleva avere a che fare con lui. Lui e i suoi figli erano condannati a quel lavoro.» [1]
Fu scelto Heinrich, tagliaboschi, per eseguire l'impiccagione dal margravio. 
Albrecht II, nato nel 1522 e morto nel 1557, ricoprì la carica di marchese del Brandenburg-Kulmbach dal 1527 al 1553, era un membro della casata degli Hohenzollern, dinastia tedesca di principi elettori, re di Prussia, sovrani di Romania e imperatori germanici. La famiglia Hohenzollern ebbe origine nell'area intorno alla città di Hechingen in Svezia durante il secolo XI. Presero il nome dal castello di Burg Hohenzollern, presso la città, che fu la loro prima dimora. Albrecht II, a causa della sua natura bellicosa, in vita fu soprannominato Bellator, ovvero la guerra.
Franz Schmidt fu iniziato in giovanissima età all'attività di boia dal padre. La prima esecuzione ufficiale fu quella di un ladro, e il ragazzo la ricorda così: «Leinhardt Russ di Zeyern, un ladro. Ucciso tramite la corda. E' stata la mia prima esecuzione.»
Franz Schmidt, dopo il trasferimento nella grande e ricca Norimberga, sposò una donna dalla quale ebbe sette figli. Lo stipendio, pari a quello dei più ricchi giuristi della città, gli permise d'avere un'abitazione di pregio. La posizione sociale del boia era ambigua poiché «era legalmente autorizzato a torturare e uccidere criminali condannati. Il carceriere professionista è uno dei simboli più evocativi dell'Europa pre-moderna. Queste armi delle giustizia umana erano viste con sospetto e disprezzo dalle comunità che servivano, formalmente emarginate come membri disonorevoli. Eppure Meister Frantz era ampiamente famoso e rimase un membro venerato dai cittadini, ampiamente rispettato per la sua pietà e contemporaneamente per la sua fermezza. La vita di Schmidt, in quasi tutti i suoi aspetti, era stata un grande successo sociale, anche se la disonorevole natura della sua professione impediva costantemente la sua partecipazione aperta a circoli patrici, mettendo lui e la sua famiglia in un unico tipo di limbo sociale.» [2]
La grande capacità lavorativa, come somma di aspetti opposti di pietà e fermezza, consentì a Franz Schmidt lo svolgimento di una vita che oggi potremmo definire agiata, ben diversa da quella di Mastro Titta, il boia di Roma all'epoca dei Papa Re, che attraversava il Tevere esclusivamente per svolgere la propria mansione di boia e durante il resto dell'anno si accontentava di aggiustare e vendere ombrelli.
Il diario delle punizioni inflitte da Franz, vero gioiello per comprendere la vita sociale e giuridica della Baviera del seicento, contiene i conteggi dell'attività svolta: 361 esecuzioni capitali e 345 punizioni minori. Le singole voci contengono la data, il luogo, il metodo di esecuzione, il nome, l'origine del giustiziato e i reati di cui si era macchiato e su cui si basava la sentenza di morte. Schmidt uccise per il tramite della spada, della corda, della ruota, del fuoco e dell'acqua. Il supplizio della ruota, riservato ai criminali violenti, era una forma di tortura e di pena capitale utilizzato a partire dal Medioevo: il condannato era legato per i polsi e le caviglie ad una grande ruota e con una mazza gli venivano rotte le ossa di braccia e gambe. Talvolta al condannato poteva venir inferto il colpo di grazia sullo sterno oppure veniva lasciato vivo per ore esposto al pubblico prima di essere ucciso. Il fuoco era utilizzato per i reati di omosessualità e per coloro che si macchiavano del reato di contraffazione del denaro. Questi episodi si verificarono solo 2 volte durante tutta la carriera di Franz. L'annegamento, previsto per le madri che si erano macchiate del reato di infanticidio, fu commutata nel tempo in cui visse Schmidt nella pena dell'uccisione tramite la spada. Fu Schmidt ad avvalorare la tesi del cambiamento d'esecuzione di sentenza, poiché il supplizio dell'annegamento era dispendioso in termini di tempo e di energie. La donna, che aveva ucciso il proprio figlio, era chiusa in un sacco e gettata nel fiume da un palco costruito nelle immediate vicinanze della riva. Purtroppo non morivano subito e l'aiutante del boia doveva continuamente spingere il sacco con la donna sott'acqua per il tramite di un lungo palo di legno. La decapitazione era veloce e non provocava sentimenti di pietà da parte del popolo convenuto all'esecuzione. 
La firma autografa del diario di Schmidt è andata perduta. Le biblioteche di Norimberga e Bamberg possedevano quattro copie scritte a mano tra il XVII secolo e l'inizio del XIX. La prima edizione stampata apparve solo nel 1801. 
Nella sua carriera durata 45 anni, il sobrio Meister Franz ha operato con dignità e sobrietà tanto che Schmidt ricevette la cittadinanza di Norimberga, riuscendo a ripristinare ufficialmente l'onore sociale. 
Quando smise l'attività di boia, nel 1617, iniziò una nuova carriera lucrativa, quella di consulente medico. Nel 1634, anno della morte, gli fu assegnato un funerale di Stato e fu seppellito nel più importante cimitero di Norimberga, a pochi passi da Albrecht Durer e Hans Sachs. 


Fabio Casalini

Citazioni

[1-2] (cit. Zasky, Joel; Failure Magazine: The Faithful Executioner Joel F. Harrington on the life of sixteenth-century executioner Frantz Schmidt)

Bibliografia

God's Executioner, essay in December 21, 2009 Berlin Review of Books, by Joel Harrington, professor at Vanderbilt University, author of The Unwanted Child: The Fate of Foundlings, Orphans, and Juvenile Criminals in Early Modern Germany The University of Chicago Press, 2009

A Hangman’s Diary: Being the Authentic Journal of Master Franz Schmidt, Public Executioner of Nuremberg 1573–1617. Translated by C. Calvert and A.W. Gruner. Edited, with an Introduction, by Albrecht Keller. Published by D. Appleton, second impression October, 1928.

Meister Frantzen Nachrichter alhier in Nürnberg all sein Richten am Leben, published by J.M.F.v.Endter, Nürnberg, 1801

Zasky, Joel; Failure Magazine: The Faithful Executioner Joel F. Harrington on the life of sixteenth-century executioner Frantz Schmidt

Executedtoday.com: June 5th: 1573: Meister Frantz Schmidt’s first execution, interview with Joel f. Harrington

FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.


Il segreto dei bambini Inca sacrificati sulle Ande

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Nonostante le indagini archeologiche svolte durante gli ultimi decenni abbiano aperto un ampio orizzonte sulle conoscenze riguardanti il mondo andino precolombiano, l'origine della civiltà incaica rimane ancora oscura e avvolta da mistero.
Le attuali conoscenze del popolo Inca sono cospicue per quanto riguarda la cosiddetta epoca imperiale, intensamente documentata dai cronisti spagnoli del secolo XVI, ma risultano assai scarne riguardo la formazione di tale gruppo etnico e al consolidarsi della sua potenza. La storia degli Inca è impregnata di leggende tramandate dalla tradizione orale, mentre i dati archeologici sono ancora limitati. Alcuni archeologi, tra cui J.H. Rowe, in seguito a ricerche effettuate negli anni sessanta sostennero che le origini della civiltà incaica non andassero cercate solo nell'area culturale e geografica dell'altopiano di Cuzco. A causa di numerosi interrogativi tuttora aperti è difficile azzardate datazioni precise a proposito dei principali eventi storici: secondo la cronologia di J.H. Rowe il 1200 dopo Cristo può essere considerato l'anno d'inizio dei sovrani Inca.

Uno degli aspetti più interessanti, per altri potrebbe risultare inquietante, riguarda la pratica dei sacrifici umani effettuati soprattutto tramite l'uso di bambini. I primi missionari spagnoli coloniali parlarono lungamente di questa pratica, ma solo recentemente gli archeologi hanno iniziato a ritrovare i corpi delle vittime sulle vette delle Ande, naturalmente mummificati per via delle condizioni asciutte di quell'ambiente. Nel 1999 furono rinvenute tre mummie in prossimità della cima del vulcano Llullaillaco, in Argentina. I corpi ritrovati erano di bambini di età pari a 6, 7 e 13 anni. Furono sacrificati circa 500 anni fa. Il Capacocha era la pratica inca del sacrifico umano effettuato soprattutto tramite l'utilizzo di bambini. Gli Inca eseguivano sacrifici di bimbi durante e dopo importanti eventi, quali la morte del Sapa Inca, imperatore, o durante le carestie. Come vittime sacrificali sceglievano bambini fisicamente perfetti poiché erano la migliore offerta agli dei. Le vittime del sacrificio erano di entrambi i sessi, scelti per l'aspetto e nessuna regione dell'impero era esentata dal fornire i bambini per la cerimonia. Normalmente i bimbi di sesso maschile non superavano i 10 anni età mentre per le femmine si giungeva ai sedici anni, sempre che fosse ancora vergine. Le vittime sacrificali dovevano essere perfetti nell'aspetto fisico, anche una sola lentiggine poteva salvargli la vita, lo stesso accadeva con una cicatrice.
Esisteva un rituale che precedeva il sacrificio: vestivano i bambini con abiti preziosi e gioielleria, scortandoli a Cuzco dove avrebbero incontrato l'imperatore e partecipato ad una festa in loro onore; dopo le cerimonie i sacerdoti portavano le vittime sulle cime delle montagne per il sacrificio, facendoli bere una bevanda inebriante per minimizzare il dolore, la paura e la resistenza, quindi li uccidevano per strangolamento, colpendoli alla testa o lasciando che perdessero conoscenza a causa del freddo estremo che comportava la morte per assideramento. Il Capacocha non consisteva solo nell'abbandono della vittima sulle vette delle montagne, prevedeva un cerimoniale molto più cruento. I bimbi scelti per gli dei erano portati nella capitale dell'impero, qui accoppiati e vestiti finemente come piccoli principi. Venivano fatti sfilare intorno a grandi statue che rappresentavano il Creatore, il Dio Sole, il Dio della Luna e il Dio del Tuono. Il Sapa Inca ordinava ai sacerdoti di effettuare i sacrifici. Alcuni bambini venivano aperti per poter rimuovere il loro cuore, altri strangolati. Il loro sangue veniva utilizzato come vernice sulle statue degli Dei. Questi cruenti sacrifici furono raccontati dagli invasori spagnoli, ma nessuna prova è stata rinvenuta negli scavi archeologici. Risulta assai probabile che questa pratica sia stata testimoniata dagli spagnoli tra le popolazioni azteche ed attribuita erroneamente agli Inca.
I bimbi che rimanevano in vita dovevano essere accompagnati in vetta alle cime andine per completare il cerimoniale che attendeva loro.
Tra i corpi rinvenuti dalla spedizione archeologica del 1999 vi era una ragazza di tredici anni, chiamata la Doncella de Llullaillaco, che probabilmente era il soggetto più importante della cerimonia, nonché il più consapevole di quello che stava accadendo. I due bimbi furono chiamati il ragazzo di Llullaillaco e la ragazza fulmine, poiché il suo corpo fu danneggiato da un fulmine. Al momento del rinvenimento la ragazzina sembrava semplicemente addormentata, con il volto rilassato, seduta con gambe incrociate. Recenti ricerche condotte dall'università di Bradford hanno permesso di comprendere che circa un anno prima della morte la dieta della Doncella de Llullaillaco si era arricchita di mais e proteine animali e aveva iniziato ad assumere dosi massicce di alcool e droga, rispettivamente birra di mais e foglie di coca. Con grande probabilità questo avvenne in coincidenza con la sua elezione al rango di vittima sacrificale. 
Il consumo di tali sostanze aumentò considerevolmente all'avvicinarsi del sacrificio. Sebbene le stesse sostanze furono rinvenute nelle analisi dei capelli dei due bimbi piccoli, in loro non vi è traccia dello stesso incremento.
Quale possibile risposta? La Doncella de Llullaillaco era consapevole e autonomamente assumeva droghe? La ragazza fu costretta nell'assunzione per essere più facilmente manipolabile?

Fabio Casalini


Bibliografia

Reinhard Johan, A 6700 metros ninos incas sacrificados quedaron congelados en el tiempo, National Geograpich, Novembre 1999

Zapponi Sara, Dalle mummie degli Inca i segreti dei sacrifici della Capacocha, Focus agosto 2013

Handwerk Brian, I segreti dei bambini inca sacrificati sulle Ande, National Geograpich Luglio 2013

Andrushko, Valerie A.; Buzon, Michele R.; Gibaja, Arminda M.; McEwan, Gordon F.; Simonetti, Antonio; Creaser, Robert A. (February 2011). "Investigating a child sacrifice event from the Inca heartland". Journal of Archaeological Science

Reinhard, Johan; Ceruti, Constanza (June 2005). "Sacred Mountains, Ceremonial Sites, and Human Sacrifice Among the Incas". Archaeoastronomy

FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.

Blue Whale, il gioco del suicidio

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Il primo libro che ho letto sulla vita di un killer seriale s’intitolava “Henry, pioggia di sangue.” Breve, coinciso, molto crudo, raccontava la vita di abusi e violenze di Henry Lee Lucas, condannato all'ergastolo per aver commesso un numero incredibile di omicidi, si ritiene 214. Solo per 11 di essi si trovarono prove inoppugnabili.
Da quel giorno ho letto molto, il più possibile, cercando di capire cosa spinga un serial killer ad agire con un certo schema, come avvenga la scelta delle vittime e perché. Il cosiddetto Criminal Profiling. Poi improvvisamente, scopri che l'evolversi del tempo crea mostri sempre nuovi, che colpiscono in modo inaspettato e che non ci trovano preparati ad affrontare l’emergenza che si viene a creare. La Russia da alcuni anni è teatro di avvenimenti all’apparenza slegati fra loro, in realtà, se si fa molta attenzione, si scopre un sottile filo di collegamento fra i numerosi decessi degli adolescenti. Sono morti allo stesso modo, gettandosi da un palazzo, mentre l’occhio attento di una telecamera riprendeva i loro ultimi istanti di vita. Un edificio alto, una figura solitaria sul bordo del cornicione, qualcuno che riprende freddamente tutta la scena, e poi un passo, nel vuoto, il corpo  che cade, magari con le prime luci dell’alba che rischiarano l’orizzonte. Centinaia sono i video in rete, che documentano con quanta disinvoltura ragazzi, di età compresa fra i 9 e i 17 anni,   manipolati psicologicamente, abbiano compiuto questo gesto folle. Chi riprende non è un passante occasionale, ma altri ragazzini lì apposta per filmare gli ultimi istanti di vita di un amico o di un compagno di scuola. Fa tutto parte di un piano, di un gioco ideato da assassini indiretti, scaltri e preparati, che si sta diffondendo in rete, in modo capillare, in tutto il mondo, Italia compresa.
È gioco psicologico che ha lo scopo di indurre i partecipanti, adescati in rete, ad una depressione profonda, mediante manipolazione della mente, convincendoli che l’unico modo per poterne uscirne sia la morte.
Blue Whale, la balena azzurra, quella stessa che a volte va a morire arenandosi sulla spiaggia, è il simbolo di questo game, che conduce alla lentamente verso il suicidio.
Adolescenti all’apparenza normali, con una vita piena, felice. Amici, famiglia, sport, ginnastica, un gatto, un cane, le feste, la scuola, la musica. Tutto ciò che compone la quotidianità, la vita di tutti i giorni, quella stessa che conduciamo noi con i nostri figli. Nessun segnale evidente di disagio. Profili social aperti, come tanti, ma con una caratteristica comune: in tutti compaiono post in cui è riprodotta una balena azzurra, nel cielo, in mare, nello spazio, ovunque, segno identificativo della partecipazione al gioco.
157 sono i suicidi accertati in Russia riconducibili a Blue Whale, tutti con le stesse caratteristiche, tutti con lo stesso filo conduttore e lo stesso finale. Oltre a questo, il numero degli  hashtag associati alle "chat suicide" sui social russi, secondo le stime diffuse nel gennaio 2017  dal Rotsit, il Centro pubblico sulle tecnologie Internet, è di  almeno 4000 al giorno. Recenti studi evidenziano che in alcune zone della Russia, si è registrato  un incremento nella percentuale di suicidi tra adolescenti. La Russia detiene il  più altro tasso di suicidi d’Europa:  720 vittime nel 2016, un numero tre volte superiore alla media.
Un vero e proprio fenomeno sociale, che le autorità e i volontari delle associazioni nate appositamente stanno combattendo con decisione, anche con la promulgazione di leggi che inaspriscono le pene verso chi istiga al suicidio. Purtroppo le stime sulla diffusione di Blue Whale non sono positive, in quanto è stato rilevato in un numero sempre crescente di paesi nel mondo.
Il meccanismo è molto articolato. Si svolge in periodi. In alcuni le vittime sono prevalentemente ragazze, in altri ragazzi, dipende dagli ordini del curatore, colui che comanda il gioco, che dà le istruzioni da seguire giorno per giorno. Una sorta di tutor della morte.
50 regole, da seguire in 50 giorni, gli ultimi della vita del giocatore.
Dal giorno 1, passo dopo passo, viene iniziato un percorso di autodistruzione, fatto di sofferenza, autolesionismo, isolamento e annientamento psicologico, in cui emerge sempre più forte l’appartenenza al branco delle Whale e sempre meno quello al nucleo familiare.
A seconda dell’età della giocatore vengono usati meccanismi diversi per attirarlo nella rete. Per cercare di suscitare l’interesse dei più piccoli si usano immagini accattivanti, come fatine svolazzanti, dai lunghi capelli biondi che impartiscono istruzioni di morte e distruzione.
Ecco alcuni passaggi:  incidetevi sulla mano con il rasoio “f57” e inviate una foto al curatore; alzatevi alle 4.20 del mattino e guardate video psichedelici e dell’orrore che il curatore vi invia direttamente; tagliatevi il braccio con un rasoio lungo le vene, ma non tagli troppo profondi. Solo tre tagli, poi inviate la foto al curatore; disegnate una balena su un pezzo di carta e inviate una foto al curatore; incidetevi con il rasoio una balena sulla mano e inviate la foto al curatore; guardate video psichedelici e dell’orrore tutto il giorno; procuratevi del dolore, fatevi del male; non parlate con nessuno per tutto il giorno, e così via… il giorno 26 il curatore comunica al giocatore la data della sua morte. Il giorno 50 il messaggio è chiaro: saltate da un edificio alto. Prendetevi la vostra vita.
Surreale, agghiacciante, ma drammaticamente vero.  Il curatore con freddezza conduce alla morte il giocatore, sostenendolo in ogni prova, intervenendo nei momenti di cedimento, agendo anche con il ricatto e le minacce verso la famiglia per spingerlo fino ad arrivare alla meta finale.
È emerso negli ultimi tempi, indagando a fondo nell’ambiante di appartenenza di alcune giovani vittime che ad essere coinvolti nel gioco fossero intere classi, fino ad arrivare a quasi tutta la scuola. Tutti iscritti agli stessi gruppi. Nessuno dei coinvolti ha mai parlato del game o denunciato ciò che stava accadendo. La totale indifferenza contribuisce alla buona riuscita del percorso. Nella città di Rjazan l’esercito e le associazioni di volontari hanno scoperto un gruppo di ragazzini coinvolti nel gioco contemporaneamente, in totale 137. Una diffusione capillare, che senza il giusto intervento avrebbe portato a risultati catastrofici.
Blue Whale è come un war game, ma i personaggi sono reali, veri, hanno vite, famiglie, amici, interessi. L’arma di distruzione di massa non è un missile, ma un computer, attraverso il quale il curatore, come un condottiero, impartisce ordini alle sue armate votate all’autodistruzione. Ma chi sono i curatori? Chi si nasconde dietro questo piano diabolico?
Una di queste menti è  Philip Burdekin, un ragazzo di 21 anni, studente per tre anni in psicologia.  Nel 2016 è stato arrestato e incarcerato con l’accusa di essere una dei creatori di Blue Whale. Ha confessato di aver spinto personalmente al suicidio 17 ragazzine, allo scopo di “… purificare la società  dagli scarti biologici” e che comunque, l’ultimo giorno “…erano felici di morire.”. Ma Burdekin è solo uno dei curatori, forse tra i meno furbi. Dietro questo gioco si presume si nascondano psichiatri, professionisti, sconosciuti che agiscono da diverse parti del mondo, non importa da dove, perchè sono tutti uniti da un unico scopo e da un unico mezzo, internet, che sta diffondendo senza barriere questo male oscuro.
Anche in Italia si registrano i primi casi. Ma il nostro governo minimizza, le dichiarazioni che ho letto sono scioccanti per la loro superficialità. Fingere che non esista Blue Whale non risolve il problema. In febbraio, dal grattacielo più alto di Livorno, un ragazzo di 15 anni, come tanti, bravo a scuola e pronto per il compito di latino del giorno dopo, ha spiccato il volo per l’ultima volta. Secondo alcune testimonianze a causa della sua adesione al gioco. La polizia postale, sul proprio sito ufficiale, fornisce indicazioni importanti su come segnalare o agire di fronte a casi accertati o sospetti. Non voltiamoci dall’altra parte, non fingiamo di non vedere, non ci tocca direttamente ma è una piaga sociale accertata, concreta
Una mamma russa, una delle tante, piange sua figlia di 16 anni, morta suicida nel 2016. Dice queste parole: “ Con lei ho fatto tutto, ho ballato, ho cantato, ho recitato a teatro, ho scritto poesie.. abbiamo fatto tutto quello che potevamo fare insieme… avevamo un rapporto stretto, nel cuore… ha obbedito al gioco. Ha fatto quello che quelle persone l’hanno spinta a fare. Non sono riuscita a fermarla, nessuno di quelli che erano con lei ha fatto nulla per fermarla…”. Silenzio. Indifferenza, un muro che copre chi spinge al suicidio ed espone la vittima al suo destino. Non possiamo restare a guardare indifferenti, abbiamo il dovere di intervenire con ogni mezzo, soprattutto quello della sensibilizzazione e della vigilanza.
Il silenzio della balena uccide, non dobbiamo dimenticarlo.

Rosella Reali


ROSELLA REALI
Sono nata nel marzo del 1971 a Domodossola, attualmente provincia del VCO.  Mi piace viaggiare, adoro la natura e gli animali. L'Ossola è il solo posto che posso chiamare casa. Mi piace cucinare e leggere gialli. Solo solare, sorrido sempre e guardo il mondo con gli occhi curiosi tipici dei bambini. Adoro i vecchi film anni '50 e la bicicletta è parte di me, non me ne separo mai.  Da grande aprirò un agriturismo dove coltiverò l'orto e alleverò animali. 
Chi mi aiuterà? Ovviamente gli altri viaggiatori.
Questa avventura con i viaggiatori ignoranti? Un viaggio che spero non finisca mai...

I Pawnee e il sangue versato per il mais

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Il sacrificio umano rappresenta il momento più cruento della religiosità dell'uomo, accompagnandone il cammino nel corso della storia. L'omicidio di un essere umano rappresentava un'offerta alla divinità, come parte di un più complesso rito. 
Nelle culture antiche il sacrificio di un uomo aveva uno doppio scopo, da una parte propiziare i favori di un dio e dall'altra placare le ire di una divinità. In entrambi i casi il favore era rivolto alle popolazioni che quell'omicidio perpetravano. Con il trascorrere del tempo il ricorso a queste pratiche diminuì sensibilmente all'interno del continente europeo rimanendo in vigore sino alle soglie, in diversi casi anche oltre, della colonizzazione da parte degli abitanti del vecchio continente di quelle zone ove il sacrifico assumeva una ritualità precisa. I motivi che spingevano queste popolazioni ad offrire uomini, donne o bambini alla divinità possiamo sempre farle rientrare nelle casistiche dell'assicurarsi un favore o di placare l'ira della divinità cui il sacrificio era rivolto. I nativi Guayaquil, dell'attuale Ecuador, usavano offrire in sacrificio sangue e cuori umani al momento della semina. 

Nell'antico Messico si usava praticare il rito dell'incontro delle pietre: nel momento in cui i primi frutti di stagione maturavano, erano offerti alla divinità solare attraverso un rito che comprendeva il sacrificio di un uomo. La vittima, solitamente un criminale, era posizionato tra due grosse pietre, bilanciate l'una contro l'altra, che cadendo schiacciavano l'uomo. Una ulteriore riprova di queste ritualità è rappresentata dalla cerimonia praticata da una tribù di nativi del nord America, i Pawnee. Questa popolazione, in primavera, sacrificava u essere umano nel momento della semina obbedendo ad un ordine impartito dalla Stella Mattutina, o da un particolare uccello che la stella stesa aveva inviato come messaggero. L'uccello, una volta conclusa la cerimonia, era impagliato e conservato come un prezioso talismano.

Chi erano e chi sono i Pawnee?
Uno spezzone del fil Balla coi lupi, con Kevin Costner, diede una piccola notorietà a questa tribù, alterando la loro visione, forse per sempre, poiché apparivano come una sorta di tribù compromessa irrimediabilmente dal contatto con il colonizzatore bianco cui prestava favori avversando le altre tribù native del nord America.
I Pawnee sono una tribù di nativi americani che si stanziò nelle pianure del Nebraska a partire dal XVI secolo. I Pawnee sono divisi principalmente in 4 gruppi di individui divisi in villaggi: i Chaui, i Pitahauerat, i Kitkehahki e gli Skidi. Attualmente il loro numero ammonta a non più di 5500 individui. Il nome Pawnee deriva dalla parola nativa pariki, che assume il significato di corno, in riferimento alla caratteristica capigliatura della popolazione. Il primo europeo che descrisse questa popolazione fu Francisco Vasquez de Coronado intorno alla metà del 1500. L'arrivo dei coloni comportò una drastica diminuzione del numero di nativi appartenenti a queste popolazioni: nel 1780 il numero si era ridotto a circa 10,000 unità, che divenne la metà nel 1800 a causa di malattie, alcool e guerre tra nativi e invasori europei. I Pawnee, come molte altri popoli nativi del nord America, con l'avvento del cristianesimo abbandonò progressivamente le proprie usanze. La religione dei Pawnee era particolarmente complessa poiché esisteva un dio principale, Tirawahat, e diverse divinità minori. Inoltre ogni stella rappresentava una divinità che veniva interpellata per gli eventi della vita quotidiana come, per esempio, la semina del mais. 
I Pawnee praticavano due danze rituali, la Danza del Sole e la Danza degli Spiriti. La Danza del Sole fece inorridire i primi missionari cristiani che assistettero al suo svolgimento. I nativi furono costretti a praticarla in segreto dal 1890 al 1928 a causa della repressione del governo degli Stati Uniti. La danza del Sole, il cui nome originale è Wiwanyang Wachipi ovvero la danza guardando il Sole, era l'apice del calendario spirituale e rituale di tutte le nazioni tribali del nord America. Il rito durava quattro giorni ed assumeva le caratteristiche di una cerimonia di purificazione collettiva. In questo periodo erano previsti il digiuno, l'auto-sacrificio e la donazione di se. Con la Danza del Sole si ringraziava la divinità per il raccolto dell'anno da poco trascorso e si invocava la stessa per chiedere prosperità e protezione per tutti gli esseri viventi. La base del rito era l'auto-sacrificio e la donazione di se: ogni danzatore donava una parte del proprio sangue e del proprio corpo attraverso la trafittura rituale. Questa pratica consisteva nell'infilare due pezzi di osso di bisonte nel corpo del danzatore, all'altezza del petto. Le ossa erano legate a delle funi annodate intorno all'albero sacro posto al centro dello spazio consacrato allo svolgimento del rito. Il danzatore doveva liberarsi tirando le funi e strappando la propria carne. Il secondo rito praticato dalle popolazioni Pawnee era la Danza degli Spiriti. L'adesione a questa cerimonia risale alla fine del XIX secolo. Si trattava di un culto sincretico che mescolava spiritualità originaria dei nativi ed elementi del cristianesimo. Il culto ruotava intorno alla promessa di restituzione delle terre agli abitatori originari.
Il rituale più cruento della religiosità Pawnee era legato all'offerta della popolazione alla Stella Mattutina. I Pawnee erano convinti che se avessero omesso il sacrificio umano dalla loro cerimonia, il raccolto di mais, fagioli e zucche non sarebbe stato sufficiente per sfamare gli individui che componevano la popolazione. Solitamente la vittima era un prigioniero, uomo o donna, vestito di abiti sgargianti e molto costosi, ingrassato sino al raggiungimento di un peso che fosse ritenuto soddisfacente. La vittima sacrificale era prudentemente tenuta all'oscuro della sorte che lo attendeva. Una volta ingrassato, il prigioniero era legato ad una specie di croce davanti a tutto il popolo che eseguiva una danza rituale. Alla fine della cerimonia, una persona a ciò preposta afferrava un tomahawk e spaccava la testa della vittima, che ancora era legata alla croce. In seguito il corpo era trafitto da una moltitudine di frecce. Le squaw tagliavano il corpo a pezzi e lo utilizzavano per ungere le zappe che sarebbero servite, in seguito, alla semina del mais. E' giunta sino a noi la cronaca dettagliata del sacrificio di una ragazza Sioux per opera dei Pawnee. La ragazza, di quattordici o quindi anni, era stata curata e ingrassata per sei mesi. Due giorni prima del sacrificio fu accompagnata da una tenda all'altra dell'intero consiglio dei capi e guerrieri. In ogni tenda ricevette un piccolo ceppo di legno e della vernice. Verso la fine di aprile fu condotta al sacrificio scortata dai guerrieri, ciascuno dei quali teneva nella mano due ceppi di legno che lei stessa aveva dato a loro. I guerrieri dipinsero il corpo della ragazza Sioux per metà di nero e per metà di rosso, l'attaccarono ad una specie di forca sulla quale la rosolarono a fuoco lento prima di ucciderla con una moltitudine di frecce. Il capo della cerimonia le strappò il cuore e lo divorò. Il corpo della ragazza fu tagliato in moltissimi pezzi che furono messi all'interno di alcuni cestini. Giunti nei pressi di un campo di mais, il capo prese un pezzo di quella carne e lo strizzò per spargere il sangue sui chicchi di mais appena seminati. Tutti gli altri seguirono l'esempio fino a quando i semi furono tutti cosparsi con il sangue sacrificale. In seguito furono ricoperti dalla terra.
Il sangue sacrificale della ragazza, nella mentalità Pawnee, avrebbe dovuto garantire un raccolto abbondante.

Fabio Casalini



Bibliografia 
G.E. Hyde, I Pawnee, Mursia, Milano 
Angelo Brelich, Presupposti del sacrificio umano, Editori Riuniti University Press, 2006
Marvin Harris, Cannibali e re. Le origini delle culture, Feltrinelli, 1977
AA.VV., Origini del sacro e del pensiero religioso: atti del convegno, maggio 2008
Simone Borile, Satanismo, sette religiose e manipolazione mentale, Mantova 2015


FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.

In Oltrepò risuona la martinella del carroccio

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Ben pochi sanno ancora che cos’è un
albero. Le radici abbarbicate, acide, nere, sprofondate
a delta nel corpo della terra, il
tronco, i rami e i fogliami, e le
famiglie innumerevoli dei fiori,
estinte, ora, e i frutti colmi, pesanti, che erano
cibo, la buccia
tesa, la polpa ruvida, il nocciolo.
Ben pochi ricordano i ciliegi
bianchi prima di aprile, e le ciliegie
scarlatte, il loro avvallarsi
tondo e profondo sotto il peduncolo
lieve.
E chi ricorda i cachi, gli enigmatici
cachi come soli tramontanti
fermi tutto novembre sulla trama
dei rami
stecchiti?
[Giuseppe Conte]


Dicono che nelle giornate di vento si scorgano nitidamente le Alpi, i grattacieli di Milano e addirittura la Mole Antonelliana.
Risalire la Valle del Nizza è un esperienza purificante, una lettura nitida e profonda dell'animo. Ad ogni tornante rivela uno spicchio di bellezza, ci si sente più leggeri grazie alla vista che spazia su buona parte di quel mare di terra autentica che è l'Oltrepò. Si abbandona la vite per abbracciare un ambiente quasi alpino. Tutt'attorno sono faggi, abeti e castagni e lontano dispersi nella foschia meridiana i contorni docili della dorsale appenninica che educano il cuore alla bellezza.
Rammentando Euripide qui sembra dettar legge “il silenzio del vento”. Poco distante transitava la via del sale, antico itinerario utilizzato dai mercanti di sale marino tra Genova e la Val Borbera, Luogo di confine di inevitabile fascino
Spigolo d'Italia noto come la zona delle quattro province; la piemontese Alessandria, la ligure Genova, la lombarda Pavia e l'emiliana Piacenza.
Ritmi scanditi da tempi agricoli, amalgamati in un melange di dialetti, usanze e tradizioni.
Ecco, oltre quella curva scorgo l'Eremo di Sant'Alberto di Butrio, riposa disteso nella silvestre quiete, assomiglia ad una pernice solitaria appollaiata a circa settecento metri di altitudine. Venne fondato dal santo attorno al XI secolo sui terreni donati dal marchese Obizzone Malaspina nel 1050 in segno di ringraziamento per aver guarito uno dei suoi figli sordomuto.
Zona solitaria, territorio di cacciatori e arditi cercatori di funghi le cui forre sono ormai indelebilmente mappate più che negli occhi nelle piante dei loro piedi.
Il complesso, di origine romanica, rappresenta uno straordinario manifesto d'architettura medievale ed è suddiviso in tre chiese, dedicate rispettivamente a Sant’Antonio, Santa Maria (la più antica eretta sui resti di una precedente cappella castrense bizantina) e Sant’Alberto.
Il rintocco della campana riporta ad un passato assai lontano. È infatti la “martinella” del Carroccio, protagonista dellastorica battaglia di Legnano, a cadenzare le ore che fluiscono tra le antiche pietre. Anima ed ossa di questo luogo quasi millenario in cui fecero la sua comparsa l'imperatore Federico Barbarossa, Dante Alighieri e, leggenda vuole, anche Edoardo II in fuga dall'Inghilterra.
Anche Pier Paolo Pasolini in cerca di ispirazione per la stesura de “Il vangelo secondo Matteo", dopo aver stretto amicizia con un frate cieco che frequentava l'Eremo, si aggirava per questi luoghi.
Varcata la soglia, ci accoglie la chiesa di Sant'Antonio in un susseguirsi di pregevoli affreschi realizzati nella seconda metà del 1400 per mano di autore anonimo, forse un monaco, che narrano le vicende mediante un linguaggio molto elementare ma non privo di valore.
La finezza e l'eleganza dei colori celano l'estro di una mente raffinata di tradizionegotica con lievi rimandi ad influssi di scuola bizantina (soprattutto per quanto riguarda gli sfondi dorati).
Lo notiamo istantaneamente nella figura di un esile San Sebastiano. Le mani legate al tronco di un albero intento, nella sua presunta immobilità, a subire il martirio che due figure disposte ai lati prontamente gli infliggono attraverso le numerose frecce conficcate nella carne. 
Più a destra è Santa Caterina di Alessandria a subire torture e supplizi. La storiella giunta sino a noi narra che rea di non aver partecipato ai festeggiamenti e alle celebrazioni pagane venne condannata a morte sotto il peso di una ruota chiodata ma grazie all'intervento divino la macchina si ruppe. Massenzio optò quindi per la decapitazione della sventurata, ma dalle vene invece di rigagnoli rubini miracolosamente (!?!) sgorgarono candide gocce di latte.
In un curioso affresco prima della tragica fine l'ammiriamo risoluta agitare un libro posto nella mano sinistra, simbolo della sua sapienza, ed esortare il Re ed un gruppo di filosofi al suo fianco anch'essi con altri libri tra le mani. Disputa nella quale uscì vittoriosa.
Poco distante un'altra rappresentazione la raffigura mentre viene imprigionata. Interessante notare lo scorpione dipinto sullo scudo del carceriere, simbolo di perfidia, del male che cerca di sopraffare il bene. Un richiamo al lato oscuro dell'impero romano (SPQR – SQRP, scorpio).
Sulla parete opposta, nella lunetta superiore, ecco Dio Padre tra luce e fuoco nell'atto di benedire, avvolto da una candida e folta barba bianca circondato da numerosi volti dalle simili fattezze e due angeli con la tromba.
Di notevole pregio l'affresco ritraente San Giorgio che lotta contro il drago, tentando di salvare la principessa. L'atmosfera che regna nel dipinto ci catapulta in un ambiente fantastico evocando il clima di antichi libri di favole.
Spostandoci nella chiesa adiacente di Sant'Alberto troviamo l'opera forse più preziosa che questo luogo custodisce: "Il miracolo di S. Alberto" ovvero l'evento straordinario accaduto al santo quando venne accusato di mancata osservanza del digiuno durante la celebrazione della messa.
Convocato a Roma da Papa Alessandro II eccolo ritratto in abito nero collocato a sinistra di una tavola riccamente imbandita alla cui mensa partecipano, oltre al pontefice, alcuni cardinali.
Per provare la sua innocenza Alberto trasformò l'acqua in vino come ci suggerisce la mano benedicente verso una brocca d'acqua che un paggio con prontezza gli porge.
Notevole l'abbondanza di dettagli presenti nell'opera, come il pozzetto dell'Abbazia ritratto nell'angolo in basso a destra.
Sant'Alberto è un luogo di profonda spiritualità fatto di odori dimenticati di legno, di pietra e di cera.
Pietre corrose che rassegnate conservano pozzette d'acqua, memorie osmotiche di lontani acquazzoni, scogli che nell'umido dei chiostri esaltano il profumo amaro della corteccia d'abete, il ricordo vago di un tramonto, di una dolce agonia.
Tra le nubi in grembo ai colli appare una sforbiciata di sereno ed una luce sottile come d'aprile. Dall'antico sacello un rumore di anime discrete sgretola il silenzio.
La mia è assai distante abbandonata in una speranza ignota, ma resta ad ascoltare a capo chino, ebbra di bellezza. Il tempo si dilata e nel cielo si accende la prima stella al guinzaglio della luna.

Filippo Spadoni

FILIPPO SPADONI 
Nato nel 1980. Appassionato di cinema d'autore, poesia e letteratura italiana, con un'inclinazione naturale per il crepuscolarismo. Cultore e collezionista di musica con predilezione di sonorità di confine e sperimentali. Insaziabile curioso verso le tradizioni, la cucina, gli idiomi e gli angoli più remoti del Piemonte; perché come affermava Cesare Pavese: " Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti". Da Gennaio 2014 cura e gestisce l'archivio di "Verbania Antiche Immagini".


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