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Signuri patri chi vinisti a fari?

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Ovvero la triste storia della Baronessa di Carini: Il poema



Come promesso nel precedente post dedicato a questa storia, ecco la mia indegna trasposizione in prosa del poema popolare della Baronessa di Carini. Segue l’originale in vernacolo siciliano, per chi voglia godersi la vera poesia… 
Piange Palermo, piange Siracusa, tutta la Sicilia è in lacrime.
A Carini tutte le case sono in lutto, e chi fu la causa di questa atroce notizia possa non avere mai più pace nella sua casa. In questo momento la mia mente è confusa e ho il cuore gonfio, e mi ribolle il sangue nelle vene. Vorrei che una modesta canzone, modesta ma piena di rispetto, piangesse colei che fu per la nostra casa e la nostra terra una colonna, la più bella stella che sorrideva nel cielo, un’anima senza ombre e senza veli, la stella più bella tra tutte le stelle: la povera Baronessa di Carini.
I suoi splendidi occhi sono ormai divorati dai vermi, seppelliti sotto la nuda terra, senza più nessun amico intorno, e conoscono ormai soltanto il mio povero amore di cantastorie.
E voialtri, tutti voi che avete appreso la tragica notizia, elevate il vostro pensiero solo al Signore, e non turbatela più, perché un giorno anche voi sarete come lei, vermi fra i vermi.
Fate solo elemosina e carità e solo così, andando anche voi in cielo, un giorno la ritroverete.
Fiumi, montagne e alberi, piangete anche voi. Sole e luna, non apparite più. La bella Baronessa che ora avete perduta, ebbene, era lei che vi dava i raggi innamorati per tutti gli innamorati. Uccellini dell’aria, cosa volete ora? Cercate il vostro amore, ma lo cercate invano! Barchette che venite lente a questi lidi, da oggi spingete le vostre piccole vele con il segno del lutto, un lutto davvero scuro, perché è morta la Signora dell’amore.
Amore, amore, piangi questa tragedia, piangi quel gran piccolo cuore senza più pace, quegli occhietti, quella bocca benedetta di cui, mio Dio, non resta più neppure l’ombra!
Però, però c’è il sangue che grida vendetta, ed è ancora rosso nella parete, e grida vendetta, e aspetta vendetta!
E verrà. Perché c’è chi viene con piede di piombo, quello che solo governa il mondo.
Sì verrà, perché c’è chi viene con passo lento, ma prima o poi, anima di Caino, ti raggiungerà lo stesso.
Così avvenne: Attorno al castello di Carini passava e ripassava un bel Cavaliere, sia al mattino che alla sera, con gli occhi al cielo verso quella finestra, e girava come un’ape in aprile intorno ai fiori per coglierne il nettare. Eccolo ora che compare dalla pianura sopra un cavallo, bello, che vola senza ali. Ed eccolo ora di notte con il mandolino, e potete sentire nel giardino la sua voce.
Il Giglio soave che spande il suo profumo, avvolto fra le sue stesse fronde, per evitare gli invitabili affanni di quell’amore non risponde alle premure dell’amante. Ma dentro, ah, dentro è divorata da potenti fiamme, e si aggira sconvolta e confusa, finché il senno non le regge più. Perché è così. Perché così l’amore domina tutti.
Questo fiore è nato con gli altri fiori, e già a marzo cominciò a far cadere i suoi petali. Aprile e maggio ne hanno potuto godere l’odore, ma con il sole di giugno già prendeva fuoco, un fuoco che brucia in tutte le ore, un fuoco che brucia, che brucia e non consuma. Ed è questo grande fuoco che dà vita a quei due cuori, e li trascina insieme, come calamita, fin dentro le sue fiamme.
Vita dolce, questa vita d’amore, non superata mai da nessun’altra, se solo la si potesse vivere fino al colmo. Il sole del cielo passa, e poi si ferma, e poi ancora le stelle lo seguono a ruota. E così una piccola catena, piccola ma invincibile, stringe i loro cuori e li fa battere insieme, e quella stessa felicità li colora, li colora d’oro e di rosa.
Ma l’oro fa l’invidia di cento e più persone, e la rosa è bella, ma è fresca solo per un momento.
E così avvenne: Il Barone era appena tornato dalla caccia; “Mi sento stanco” disse “Voglio riposarmi”.
Ma proprio allora si presenta alla porta per parlargli un piccolo frate, infame e traditore.
“Sono stati insieme tutta la notte!” gli dice “Lunghe confidenze hanno da farsi!”
Gesù Maria, che brutta aria che si alza in un istante! Inequivocabile segnale di tempesta!
E intanto il fraticello se ne va, ridacchiando soddisfatto, e di sopra, nelle sue stanze, il barone si agita infuriato.
Fu allora che la luna s’ammantò di nuvole, e svolazzò il gufo, spaventato persino lui.
E fu allora che il barone afferrò spada ed elmo e spronando il cavallo gli gridò nel buio: “Vola cavallo! Fuori da Palermo! E voi, miei fedeli, benché sia notte, seguitemi e tenetemi dietro!”
Ormai già una luce rosata si posava sulla schiena di Ustica, laggiù in mezzo al mare.
La rondinella che vola e si solleva, come per salutare il sole, vede spesso il suo volo interrotto dall’arrivo dello sparviero, e timida e terrorizzata si nasconde dentro il nido, nella speranza di potersi salvare.
Questa stessa paura e questo stesso terrore toccò alla Baronessa di Carini mentre, affacciata al suo balcone, si beava del suo amore.
Sentì il rumore, guardò verso la pianura.
“Vedo venire una cavalleria, questo è mio padre che viene per me! Arriva seguito da molti cavalieri, si, è mio padre, che mi viene ad ammazzare…”
“Signor Padre, che veniste a fare?”
“Signora Figlia, vi vengo ad ammazzare!”
“No, Signor padre, datemi almeno un po’ di tempo, poco appena, almeno per chiamare il mio confessore!”
“E’ da tanti anni che ci prendi in giro, e adesso vai cercando la confessione? Questa non è ora di confessioni, e neppure di ricevere il Signore!”
Dette queste parole spietate, sguainò la spada e le squarciò il cuore.
Al primo colpo la donna cadde, al secondo colpo, la donna morì.
Ma ancora non sapete quanta pena, per quell’anima infelice, quando si vide senza nessuno che venisse in suo aiuto. Era perduta, e cercava qualche amico, e correndo disperata da una sala ad un’altra nel grande castello voleva sfuggire alla morte e gridava forte: “Aiuto, carinesi! Aiuto, aiuto! Vuole uccidermi!”
E infine distrutta disse “Cani carinesi!”, e questo fu il suo ultimo grido.
Ultimo grido e ultimo spasimo, perché poi perse il sangue, e poi perse il colore.
E allora almeno correte adesso, correte tutti, gente di Carini, ora che è morta la vostra Signora, ora che è morto il giglio che fioriva qui da voi, e ne ha colpa un cane traditore.
Correte tutti, monaci, padrini, sacerdoti, e datele almeno onorata sepoltura. Correte tutti, buoni paesani, e portatela almeno alla tomba in degna processione.
Di lì a poco, la terribile notizia giunse anche al palazzo, e la nonna cadde a terra svenuta, e le sorelline si strapparono i capelli, e gli occhi della mamma si chiusero e non vollero vedere più nulla. E un attimo dopo si seccarono i garofani nei vasi, e a lungo restarono spoglie le finestre. E il gallo che cantava non cantò più, e sbattendo le sue ali fuggì via.
E ora guardate, e ascoltate: a due e a tre si riuniscono le genti, e fanno crocchio con il cuore tremante, e per la città si ode un brusio del calabrone che pare un gemito e un pianto. “Che mala morte, che morte atroce, lontana dalla madre a dall’amante, l’hanno seppellita di notte, al buio, e anche il becchino aveva paura”.
E così né io né nessun altro ti ha potuto ornare di fiori, né ha più rivisto il tuo bel volto.
Ho il cuore spezzato, e neanche riesco più a parlare mentre sono qui, in ginocchio, sopra la tua lastra di marmo.
Povero ingegno mio, cerca di mettere le ali e volare via, alto, e cancellare così questo nero dolore. Per poter davvero scrivere e fermare le mie lacrime, dovrei avere la mente del Re Salomone, ma non ce l’ho.
E così la mia piccola barca resta fuori dal porto, senza guida, in mezzo alla tempesta.

LA BARUNISSA DI CARINI

I

Chianci Palermu, chianci Siracusa
Carini c'e' lu luttu ad ogni casa...
cu' la purtau sta nova dulurusa
mai paci possa aviri a la so' casa...
aju la mente mia tantu cunfusa...
lu core abbunna... lu sangu stravasa.
Vurria na canzunedda rispittusa...
chiancissi la culonna a la me' casa;
la megghiu stidda chi rideva in celu,
anima senza cappottu e senza velu
La megghiu stidda di li Serafini...
povira Barunissa di Carini!...

II

Ucchiuzzi beddi di vermi manciati
ca sutta terra vurvicati siti...
tutti amici cchiu' non vi truvati,
vui sulu lu me' amuri canusciti...
Pinsati a Diu e cchiu' nun la turbati!...
Ca un journu comu idda vui sariti...
Limosina faciti e caritati
ca un jornu 'nparadisu la truvati.

III

Ciumi, muntagni, arvuli chianciti...
Suli cu Luna cchiu' nun affaciati!
La bedda Barunissa chi pirditi,
vi li dava li raj 'nnamurati!
Acidduzzi di l'aria, chi vuliti?
Lu vostru amuri 'mmatula circati!
Varcuzzi chi a sti prai lenti viniti,
li viliddi spincitili alluttati...
ed alluttati cu li lutti scuri,
ca morsi la Signura di l'amuri.

IV

Amuri, amuri, chiànciti la sditta!
Ddu gran curuzzu cchiù nun t'arrisetta...
dd'ucchiuzzi, dda vuccuzza biniditta,
o Diu! Chi mancu l'ummira nni resta!
Ma c'è lu sangu chi grida vinnitta,
russu a lu muru... e vinnitta nn'aspetta.
E c'è cu veni cu pedi di chiummu...
Chiddu chi sulu guverna lu munnu...
E c'è cu veni cu lentu cammino
ti iunci sempri, arma di Caino...!

V

Attornu a lu Casteddu di Carini,
ci passa spesso un beddu Cavaleri;
ci passa matinati e siritini,
l'ucchiuzzu a li finestri sempri teni...
giria come làpuzza 'ntra l'aprili,
n'torno a li ciuri pi cogghiri lu meli;
ed ora pi lu chianu vi cumpari,
supra d'un baju chi vola senz'ali...
ora di notti cu lu minnulino,
sintiti la so vuci a lu jardinu.

VI

Lu gigghiu finu, chi l'uduri spanni,
ammugghiateddu a li sò stessi frunni,
voli cansari l'amurusi affanni...
e a tutti sti primuri nu' rispunni;
ma dintra adduma di putenti ciamuni.
Va trasannata e tutta si confunni...
e sempri chi lu sensiu'u n'ha valuri,
ca tutti accussi' domina l'amuri.

VII

Stu ciuriddu nasciu cu l'autri ciuri...
spanpinava di marzu a pocu a pocu
aprili e maju nni godiu l'oduri...
cu lu suli di giugnu pigghiau focu;
e di tutt'uri stu gran focu adduma...
adduma di tuttùri e nun cunsuma...
stu gran focu a dù cori duna vita...
li tira appressu comu calamita.

VIII

Chi vita duci, ca nuddu la vinci,
gudirila a lu culmu di la rota!
Lu suli di lu celu, passa e 'mpinci
li stiddi ci si mettinu pi rota!
'na catinedda li curuzzi strinci,
battinu tutti dui supra 'na mota,
e la filicitá chi li dipinci
attornu, attornu d'oru e di rosa;
ma l'oru fa invidia di centu,
la rosa è bedda e frisca pi un mumentu.

IX

Lu barumi di caccia avia turnatu...
- mi sentu stancu, vogghiu arripusari -
quanno a la porta si ci ha prisintatu
un munacheddu e ci voli parrari;
tutta la notti 'nsemmula hannu statu...
la cunfidenza longa l'hannu a fari
Gesù Maria! Chi ariu 'nfuscatu
chistu di la tempesta è lu signali!
Lu munacheddu nisceva e ridia,
e lu baruni susu sdillinia.

X

Di nuvuli la luna s'ammugghiau...
lu jacabu scantatu sbulazzau;
afferra lu baruni spada ed elmu...
- vola cavaddu, fora di Palermu...
prestu, fidili, binchì notte sia,
viniti a la me spadda 'ncumpagnia.

XI

'Ncarnatedda calava la chiaria
supra la schina d'Ustica a lu mari;
la rininedda vola e ciuciulia
e s'ausa pi lu suli salutari;
ma lu spriveri cci rumpi la via,
l'ugnidda si li voli pilliccari,
timida a lu so niru s'agnunìa,
a mala pena ca si po' sarvari.

XII

Simili scantu, simili tirruri
appi la Barunissa di Carini.
Era affacciata 'nta lu so balcuni
chi si pigghiava li spassi e piaciri...
- Viu viniri la cavalleria...
chistu è mè patri chi vini pi mia...
Viu viniri 'na cavallarizza,
forsi è mè patri chi mi veni ammazza
- Signuri patri chi vinisti a fari?...
- Signura figghia, vi vinni ammazari.

XIII

- Signuri patri, accurdatimi un pocu,
quanto mi chiamu lu me confissuri!
- Avi tant'anni chi la pigghi a jocu,
ed ora vai cercannu cunfissuri?
Chista'un è ura di cunfissioni.
E mancu di riciviri Signuri!
E comu dici sti amari parole,
tira la spada e ci scassà lu cori.
Lu primu colpu la donna cariu...
l'appressu colpu la donna muriu.

XIV

Oh chi scunfortu pi dd'arma 'nfilici
quannu 'un si vitti di nuddu ajutari!
Era abbattuta e circava l'amici...
di sala in sala si vulia salvari...
gridava forti:- aiutu carinisi...
aiutu, aiutu... mi voli ammazzari!...
Dissi arraggiata:- cani carinisi!
L'ultima vuci chi putissi dari...
I'ultima vuci e l'ultimu duluri...
ca persi gia' lu sangu e lu culuri.

XV

Curriti tutti, genti di Carini,
ora che morta la vostra Signura:
mortu lu gigghiu chi ciuria a Carini...
'nnavi curpanza un cani tradituri!
curriti tutti, monaci e parrini,
purtativilla 'nsemi in sepoltura...
curriti tutti, paisaneddi boni,
purtativilla in gran processioni.

XVI

La nova allura a lu palazzu ju...
la nunna cadiu 'nterra e strangusciau:
ii so suruzzi capiddi 'un avianu,
la so matruzza di l'occhi annurvau...
Siccaru li garofali a li grasti,
e sulu c'arristaru li finestri.
Lu gaddu chi cantava 'un canto' chiui
va sbattennu l'aluzzi e sinni fui.

XVII

A dui, a tri s'arrotano li genti,
fannu concùminu cu pettu tremanti:
pi la citati un lapuni si senti,
'mmistatu di ruccoli e dichianti:
- chi mala morti! chi morti dulenti!
Luntana di la matri e di l'amanti:
la vurvicaru di notti a lu scuru...
lu beccamortu si scantava puru.

XVIII

Iu nun ti potti di ciuri parrari
iu nun la vitti cchiu' la to fazzouni:
mi nesci l'arma nun pozzu ciatari
supra la to balata addinucchiuni.
Poviru 'ngegno miu, mettiti l'ali,
dispincimi stu niuru duluri:
pi li me l'armi scriviri e nutari
vurria la menti di re Salumuni...
La me' varcuzza forsa 'menzu la timpesta!

Alessandro Borgogno



Pomponio de Algerio, il ragazzo gettato nell'olio bollente a Piazza Navona

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I tormenti di Pomponio de Algerio
19 agosto 1556.
Estate calda a Roma.
La gente si ammassa per godere liberamente dello spettacolo.
I più ansiosi di godere delle disgrazie del malcapitato spingono per giungere nelle prime file.
Una caldaia di olio bollente risplende nella calca di Piazza Navona. 
Un ragazzo di 25 anni è accompagnato all'interno dell'arena.
Trascorrono pochi istanti e il giovane è agguantato e trasportato nei pressi della caldaia, che attende ribollente la vittima sacrificale.
Quell'uomo è un eretico e come tale deve essere sacrificato per il mantenimento dell'ortodossia. Molti prima di lui, tantissime dopo.
Il grande contenitore è riempito con olio, pece e trementina.
Il ragazzo guarda la folla, alza gli occhi al cielo e pronuncia alcune scomposte parole.
Il tempo si ferma.
Il vento non accarezza i capelli dei presenti.
I cavalli silenti sembrano partecipare allo strazio collettivo.
Dolore che diviene spettacolo.
Il ragazzo decide d'immergersi spontaneamente nella caldaia, un sorriso e proferisce parole di resistenza mentale: “accogli, mio Dio, il servo e martire tuo”.
In pochi istanti un lampo di fuoco nel cielo divenuto nero.
E fu la fine.
Il 22 agosto del 1556, l'ambasciatore di Venezia scrive al consiglio dei Dieci: “..nel mezzo delle fiamme e dei tormenti, visse un quarto d'ora”. Lo stesso politico aggiunse: “quello scolaro di Nola che le eccellentissime signorie vostre mandarono qui, fu uno di questi giorni bruciato vivo in Piazza Navona”.
Le domande cercano spazio nella mente.
Chi era quel ragazzo?
Perché decisero di bruciarlo vivo in Piazza Navona?
Perché un ambasciatore scrive ai politici veneziani?
Piazza Navona rappresentata qualche decennio dopo gli eventi narrati
Fortunatamente il tormento di quell'uomo trova buoni riscontri nei documenti.
Il giovane si chiamava Pomponio Algieri, o de Algerio, e nacque in Nola nel 1531. Rimasto orfano troppo presto fu cresciuto dalla zio paterno. Probabilmente la famiglia era benestante poiché Pomponio studiò in un Collegio di Nola prima di trasferirsi nella prestigiosa università di Padova.
Frequentò teologia, filosofia, medicina e diritto, seguendo le lezioni del professor Matteo Gribaldi che, sospettato d'essere protestante, riparò a Ginevra.
Era il 1552, Pomponio era poco più che ventenne.
Il professor Gribaldi fece breccia nella mente del giovane salito da Nola, tanto da essere agguantato dagli sbirri della santa Inquisizione.
Il 29 maggio del 1555, fu arrestato per volere dell'inquisitore fra Girolamo Girello. L'uomo di nero vestito effettuò alcune domande di rito e il nolano, da non confondersi con il Grande Nolano, affermò di chiamarsi Pomponio de Algerio e che non conosceva il motivo dell'arresto poiché, lui, non si riconosceva in errore.
Per gli uomini dell'Inquisizione lui qualcosa nascondeva.
Nell'interrogatorio del 17 luglio, il ragazzo si spinse ad affermare che “la chiesa romana non è quella universale, ma una chiesa particolare e ogni chiesa particolare in alcune cose può errare, e la chiesa romana in più cose sembra deviare dal vero”.
Proviamo ad immaginare il sorriso contenuto a stento dal grande inquisitore.
Se avesse potuto si sarebbe districato in un ballo sfrenato, si sarebbe arrampicato sui muri e brindato con vino francese.
Ma Pomponio ancora non aveva finito di parlare, e di arrecare gioia agli uomini di nero vestiti: negò, con forza, l'autorità del Papa, essendo Cristo il capo della chiesa. Si spinse oltre negando la transustanziazione affermando che “in la eucarestia e cena del Signore riceversi veramente la carne e il sangue di Cristo, però per spirito e che in quel pane ve sia non solo gli accidenti ma anche la sostanza dello stesso pane”.
Il ragazzo immaginava di non avere scampo.
L'inquisitore cattolico non poteva che godere nel profondo delle viscere.
Pomponio de Algerio scrisse una lettera ai compagni di fede, che riuscì a far pervenire il 21 luglio del 1555. Nella stessa ammetteva che aveva trovato “miele nelle viscere del leone, amenità nella fossa oscura, tranquillità e speranza di vita nel luogo dell'amarezza e della morte, letizia nel baratro infernale”.
Il 28 luglio, durante un altro interrogatorio, rincarò la dose negando l'esistenza del purgatorio e il culto dei santi, poiché “Cristo è il mio intercessore e non altri in cielo”.
Gian Pietro Carafa divenuto Paolo IV
Nel frattempo, a Roma, era stato eletto Papa Gian Pietro Carafa, con il nome di Paolo IV. Nel 1542 Carafa riuscì ad ottenere da Paolo III l'istituzione della Congregazione della sacra romana e universale Inquisizione. Sino ad allora l'inquisizione era stata gestita dalle singole diocesi. L'istituzione aveva il compito di vigilare sulle questioni della fede e della difesa della Chiesa dalle eresie. Carafa fu il primo presidente.
Uno dei primi provvedimenti da Pontefice fu quello d'innalzare l'inquisizione ad organo di governo della chiesa.
Gian Pietro Carafa, divenuto Paolo IV, chiese l'estradizione di Pomponio de Algerio a Roma.
Il fanatico inquisitore si scontrò con il Consiglio dei Dieci. Il governo veneziano non consegnava i propri cittadini all'Inquisizione romana e poneva serie difficoltà anche per l'estradizione di cittadini d'altri stati. Il tribunale di Padova non emise sentenza nei confronti di Pomponio ma decise di trattenerlo in carcere affinché “potesse lasciare questa sua ostinazione”.
Le pressioni di Paolo IV, Gian Pietro Carafa, furono tali che il 14 marzo 1956 il Senato di Venezia diede il consenso all'estradizione.
Fu rinchiuso nelle carceri del Sant'Uffizio a Roma.
Pomponio de Algerio fu sottoposto ad un secondo processo.
Il ragazzo rifiutò d'abiurare.
Fu dichiarato eretico e condannato a morte.
La sentenza fu eseguita il 19 agosto del 1556.
Benedetto Croce
Del ragazzo scrisse Benedetto Croce: “Pomponio de Algerio da Nola: un martire, dunque, dell'intolleranza ecclesiastica, nato in Nola pochi anni prima che vi nascesse un altro, il cui nome è sulle bocche di tutti, e la cui vita ha tanti punti di somiglianza con quella dell'Algerio. Senza dubbio Giordano Bruno, nella sua fanciullezza, dové udir raccontare con religioso raccapriccio la sorte toccata al suo compaesano, eretico, in Rom chi sa che, fin d'allora, quell'eroica morte non esercitasse confusamente sul suo animo una misteriosa attrattiva; e chi sa se in seguito, nel carcere a Venezia e a Roma, il destino di Pomponio de Algerio non gli tornasse alla mente, come visione del proprio destino, e forse anche come conforto nella lotta contro ogni umana viltà e nel saper morire per la propria fede”.

Fabio Casalini




Bibliografia
Benedetto Croce, Pomponio de Algerio in Id., Aneddoti di varia letteratura, vol. II, Laterza, Bari 1953

Giuseppe De Blasiis, Processo e supplizio di Pomponio de Algerio Nolano in “Archivio storico per le province napoletane”, XIII, 1888

Carlo De Frede, Pomponio Algieri nella riforma religiosa del Cinquecento, Ferentino, Napoli 1972 

Silvia Ferretto, Nuovi contributi su Pomponio Algieri. Le forme del dissenso ereticale nella Padova del Cinquecento in “Studi Veneziani”, n.s., XLIX, 2005

Silvia Ferretto, In margine ad un fascicolo processuale (1558–1561): Ippolito Craya, Pomponio Algieri e la cultura padovana nel XVI secolo in Achille Olivieri (a cura di), Le trasformazioni dell’Umanesimo fra ‘400 e ‘700: evoluzione di un paradigma, Unicopli, Milano 2008


Camminando in montagna

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Negli ultimi anni la “passione montagna” è esplosa nel cuore di molti italiani.
Le camminate di un giorno o più sui sentieri alpini, sono diventate un appuntamento fisso per molti di noi.
Ammirare i panorami che ci offrono le nostre Valli è rigenerante, riempie il cuore e gli occhi di bellezza e di serenità, che possiamo portare con noi per giorni una volta rientrati ai nostri doveri di donne e uomini in attività.
Il filo conduttore che ci porta in giro per tutta Italia, Alpi, Appennini e Isole, sono i percorsi che il CAI traccia con bandierine bianco-rosse, grazie anche all’aiuto e al contributo costante dei propri associati.
La rete di sentieri in Italia è una delle più vaste di tutta Europa. È anche ricca di storie e di vita vissuta dai nostri antenati che, lungo i valichi alpini, si aprivano varchi alla ricerca di nuovi territori o per trasportare merce in modo più o meno lecito. Furono i primi a segnare i tracciati fra un alpeggio e l’altro o fra una montagna e l’altra.
In totale in CAI, Club Alpino Italiano, ha selezionato circa 60.000 Km. di sentieri.
Il suo regolamento interno prevede “la diffusione della frequentazione della montagna e delle escursioni, anche in forma collettiva, costruendo e mantenendo in efficienza strutture ricettive e sentieri”, con l’impegno di “provvedere al tracciamento, alla realizzazione e alla manutenzione di sentieri, opere alpine e attrezzature alpinistiche”.
Da parte nostra, escursionisti più o meno esperti, la cosa importante è rispettare la segnaletica, non cercare scorciatoie, lasciare intatta la natura che ci circonda non raccogliendo fiori e piante, portare a casa tutti nostri rifiuti e gli avanzi, mozziconi di sigarette compresi.
La montagna è amica, ma va trattata con rispetto.
Partire attrezzati, preparati ad un cambio del tempo, studiare il percorso o almeno informarsi prima. Non affrontiamo la gita come un’avventura al buio.
Le nostre Valli dell’Ossola offrono paesaggi davvero unici, con camminate di tutti tipi, dalle più facili alle più impegnative. Ci sono zone ancora poco esplorate, adatte solo ad escursionisti esperti, e zone facilmente raggiungibili che offrono anche la possibilità di mangiare in compagnia i piatti tipici della zona in rifugi attrezzati e confortevoli.
Alcuni di noi vivono la montagna in solitudine, altri in gruppo. La cosa che conta secondo me è trovare il giusto compagno di viaggio, che sia un amico umano o a quattro zampe, oppure una macchina fotografica che ci permetta di immortalare e rendere eterne immagini e istanti che ci arricchiscono nel percorso.
Il viaggio conta, ma conta anche quale viaggiatore ci accompagna: condividere la meta, la gioia della natura che ci circonda, l’entusiasmo per il panorama, per un fiore o una farfalla, per gli animali selvatici che incrociamo sul nostro cammino, arrivare in cima e stringersi la mano.
La fatica, più meno intensa che si fa, è ripagata dalla meta, dal paesaggio, dal cielo blu e dalle nuvole che corrono veloci, creando giochi di luci e ombre.
Le fioriture che ci accompagnano sono diverse a seconda dalla stagione, con una varietà davvero notevole di specie. Si possono ammirare anche moltissime farfalle, variopinte e assetate di nettare, tra cui l’Erebia Christi o Farfalla dei Ghiacciai, una delle farfalle più rare d’Europa e tra le meno studiate, presente nell’arco alpino e nella Svizzera Meridionale. La sua livrea, marrone ed arancione, la rende facilmente riconoscibile.
Molte delle nostre valli ospitano laghi naturali ed artificiali, rendendo ancora più bello il nostro territorio.
I torrenti scorrono impetuosi, più o meno carichi d’acqua, formando in alcuni casi cascate davvero imponenti e suggestive, come quella della Frua, meglio conosciuta come cascata del Toce, fiore all’occhiello della Valle Formazza.
Da sempre meta di visitatori illustri, fra cui Richard Wagner, Gabriele D'Annunzio, la Regina Margherita, il Re Vittorio Emanuele III, Giosuè Carducci, con i suoi 143 mt di altezza è fra le più alte in Europa.
Questo e molto altro offrono le nostre montagne.
Da ossolana innamorata del proprio territorio, posso solo in parte raccontare la magia che si crea fra chi cammina nella natura e la natura stessa.
Il silenzio è fatto di vento. La gioia è fatta di montagna con tutto quello che racchiude.
Cerchiamo di apprezzare il nostro territorio. Valorizziamolo. Rispettiamolo.
È la nostra più grande ricchezza e per mantenerla non ci vogliono grandi sforzi, ci vuole solo “passione montagna".

Rosella Reali


Lo scrigno prezioso di Sant'Ugo a Montegranaro

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L’italia è piena di gioielli seminascosti. E’ banale dirlo ma è vero, e alcuni di questi sono senza dubbio poco conosciuti rispetto al loro valore e alla bellezza di cui sono portatori.
Uno di questi ho avuto la fortuna di visitarlo con tutta la calma e l’attenzione necessarie, grazie alla cortesia e alla competenza di Luca Craia, un amico della Associazione Arkeo che ne garantisce la tutela e ne permette le visite gratuite con l’impegno dei suoi volontari, fra le mille difficoltà che vengono frapposte da amministrazioni locali e centrali spesso poco disponibili e ancor meno lungimiranti.
Il gioiello di cui vi parlo è la chiesa di S.Ugo, detta anche impropriamente cripta o criptoportico, nel piccolo paesino di Montegranaro, nelle Marche (siamo nel Fermano, molto vicini a Recanati e alla patria del nostro più grande poeta, in una zona piena di bellezze che vanno dall’epoca romana a quella medievale fino a ben oltre il Rinascimento).
Si tratta di un edificio che risale originariamente ai primi insediamenti cristiani della zona, intorno al 900. Agli esordi rappresentava una piccola chiesa isolata fuori dalle mura del villaggio, poi collegata tramite una piccola galleria ad una chiesa più grande costruitale a fianco, e infine inglobata, nel 1700, nella attuale chiesa dei SS. Filippo e Giacomo.
Proprio a questi santi era originariamente intitolata, finché poi non venne definitivamente “assegnata” a Sant’Ugo da Serra San Quirico, un monaco che a Montegranaro pare risiedette esercitando la sua attività spirituale e non disdegnando qualche miracolo.
La piccola chiesa ha una struttura semplice e archetipica, una navata unica, stretta e lunga, con una volta a botte che la sovrasta per tutta la lunghezza. Lunghezza che, tanto per dare anche qualche dato tecnico, è di 26,40 metri per una larghezza di soli 3,40 metri e una altezza che non supera mai i 4,40 metri.
Quello che però nasconde in questo spazio quasi rudimentale è un’autentica sequenza di meraviglie. Lungo le pareti, sui soffitti e per tutto l’abside è ricoperta da un ciclo di magnifici affreschi che partono dal 1200 per arrivare a superare il 1500. Praticamente un compendio di storia dell’arte e in particolare della pittura sacra concentrato in pochi e sfavillanti metri quadri.
Per la precisione, gli affreschi sono divisibili in tre cicli distinti: uno databile con esattezza al 1299, il secondo posizionabile intorno al 1300 e il terzo ed ultimo in pieno 1500.
Sono affreschi non comuni e di valore artistico notevole. In particolare il primo, attribuito ad un anonimo “maestro di Montegranaro”, è un vero capolavoro, e sebbene alcune parti siano notevolmente danneggiate, dalle restanti ancora in buono stato emergono in più punti particolari di grande finezza e di notevole raffinatezza pittorica.
I temi trattati sono vari, da avvenimenti specifici della storia dei Santi celebrati nel luogo a rappresentazioni simboliche di rara forza, come ad esempio una maestosa crocefissione dove al posto la croce c’è uno sfavillante albero della vita, dando vita ad scena originalissima e altamente allegorica.
Nel ciclo successivo si riconoscono i tratti dell’arte ormai influenzata dall’iconografia bizantina, e nel cielo stellato e in altri particolari (ad esempio nella scena del battesimo di Gesù) si riconoscono i richiami dei più famosi cieli musivi dei capolavori di Ravenna.
Altro particolare notevole, nella scena della natività, i cammelli che accompagnano i Re Magi, evidentemente riprodotti in base a racconti di terze parti ma quasi certamente mai visti dal vivo dagli artisti che realizzarono gli affreschi, vista la loro bizzarra raffigurazione.
Gli affreschi sono talmente zeppi di particolari e di richiami storici ed artistici che nessun articolo riuscirebbe ad esaurirne anche in minima parte la descrizione. Anche per questo è particolarmente consigliabile andare a rendere omaggio a questo piccolo gioiello, perché oltre all’ovvia necessità di vedere sempre le cose dal vivo, la visita guidata offerta dall’associazione che gestisce la chiesa è una vera miniera di informazioni e di indicazioni che anche ad un visitatore attento sfuggirebbero.
Per me posso dire di aver potuto godere, oltre che della simpatia e competenza del mio anfitrione, della particolarità quasi unica di visitare questo luogo magico una sera d’inverno, nel silenzio quasi irreale delle colline marchigiane e senza nient’altro a riempire la “cripta” che le nostre rispettose presenze e l’esuberanza dei capolavori che la riempiono.
So per certo che comunque in qualunque condizioni la si vada a visitare, la visione vale il viaggio e lascia nell’amante dell’arte e della storia un ricordo limpido, ricco e pieno di curiosità per le tante meraviglie che il nostro paese ancora conserva e a volte, colpevolmente, nasconde.

[In chiusura, ancora un grazie a Luca Craia e ad Arkeo Montegranaro per la visita e per l’occasione avuta di effettuare gli scatti che corredano questo articolo. Per chi volesse chiamare per la visita il numero dell’associazione è 342.5324172]

Alessandro Borgogno

La morte dell'ultimo imperatore Inca, condannato al rogo dall'invasore spagnolo

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Nel 1512, vent'anni dopo il primo sbarco di Colombo sul continente americano, una navigatore spagnolo, Vasco Nunez de Balboa, partì dall'Istmo di Darien, l'attuale Panama, a capo di una spedizione esplorativa diretta a Sud, nel bacino che si estende tra la Cordigliera delle Ande e la costa dell'Oceano Pacifico.
La bramosia dei conquistadores spinse Balboa a sud alla ricerca del fantastico regno di El Dorado. L'esplorazione del navigatore spagnolo collassò poco dopo a causa di un complotto, di cui lo stesso Balboa rimase vittima. Dieci anni dopo un altro esploratore, Pascual de Andagoya, raggiunse le coste della Colombia e dell'Ecuador, entrando in contatto per la prima volta con le popolazioni della magnifica terra conosciuta come Sud America.
I primi approcci avvennero durante la guerra civile tra le truppe di Atahualpa, che risiedeva a Nord vicino a Quito, e Huascar, che dominava dall'antica Cuzco. Tutto ebbe inizio quando Atahualpa inviò una delegazione alla corte del fratello, Huascar, per assicurare la propria fedeltà ma anche per chiedere una maggiore indipendenza. Gli ambasciatori furono torturati e condannati alla pena capitale, tutti tranne uno che aveva il compito di tornare da Atahualpa per riportare gli ordini di Huascar: il regnante di Quito doveva recarsi a Cuzco e consegnare degli abiti femminili che avrebbe indossato all'atto del suo ingresso nella città.
Così ebbe inizio la guerra civile tra le popolazioni dell'impero Inca.
Malgrado la preponderanza dell'esercito di Huascar, si giunse alla cattura del comandante supremo da parte delle forze di Atahualpa grazie ad un efficace stratagemma: Huascar si spinse audacemente contro il nemico con le insegne spiegate; il comandante di Atahualpa, Chalcochima, lo riconobbe e concentrò tutte le truppe verso il luogo in cui Huascar risiedeva con un piccolo drappello di uomini. Con un audace colpo di mano, le truppe di Quito riuscirono a catturare vivo Huascar.
Quando giunse la notizia della vittoria, Atahualpa non mostrò troppo desiderio di recarsi a Cuzco.
Il motivo di tale decisione?
Il sovrano di Quito era stato avvertito dell'arrivo di strane genti provenienti da Nord, giunte dal mare su enormi case galleggianti. I resoconti parlavano di una razza straniera, bianca e barbuta, con strani bastoni lucenti che provocavano il tuono e la folgore e con enormi animali dai piedi d'argento.
I bastoni lucenti altro non erano che gli archibugi, gli animali con i piedi d'argento erano i cavalli al seguito delle truppe spagnole.
Le informazioni che seguirono le prime indicazioni tranquillizzarono il regnante, poiché i bastoni d'argento non erano micidiali come pensato all'inizio perché dovevano essere ricaricati ogni volta e gli animali dai piedi d'argento non potevano agire di notte e, soprattutto, non uccidevano nessuno.
Anche il numero degli uomini bianchi con la barba era esiguo, qualche centinaio.
Atahualpa decise d'attendere gli stranieri a Cajamarca, protetto da circa 80.000 uomini.
Francisco Pizarro giunse a Cajamarca il 15 novembre del 1532.
Nei giorni seguenti decise d'inviare due ambasciatori, scortati da un drappello di soldati. I due cavalieri, Hernando de Soto e Hernando Pizarro, furono accolti da Atahualpa con calici d'oro e bevande dissetanti. I due spagnoli invitarono il regnante ad una cena con il comandante in capo della spedizione. Il sovrano all'inizio respinse l'invito, ma ripromise di fare visita agli stranieri il giorno seguente.
Come promesso, Atahualpa arrivò a Cajamarca sul far della sera. Scortato da numerosi sudditi disarmati decise d'entrare nella città, ma all'ultimo momento s'arrestò. Pizarro decise d'inviare uno spagnolo che conosceva alcune parole della lingua parlata dal sovrano, Quechua, per convincerlo ad entrare. Atahualpa entrò nella piazza principale, sempre scortato dal numeroso seguito. Brevi istanti ed un frate si fece incontro al regnante. Il prete, Vicente de Valverde, si presentò come uomo mandato da Dio, dicendo al sovrano di Quito che il Papa aveva inviato gli spagnoli nelle loro terre perché potessero convertirsi al cristianesimo. Per questo motivo l'impero Inca avrebbe dovuto riconoscere l'autorità di re Carlo I di Spagna.
Atahualpa rispose che non avrebbe chinato il capo di fronte a nessuno, chiedendo da quale potere derivasse una simile richiesta. Il prete gli mostrò una Bibbia. Il sovrano la prese e l'accostò all'orecchio per ascoltare, non sentendo alcun suono la gettò per terra e chiese una spiegazione sulla presenza degli stranieri nell'impero Inca.
Il frate raccolse la Bibbia e corse da Pizarro per raccontare l'accaduto, descrivendo Atahualpa come un cane orgoglioso.
Il comandante spagnolo non attendeva altro che un gesto per sferrare l'attacco al sovrano. Il frate incitava le truppe, indignato dal fatto d'aver visto gettate per terra quella che considerava le sacre scritture.
Il frate, Vicente de Valverde, non si limitava ad incitare le truppe, ma impartì una preventiva benedizione, assoluzione compresa, per i crimini che avrebbero commesso in battaglia.
I soldati spagnoli si lanciarono selvaggiamente sui sudditi disarmati di Atahualpa, uccidendoli a migliaia grazie alle loro armi tecnologicamente superiori e all'effetto sorpresa dell'agguato sulla piazza principale di Cajamarca.
Almeno 5000 amerindi persero la vita nella ferocia dell'agguato.
Un numero enorme pensando che gli spagnoli erano 160.
Atahualpa rimase sempre in piedi sulla lettiga sorretta dai suoi nobili più fedeli. Gli spagnoli cercavano di catturarlo ma si trovavano di fronte un muro umano. Alla fine Pizarro riuscì ad afferrare il regnante ad una gamba, proprio nel momento in cui un soldato spagnolo sferrò un fendente per colpire Atahualpa.
Il comandante spagnolo risultò l'unico ferito nei combattimenti di Cajamarca.
Il regnante Inca fu trasportato velocemente in un luogo sicuro, nel Tempio del Sole della città. Il sovrano propose uno scambio a Pizarro: per la propria libertà avrebbe fatto riempire la stanza in cui era imprigionato di metalli preziosi. Atahualpa si era accorto dell'ingordigia con cui il comandante spagnolo guardava i manufatti d'oro e d'argento degli Inca.
Pizarro accettò, facendo redigere un regolare contratto dal notaio della spedizione.
In realtà non aveva nessuna intenzione di liberare Atahualpa, ma l'Inca convinto dagli spagnoli diede ordine di portare tutto l'oro e l'argento necessari per il riscatto.
Durante la permanenza in custodia, ad Atahualpa fu permesso di tenere una piccola corte a Cajamarca. L'imperatore Inca imparò rapidamente il gioco dei dadi e quello degli scacchi; si dimostrò estremamente interessato alla scrittura ed alla storia spagnola.
Durante la prigionia dell'imperatore, Pizarro fu profondamente combattuto tra il desiderio d'onorare la parola data ed il mancato rispetto dell'accordo. Pizarro si piegò di fronte alle insistenze del frate spagnolo, Vicente de Valverde, il cattolico che si era presentato al regnante spiegando che doveva credere immediatamente ad un Dio diverso dal suo, venuto da terre che nemmeno immaginava esistessero.
Atahualpa fu processato da un ristretto numero di capitani.
Furono mosse accuse risibili all'indirizzo dell'imperatore Inca.
Fu giudicato colpevole.
La pena che spettava ad Atahualpa era il rogo.
Vincente de Valverde, il prete spagnolo, sino all'ultimo chiese all'imperatore di convertirsi, poiché questo atto avrebbe mitigato la pena: sempre di morte si sarebbe trattato, ma almeno avrebbe evitato il rogo.
Dato che la religione Inca aborriva la distruzione del cadavere, Atahualpa decise di farsi battezzare.
Non fu bruciato sul rogo ma giustiziato mediante garrota.
Atahualpa fu ucciso selvaggiamente il 26 luglio del 1533.
Dopo la sua morte l'impero fu governato dal giovane Tupac Huallpa e successivamente da Manco Inca Yupanqui.
La scomparsa di Atahualpa comportò la fine dell'Impero Inca poiché gli spagnoli erano prossimi alla conquista definitiva del Perù.

Fabio Casalini


Bibliografia

L. Andrade Reimers Biografia de Atahualpa Quito 1977

Benjamin Carrion Atahualpa Quito 1999

P. y A. Costales El reino de Quito Quito 1992

W. Espinosa Soriano Los Incas Lima 1997

L. Guzman Palomino Los Incas - Hurin contra Hanan Lima 1977

Franklin Pease G.Y. Los ultimos Incas del Cuzco Madrid 1991

Franklin Pease G.Y. Los Incas Lima 2003




    Il manoscritto Voynich, il libro più misterioso del mondo

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    Wilfrid Michael Voynich nacque a Grodno, nell'impero Russo, il 12 novembre del 1865 da una nobile famiglia polacco-lituana. Nel 1885 si unì alla rivoluzione del proletariato polacco e l'anno seguente, malgrado un'inutile tentativo di fuga, fu arrestato e incarcerato a Tunka, in Siberia.
    Nel 1890 riuscì a fuggire dalle fredde terre russe, trovando riparo a Londra. Qualche anno dopo conobbe la figlia rivoluzionaria del famoso matematico inglese Boole, Ethel Lilian. Nel 1893 i due ragazzi si sposarono, mantenendo inalterato l'impegno rivoluzionario. 
    Ogni ideale ha un tempo e una data di scadenza.
    Nel 1898 aprirono una libreria a Londra, seguita qualche anno dopo da una seconda a New York, cessando qualsiasi impegno politico.
    Molti non conoscono Voynich e si chiederanno perché abbia tracciato brevemente la sua biografia.
    Per comprendere l'importanza del personaggio dobbiamo risalire la linea del tempo e dello spazio.
    1912, Frascati.
    Durante un viaggio in Italia, per fare visita ad un suo contatto, Voynich giunse nella città laziale dove ebbe modo di esaminare una collezione di libri antichi in possesso dei Gesuiti. L'ordine era intenzionato a venderne una parte per restaurare una Villa. L'antiquario polacco trattò l'acquisto di circa 30 libri, da cui un manoscritto misterioso. All'interno del libro fu rinvenuta una lettera inviata nel 1666 da Johannes Marcus Marci ad Athanasius Kircher. Il manoscritto fu inviato a Kircher, poligrafo, affinché lo decifrasse. Nella lettera Marci affermava di aver ereditato il manoscritto medievale da un suo amico alchimista e che il precedente proprietario, l'imperatore Rodolfo II, lo aveva acquistato per una cifra molto elevata credendolo opera di Ruggero Bacone, in inglese Roger Bacon e ampiamente noto con l'appellativo latino di Doctor Mirabilis.
    Tornato negli Stati Uniti, tra il 1915 ed il 1921 Voynich espose a Chicago e Philadelfia il misterioso manoscritto, senza rilevare al pubblico l'origine.
    Alla morte dei coniugi Voynich, Ethel Lilian si spense nel 1960, il libro passò di mano in mano sino al 1969 quando fu regalato all'università di Yale, che risulta esserne l'attuale proprietario.
    Il manoscritto Voynich è un codice illustrato risalente al XV secolo. La datazione del misterioso libro è stata oggetto di molte interpretazioni, l'utilizzo del radiocarbonio ha permesso di stabilire con totale certezza che il manoscritto è stato redatto tra il 1404 e il 1438. Fino agli inizi del 2011 si ipotizzava che il manoscritto fosse un falso del XVI secolo, creato ad arte per spillare soldi all'imperatore Rodolfo II. Secondo questa ipotesi, caduta con la datazione la radiocarbonio, il truffatore sarebbe stato il mago e astrologo inglese Kelley, aiutato dal famoso filosofo John Dee.
    Il libro presenta un sistema di scrittura che a tutt'oggi non è stata decifrato, inoltre contiene immagini di piante che non sono identificabili con nessun vegetale attualmente noto e l'idioma usato nel testo non appartiene ad alcun sistema alfabetico-linguistico conosciuto.
    Robert Brumbaugh, vincitore di svariati premi inerenti le scienze umane, ha definito il manoscritto Voynich come “il libro più misterioso del mondo”.
    Il volume, scritto su pergamena di capretto, è di dimensioni ridotte: 16 cm di larghezza, 22 di altezza e 4 di spessore.
    Consta di 102 fogli, per un totale di 2014 pagine.
    Si ritiene che originariamente comprendesse 116 fogli.
    Fa da corredo al testo una notevole quantità di illustrazioni a colori, che ritraggono i più svariati soggetti.
    La prima sezione del libro, chiamata botanica, contiene 113 disegni di piante sconosciute.
    La seconda sezione, detta astronomica, presenta 25 diagrammi che sembrano richiamare le stelle.
    La terza sezione, chiamata biologica, contiene numerose figure femminili nude, spesso immerse sino al ginocchio in vasche contenenti un liquido scuro.
    La quarta sezione, detta farmacologica, contiene immagini di ampolle e fiale della stessa forma dei contenitori utilizzati dalle antiche farmacie.
    L'ultima sezione del libro non contiene immagini, fatto salvo per delle stelline a sinistra delle righe: questa raffigurazione porta a pensare che possa trattarsi di un indice.
    Nel corso del tempo molti studiosi si sono cimentati nella lettura del testo per offrire uno spunto di riflessione ed azzardate ipotesi.
    Dopo la datazione la radiocarbonio due ipotesi sono state avanzate nel corso degli anni.
    Secondo un'approfondita ricerca di National Geographic, il manoscritto sarebbe opera di Antonio Arvelino, detto il Filarete, a scopo di spionaggio industriale ai danni della Serenessima a favore della Sublime Porta, ossia la Porta Superiore o Suprema che rappresenta uno degli elementi architettonici più noti del Palazzo Topkapi ad Istanbul, antica residenza del sultano ottomano. L'espressione, nel corso dei secoli, è stata utilizzata come metafora per indicare il governo dell'impero ottomano.
    Nel febbraio del 2014 Stephen Bax, professore di linguistica all'Università del Bedfordshire, ha pubblicato i risultati di una sua ricerca, in cui propone la decodifica provvisoria di circa 10 parole, nomi propri di piante e della costellazione del Toro. Inoltre propone la decodifica di 14 simboli dell'alfabeto del manoscritto. 
    L'opinione di Bax è che il manoscritto non sia cifrato e nemmeno privo di senso come è stato, spesso, ipotizzato ma un testo prodotto nell'area del Caucaso, scritto in una lingua o dialetto estinto, con un proprio alfabeto, andato scomparso. A supporto della sua tesi Bax cita l'alfabeto glagolitico, creato dai santi Cirillo e Metodio per esigenze fonetiche dell'antico slavo, sostituito nei secoli a seguire dal cirillico. Questo alfabeto è a noi intellegibile perché sopravvive nella liturgia della Chiesa della Croazia.
    Il manoscritto Voynich affascina e interessa generazioni di studiosi, ricercatori o semplici lettori, tanto che è spesso utilizzato come elemento di film, romanzi e fumetti, non ultimo un'avventura di Martin Mystere, Obiettivo Apocalisse, dove il ricercatore della Sergio Bonelli Editore è alle prese con monaci benedettini, francescani, serial killer e Atlantide.

    Fabio Casalini

    Bibliografia
    E. D'Imperio, The Voynich Manuscript: An Elegant Enigma, National Security Agency/Central Security Service, 1978 

    (EN) Robert S. Brumbaugh, The Most Mysterious Manuscript: The Voynich 'Roger Bacon' Cipher Manuscript, 1978 

    (EN) John Stojko, Letters to God's Eye, 1978 

    Paolo Cortesi, Manoscritti segreti, Roma, Newton & Compton, 2003

    Aldo Gritti, I custodi della pergamena proibita, Milano, Rizzoli, 2012 

    Roberto Volterri e Bruno Ferrante, I Libri dell'Abisso, Aprilia (LT), Eremon, 2014 

    Claudio Foti, Il Codice Voynich (seconda ed), Aprilia (LT) Eremon, 2015 

    Fabio Fornaciari, Voynich un Falso? No, grazie!, Montevarchi (AR) Harmakis Edizioni 2017






    Il gruppo Bilderberg e la storia della teoria del complotto

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    Il gruppo prende il nome dall'hotel de Bilderberg di Oosterbeek dove, il 29 maggio del 1954, si tenne la prima conferenza su iniziativa del banchiere statunitense David Rockefeller. La prima riunione avevo lo scopo di favorire la cooperazione tra Europa e Stati Uniti a livello politico, economico e militare.
    Gli organizzatori, e i primi partecipanti, ritenevano necessario un evento di queste proporzioni a causa del nascente e dilagante antiamericanismo presente nell'Europa occidentale. Per la prima conferenza furono contattati il principe van Lippe-Biesterfeld ed il primo ministro belga Van Zeeland, che a loro volta coinvolsero il capo dell'Unilever, l'olandese Rijkens e il capo della CI, Smith. La primaria organizzazione prevedeva d'invitare 2 partecipanti per ogni nazione, uno per la parte liberale e uno per la parte conservatrice. Il 29 maggio del 1954 parteciparono 50 delegati di undici nazioni europee e 11 delegati degli Stati uniti.
    Hotel de Bilderberg dove avvenne il primo incontro del gruppo
    Il successo del primo incontro spinse gli organizzatori a pianificare delle conferenze annuali. Fu istituita una commissione permanente che si occupava dello svolgimento dei lavori e dell'organizzazione delle conferenze.
    Attualmente il gruppo, che si riunisce annualmente, non s'incontra nell'hotel della fondazione ma in resort di lusso sparsi nelle varie parti del mondo. Le conferenze avvengono una volta ogni 4 anni negli Stati Uniti o in Canada e negli anni restanti in varie nazioni europee. L'incontro annuale, ad inviti, è giunto a contare 130 partecipanti, la maggior parte dei quali sono personalità in campo economico, politico e bancario.
    Il gruppo Bilderberg ha un ufficio a Leida, nei Paesi bassi. I nomi dei partecipanti sono resi pubblici attraverso la stampa, che non può accedere allo svolgimento dei lavori. Dato che le discussioni avvengono a porte chiuse e non sono mai registrate o riportate all'esterno, questi incontri hanno generato diverse critiche e spinto molte persone ad avanzare teorie del complotto. Gli organizzatori spiegano che la scelta è motivata dall'esigenza di garantire ai partecipanti maggiori libertà di parola e di consentire ad ognuno di loro di esprimere in piena libertà la propria opinione, senza doversi preoccupare che le parole possano essere travisate dai media.
    Il gruppo Bilderberg possiamo identificarlo come il segreto del potere dell'economia mondiale e della finanza globale. Il fatto che intorno ad esso, per volontà stessa degli organizzatori e dei partecipanti, vi sia il massimo riserbo, rivela il vero carattere del gruppo, secondo i fautori della teoria del complotto: formare un governo occulto che opera nell'ombra, determinando le linee generali della politica internazionale.
    Mappa con i partecipanti divisi per nazione
    Perché molti giornalisti e scrittori pensano che rappresenti un governo occulto?
    Molto semplicemente se non conosciamo gli argomenti e le discussioni all'interno delle conferenze, possiamo comprendere quali siano gli interessi di questa ristretta cerchia elitaria, che coincidono con quelli della finanza e del capitalismo globale.
    A cosa servirebbe il gruppo Bilderberg?
    Forse la verità sta nelle parole del primo organizzatore, David Rockefeller, il quale nel 1991 si spinse a manifestare l'idea che una sovranità sovranazionale esercitata da una èlite intellettuale e da banchieri mondiali sia senza dubbio da preferire alla tradizionale autodeterminazione delle nazioni.
    La teoria del complotto maggiormente conosciuta è quella sostenuta da Daniel Estulin nel libro Il Club Bilderberg.
    Lo scrittore lituano affermò che “nel 1996 cercarono di uccidermi, nel 1998 di sequestrarmi, nel 1999 di corrompermi, nel 2000 di arrestarmi, e l'anno dopo mi offrirono un assegno in bianco se avessi taciuto una volta per tutte”.
    Le tesi di Estulin, ampiamente espresse nel suo libro, sono le stesse che oggi possiamo leggere su ogni quotidiano o blog: la sua inchiesta giornalistica tende a dimostrare che il gruppo Bilderberg avrebbe lo scopo di influire sulle dinamiche economico-politiche internazionali per favorire gli interessi dei componenti stessi del gruppo.
    Attualmente la conferenza è organizzata da una commissione permanente, chiamata Steering Committee, della quale fanno parte due membri di circa 18 nazioni diverse. Oltre la presidente della commissione è prevista la figura di segretario generale onorario. Non esiste invece la figura di membro del gruppo ma solo quella di membro della commissione permanente, ossia member of the Steering Committee.
    Articolo del Toronto Star dedicato al gruppo Bilderberg
    Le opinioni dello scrittore lituano non distano che pochi centimetri dalla teoria del complotto del nuovo ordine mondiale, o NWO acronimo dell'inglese new world order. Questa teoria del complotto presume che un gruppo di potere oligarchico, ristretto e segreto, si adopererebbe per prendere il controllo di ogni paese del mondo, con il pieno totalitarismo, al fine di ottenere il dominio della Terra. Quindi il gruppo Bilderbergaltro non sarebbe che un ristrettissimo nucleo di persone che vorrebbe porre in atto il complotto generale del NWO.
    Una domanda mi sorge spontanea: se così fosse perché lo si riunirebbero davanti agli occhi del mondo diramando la lista degli invitati?
    Si potrebbe sostenere che il fatto di rendere pubblici gli incontri, ma non il contenuto, sia il miglior modo di nascondere il segreto.
    Il New World Order non è un'idea di questi anni difficili e complesso, basti pensare che già nel 1861, con il libro I Napoletani al cospetto delle nazioni civili, e nel 1863, con il libro Storia delle Due Sicilie, lo storico Giacinto de' Sivo avanzava la teoria della Setta Mondiale e della Massoneria e Setta Mondiale.
    Addirittura il nome, new world order, sarebbe in vita dagli inizi del XIX secolo per mano di Cecil Rhodes, uomo d'affari, che teorizzava che l'impero britannico, allora esistente, e gli Stati Uniti d'America dovessero creare un unico governo federale sulla Terra al fine di costruire la pace nel mondo. Un seguace di Rhodes, Lionel Curtis, fondò la tavola rotonda di Rhodes-Milner, nel 1909, che condusse alla creazione dell'Istituto reale per gli Affari Internazionali nel Regno Unito e al Council on Foreign Relationsnegli Stati Uniti.
    Non è detto che queste due organizzazioni non siano la base per la costituzione della Società delle Nazioni.
    Nel corso degli anni i complottisti hanno cercato fondamento alla teoria del NWO, trovandolo, secondo loro, nelle parole di alcuni presidenti degli Stati Uniti. Il primo caso è quello di Gerald Ford che in una dichiarazione del 1975 avrebbe sostenuto che “dobbiamo unirci per costruire un nuovo ordine mondiale. Al meschino concetto di sovranità nazionale non deve essere permesso di distoglierci da questo obiettivo”.
    Un secondo fondamento lo possiamo trovare, secondo i fautori della teoria del complotto, nelle parole di George H.W. Bush in una dichiarazione del 1990, dove vengono descritti gli obiettivi degli Stati Uniti per la cooperazione con la Russia. Il presidente, lo stesso che riteneva i Talebani un gruppo musicale rock, utilizzò esplicitamente la terminologia NWO.
    Tornando al gruppo Bilderberg, vorrei ricordare che tra i 130 partecipanti, che si sono riuniti agli inizi di giugno a Chantilly negli Stati Uniti, vi erano il segretario generale della nato, Stoltenberg, l'ex vicedirettore della Cia, Cohen, il presidente della banca Goldman Sachs ed il direttore del fondo monetario internazionale. Christine Lagarde.
    Per l'Italia erano presenti John Elkann, Lilli Gruber e Beppe Severgnini.
    Negli anni precedenti parteciparono eminenti personalità, tra le quali Draghi, Ciampi, Monti, Umberto Agnelli, Cossiga e Giovanni Agnelli.
    Si potrebbe dire mala tempora currunt per il nostro paese.
    Una domanda vorticosamente circola nella mia mente: non capisco quale sia il motivo per cui, almeno per l'Italia, abbiano partecipato due giornalisti dato che il loro lavoro dovrebbe essere quello di raccontare la verità e, ricordo, da queste riunioni nulla può essere riportato all'esterno.
    Per tutti coloro che sostengono la teoria del complotto: siete sicuri che il gruppo Bilderbergpossa dominare il mondo?

    Fabio Casalini


    Bibliografia

    Diego Fusaro, Gruppo Bilderberg, ecco chi governa davvero il mondo, Il Fatto quotidiano del giorno 8 febbraio 2016

    Daniel Estulin, Il Club Bilderberg, traduzione di Manuel Zanarini, L'Arianna editrice, 2009

    Gianluca Ferrara, Il gruppo Bilderberg riunito in Virginia, rompere il silenzio intorno a questa cupola, Il Fatto quotidiano del 3 giugno 2017








    Una masca sotto processo. Il caso delle donne di Rifreddo e Gambasca

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    Durante il primo periodo della storia moderna, dal 1450 al 1750, migliaia di persone furono processate per il reato di stregoneria: oltre la metà di loro fu condannata a morte, solitamente il rogo.
    La grande caccia alle streghe in Europa fu essenzialmente un’operazione giudiziaria. L’intero processo di scoperta ed eliminazione delle streghe, dalla denuncia alla condanna, si svolgeva nell’ambito e sotto il controllo del sistema giudiziario. Tale sistema era talmente penetrante negli animi dei giudicati che molte donne, accusate di stregoneria si tolsero la vita, pur di sottrarsi al meccanismo infernale. Occorre ricordare che alcuni studiosi hanno formulato l’ipotesi, fantasiosa ed inverosimile, che le streghe si togliessero la vita per sfuggire al controllo del demonio: per sottoscrivere quest’affermazione occorrerebbe insinuare il dubbio che il demonio possa esistere. Nel periodo della grande caccia alle donne, accusate di stregoneria, non sempre i tribunali riuscirono a tenere sotto controllo gli abitanti dei villaggi, i quali molte volte decisero che la soluzione migliore, e più veloce, era quella di ricorrere alla giustizia sommaria: formavano dei comitati di salute pubblica ed in preda all’eccitazione giustiziavano le povere donne sommariamente. Voglio inserire in questa situazione un’affermazione di Brian P. Levack: “Si può ipotizzare con una certa chiarezza che la netta maggioranza delle persone giustiziate per stregoneria, durante la grande caccia, fu processata e condannata in maniera formalmente legale”. Dobbiamo fare uno sforzo e fermare il dolore che sale dalle viscere. Una religione non dovrebbe perseguire l’obiettivo, chiaro e netto, di processare, torturare ed infine giustiziare, per il giusto tramite del braccio secolare, delle povere persone la cui unica colpa è di appartenere, spesso ma non sempre, alle categorie emarginate della società. Non mi soffermo sulle leggi relative all’eliminazione di lebbrosi ed ebrei del periodo compreso tra il Trecento ed il Quattrocento, non è questo l’ambito idoneo. Nel mio lungo peregrinare per i secoli passati sono giunto ad una semplice conclusione: se non si fosse creata l’evoluzione culturale e giuridica, la caccia alle streghe non sarebbe esistita, perlomeno nella forma e nelle dimensioni che finì per assumere. Uno dei primi casi, documentato dallo studioso Grado Giovanni Merlo, è quello relativo alle donne di Rifreddo e Gambasca, località all'imbocco della valle del Po non lontana da Saluzzo.
    Negli ultimi mesi del 1495, esattamente il giorno 4 di ottobre del 1495, l'inquisitore Vito dei Beggiami iniziò la propria azione giudiziaria proclamando il tempus gratiae attraverso la pubblicazione di alcune lettere monitorie. Gli scritti furono portati alla conoscenza della popolazione attraverso l'esposizione nelle chiese delle stesse località. A cosa serviva il tempus gratiae? Durante i tre giorni, tutte le persone che si ritenevano coinvolti nell'eresia erano tenuti a presentarsi davanti all'inquisitore per confessare quanto sapevano di se o degli altri, ricevendo l'assoluzione da qualsiasi reato di fede. Il tempo delle grazie aveva lo specifico scopo di ottenere informazioni e di portare al pentimento gli eretici. All'esaurimento dei tre giorni, l'inquisitore proseguiva la propria indagine sulla base delle informazioni ricevute. L'inquisitore Vito dei Beggiami, nelle località dell'attuale provincia di Cuneo, ritiene di trovarsi di fronte a numerosi casi di eresia e apostasia, che assume la forma della stregoneria femminile.
    Il giorno 4 di ottobre, l'inquisitore si presenta con tutto il suo carico di titoli.
    Prima di proseguire devo specificare che in tutta la zona subalpina le streghe erano chiamate masche.
    Le delazioni iniziano dallo stesso giorno, 4 ottobre del 1495. Un uomo, Coleto Giordana, si presenta raccontando che “in Gambasca si vociferava in modo aperto e pubblico che Caterina Bonivarda fosse una mascha e che per questo fosse molto temuta dalla popolazione locale”. Alla scadenza del tempo delle grazie, compare di fronte all'inquisitore generale una donna di Rifreddo, Giovanna vedova di Benedetto Motosso. L'interrogatorio alla donna è la testimonianza chiave di questa vicenda, poiché il giorno 8 di ottobre afferma “'d'essere una masca, aderente alla setta delle masche da ben diciotto anni”. Secondo Giovanna, Caterina Bonivarda era aderente alla setta poiché “l'ho vista partecipare ai balli collettivi delle masche, avere rapporti sessuali con il proprio demone e calpestare una croce buttata per terra; le riunioni stregonesche si tenevano sul greto del piccolo fiume”. Un'altra testimonianza a sfavore di Caterina, giunge dalla figlia di Giovanna, Giovannina, che afferma d'essere anch'essa una masca. Nei giorni seguenti, dal 12 al 17 ottobre, seguono le confessioni di altre due donne, masche, di Rifreddo. Le informazioni raccolte dall'inquisitore Vito dei Beggiami raccontano che le riunioni stregonesche avvenivano in due località del territorio di Rifreddo e avevano tre momenti principali: la danza, i rapporti sessuali con i propri demoni e lo spregio della croce.
    L'inquisitore ha acquisito prove sufficienti per procedere contro Caterina Bonivarda, moglie di Bonivardo dei Bonivardi di Gambasca. La donna è accusata d'eresia, di apostasia e di mascaria. Il punto di partenza è la pubblica voce e fama che Caterina sia “eretica e apostata ossia masca da più anni”. Ne consegue che la donna, essendo battezzata, aveva violato l'impegno, previsto dal sacramento, di rinunciare alle opere di Satana e di mantenere e osservare la fede cattolica, dunque avrebbe profanato il sacramento del battesimo. Caterina si era messa la servizio di un demone, venerandolo come signore e maestro, obbedendogli in tutto e pagandogli un censo annuale come segno di fedeltà. Inoltre la donna, per compiacere il proprio demonio, avrebbe commesso molti e vari malefici contro gli uomini e gli animali, per mezzo della sua arte diabolica e malefica.
    Il 19 di ottobre 1495, Caterina Bonivarda si presenta davanti all'inquisitore per rispondere a nove capi d'imputazione a suo carico. Nega ogni addebito, professando false le testimonianze contro di lei. L'inquisitore, insoddisfatto delle risposte, ordina la carcerazione per la donna, con la clemenza di non essere chiusa nei ceppi, che invece durante l'interrogatorio gli serravano i piedi. Il 22 ottobre vi è il secondo interrogatorio, i cui esiti non discostano dal primo. Il venerdì 23 ottobre Caterina è convocata per il terzo interrogatorio alla presenza dei 5 testimoni a carico della donna. La stranezza di questo interrogatorio consiste nel fatto che Caterina è assente, difficile da pensare dato che era rinchiusa nel monastero di Rifreddo. Il 27 ottobre la donna riappare alla vista di Vito dei Beggiami. La donna nega fermamente ogni addebito, motivo che induce l'inquisitore a ricorrere alla tortura e fissa in sei giorni il termine entro il quale Caterina deve nominare avvocati e procuratori. I giorni si susseguono come le accuse e le testimonianze avverse alla donna. I difensori della donna si muovono arrivando al Vicario generale della diocesi di Torino. La causa contro la masca Caterina si trasforma in una questione di Stato, o di marchesato dato che questo era all'epoca il territorio di Saluzzo. Il 25 novembre la svolta nel processo: Caterina, nuovamente interrogata, si abbandona ad una serie di confessioni, in netto contrasto con i comportamenti tenuti nei mesi precedenti. Dichiara d'essere masca e di aderire alla setta delle masche da 4 anni. Dichiara ulteriormente che schiacciò la croce sotto il proprio deretano e rinnegò la fede cattolica. Inoltre fece un patto di totale subordinazione al demone, il cui pagamento annuale consisteva in un pollo bianco.
    Per l'inquisitore Vito dei Beggiami vi sono tutti gli elementi per rimettere la donna al braccio secolare. Da tutti questi elementi parrebbe logico, secondo il pensiero di sacra romana chiesa, che Caterina finisse i suoi giorni sul rogo. Nei documenti del processo che la riguarda non appare nulla di esplicito anche se una nota finale sembra confermare il passaggio al braccio secolare: Vedi la definitiva sentenza di condanna contro Caterina e le altre nel processo di Margherita Giordana, altrimenti detta di Marco, di Rifreddo.
    Da questa nota possiamo comprendere che altre donne finirono sotto processo con l'accusa d'essere masche. Complessivamente negli ultimi tre mesi del 1495 l'inquisitore Vito dei Beggiami avrebbe realizzato nove procedimenti inquisitoriali, probabilmente tutti finiti con la condanna delle inquisite in quanto “heretice, masche et apostate”.
    Come tali da affidare al braccio secolare per l'esecuzione della pena di morte.
    Che poi la pena sia stata effettivamente eseguita in tutti e nove i casi non lo possiamo sapere, potendo essere intervenute delle situazione favorevoli ad una o più di esse.
    Cosa possiamo comprendere da questa vicenda processuale?
    Il volgere dal Medioevo all'età moderna vedeva sorgere l'impressionante fenomeno della persecuzione di streghe e stregoni, la cosiddetta caccia alle streghe.
    Il cristianesimo divenne religione di persecuzione e morte.
    Ancora oggi non possiamo sapere l'esatto numero di donne, e uomini, torturati e uccisi con l'accusa di non aderire alle idee della religione cristiana.


    Fabio Casalini

    Bibliografia

    G. Merlo, Streghe, Società editrice il Mulino, 2006

    R. Comba e A. Nicolini, Lucea talvolta la luna. I processi alle masche di Rifreddo e Gambasca del 1495, Società per gli studi storici, archeologici ed artistici della provincia di Cuneo, 2004



    La leggenda di Misurina

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    La sovrumana bellezza delle montagne dolomitiche giustifica la nascita di mille leggende, e fra queste forse una delle più belle, e anche per questo fra le più famose, riguarda il lago di Misurina, incastonato come uno smeraldo verde fra le tre cime di Lavaredo, del Monte Cristallo e del gigante Sorapìs. Le sensazioni quasi sovrannaturali che si possono provare al cospetto di quelle magnifiche vette dà conto e spiegazione delle meravigliose storie cui hanno dato vita. 
    Così ha perfettamente senso che sia stato un gigante infuriato a graffiare la parete nord delle Lavaredo, e non c’è niente di strano che le mille cime del Cristallo siano abitate da una fata bellissima e perfidamente gelosa del suo giardino verde e incantato. Né che Sorapìs sia stato un tempo un gigantesco Re dal cuore troppo tenero e troppo accondiscendente per la sua piccola bambina viziata. E che la sua unica bambina si chiamasse Misurina.
    Su tutte queste zone un tempo governava un Re. Il suo regno si estendeva dalle Tofane fino alle Tre cime di Lavaredo. Era un uomo imponente, di statura gigantesca ma di animo gentile, e i sudditi del suo regno non avevano di che lamentarsene. 
    Forse la sua mitezza d’animo, che poteva anche sconfinare nella malinconia, era dovuta al triste fato che l’aveva colpito nei suoi affetti. La moglie era morta e lui era rimasto solo con la sua piccola bambina, una bimba dolce e capricciosa, così piccola che anche raggiunta l’età di otto anni ancora poteva stare comoda nella mano del suo enorme papà.
    Il Re si chiamava Sorapìs, la sua piccola figlia Misurina.
    Misurina cresceva viziata, ed era la bimba più graziosa che mai si fosse vista in quei luoghi, tanto quanto era la più impertinente e capricciosa che si potesse incontrare.
    Chiedeva al suo papà qualunque cosa e veniva esaudita, faceva dispetti a chiunque, combinava ogni disastro e veniva regolarmente perdonata. E’ piccola, crescerà diceva il suo grande padre, bisogna comprenderla, ha perso la mamma da piccola, non posso punirla.  E così tutto il regno, il popolo, i cortigiani, le dame e i cavalieri subivano rassegnati i dispetti e le perfidie della piccola Misurina, ben consapevoli che suo padre il Re mai la avrebbe punita né contraddetta.
    Misurina girava di continuo in lungo e in largo per il regno di suo padre, cogliendo fiori e ruzzolando nei prati quando non era impegnata a combinare scherzi e dispetti a chiunque incontrasse sulla sua strada. Sembrava che nulla potesse limitare le sue voglie e i suoi capricci.
    Ma il giorno sarebbe arrivato. Il giorno in cui qualcosa l’avrebbe fermata per sempre. Non così sarebbe stato invece per l’amore infinito che papà Sorapìs provava per lei.
    Un disgraziato giorno qualcuno le raccontò della fata del monte Cristallo. Misurina la conosceva, conosceva le sue arti magiche e conosceva il paradisiaco giardino che possedeva ai piedi del suo monte.
    Quello che non sapeva ancora era che la fata del Cristallo possedeva uno specchio, uno specchio davvero magico. Facendoci specchiare qualcuno, chiunque esso fosse, il possessore ne avrebbe potuto leggere perfino i pensieri più nascosti. Era il giocattolo più meraviglioso che avesse mai sentito nominare. Meravigliosamente inutile come tutti i suoi capricci.
    Misurina non lasciò più un solo attimo di tregua al suo povero padre. Nulla la avrebbe più soddisfatta finché non avesse avuto lo specchio prodigioso tutto per lei. Il povero vecchio Sorapìs tentò in tutti i modi di dissuaderla, ma la piccola invincibile Misurina era più forte della sua tenacia tanto quanto l’amore di lui era più forte di qualunque avversità, e alla fine si decise ad andare a visitare la fata del Cristallo, pronto ad offrirgli qualunque cosa gli avesse chiesto in cambio del suo specchio.
    La fata disse no. Con la massima decisione disse di no. 
    Ma conosceva molto bene le debolezze di papà Sorapìs e la sua impossibilità a negare qualsiasi cosa alla piccola Misurina. Cedette in parte alle suppliche umilianti del grande Re, e in parte si lasciò condurre dalla sua perfidia verso un patto spietato.
    Acconsentì a dare lo specchio al Re, ma chiese in cambio il più terribile dei pegni.
    La fata possedeva un meraviglioso giardino ai piedi del monte Cristallo, una valle intera verde e brillante, ma vi batteva il sole tutto il giorno, e le sue meraviglie bruciavano per il troppo caldo. Il suo patto fu quindi questo: lei avrebbe dato il suo specchio al Re per donarlo a Misurina, e il Re si sarebbe trasformato per sempre in un gigante di roccia, tanto grande da diventare la più grande montagna della zona, e avrebbe tenuto per sempre nella giusta ombra il suo bel giardino.
    Il vecchio Sorapìs inorridì, pianse, si disperò, rifiutò e poi urlò di rabbia, ma la fata era irremovibile. Poi l’amore per la sua unica figlia lo perse di nuovo, e si convinse che mai e poi mai la piccola Misurina avrebbe acconsentito ad un patto così scellerato solo per avere il suo futile giocattolo. 
    La fata, per quanto egoista e perfida fosse, rabbrividì rendendosi conto che l’amore di quel padre non solo lo piegava a qualsiasi umiliazione, ma ne accecava anche l’animo con la più verosimile e pietosa delle illusioni.
    Quasi suo malgrado, fu costretta a cedere al suo stesso perverso incantesimo. Lasciò al Re lo specchio, con la promessa che se la piccola Misurina avesse rifiutato affinché suo padre non venisse pietrificato, avrebbe sciolto il patto e lo specchio sarebbe stato suo senza altro pegno.
    Sorapìs se ne andò con lo specchio fra le mani e con l’animo convinto che il buon cuore della sua piccola bimba avrebbe salvato tutti dalla malignità della fata. La fata sapeva in cuor suo ciò che il papà non avrebbe mai potuto vedere e che era invece evidente a tutti gli altri, e già sapeva che di lì a poco il suo giardino avrebbe avuto l’ombra che gli necessitava.
    Sorapìs tornò da Misurina e le raccontò tutto, attendendo fiducioso il rifiuto della piccola e lo scioglimento dell’orribile incantesimo.
    Ma la piccola Misurina, cresciuta fra i propri capricci e senza mai altro pensiero al di fuori della soddisfazione delle sue voglie, non poteva capire né l’orrore né le conseguenze dei suoi gesti, né dove risieda il vero amore né cosa significasse davvero un sacrificio.
    Alla notizia che il suo grande papà sarebbe potuto diventare una montagna, addirittura fu capace di gioirne. Saltellando come sempre nella sua grande mano e stringendo bene al petto il suo prezioso specchio, nella sua totale incoscienza andò fantasticando delle grandi ruzzolate che avrebbe potuto fare giù per i suoi prati e delle grandi dormite che avrebbe fatto all’ombra dei suoi boschi.
    Mentre diceva queste cose e mentre suo padre ammutoliva, l’incantesimo della fata aveva già iniziato a produrre il suo infinito orrore. Le stupide urla di gioia di Misurina si trasformarono in un urlo di terrore, e sotto il suo sguardo raggelato il suo grande e buon papà iniziò inarrestabilmente a trasformarsi. Divenne ancor più grande, sempre più grande, e la sua pelle iniziò a cambiare colore, divenendo più scura e più grigia. I suoi capelli si trasformarono via via in larici ed abeti, le sue rughe diventarono sconfinati crepacci, le dita delle sue mani spuntoni di roccia e picchi inaccessibili.
    Misurina, ancora in bilico su quella che una volta era la grande mano di suo padre, guardò giù e si trovò su uno spuntone di roccia altissimo, senza più niente sotto di lei. Il terrore della trasformazione di papà Sorapìs e il terrore dell’altezza a cui si trovava la vinsero d’un colpo.
    Precipitò giù, senza nulla a fermare la sua caduta. Si schiantò sulle rocce insieme al suo maledetto specchio che finì in mille pezzi colorati sul fondo della valle.
    E il fato non ebbe neanche la pietà di risparmiare a papà Sorapìs quell’ultimo terribile spettacolo, perché quando Misurina cadde giù e si schiantò, egli aveva ancora gli occhi, ed erano aperti.
    Vide tutto, e pianse come nessun altro uomo al mondo pianse prima e dopo di lui.
    Dai suoi due occhi in procinto di chiudersi per trasformarsi anche loro per sempre in roccia vennero giù due fiumi di lacrime disperate, due ruscelli impetuosi carichi di acqua cristallina. Scesero giù per le sue valli e i suoi burroni, e si raccolsero in fondo, dove era andato perduto per sempre il suo piccolo tesoro, e formarono lì il più piccolo e splendido lago di tutto il regno.
    Da quel giorno Sorapìs divenne il suo monte più imponente e tragico, e la valle ai suoi piedi, dalle sue pendici fino a quelle del monte Cristallo, la più ombrosa e rigogliosa, e il lago di Misurina il più splendente lago delle alpi, splendente dei riflessi di mille colori che gli donano ancora oggi i mille frammenti dello specchio fatato rimasti per sempre a galleggiare nelle sue acque.

    Alessandro Borgogno



    Capitolo tratto dal mio romanzo “quasi” autobiografico “La valle del Boite”.

    La storia del paese scomparso di Agaro

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    Agaro era il comune più alto e isolato dell’Ossola. Il luogo della sua edificazione fu scelto molti secoli fa dalle genti Walser provenienti dal vicino Canton Vallese, e più precisamente dalla soleggiata e lussureggiante Valle di Goms, intorno all’VIII secolo. Ma una data precisa per quello che concerne Agaro non l’abbiamo.  A 1561 metri, stretto fra le montagne, questo piccolo paese era costruito in una conca alluvionale formata dalla confluenza del Rio Topera, del Rio Bionca e del Rio Pojala.
    Per sette secoli, poco più di 20 famiglie, hanno deciso di condurre la loro vita qui e di chiamare casa questa bellissima vallata, ricca ancora oggi di boschi e vegetazione. Una vita fatta di tenacia, amore per la terra, lotta contro la natura avversa, sacrifici e isolamento per molti mesi ogni anno. Pensando agli Agaresi mi viene in mente una sola parola: volontà.

    Oggi al posto del comune di Agaro, chi arriva in questa bella vallata trova un lago artificiale dal colore del cielo quando è sereno, un invaso della capacità di 20.000.000 di m³ d’acqua, costruito fra il 1936 e il 1940 dalla ditta Umberto Girola, specializzata in grandi opere, l’attuale Salini – Impregilo. Il progetto, voluto da Edison, fu curato dagli Ingegneri Claudio Marcello e Pietro Marinoni, gli stessi che progettarono e realizzarono la diga di Morasco nel medesimo periodo storico, quello relativo allo sfruttamento idroelettrico dell’Ossola. Fino all’ultimo giorno gli Agaresi non hanno abbandonato le loro case in pietra e larice, continuando la vita di tutti giorni fra quelle montagne che fino a quel giorno hanno rappresentato una protezione ma anche un ostacolo verso il mondo esterno.
    Le prime notizie di Agaro risalgono al 1298.
    In un documento del 1515, redatto davanti al governatore della Valle Antigorio, rappresentante della Lega Svizzera, si fa riferimento ad un documento antecedente, risalente appunto al 1298, in cui si dirimeva una questione di confini fra gli uomini di Agaro e Costa da una parte, Baceno e Croveo dall’altra.
    Fin da subito si comprende che la terra e i suoi confini per gli Agaresi avevano importanza fondamentale.
    Il 10 luglio 1513, a sottolineare l’importanza della proprietà terriera e a regolare altre questioni di vita, Agaro ottenne il suo statuto, in cui il console Pietro Pezio, in accordo con gli uomini tutti di Agaro, chiedeva di poter conservare “i boschi, le biade, il fieno e tutti i possedimenti fino ad allora riconosciuti”.
    Lo statuto regolamentava al meglio, per il bene comune, lo sfruttamento di ciascuna proprietà.
    Ad esempio per i boschi di Topera, lungo la montagna che sovrastava l’abitato, era stabilito il divieto assoluto di tagliare le piante, “far legna”, perché costituivano una naturale protezione per le case contro le valanghe.
    Sempre a salvaguardia della comunità intera, era sancito il divieto di vendere o cedere terreni a persone che non fossero di Agaro. In caso di matrimonio con un “forense”, le donne erano private delle loro terre e dei pascoli, che restavano in famiglia.
    Una parte di ciò che veniva coltivato o prodotto era utilizzato per pagare i dazi ai signori locali, che oltre al denaro ricevevano pesce, pernici e formaggio d’alpe, ritenuto fra i più pregiati e saporiti.
    Risalendo il vecchio sentiero che partiva da Beola e si inerpicava sulla montagna, si raggiungevano le case di Pioda Calva a 1249 mt e, dall’altra parte del Rio Agaro, quelle di Costa a 1250 mt, due piccoli abitati composti da poche case in sasso e legno, utilizzati dagli Agaresi nei periodi invernali, quando la loro piana veniva sommersa da diversi metri di neve.
    Più in alto, a 1427 mt, ma dall’altra parte della montagna, quella che guarda la Valle del Devero, Ausone, situato su una terrazza naturale soleggiata e ricca di pascoli.
    La sua origine è fatta risalire più o meno allo stesso periodo di Agaro. Era utilizzato durante l’inverno dagli Agaresi più agiati, anche in questo caso per sfuggire all’isolamento. Con l’andare degli anni Ausone, essendo abitata stabilmente, ottenne un suo statuto.
    Risalendo da Costa e Pioda Calva verso la cima della montagna, oggi incontriamo la diga di Agaro. Un tempo si arrivava al piccolo centro di Margone, dove oggi sorge lo sbarramento. Anche da quel punto Agaro era invisibile agli occhi di chi arrivava.
    Montagne scoscese, fitte e rigogliose foreste, dietro ad una piccola curva naturale, sorgeva Agaro dopo la sua ultima riedificazione, nel punto in cui il Rio Topera rallentava la sua discesa per iniziare a scorrere nella piana.
    Poco più in là il Rio Bionca e il Rio Pojala. Nascosti agli occhi di chi cercava un segno di vita o di attività, vi erano gli alpeggi estivi dove le genti di Agaro si recavano con il bestiame per usufruire dei pascoli d’alta quota: l’Alpe Pojala, l’Alpe Nava, l’Alpe Corteverde, l’Alpe Bionca e l’Alpe Topera.
    Tutto attorno le montagne stringevano in un eterno abbraccio questi pascoli ricchi di erbe aromatiche e di fiori dai mille colori, formando una barriera naturale verso l’evolversi del tempo.
    La conformazione del territorio non protesse Agaro dalle valanghe e dalle frane, che nell’arco dei secoli costituirono un flagello per questo piccolo centro.
    Alcune furono davvero devastanti. Immense quantità di neve si staccarono dal Pizzo Nava e dai fianchi del Rio Topera, per congiungersi e terminare la loro corsa fra le case.
    La tradizione racconta che per ben 5 volte l’abitato sia stato distrutto e riedificato. La più imponente di queste valanghe fu nel 1650, quando neve e materiale roccioso rasero al suolo il paese intero.
    Gli Agaresi lasciarono la piana? Niente affatto, costruirono le loro case più a sud, in un punto più riparato.
    Fortunatamente non ci furono vittime e per gratitudine, essendo molto devoti, decisero ogni anno di celebrare, come festivo, il giorno di San Silvestro, in ricordo di quei tragici momenti. Durante quella notte gli Agaresi si mascheravano con poveri vestiti e, dopo aver simulato una danza, spazzavano via con le scope il vecchio anno. Il giorno dopo, vistiti con gli abiti migliori, accoglievano con una danza festosa il nuovo che arrivava.
    L’ultima valanga, tristemente ricordata, risale al febbraio 1888.
    Alle 15.00 una imponente slavina distrusse alcune case, una parte dell’oratorio e alcune stalle, uccidendo 3 persone, 16 mucche e altri capi di bestiame.
    Molti furono tratti in salvo sotto la neve grazie all’intervento tempestivo di chi rimase illeso.
    80.000 lire di danni, una cifra considerevole per l’epoca.
    Impossibilitati a trovare questa somma o a ricostruire da soli gli edifici danneggiati, gli Agaresi chiesero aiuto alle autorità civili ed ecclesiastiche, scrivendo direttamente al papa Leone XIII.
    Agaro non fu mai parrocchia autonoma. Matrimoni, funerali e battesimi erano celebrati alla chiesa di San Gaudenzio di Baceno.
    I defunti, dopo un lungo viaggio fra i sentieri di montagna, erano composti in una parte dedicata del cimitero adiacente alla chiesa, in quella più bassa. Un trasporto lungo e difficile, che comportava ore di cammino per percorrere oltre 700 mt di dislivello, portando a spalle la salma.
    Due sono gli oratori presenti nel territorio di Agaro: quello di San Giovanni Battista e quello di Santa Elisabetta, ad Ausone. Entrambi erano utilizzati dagli Agaresi, che poco badavano alla ricchezza dei paramenti e delle suppellettili, pensando di più alla salvezza della loro anima. Anche la poca disponibilità economica contribuiva a rendere essenziali i due luoghi di culto, che per un certo periodo di tempo, si dice, non avessero neppure i vetri. La data precisa della loro edificazione non è tutt’ora nota, ma quello che è certo è che furono abbondantemente utilizzati soprattutto durante il periodo invernale.
    I vari parroci che si susseguirono negli anni, mandarono spesso a chiamare gli Agaresi perché frequentassero la messa a Baceno. La risposta fu sempre negativa.
    Alcune visite pastorali misero in evidenza, secondo l’autorità ecclesiastica, l’inadeguatezza dei paramenti e dei luoghi di culto utilizzati. Ma le rimostranze vescovili caddero nel nulla; la primitività del sistema di vita e i pochi soldi a disposizione contribuirono a lasciare la situazione immutata.
    Gli Agaresi si sentivano abbandonati dalla Chiesa. Da Baceno, il Parroco si faceva vivo solo per il pagamento dei tributi. In caso di necessità, per battesimi ed estreme unzioni, pretendeva il versamento di un extra per la lunga e perigliosa salita. Il malumore crebbe fino al 1616, anno in cui il feudatario Giovanni Marino scrisse una lettera al vescovo di Novara, Ferdinando Taverna, facendosi portavoce di una serie di richieste degli uomini di Agaro. Fra queste una su tutte spiccava: volevano un cappellano che vivesse stabilmente ad Agaro, che celebrasse i sacramenti nel paese e ad Ausone, che insegnasse la dottrina cristiana ai bambini e che parlasse la lingua Walser. Per invogliare un uomo di Dio ad accettare l’incarico, istituirono una dote in denaro successivamente aumentata.
    Le avverse condizioni di vita si frapposero nuovamente tra la Chiesa e gli Agaresi.
    L’indipendenza di cui godevano si rafforzò maggiormente.
    L’isolamento contribuiva.
    La loro grande devozione culminava ogni anno con una processione da Agaro ad Antillone, in valle Formazza, attraverso il passo del Muretto a 2350 metri sul livello del mare. Sei ore di cammino all’andata e altrettante al ritorno. Giunti a destinazione, gli uomini scendevano al lago a raccogliere le ninfee, fiore benedetto dalla Madonna, per poi conservarlo fino all’anno successivo appeso sopra la stufa. La processione fu vietata nel 1822 dal cardinale Giuseppe Morozzo. 
    Nonostante questo divieto si hanno tracce della suddetta pratica sino al 1930 circa.
    L’organizzazione sociale di Agaro era molto semplice.
    Poche famiglie, pochi cognomi, la terra era il bene supremo. Gli Agaresi erano fieri, dotati fisicamente, molto più alti della media popolazione walser e tenaci. Sulla loro forza fisica si tramandavano storie vicine alla leggenda. Si diceva portassero a “ciuffo” pesi straordinari da e per Baceno. Non essendo possibile utilizzare animali da soma a causa della conformazione del territorio e degli stretti passaggi tra i valichi di montagna, si utilizzava questo antico sistema. Per trasporto “a ciuffo” si intendeva il trasportare in sacchi di iuta, patate, crusca e farine. Gli uomini rivoltavano all’interno una parte del sacco, trasformandolo in cappello, per riuscire a portare il tutto sulla testa. 
    La popolazione di Agaro era molto generosa. La comunità provvedeva insieme al benessere dei meno abbienti. 
    Vivevano in una sorta di “Anarchia da Montagna”, sempre distanti e insofferenti agli ordini delle autorità, siano esse civili che religiose. La loro alta levatura morale era nota a tutti i forestieri. 
    Per la cura dei malati usano le erbe disponibili, non conoscendo medici e medicinali. La fitoterapia era sufficiente al mantenimento in salute della popolazione, anche perché attendere un medico da Baceno o Croveo era inutile, poiché la strada da percorrere era troppo lunga e difficoltosa per permettere l’arrivo in un tempo ragionevole. 
    L’istruzione era impartita in estate dal parroco che risiedeva in Agaro per occuparsi della scolarizzazione dei bambini per il tempo strettamente necessario.
    I cognomi presenti erano circa una ventina. Le unioni per secoli si sono avute solo tra Agaresi, ma nonostante questo forzato isolamento non sono state rilevate tare genetiche, a differenza di quanto riscontrato in altri luoghi dove i matrimoni avvenivano esclusivamente tra una ristretta cerchia di persone. 
    La sussistenza era costituita da allevamento e agricoltura. Ciascun nucleo familiare possedeva dalle 4 alle 6 mucche, i più ricchi sino a 12. Tutti avevano capre per la produzione di latte e per tenere in ordine i boschi, e pecore per la lana.
    Il latte prodotto era utilizzato per fare formaggio, per autoconsumo, per pagare i dazi e da scambiare o vendere al mercato di Baceno. Gli “spressi” di Agaro erano conosciuti anche in Lombardia. Lo spresso era un formaggio prodotto esclusivamente nelle praterie che attorniavano l’antico borgo Walser. I prodotti della terra erano costituiti da lino, canapa, patate, segale, orzo e fieno, tagliato anche con l’ausilio di corde nei punti più scoscesi.
    I lunghi inverni tenevano le persone in casa: mentre le donne filavano e tessevano la lana delle pecore, gli uomini intagliavano oggetti in legno.
    La caccia era una parte fondamentale della loro economia di sussistenza. La carne essiccata della selvaggina era un’ottima variante nella monotonia della loro dieta. 
    La lingua Walser di Agaro restò incontaminata dall’italianizzazione fino all’inizio del secolo scorso, quando l’apertura al mondo esterno era divenuta necessaria per la sopravvivenza. Oltre che con Baceno e gli abitanti della valle, da cui erano chiamati “tedesconi” per il loro idioma stretto e quasi incomprensibile, gli Agaresi avevano rapporti frequenti con il Vallese, loro cantone di origine. 
    La chiusura della frontiera con la Svizzera non gli impedì di trovare il modo di eludere la sorveglianza delle guardie di confine, per continuare a rifornirsi di tabacco, zucchero, caffè e sale. I rapporti tra le due popolazioni erano talmente buoni che operai specializzati del Vallese corsero in aiuto degli Agaresi durante la ricostruzione del 1888. 
    Un’altra testimonianza dei contatti con la loro valle di origine si ha nell’uso di fumare e masticare tabacco da parte delle donne, comportamento tipico della popolazione femminile che abita le valli di Binn e Goms. 
    La lingua Walser di Agaro andò perduta. Il suo idioma era fra i più arcaici e caratteristici dei Walser. Purtroppo nessuno decise per tempo di salvare questo immenso patrimonio linguistico e culturale. 
    La toponomastica di montagne e boschi era decisamente differente. Nessuna delle Cartine esistente, neppure la più minuziosa, riportava nomi di creste, pascoli e boschi conosciuti e tramandati dagli Agaresi.
    Quello che resta fervido, in chi conosce Agaro e i suoi discendenti, è la voglia di ridare voce a questo piccolo comune Walser, che riemerge dal suo letto eterno solo quando il livello del lago scende.
    Ho avuto quest’anno la fortuna di incontrare i discendenti di quegli Agaresi che hanno resistito fino alla fine all’avanzare del progresso. Fieri e dagli occhi limpidi, sempre commossi a parlare delle loro origini, di quelle abitazioni in sasso e larice che i loro nonni o bisnonni avevano chiamato casa.
    Con uno di loro abbiamo avuto il privilegio di vedere Agaro emergere dalle acque. 
    Silenzio ed emozione. Commozione nel vedere ancora i muri paravalanghe intatti, le travi con i chiodi in legno, parte dei camini e soprattutto i gradini di entrata di una casa sparire nell’acqua. 
    La su quei sassi ho visto quell’uomo di Agaro commuoversi e una lacrima è scesa anche a me, ripensando a quell’ultima notte in cui poche persone, con i loro animali, hanno lasciato definitivamente la piana, con l’acqua gelida alle caviglie.


    Rosella Reali


    Siede accanto a Cristo. Il cenacolo di Leonardo: il suo amante è qui!

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    "In verità, in verità vi dico: uno di voi mi tradirà" . I discepoli si guardarono gli uni gli altri, non sapendo di chi parlasse. Ora uno dei discepoli, quello che Gesù amava, si trovava a tavola al fianco di Gesù. Simon Pietro gli fece un cenno e gli disse : “Di’, chi è colui a cui si riferisce?”.  Ed egli reclinandosi così sul petto di Gesù, gli disse: “Signore chi è?”
    -dal Vangelo secondo Giovanni -



    1495-1498 Milano, Convento di Santa Maria delle Grazie, ex refettorio adiacente. L’affresco tradizionale andava contro la sua natura meditativa, riflessiva e mutevole. Egli amava tornare sui suoi lavori per modificarli, stravolgerli o intensificarli. Le pareti esigevano velocità nella stesura a causa dell’essiccazione dell’intonaco. Il muro con la sua venatura statica era un limite espressivo, l’opacità che rifletteva, non donava la luce, che l’olio su tela emetteva. Ed egli tramite la luce evocava i “Moti dell’Anima”, l’arte di imprigionare i sentimenti, le emozioni ed il pensiero dei suoi personaggi, come se la scena si svolgesse nel medesimo istante della nostra visione. In un eternità di volte. Una rivoluzione, non una rievocazione, ma una partecipazione presente dell’evento. Leonardo escogitò una nuova tecnica, per render l’affresco come una grande tela, fallendone il risultato pochi anni dopo il termine della grandiosa opera, che a causa dell’umidità, e dei composti utilizzati, andava deteriorandosi velocemente.

    Dopo questa breve introduzione, vorrei però non soffermarmi sul lato tecnico dell’opera, ma bensì sul suo significato forse più autentico, e per capirlo forse bisognerebbe chiedersi chi fosse il grande maestro.
    Leonardo, uomo dal genio indiscusso, versatile artista, scienziato dall'aspetto incantevole, Vasari lo descriverà come l’essere più bello di Firenze, artista che pose al centro di ogni ricerca l’uomo, in quel clima rinascimentale, umanistico di fiducia di centralità assoluta; l’umanità che grazie alla pensiero, al vero, al giusto ed il bello poteva risorgere, e in armonia comprendere l’universo.
    Leonardo fu un’uomo di poca fede religiosa, la ritrovò solamente in punto di morte, quei dogmi religiosi urtavano la comprensione dei fatti basata su prove analitiche.
    Di buon carattere, scherzoso e giocoso, amava circondarsi dei suoi giovani apprendisti di bottega, ma amava anche la solitudine, nella quale trovava la completezza per creare.
    L’uomo di scienza più grande del suo tempo, che fu non compreso ed accettato dalle accademie, per il semplice motivo della non conoscenza del latino. Lingua di tutto il sapere.
    Qui forse con cautela e disaccordo di molti, vorrei raccontarvi l’inclinazione omosessuale del genio toscano; non per crearne clamore, ma bensì come chiave di lettura per molte sue opere.
    Ricordo d’infanzia di Leonardo “Codice Atlantico”
    ...Nella prima ricordazione della mia infanziae mi parea che, essendo io in culla, che un nibbio venisse a me e mi aprissi la bocca con la sua cosa e molte volte mi percotessi con tal coda dentro le labbra.
    L’interpretazione di questo sogno fu analizzata da Freud e da Jung, decifrando il nibbio nella figura della madre, mentre la coda è il pene che il fanciullo ha pensato come attributo sessuale della madre; da seno dell'allattamento, diviene un pene, in un atto di sesso orale passivo.
    In seguito il 9 aprile 1476 Leonardo fu denunciato anonimamente insieme ad altri uomini con l’accusa di sodomia nei confronti del giovane Jacopo Saltarelli, l’artista fu assolto grazie alla sua fama e conoscenza, la condanna avrebbe posto termine alla vita dell’artista.
    Ma la chiave di tutto resta lui, Gian Giacomo Caprotti detto il Salaì (diavolo, nomignolo datogli dal maestro).
    Allievo prediletto, che divenne una delle persone più vicine al maestro, dal carattere enigmatico, tentatore, irrequieto, dall'aspetto femmineo, fu utilizzato da Leonardo come modello per la sua raffinata bellezza in nudi erotici e ritratti ammalianti.
    Seguii da Vinci in tutti i suoi viaggi e fu presentato nelle prestigiose corti in cui si recavano.
    Corse in Francia al peggioramento di salute di Leonardo, ma non ci fu nel suo ultimo istante.
    Ereditò dei quadri dal maestro, ma molto di questo personaggio è ancora velato dal mistero.
    Il Cenacolo.
    Cristo domina la scena centrale, isolato, il volto chino verso il basso, rassegnato dalle parole appena annunciate.
    Alla sua destra a differenza di altre opere che rappresentavano la stessa storia, Giovanni non è reclinato sul petto di Gesù per il semplice motivo che Leonardo narra la scena precedente.
    La certezza che quel Discepolo sia Giovanni e non una donna è data dal fatto, che egli non poteva mancare in una rappresentazione iconografica, essendo l’apostolo più caro a Cristo, alla quale venne affidata la madre, quando morente si trovava in croce, e fu l’unico apostolo ad osservarne l’intero calvario e la deposizione del suo corpo dalla crocifissione.
    Inoltre la raffigurazione di Giovanni con tratti effeminati era una ricorrenza classica del personaggio, per esaltarne la purezza e la sua giovinezza.
    Ma osservando bene il volto del Giovanni di Leonardo, si possono riconoscere tratti del viso del sui allievo, il Salaì.
    Un’individuo perfetto che racchiude l’essenza maschile e femminile in un unico corpo, che possiede il carattere e la forza di un uomo ma anche la passione, la sensibilità e l’amore di una donna.
    Una bellezza autentica che Cristo sceglie ed ama, come ogni diversità punita dalla società di allora , di oggi, come la prostituta che egli salva ed accoglie, la Maddalena.
    Un giovanni che svela la natura dell’amore per quel ragazzo da parte del maestro, e che celebra senza vederne il male in segreto  ma al corrente del messia.
    Un giovanni Apostolo che dagli scritti non ebbe mai moglie, che passava il tempo con Maria e le altre donne, un Giovanni che in forma platonica amava Cristo.
    E la mancanza del Calice di Cristo sulla tavola?
    L’Apostolo Giovanni non lo ha mai citato nel suo testo.

    Simone De Bernardin

    L'immaginazione materializzata. La Barcellona di Gaudì

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    Difficile immaginare cosa sarebbe Barcellona se non avesse avuto fra i suoi più illustri cittadini (forse il più illustre, di sicuro il più straordinario) Antoni Plàcid Guil-lem Gaudí y Cornet, detto Antoni Gaudì, architetto. 
    Di sicuro lui, con un numero relativamente limi­tato di opere e in un arco abbastanza circoscritto di anni, ha donato per i secoli alla città catalana la sua immagine di modernità facendola partire addirittura dall’ottocento e facendocela trovare ancora vivissima oggi, nel nuovo millennio.

    Gaudì è stato un genio, nel senso più compiuto del termine, per almeno due ragioni fra le tante.
    La prima è che, sebbene inserito nella corrente ar­tistica di fine ottocento-primi del novecento co­nosciuta come modernismo (declinata in varie nazioni con altri famosi nomi come art noveau, li­berty e via dicendo), è alla fin fine sfuggito anche ad essa creando un genere e un tipo di architettura mai totalmente classificabile e soprattutto mai più ri­presa compiutamente da altri. L’architettura di Gaudì è solo e soltanto architettura di Gaudì, al di fuori di qualsiasi corrente o genere.
    La seconda è che la sua sfrenata immaginazione e la sua fantasia spinta al limite dell’assurdo è sempre stata esercitata con l’obiettivo di creare opere con­crete e funzionali, palazzi, chiese o altri ambienti che per quanto fantastici e apparentemente folli fos­sero sempre e comunque per prima cosa palazzi, case, ambienti dove le persone devono vivere e muoversi. La storia dell’architet-tura, soprattutto mo­derna e contemporanea, è ab-bondante di progetti e disegni assolutamente fantastici da punto di vista estetico e anche simbolico che però non hanno al­cuna seria possibilità di realizzazione pratica. Le case di Gaudì, nella loro apparente assurdità di forme e di materiali, sono altrettanto straordinarie per la quantità di soluzioni geniali applicate alle più spicciole esigenze pratiche di chi doveva poi abitarle. Non soltanto stanno in piedi solidamente da più di un secolo a dispetto delle loro forme ap­parentemente illogiche, ma gli ambienti sono co­modi, le stanze sono funzionali, le aperture ap­parentemente più stravaganti hanno sempre uno scopo pratico anche quando sembrerebbero puro esercizio di stile.
    Nel visitare le sue realizzazioni più significative, in particolare Casa Batllò e Casa Milà (La Pedrera), entrambe orgogliosamente affacciate da cento anni sul Passeig de Gràcia, l’effetto predominante diventa comunque quello di vivere un’esperienza che supera i confini dell’architet-tura e forse anche dell’arte co­me di solito la intendiamo, tanto vengono stimolati e chiamati in causa i sensi biologici come quelli intel­lettuali in un intreccio inestri-cabile.
    La visita alla casa Batllò, realizzata dal 1904 al 1907 come imprevedibile ristrutturazione di un edi­ficio pre-esistente di proprietà dell’omonimo ricco industriale tes-sile, ci offre due effetti distinti e con­seguenti.
    Dopo l’iniziale folgorazione esterna che ci fa am­mirare per un po’ a bocca aperta la facciata morbi­damente ondulata come fosse fatta d’acqua e bril­lante di fram-menti di ceramica colorata che la fanno sembrare la superficie di uno stagno primaverile ribaltata in verticale contro ogni logica di gravità, la visita si trasforma, una volta varcato l’ingresso, in un autentico viaggio allucinante dove l’immaginazione prende forma e si concretizza non solo davanti ai nostri occhi, ma sopra, sotto e tutt’intorno a noi in modo solido, concreto, funzionale.
    Si entra letteralmente nelle viscere di un animale, probabilmente acquatico, e ci si muove nel suo in­terno scoprendo e constatando gli aspetti estetici e funzionali di tutti i suoi organi, come Geppetto nel ventre della balena. Scale che salgono con le forme curve di un intestino, finestre che sembrano uova di gattuccio appese ad alghe, spirali di conchiglie, camini a forma di fungo, forme naturali trasformate in architettura e in strumenti funzionali alla vita della casa. E nel salone principale ci regala, come dif­ficilmente può accadere in altri luoghi, l’indescri­vibile sensazione di essere pesci dentro un acquario, mentre fuori dalle enormi splendide vetrate curvi­linee scorre attutito, giureresti dall’acqua, il traffico e il caos della Barcellona più viva.
    Impossibile anche solo elencare la quantità di me­raviglie e di soluzioni geniali e inaspettate che ad ogni angolo sorprendono il visitatore. Vetrate opa­che che fanno passare luci e ombre evocative, un cortile interno piastrellato di azzurro brillante che sembra un lussuosissimo bagno inspiegabilmente rivoltato come un calzino, porte modellate in curve arboree, vetrate appositamente screziate a ripro­durre effetti liquidi e stranianti, comignoli, sulla straordinaria terrazza, mosaicati e contorti come bizzarri elfi marini. 
    Poi, in mezzo a questo tripudio di fantasia, con­tinuando a vagare in questo delirio di forme fuori dal tempo e dallo spazio, improvvisamente cogli l’es­senza vera di tutto questo, che non è puro stile o eccessiva stravaganza o semplice volontà di stupire. Vedi, dietro una finestra magari a forma di vongola affogata nel blu delle ceramiche marine, una stanza. Uno studio, con una lampada da tavolo, una libreria, un tavolo, delle poltrone. Ti ricordi, e ti accorgi di non averlo mai dimenticato, che questa è una casa, ed è una casa abitata ancora oggi, ed è soprattutto una casa abitabile. Comoda, pratica, funzionale. Nulla di ciò che è stato costruito per stupire l’occhio è stato realizzato a scapito della vivibilità o della praticità della vita quotidiana. Le soffitte ad archi catenari sono pensate per lavare e asciugare i panni con l’aria esterna che ci circola in mezzo anche se è brutto tempo, le stanze sono pensate per viverci, cucinare, dormire, il camino sarà pure a forma di fungo, ma è fatto per riscaldare e per starci anche seduti comodamente dentro, al calduccio, nelle fred­de sere invernali, le aperture più stravaganti servono sempre a portare la luce naturale in ogni angolo del­la casa.
    Capisci così la vera natura del genio, e la sua grandezza unica. Studiare, elaborare, riprodurre le forme naturali per farne meraviglia dell’occhio e piacere dei sensi, ma sempre e comunque per farle diventare, con un dominio della complessità e una maestria tecnica che si può solo immaginare, oggetti e ambienti utili alle esigen-ze umane.
    Nell’orgia di fantasia e di eccesso che ancora oggi stupisce chiunque a distanza di un secolo e che nessun altro ha mai osato o è mai riuscito a repli­care, Gaudì ci indica ancora cos’è, e cosa dovrebbe sempre essere, l’architettura.

    26 Maggio 2008
    Antoni Gaudì
    Casa Batllò
    (1904-1907)
    Passeig de Gràcia, 43 – Barcelona


    Alessandro Borgogno


    (Capitolo estratto dalla raccolta “Attraverso le forme” http://ilmiolibro.kataweb.it/libro/arte-e-architettura/39600/attraverso-le-forme/)




    Il dominio delle curve. La Barcellona di Gaudì

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    Proseguendo nella visita Barcellonese attraverso i classici percorsi dell’architettura di Antoni Gaudì, immancabile seguitare il viaggio nell’immaginazione che si fa forma affrontando Casa Milà, detta anche la Pedrera, enorme palazzo che si affaccia maestoso e inquietante sul Passeig de Gràcia, la grande arteria centrale del quartiere modernista dell’Eixample.
    Così come continuerà a fare anche nella straordinaria visione del Parc Güell, dove il suo studio delle forme naturali che si fanno struttura giungerà alle conseguenze più estreme nei colonnati a forma di onda oceanica o nelle balconate di panchine serpeggianti, anche qui Gaudì avanza lungo la sua strada eclettica senza perdere mai di vista la struttura fondamentale che regge tutte le sue idee e tutte le conseguenti realizzazioni. 
    La linea curva.
    Fedele alla sua celebre affermazione secondo cui “La linea retta è la linea degli uomini, quella curva è la linea di Dio”, il genio catalano ristruttura l’enorme palazzo al numero 92 del Passeig letteralmente “afflosciando” le sue strutture esterne. Tutta la facciata e i suoi numerosi balconi sembrano adagiarsi morbidamente come pesanti tappeti appoggiati su rocce.

    Sembra di cogliere una smisurata torta gelato nell’esatto momento in cui si sta squagliando ma è ancora sufficientemente solida da stare in piedi. Il lavoro di progettazione e di realizzazione di tutti i blocchi di marmo che poi riproducono quest’insieme maestoso e decadente insieme, e soprattutto in costante movimento apparente nonostante la mole e la solidità evidenti, appare davvero come uno sfoggio di tecnica e di lavoro artigiano sorprendente.
    Siamo negli stessi anni della casa Batllò, di cui abbiamo già parlato, ma dove lì sembrava essere la leggerezza, in particolare quella liquida dell’acqua, a dettare le linee realizzative dell’impresa, qui sembra quasi che le linee curve della Natura (e perciò Divine dal punto di vista del religiosissimo Gaudì) concorrano a rappresentare la solidità degli elementi più terrestri, come la pietra di cui si mantiene anche a vista la ruvidità. Ciò che sembra sempre e comunque escluso dalla sua architettura però è la staticità. E allora si rappresenti sì la pietra, ma quasi fosse pietra appena uscita da un magma vulcanico e poi rapidamente raffreddata a congelare per sempre le forme in quella morbidezza e in quei tragitti curvilinei che solo un momentaneo stato fluido, conseguenza di forze sovrumane, può avergli imposto.
    La coerenza con cui tutta la facciata e ogni suo minimo particolare, dal portone alle ringhiere dei balconi in ferro battuto contorto, riproducono il concetto fondamentale di forze primordiali colte nell’atto di plasmare la materia, è assolutamente sbalorditiva.
    E se ci si fermasse alla facciata, si potrebbe finire qui. Questa enorme colata lavica in forma di palazzo va però anche esplorata dall’interno, perché altre sorprese si nascondono altrove. La prima, forse la più sorprendente di tutte, è che la maggior parte degli appartamenti interni sono normalissimi. Geniale esemplificazione di come qualunque forma possa contenere una sostanza assai diversa da ciò che mostra all’esterno. Di un qualche interesse storico gli appartamenti all’ultimo piano, trasformati in museo, che riproducono stanze con mobilia dei primi del novecento, ma certo non sono questi che giustificherebbero la prosecuzione della visita. E’ quello che accade ancora sopra, a partire dalla soffitta, che è destinato a stamparsi indelebilmente nella memo ria di qualunque visitatore.
    La soffitta riproduce con travature di legno ciò che nella soffitta Batllò era di cemento bianco. Le volte catenarie (ottenute cioè dalla curva formata da una catena lasciata penzolante e poi, potremmo dire semplicemente se non fosse una cosa terribilmente geniale e complicata, rigirate per riprodurle in forma di arco) si snodano lungo un tracciato curvo che forma una struttura di tunnel intersecanti fra loro e che facilmente fanno perdere l’orientamento. Siamo di nuovo nel ventre di una balena, ma stavolta quello che vediamo è il suo scheletro, una fila ininterrotta di vertebre dove la luce entra, gioca, scorre ritmicamente, gira una curva e si perde. Anche qui la struttura non è fine a se stessa; anche qui, vera fissazione di Gaudì, l’aria dall’esterno può entrare e circolare ad asciugare i panni appena lavati e stesi fra le volte della soffitta.
    Dopo la giusta ubriacatura fra le vertebre fluttuanti, si può salire attraverso una delle strette scale a chiocciola ed uscire sulla terrazza. Ed è a quel punto che diventiamo Alice. Alice che non sa più qual’é la sua vera dimensione e che si trova circondata da un bosco di meraviglie.
    Difficile descrivere ciò che d’improvviso appare ai nostri occhi. Usciamo dalla semioscurità della soffitta e siamo improvvisamente inondati di luce. E’ la luce del cielo di Barcellona, perché siamo sulla cima di uno dei palazzi più alti. Tutta la città è intorno a noi, quasi sotto, e c’è il mare ad un orizzonte e le colline all’altro. Tutti i tetti della città partono dalla linea del nostro sguardo e corrono verso il loro punto di fuga. Basterebbe questo ma questo è nulla. Il resto è il posto dove siamo. La terrazza sembra una ninfea galleggiante su uno stagno di antenne, un letto di foglie nel sottobosco che prende le forme morbide del terreno sottostante senza rivelarlo. Scende, risale, curva, ondeggia, oscilla.
    Al centro si aprono un paio di voragini che poi scopri essere i cortili interni del palazzo, di forma indefinita, profondi e costellati di finestre come pozzi di san patrizio passati sotto il pennello di Dalì che li ha resi flosci come i suoi famosi orologi. E’ inevitabile che ci sia quassù sempre un sacco di movimento di turisti in visita, ma quand’anche riuscissi a salire qui senza nessun altro, non saresti comunque da solo.
    Personaggi austeri e improbabili, enormi Elfi, sintesi astratte di guerrieri senza tempo ti guardano da ogni angolo. Non hanno occhi ma ti guardano.
    Le uscite delle scale sono trasformate da Gaudì in casupole di streghe con i tetti spiraleggianti e luccicanti di schegge di ceramica, i molti comignoli del palazzo sono alfieri di una enorme scacchiera attorcigliati su se stessi come sotto la forza di una gigantesca pinza. Sembra di trovarsi nel mezzo dell’opera di un gigante che sta costruendo un modellino per il suo figliolo non meno gigante di lui. Puoi pensare, senza sentirti pazzo, che da un momento all’altro potrebbe spuntare una enorme mano e prenderti per mangiarti, o magari semplicemente per scansarti di lì che gli dai fastidio, che lui ci sta ancora lavorando, a quel piccolo giocattolo.
    E subito sopra di te, ma proprio subito neanche ti trovassi in Africa, c’è il cielo. Sembra proprio lì, straordinariamente vicino. Forse perché altre cose più alte abbastanza vicine non ne hai, o forse perché è talmente evidente che tutto ciò che ondeggia lassù punta irrimediabilmente al cielo che non può che sembrarti più vicino del solito.
    Tutto tranne una cosa.
    Proprio dal tetto della Pedrera, se guardi verso est, magari attraverso uno dei buchi aperti in mezzo ai coni delle streghe, nel bel mezzo della distesa di tetti vedi qualcosa che certamente punta verso il cielo più di chiunque altra.
    C’è una specie di castello di sabbia bagnata che si allunga verso il cielo come se potesse esistere e re sistere in piedi solo attorcigliandosi all’infinito verso l’infinito, senza mai raggiungerlo.
    Già…. Non bastassero casa Batllò, La Pedrera e Parc Güell a fare di Gaudì un genio immortale, c’è proprio lì in mezzo alla città quell’altra follia della Sagrada Familia.
    L’ultima cattedrale. La basilica dell’Assurdo.
    Che merita da sola l’ultima puntata del viaggio.

    26 Maggio 2008

    Antoni Gaudì
    Casa Milà, detta La Pedrera
    (1904-1907)
    Passeig de Gràcia, 92 – Barcelona

    (Capitolo estratto dalla raccolta “Attraverso le forme” http://ilmiolibro.kataweb.it/libro/arte-e-architettura/39600/attraverso-le-forme/)

    Alessandro Borgogno


    Il tempio dell'impossibile

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    E alla fine bisogna fare i conti anche con lei. La costruzione più ambiziosa, più stravagante, più concettualmente impegnativa e più realizzativamente colossale di tutto il secolo che abbiamo alle spalle (ed è partita nel secolo ancora precedente, nel 1883).
    Non ci sono Grattacieli newyorkesi o Grand Arche parigini o modernissime e strabilianti costruzioni asiatiche che tengano, la Sagrada Familia di Barcellona è l’ultima, autentica, vera, immensa opera comunitaria dell’umanità. L’unica che ancora oggi, in piena e febbrile costruzione, possa tenere un confronto storico, artistico e filosofico con le grandi cattedrali del Medioevo, con Chartres, con Notre-Dame, e con il tempio della cristianità per eccellenza, la nostra Basilica di San Pietro, con la quale condivide anche la lunghezza dei tempi di realizzazione e il concetto stesso di “fabbrica” in continua evoluzione e trasformazione.
    Questo è senza dubbio il primo aspetto, forse quello fondamentale, che lo stesso Gaudì prendendo in mano il progetto alla fine dell’ottocento volle da subito imprimere all’opera. Il concetto di grande impresa al limite delle possibilità umane. L’idea di una costruzione che travalicasse i confini umani e storici, che rappresentasse la capacità dell’uomo di superare se stesso nel suo rapporto con il divino in una commistione inestricabile fra lo sforzo intellettuale dell’idea e quello fisico della realizzazione. Un opera che fosse tutt’uno con l’impresa del costruirla. Un’opera che con i decenni è diventata essa stessa l’impresa della sua costruzione.
    L’idea, mai fissa e anch’essa mutabile e mutata nel corso della vita del genio e poi nel corso del secolo che lo ha seguito, è una summa ideologica e simbolica di tutto il suo fantastico, della sua capacità di cogliere la natura e riprodurla nelle forme e nella sostanza attraverso la pietra, il ferro, il cemento.
    La Sagrada Familia è un’allucinazione che diventa realtà sotto i nostri occhi, e non c’è altro luogo al mondo dove ci sia dato di vedere in modo così chiaro ed esplicito come la sintesi puramente mentale fra tutti gli elementi naturali ed intellettuali che coesistono nella nostra mente si possa materializzare in un unico punto dello spazio e in un sistema immensamente complesso di elementi tutti concorrenti verso un unico obiettivo, indipendentemente da quanto questo sia lontano nel tempo.
    Difficile dire quale sia il modo migliore per arrivarci e per guardarla, anche perché è dotata di una tale infinità di punti di vista possibili che ognuno è quello buono e nessuno li esaurisce tutti. Arrivarci da lontano, magari a piedi, lungo una delle Avenide che convergono verso di lei significa constatarne lentamente la grandezza e la complessità e sentirsi via via rimpicciolire fino a diventare (giustamente) polvere una volta giunti al suo cospetto. Uscire dalla metropolitana e trovarsela addosso tutta insieme significa invece sbucare da un cunicolo e trovarsi improvvisamente nella tana di un immenso granchio, pieno di zampe e altre parti non meglio identificabili, ricoperto di incrostazioni marine, indefinibile nei suoi contorni, incombente e minaccioso, meraviglioso da far tremare di terrore. E significa anche scattare improvvisamente in su con lo sguardo, a rischio di una fitta al collo, perché si è costretti immediatamente a salire salire salire fino alle cime delle torri che sembrano non finire mai, attorcigliandosi verso il cielo in un moto perpetuo e mai finito.
    Non c’è un punto della costruzione che appaia uguale ad un altro, e se distogli un attimo lo sguardo e poi ce lo riposi a volte lo stesso punto non è neanche più uguale a se stesso. I pinnacoli sembrano degli immensi termitai che sbucano dalla savana, e così ti puoi definitivamente sentire una formica anche solo a guardarli, oppure ti evocano in modo terribilmente preciso i castelli fatti da bambino sulla spiaggia facendo gocciolare la sabbia bagnata, e quindi, se non ti basta sentirti formica, puoi sempre aspettarti di vedere apparire un bambino mostruosamente grande che ne fa gocciolare ancora un po’ e ti seppellisce definitivamente sotto una montagna di fango.
    Ciò che poi scopri ad ogni angolo e da ciascuna nuova angolazione, è un campionario pressoché infinito di idee che prendono forma, e soprattutto la mutano continuamente sotto i tuoi occhi. E così le navate diventano foreste, e le volte le chiome di alberi stilizzati all’estremo, l’interno delle torri è un vortice di spirali che arrivano dirette dalle conchiglie fossili, e poi pinnacoli che innalzano al cielo grappoli di smisurati e coloratissimi frutti, e poi ancora scritte sacre che si avvolgono colorate intorno ai tortiglioni come fossero mastodontici fumetti a riunire in un solo carattere il sacro e il profano. Un delirio di forme mai ripetitive e tutte legate da una unica irresistibile e ferrea logica.
    Guardare la Sagrada, giragli intorno, entrare e poi sa-lire sulle torri, non è una semplice visita ad una chiesa o a un monumento, è un viaggio inverosimile attraverso la mente umana, il suo spirito, i suoi demoni e la sua capacità di raziocinio. E’ un attraversamento in sospensione dei sensi di una rete inestricabile dove la scienza e la matematica e la filosofia e lo spirito non si dividono mai uno dall’altro. Follia ragionata, razionalità paradossale. Un ossimoro che si fa monumento sotto i nostri occhi.
    E’ stato giustamente definito, Gaudì, “l’ultimo costruttore di cattedrali”. Al di là della notazione tecnica per cui la Sagrada non è una cattedrale (la cattedrale di Barcellona è un’altra, Santa Eulàlia, splendido tardo gotico ma assai più classico) ma una basilica, cattolica romana, il cui nome completo è Temple Expiatori de la Sagrada Família (Tempio espiatorio della Sacra Famiglia), la definizione è comunque esatta e nitida. Perché ciò che distingue il capolavoro dell’architetto catalano da qualunque altra opera simile è proprio il concetto di opera grandiosa che travalica i secoli, impresa ambiziosa da realizzare non solo attraverso un progetto da affidare poi alle normali tecniche di costruzione, ma che indipendentemente dall’avanzare della tecnologia rimane sempre e per sempre un’opera fatta dal lavoro di mille singoli uomini, geometri, ingegneri, architetti e carpentieri, e poi artigiani della pietra, del legno, del ferro, ognuno in grado di aggiungere il proprio estro e la propria maestria al servizio di un’opera colossale dedicata all’umanità intera, e per suo tramite direttamente a Dio.
    E’ evidente che la religiosità estrema di Gaudì, arrivata negli ultimi anni della sua vita a sfiorare l’ascetismo, ha finito per concentrare in questa opera tutte le sue energie e tutta la sua genialità, ma è altrettanto evidente che lui per primo è sempre stato cosciente del suo carattere essenziale di impresa sovrumana prima ancora che del suo significato simbolico di tempio dedicato al soprannaturale. Così come è stato cosciente fin dall’inizio che non l’avrebbe mai vista conclusa, consapevole di un’impresa che andava ben oltre la vita di un singolo uomo, e per questo volle che la costruzione procedesse per linee esterne e non salendo omogeneamente dal basso delle fondamenta fino al tetto, così da poter vedere coi propri occhi realizzate almeno le prime torri, quelle che esteticamente gli avrebbero mostrato l’aspetto essenziale di tutta l’opera: lo slancio verso l’alto, verso l’Altissimo, verso l’infinito.
    Ed in questo procedere nella costruzione in modo non lineare che risiede anche un altro carattere fondamentale del suo essere opera unica nella storia dell’umanità. Per quasi un secolo i lavori sono andati avanti lentissimi, una pietra per volta, sostenuti quasi unicamente dalle donazioni dei fedeli. Per quasi un secolo la Sagrada è stata soltanto un abside scoperto e quattro torri e poi altre quattro assurdamente attorcigliate verso il cielo, e uno spiazzo aperto sotto quel cielo riempito solo da materiali di cantiere. Ora, negli ultimi dieci anni, nuovi materiali e nuove tecnologie hanno dato ai lavori un’accelerazione improvvisa, ma la sostanza non cambia. Le sue strutture irreali e fantastiche sono un tutt’uno con le foreste di impalcature, tramezzi, col rumore di seghe mostruose che tagliano il marmo, con i profili di gru metalliche che bucano le nuvole. Un cantiere infinito che lavora per l’infinito.
    Diversamente da tutte le altre opere del maestro catalano, la Sagrada non è mai stata solo meraviglia o realizzazione pur sublime di geniali idee formali e funzionali e strutturali, ma è stata fin dal suo concepimento la personificazione totale dell’ingegno umano che chiede aiuto alla propria spiritualità per realizzare ciò che non sarebbe realizzabile da nessuna qualità umana presa singolarmente, e forse neanche da tutte loro messe insieme. E’ il tentativo estremo di superare i limiti umani attraverso l’anima delle cose, trapassare la loro essenza materiale e diventare, attraverso la forma, concetto puramente filosofico e spirituale di grandezza e di eternità.
    Una cosetta da poco, insomma. E’ anche per questo, con tutta probabilità, che la Sagrada può suscitare con analoga decisione e precisione la meraviglia, l’ammirazione, l’orrore, il disgusto o il senso del sublime. E può farlo anche nello stesso osservatore da un momento all’altro. C’è chi pensa sia orribile, chi magnifica, chi tutte e due le cose, e chi, forse anche giustamente, non riesce mai a scindere completamente la meraviglia dal terrore, perché forse è proprio questo ciò che rappresenta e che incarna. In ogni istante del suo esistere riesce ad essere slancio fulmineo e tentacolare tenebra, rampa di lancio per missili puntati verso il cosmo e mostruoso ragno prigioniero nella sua stessa tela, presunzione di eternità dell’uomo mortale e estrema umiltà di chi sa che per qualunque impresa serve il lavoro lento, faticoso e discreto del primo degli artisti come dell’ultimo dei muratori.
    La sua vera Natura, proprio in quanto direttamente concepita sulle forme naturali, è quella di un immenso organismo vivente, pluricellulare, in continuo e costante mutamento. Accanto ad una pietra scura posata nell’ottocento ce n’è una bianchissima posata ieri e ce ne sarà un’altra domani ancora diversa. Sempre riconoscibilissima nella sua unicità ma completamente diversa da com’era dieci anni fa, e diversa il prossimo anno da come appare oggi.
    Se dovessi dare un consiglio a chi si sta giustamente impegnando con tutte le forze per portare a compimento quest’opera ormai concettualmente irripetibile per l’umanità del nuovo millennio, mi per metterei di darne uno solo: quando finalmente vedrete il traguardo, quando sarete giunti alle ultime pietre, per favore, fermatevi lì. Lasciate da qualche parte alcuni blocchi non montati, una porzione di impalcatura, una piccola scavatrice. Qualcosa che continui a comunicare insieme alla grandezza del monumento giunto alla sua forma completa anche il senso costante della costruzione e della trasformazione, anima indissolubile di questa immensa follia del genio umano.
    Qualcosa come l’angelo mancante di Sant’Andrea della valle a Roma, vuoto simbolico che da solo fissa per l’eternità la non conclusione della chiesa, così cercate di fare anche per la meravigliosa idea di Gaudì, che proprio perché idea non potrà mai essere pietrificata per sempre in una sola forma. Proprio come lui, che nel suo lucidissimo delirio mistico progettò la più alta delle torri esattamente un metro più bassa della collina che domina Barcellona, il Montjuïc, perché mai il suo lavoro avrebbe potuto sorpassare quello di Dio, così voi evitate la presunzione di raggiungere l’inevitabile perfezione che la conclusione definitiva del progetto comporterebbe.
    Sarebbe probabilmente l’inizio della sua fine. Ho idea che il migliore onore anche all’immenso genio del suo creatore possa essere questo: fermarsi gius to un metro prima, e lasciarle in dono almeno un angolo della precarietà che l’ha costantemente caratterizzata.
    Uno spicchio di non finito che le doni l’infinito per l’eternità.

    26 Maggio 2008

    Antoni Gaudì
    Sagrada Familia
    (1883-1926/in costruzione)
    Plaça della Sagrada Familia - Barcelona


    (Capitolo estratto dalla raccolta “Attraverso le forme” http://ilmiolibro.kataweb.it/libro/arte-e-architettura/39600/attraverso-le-forme/)

    Alessandro Borgogno

    Il sangue dimenticato. Il massacro del Marias River

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    Giovane donna Blackfoot (indigenous picture)
    Tra tutti i massacri perpetrati nell’800 nei confronti dei nativi e riconosciuti nel tempo dagli Stati Uniti, alcuni ben noti al grande pubblico grazie all’attenzione di registi, scrittori, poeti e musicisti, esiste un fatto gravissimo ed impunito, forse più efferato del Sand Creek, più infame di Wounded Knee, sul quale per oltre un secolo è calato il silenzio: nessun film, nessun libro, nessuna canzone sono mai stati dedicati esclusivamente a quella che fu una delle peggiori carneficine del Far West, ignorata anche dalla maggior parte degli storici delle guerre indiane.
    Quello che segue è il resoconto, dimenticato tra le pieghe della Storia, dell’inutile eccidio di 217 vecchi, donne e bambini indiani lungo il Marias River, in Montana, nel 1870. Quella parte di frontiera, all’epoca dei fatti, era molto sensibile sotto il profilo dell’Ordine Pubblico: i crescenti stanziamenti di coloni, in gran parte allevatori di bestiame e minatori, erano continuamente osteggiati dalle tribù di Piegan, Blood e Blackfeet (poi riunitesi nell’unica confederazione Blackfeet), bellicose e poco disposte ad accettare la continua invasione di bianchi nei territori loro assegnati dai trattati di Fort Laramie (1851) e di Lame Bull (1855). Lo scontro tra le due culture era ormai in atto da tempo: gli Stati Uniti si espandevano verso ovest sradicando le popolazioni che invece volevano mantenere integra la loro casa ancestrale. In quel clima precario si muoveva molto bene un ricco e noto allevatore di bestiame di Helena, tale Malcolm Clarke. Ex cadetto espulso da West Point per indisciplina, Clarke aveva maturato un’ottima conoscenza delle locali tribù Piegans, dalle quali era temuto e rispettato, avendo peraltro sposato la figlia adolescente di un Capo Tribù “Cutting Head Woman”, dalla quale aveva avuto 4 figli. Nella primavera del 1867 dal ranch dei Clarke furono rubati diversi cavalli, alcuni appartenenti ad un cugino indiano della moglie, Pete Owl Child. Mentre le bestie ferrate di Clarke furono ben presto ritrovate, dei mustangs indiani nessuna traccia per cui Owl Child, infuriato, pensò bene di trattenere per sé i cavalli di Clarke, sottraendogli anche un telescopio. Il commerciante, accortosi del nuovo furto, inseguì e raggiunse rabbioso il cugino che era riparato nell’accampamento di “Mountain Chief” - un Capo Piegan da sempre ostile ai bianchi - riprendendosi cavalli e telescopio solo dopo aver frustato, picchiato ed umiliato il giovane parente davanti a tutti i membri della tribù. La questione sembrò a tutti una banale lite familiare ma, evidentemente, Owl Child non dimenticò l’affronto e, il 17 agosto di 2 anni dopo, si ripresentò con alcuni giovani guerrieri presso il ranch dei Clarke ove, dopo essersi fatto invitare a cena dalla famiglia della cugina, consumò la vendetta a lungo covata: Malcolm Clarke fu ucciso con un colpo d’ascia in testa, mentre il primogenito 15enne Horace rimase ferito gravemente da una fucilata al volto che lo sfigurò permanentemente. Il ranch fu saccheggiato e semi distrutto ma nessuno toccò la giovane moglie indiana ed i 3 figli piccoli. In verità esiste anche un’altra versione meno accreditata sui motivi dell’omicidio (sostenuta da Carol Murray, rappresentante del “Blackfeet Community College” e da lei asseritamente acquisita da alcune memorie orali della tribù) secondo la quale Clarke violentò una giovane moglie di Owl Child che, nella stessa estate del 1869, partorì un neonato biondo e occhi azzurri.
    Tre Capi Piegans (History Bytez)

    Qualunque fosse il vero motivo del rancore, l’omicidio non fu interpretato come una faida familiare bensì come il preludio ad una nuova rivolta indiana. La tremenda guerra dei Sioux di Nuvola Rossa sul vicino Bozeman Trail era infatti appena conclusa e le comunità di coloni erano terrorizzate, temendo nuovi assalti e nuovi massacri: se Clarke, che “era più amico degli indiani che dei bianchi” aveva fatto quella fine, nessuno poteva considerarsi al sicuro. La tensione era palpabile nonostante il Sovrintendente agli Affari Indiani per il Montana Gen. Alfred Sully e l’Agente Indiano dei Piegans Ten. William Pease, entrambi decisi a minimizzare i fatti per raffreddare gli animi, si fossero rivolti ai locali Capi Tribù patteggiando la consegna di Owl Child e dei 5 indiani riconosciuti dalla vedova Clarke. Le notizie dal Montana nel frattempo giunsero a Chicago, sul tavolo del Generale Philip Sheridan, Comandante del Dipartimento Militare del Missouri, da sempre fautore di una politica aggressiva verso i nativi, il quale diede subito credito alle voci allarmistiche autorizzando la rappresaglia contro la banda di “MountainChief”, colpevole di proteggere gli assassini di Clarke; l’azione militare oltre ad alleggerire le isterie dei coloni doveva essere un chiaro monito per le tribù dell’area. 
    All’alba del 6 gennaio 1870 lo Squadrone composto da 4 Compagnie del 2° Reggimento Cavalleria lasciò Fort Ellis diretto a nord, poi rinforzato da altre 2 unità di fanteria provenienti da Fort Shaw (in totale circa 380 soldati). La spedizione militare avanzava nella neve alta al comando del Ten. Col. Eugene Baker, un ufficiale 32enne che dopo West Point aveva visto naufragare le premesse di una brillante carriera, prima nella spietata realtà della Guerra di Secessione, poi nel consumo smodato di alcool, lassù, confinato in una guarnigione sperduta tra i ghiacci del Montana. Il gelo quella mattina era terribile, la temperatura sfiorava i 40 gradi sotto lo zero ed i soldati, più impegnati a sopravvivere all’ipotermia che a cercare gli assassini di Clarke, indossavano pelli di bisonte e coperte sopra le uniformi di lana. Un militare, anni dopo, dichiarò: “sembravamo più un gruppo di eschimesi che soldati dell’Esercito degli Stati Uniti”. Le guide erano Joe Kipp, ventenne mezzo sangue Mandan e ottimo esperto del territorio, Joe Cobell, un cacciatore di pelli di origini italiane nativo di Bardonecchia (TO) eccellente tiratore che aveva sposato la sorella del capo Mountain Chief (la sua presenza suscitò non poche perplessità) nonché Horace Clarke, il figlio sfigurato del commerciante di Helena, ansioso di fare giustizia dei torti subiti. Baker si fidava poco delle guide mezze indiane, ma d’altra parte Joe kipp aveva avvistato giorni prima l’accampamento di “Mountain Chief” presso il Big Bend, la grande ansa del Marias River, a nord-est del fiume Teton, in direzione della Medicine Line e del confine Canadese.
    Ten. Col. baker a Fort Ellis (Bozeman Daily Chronicle)
    Il 22 gennaio i soldati raggiunsero il Dry Fork del Marias River, non lontani dal villaggio indiano, dove si accamparono preparando l’attacco per l’alba del giorno seguente. L’ordine di Baker era di non accendere fuochi per non allertare gli ostili, quindi i patimenti per il gelo arrivarono al culmine: nessuna possibilità di riscaldarsi, l’unico mezzo per sopravvivere era consumare alcool. In quantità. All’alba del 23 gennaio, mentre Baker che aveva passato ore ad ubriacarsi predisponeva gli uomini sulle rocce attorno al villaggio, lo scout Joe Kipp si spinse in ricognizione vicino alle prime tende indiane, da dove però si accorse con sgomento che i disegni dipinti sulle pelli di bisonte dei tepee non corrispondevano alla banda di “Mountain Chief” bensì al gruppo dei pacifici Blackfeet di “Heavy Runner”,un capo amico del Generale Sully. Si trattava di un “campo di malattia” dal quale i guerrieri erano momentaneamente lontani per la caccia al bisonte e dove la maggior parte dei presenti erano anziani, donne e bambini, molti dei quali debilitati per l’epidemia di vaiolo in corso. Kipp corse immediatamente da Baker gridando di sospendere l’azione perché era il campo sbagliato, ma l’Ufficiale per tutta risposta lo zittì immediatamente, facendolo mettere sotto sorveglianza e minacciandolo di morte se avesse continuato ad urlare. L’ordine fu dato alle 08.00 e l’azione di fucileria ebbe inizio. Il Capo “Heavy Runner” corse fuori dalla tenda verso i soldati agitando il salvacondotto rilasciatogli dal Generale Sully: una fucilata e si accasciò al suolo senza vita. Nelle inchieste successive emerse che a sparare quel colpo fu probabilmente Joe Cobell, lo scout italiano, accusato di aver voluto così scatenare l’attacco per dare il tempo alla banda del cognato “Mountain Chief”, che era accampata poco lontano, di guadagnare il confine canadese. I sospetti non furono mai provati. Per circa un’ora i soldati mezzi ubriachi scaricarono i loro fucili Springfield e Sharp sulle tende crivellandole di colpi, senza subire alcun fuoco di ritorno. La scena fu descritta come un’orgia impazzita senza senso. L’intensa ed incessante sparatoria spezzò diversi pali che reggevano le tende facendole crollare sui focolari accesi all’interno, incendiandole e bruciando vive le persone intrappolate sotto le pelli. Dopo un’ora Baker fece irrompere la cavalleria nel villaggio per finire l’opera a colpi di sciabola e con i revolver. Verso le ore 11.00 lo scempio si concluse ed i prigionieri vennero accalcati al centro del villaggio, i fanti passarono tra le tende giustiziando i feriti agonizzanti. Baker, quando venne informato che nel campo c’era il vaiolo, diede ordine di bruciare tutto e di abbandonare i 140 sopravvissuti, in prevalenza donne e bambini, nel gelo e nella neve, senza coperte e senza provviste.
    Famiglia Piegan (Wikipedia)

    Il tardivo rapporto di Baker - più volte corretto e addomesticato – redatto solamente dopo le insistenze di Sully e Pease che sollecitarono a Washington un’indagine pubblica, parlava di circa 120 guerrieri uccisi (a fronte di un solo soldato di 24 anni morto e di un altro ferito ad una gamba perché caduto da cavallo!) ma le successive inchieste, ritenendo inverosimile tale versione, accertarono che gli indiani trucidati nel villaggio furono almeno 217, tra cui meno di 30 guerrieri abili, circa 50 vecchi, 90 donne e 50 bambini, compresi diversi neonati. Dei 140 prigionieri abbandonati nel gelo, meno di 50 riuscirono a raggiungere Fort Benton, distante 90 miglia, mentre la maggior parte perirono congelati nella neve. Ben presto la voce si sparse tra le Riserve delle Grandi Pianure, alcune delle quali vennero date alle fiamme in segno di protesta ed i funzionari governativi scacciati. Si parlava ancora di ribellione ed il Paese si scoprì spaccato in due: per la gente del Montana Baker era un eroe che si era prodigato per stroncare sul nascere una pericolosa rivolta indiana, mentre nei giornali dell’Est esplose l’indignazione. A marzo il “New York Evening Post” scrisse: "esprimiamo il nostro orrore assoluto per il massacro a freddo di 90 donne e 50 bambini piccoli perpetrato pochi giorni fa dai soldati statunitensi in Montana”, mentre il “Chicago Tribune” definì con titoli cubitali l’evento come “una disgustosa macelleria”, l’opinione pubblica si sentiva oltraggiata dai resoconti dei testimoni. Il tenente Gus Doane, Comandante della Compagnia F agli ordini di Baker, 19 anni dopo definì quella spedizione:"la più grande carneficina di indiani, mai compiuta dalle truppe statunitensi". I vertici militari tuttavia si impegnarono fermamente con il Governo per chiudere la storia nel più breve tempo possibile, sposando in pieno le dichiarazioni del Ten. Col. Baker che illustravano una eroica battaglia sul Marias River e definendo pura illazione ogni interpretazione diversa. Il Generale Sherman, Comandante in Capo dell’Esercito degli Stati Uniti, scrisse: “preferisco credere che la maggioranza di coloro che sono stati uccisi nel campo fossero guerrieri di Chief Mountain”. Qualsiasi prova o testimonianza contraria a tale versione dei fatti fu insabbiata, nessuno verificò chi e quanti fossero i corpi congelati sul fiume Marias, nessuna conseguenza per i responsabili dell’eccidio. Un’unica parola d’ordine “normalizzare il Montana”. Nel frattempo arrivò la guerra con i Sioux nelle Black Hills (1874), l’opinione pubblica si concentrò sulla sconfitta di Custer a Little Bighorn (1876), i protagonisti di quella vicenda poco per volta uscirono di scena: Pete Owl Child poche settimane dopo fu decapitato da alcuni capi Piegans che ne consegnarono la testa alle Autorità in segno di buona fede; Mountain Chief fu ucciso 2 anni dopo in Canada mentre cercava di sedare una lite tra due Piegans, il Ten. Col. Baker continuò la sua discesa irrefrenabile nel baratro dell’alcoolismo morendo di cirrosi epatica anni dopo. Le tribù Blackfeet, decimate dalle malattie, non riuscirono più a reagire in maniera consistente alla colonizzazione.
    New York Times 23 febbraio 1870 (Rare & Early Newspaper)
    Le nebbie del tempo iniziarono a diradarsi solo un secolo più tardi, grazie allo scrittore e studioso della cultura Blackfoot James Welch (1940-2003) ed al suo romanzo “Fools Crow” scritto nel 1986 nel quale, tra storie orali e familiari, egli inserì i ricordi di sua nonna sopravvissuta al massacro del Marias River (ispirando le successive ricerche di giornalisti come Stan Gibson e Jack Hayne che passarono mesi a documentare la ricostruzione dell’eccidio, tra archivi militari e articoli di stampa dell’epoca). Per la prima volta gli studenti universitari della Riserva Blackfeet del Montana venivano a conoscenza di quei tragici giorni del 1870 e potevano leggere le terribili testimonianze ormai dimenticate. Eccone alcune: 
    1913, 43 anni dopo i fatti “Buffalo Trail Woman”, donna sopravvissuta al massacro, in una dichiarazione sotto giuramento ad una Commissione d’indagine Blackfoot:“avevo 22 anni, mi svegliai e mi accorsi del fuoco attorno a me. Come in un sogno vidi un lampo, fui colpita al dorso e all’orecchio sinistro – ancora oggi porto le cicatrici – accanto a me mio marito Gufo Giallo era appena stato ucciso ... un vecchio si contorceva tra le coperte incendiate... vidi alcuni soldati uccidere i prigionieri raggruppati in cerchio mentre altri bianchi cercavano invece di proteggerli e calmarli dando loro del cibo …corsi fuori insieme ad un’altra donna della tribù “Gros Ventre” per cercare la mia bambina e scoprii che era stata uccisa … uno scout vedendomi urlare mi disse di scappare … da lontano, mentre fuggivo nella neve, vedevo il fumo, le tende capovolte e incendiate”
    1932, 62 anni dopo i fatti “Spear Woman”, figlia del Capo Heavy Runner, in un’intervista al “Billings Gazette” :“ero una bambina, qualcuno avvisò mio padre dell’arrivo di molti soldati … lui disse a tutti che non c’era nulla da temere … camminò tranquillamente verso di loro con le braccia alzate e stringendo in mano la carta della sicurezza. Un colpo lo colpì al cuore ...scappai in una tenda e mi nascosi dietro al giaciglio di mio nonno malato. Un soldato entrò tagliando la tenda con un coltello, sparò fino ad uccidere tutti, dopo di che uscì senza vedermi ... sentivo gli spari, le urla, i pianti fino a quando il rumore cessò … all’esterno tutto era immobile, solo odore di fumo.Urlai forte … un mio vecchio zio e una donna con un bambino mi videro e con loro seguii le tracce di alcuni cavalli nella neve profonda, verso Fort Benton ... sopravvissi perché trovai alcune razioni di cibo abbandonate nella neve dai soldati." 
    1935, 65 anni dopo i fatti lo scrittore JW Schultz raccolse la testimonianza del vecchio Bear Head: “ero un ragazzino e mi trovavo con altri coetanei fuori dal villaggio per recuperare alcuni cavalli visto che i guerrieri erano a caccia … fui catturato dai soldati che stavano attaccando il villaggio … il loro capo gridò qualcosa e tutti cominciarono a sparare sulle tende ... sentivo le urla delle donne e dei bambini, mentre morivano, le donne che cercavano la fuga venivano abbattute …. I soldati quindi avanzarono verso le tende, tagliarono i legacci dei pali incendiandole, vidi la tenda di mia madre bruciare con dentro lei, le mie zie e le mie sorelle … i soldati giravano fra le tende fumanti e ridevano, mi accasciai a terra e mi sentii male.”
    Da circa 20 anni a questa parte, ogni 23 gennaio, alcuni studenti delle facoltà del “Blackfeet Community College” appartenenti all’antica tribù dei Piegan e provenienti per lo più dalla cittadina di Browning nel Montana, si riuniscono in cerchio tra le rocce che si affacciano sulla grande ansa del fiume Marias, sul lato orientale del Glacier National Park. Con preghiere e canti funebri onorano 217 tra vecchi, donne e bambini che ancora oggi riposano in qualche punto della valle, poco lontano dal luogo della cerimonia. Lea Withford, Presidentessa del Dipartimento dei Blackfeet ha dichiarato che le autorità tribali della Riserva hanno autorizzato in quell’area solo l’affissione di un segnale storico da parte dell’Agenzia dei Trasporti del Montana. Nessuno scavo, nessun monumento, nessun riconoscimento o risarcimento tardivo potrà più essere concesso, il Marias River dovrà restare per sempre il terreno sacro del popolo Blackfeet. 
    "… feci irruzione in una tenda, una giovane squaw stava allattando il suo bambino, mi scongiurò terrorizzata di lasciare che il neonato ricevesse il suo seno prima di ucciderla, mi porse il neonato pregandomi di lasciare in vita almeno lui ... la ignorai allontanandomi. Più tardi passai di nuovo e vidi i corpi morti sia della madre che del figlio …" (Tom Le Forge, miliziano al seguito delle truppe - di Stan Gibson & Jack Hayne) 


    Sergio Amendolia 

    Bibliografia: 

    James Welch: Fools Crow – estratti web dal cap. 35; 

    Dee Brown: Seppellite il mio cuore a Wounded Knee, cap. VIII ; 

    Sitografia: 








    www.dickshovel.com (Witnesses to carnage – the 1870 Marias massacre in Montana –by Stan Gibson & Jack Hayne) 

    La regina cattiva del Duomo di Naumburg

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    Non c’è dubbio che i film animati, in particolare quelli storici della Disney, siano da considerare al pari livello di qualunque opera cinematografica, e spesso meritando la qualifica di autentiche opere d’arte.
    Il lavoro che c’è quasi sempre dietro un’opera di quel genere è un lavoro meticoloso, attento a tutti gli aspetti creativi, storici, iconografici e psicologici con una profondità e uno studio che a volte superano quelli dei film “tradizionali”. Del resto basti pensare che in un film normale un ciack venuto male si può sempre rifare, e una buona idea può anche essere improvvisata su un set, ma quando dietro ad una semplice espressione di un viso ci sono migliaia e migliaia di disegni (prima dell’avvento della computer grafica fatti a mano uno per uno!) si capisce che ben poco può essere lasciato al caso.
    Fra le tante sorprese che molti capolavori di animazione nascondono, forse una delle più intriganti la riserva proprio il prototipo di questo genere di arte, quel “Biancaneve e i sette nani” che nel lontano 1937, primo lungometraggio d’animazione della storia del cinema, sconvolse il mondo della cinematografia per la perfezione della tecnica, la ciclopicità dell’impresa produttiva, la bellezza della sua estetica e la capacità narrativa espressa, in fondo, con soli fogli di carta disegnati e colorati.
    Sappiamo bene quanto qualunque storia partorita dalla mente, e poi dagli studios, di Walt Disney mettesse particolare attenzione alla figura del cattivo (il “villain”). Come diceva anche il maestro Hitchcock, “più riuscito è il cattivo, più riuscito sarà il film”. E l’archetipo del cattivo Disney nasce proprio col suo primo titanico capolavoro: è la regina Grimhilde, la regina cattiva, appunto.
    Ciò che probabilmente meno si conosce è l’origine iconografica di questa elegante e perfida figura che ha segnato l’immaginario di intere generazioni di bambini e ragazzi (e in fondo anche di adulti). Per trovarla occorre spingersi fino nella profonda Germania centro-orientale, a Naumburg, e visitare il suo splendido duomo medioevale.
    A ridosso dell’abside, addossate alle colonne e sovrastate da elaborati baldacchini, ci sono alcune statue raffiguranti importanti personaggi dell’epoca. Fra queste, c’è una magnifica statua in pietra, risalente al 1250 e realizzata da un anonimo maestro di Naumburg, che riproduce le fattezze di Uta degli Askani di Ballenstedt, moglie di Ekkehard II di Messein.
    Basta uno sguardo, neanche troppo attento, per non avere alcun dubbio: è la Regina Cattiva di Biancaneve!
    In epoca molto ante-internet tali immagini non capitavano certo facilmente sotto gli occhi di tutti, ma è anche vero che la statua, indubbiamente di notevole bellezza, compariva già in diverse pubblicazioni riguardanti l’arte medievale tedesca. Da aggiungere poi che negli anni immediatamente precedenti alla realizzazione del film, l’immagine di Uta di Naumburg aveva assunto già una sua iconica importanza nella sempre attentissima valorizzazione che il nazismo faceva dei riferimenti storici germanici. E qui inevitabilmente ci viene in mente che da molte fonti possiamo trovare riportato come “Biancaneve e i sette nani” fosse un film particolarmente amato da Goebbels.
    Pubblicamente però, il film in Germania ebbe tutt’altra fortuna. Alla sua uscita europea, nel 1938, il Terzo Reich si era ormai manifestato in tutta la sua pericolosità (la Germania Nazista si era appena “annessa” l’Austria), e la gran parte dei critici tedeschi che videro il film a Venezia, spesso mascherando le critiche dietro questioni tecniche e artistiche, in realtà deplorarono in modo più o meno esplicito la scelta di utilizzare come simbolo della malvagità proprio una delle icone “positive” dell’arte germanica, tra l’altro utilizzata più volte dalla stessa propaganda nazista come esempio dell’arte classica teutonica da contrapporre alle “degenerazioni” dell’espressionismo e del surrealismo.
    L’apprezzamento di Goebbels per la pellicola fu quindi privato, e annotato in alcuni appunti personali. In pubblico si tentò in vario modo di boicottare il film, anche se alla fine perfino il Reich dovette fare buon viso a cattivo gioco, data la clamorosa fama che “Biancaneve e i sette nani” aveva nel frattempo conquistato in tutto il mondo. Di certo, più o meno volontario che fosse, quello di Disney venne senz’altro vissuto come un vero colpo basso, un perfido e sottile “attacco alla intera politica culturale del Terzo Reich”.
    La storia di come effettivamente Disney sia arrivato alla decisione di utilizzare la magnifica figura di Uta per il suo primo e inimitabile “villain” è lunga, tortuosa e affascinante. Coinvolge personaggi fra i più vari e insospettabili come Marlene Dietrich e il futuro regista disneyano Wolfgang Reithermann (che alla morte del genio Walt ne raccoglierà lo scettro dirigendo direttamente molti classici fra cui “la bella addormentata nel bosco”, “la carica dei 101”, “il libro della giungla” fino a “le avventure di Bianca e Bernie”) che proprio dalla Germania era giunto negli anni venti a Los Angeles. Troppo lunga per essere condensata qui, ma per chi è interessato segnaliamo in fondo all’articolo un libro che la ripercorre in modo dettagliato (e piacevole, che non è poco).
    Qui resta solo da aggiungere che, al di là dei riscontri storici, molti altri indizi puramente cinematografici possono comunque rafforzare l’attenzione e il forte interesse per l’arte e la cultura tedesca degli artisti Disney che lavorarono al capolavoro. Fra tanti ci piace ricordare come la terribile scena della trasformazione della regina in strega (che probabilmente ha segnato le notti di molti bambini dell’epoca e di quelle successive) deve davvero molto all’espressionismo tedesco di pellicole storiche come “il gabinetto del dottor Caligari” o “il testamento del dotto Mabuse”, come pure al “Nosferatu” di Murnau. E considerando come il Reich considerasse “degenerate” tali correnti artistiche, forse anche questa scelta non fu totalmente casuale.
    Per noi, al di là della curiosità (e della bellezza storica e artistica della statua in questione), questa storia non fa che confermarci la necessità di guardare sempre con attenzione, curiosità e predisposizione alla scoperta qualunque cosa ci si ponga davanti agli occhi. Anche un “semplice” cartone animato.

    Alessandro Borgogno

    Approfondimenti: Stefano Poggi “La vera storia della Regina di Biancaneve, dalla Selva Turingia a Hollywood” – Raffaello Cortina Editore (http://www.raffaellocortina.it/scheda-libro/poggi-stefano/la-vera-storia-della-regina-di-biancaneve-dalla-selva-turingia-a-hollywood-9788860301444-1172.html)

    Pietro Fenoglio, uno dei maggiori interpreti del Liberty in Italia

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    Pietro Fenoglio è considerato uno dei personaggi di maggior spicco dell’ Art Nouveau nota in Italia come stile floreale o stile Liberty. Nato a Torino nel 1865 da una famiglia di costruttori edili frequentò la Regia Scuola di Applicazione per gli Ingegneri di Torino e dopo essersi laureato nel 1889 iniziò un’intensa attività professionale, raggiungendo rilevanti risultati in ambito edilizio.
    Per le opere architettoniche che ha firmato in città può essere collocato nella grande tradizione degli architetti che hanno lasciato un’ impronta nel tessuto urbano di Torino come Ascanio Vittozzi, Carlo Amedeo di Castellamonte, Guarino Guarini, Filippo Juvarra, Benedetto Alfieri, Bernardo Vittone, Alessandro Antonelli, e Carlo Ceppi. Pietro Fenoglio è l’architetto che con le sue opere ha maggiormente contraddistinto la feconda stagione del liberty torinese unendo una grande personalità artistica ad una capacità manageriale fuori dal comune. Egli con grande successo trasformò il suo studio torinese di via XX Settembre 60 in una efficiente macchina di progettazione e di gestione dei cantieri. 
     Nel suo lavoro ebbe collaboratori di grande valore tra i quali gli ingegneri Giulio Marinari, Mario Vicary, Carlo Sgarbi (firmatario di decine di progetti) e gli architetti Romeo Burzio, Ermanno Genesio Vivarelli, Gottardo Gussoni, tra i più grandi interpreti del liberty in Italia. Inoltre a complemento ed arricchimento del lavoro edilizio collaborarono con lui una cerchia di valenti artisti come il pittore e disegnatore Giulio Casanova e lo scultore Edoardo Rubino, gli ebanisti Enrico Pezza e Giuseppe Sala, che conferivano completezza organica, precisione e raffinatezza alle sue. Pietro Fenoglio aveva ottenuto il doppio titolo accademico di ingegnere e architetto ed era stato allievo di Carlo Ceppi vero maestro dell’ architettura ecclettica che aveva la tendenza a ispirarsi a fonti diverse, accogliendo da ciascuna gli elementi ritenuti migliori e che fondeva la combinazione nello stesso edificio di elementi tratti da vari stili storici. 
    L’art nouveau  nota in Italia anche come stile floreale, stile Liberty o arte nova, fu un movimento artistico e filosofico attivo nei decenni a cavallo tra l'Ottocento e il Novecento e che influenzò soprattutto in Europa le arti figurative, l'architettura e le arti applicate. Nata durante a Belle Époque che nel periodo fra 1870 e la prima guerra mondiale indicò la vita brillante nelle grandi capitali europee, con le numerose e diversificate esperienze artistiche, la nuova corrente artistica esprimeva l'idea che il nuovo secolo, il Novecento, sarebbe stata nuova epoca in cui la nascente tecnologia avrebbe portato all’ uomo pace e benessere. In questo periodo Fenoglio compie viaggi di studio e ricerca in diversi paesi d’ Europa ed ha ispirazionie suggestioni che traspone nel suo stile originale non dimenticando però gli insegnamenti del suo maestro Carlo Ceppi. Nel 1902 si trova ad essere tra gli organizzatori del grande successo della grande Esposizione Internazionale di Torino, che fu il primo importante evento espositivo internazionale dello stile Liberty. Infatti fu la prima occasione in cui si trattò questa tematica artistica , e fu ufficialmente denominata "Prima Esposizione Internazionale d'Arte Decorativa Moderna". Nella città di Torino decretò il passaggio dell’ Eclettismo alla stagione del Liberty.
    Egli si interessò poi anche di quella del 1911che fu un Esposizione Internazionale rivolta allo sviluppo delle nuove tecnologie riguardanti l’ industria e il lavoro (Expo Torino 1911).
    In questi anni Pietro Fenoglio realizza in Torino numerosi interventi edilizi di carattere residenziale che abbelliscono la città tra i quali si ricorda Villa Scott in Corso Giovanni Lanza (1902), la casa Fenoglio-Lafleur, luogo simbolico del liberty cittadino, in via Principi d’Acaia 11 (1902), il villino Raby in corso Francia 8 (1901) e poi case a carattere di edilizia popolare come le case della Società Torinese Abitazioni Popolari di via Marco Polo (1903) e di via Revello (1909) e il Villaggio Leumann (1875-1907) a Collegno. Il villaggio annesso alle tessiture dei Leumann con la realizzazione di edifici per abitazioni e servizi connotati da stilemi di eclettismo floreale.Il complesso, costituito da due comprensori residenziali a latere dello stabilimento tessile, si estende per circa 60.000 metri quadrati e ospitava originariamente circa un migliaio di persone tra operai, impiegati e relative famiglie. Esso comprende al suo interno 59 villini e case divisi in 120 alloggi, ciascuno provvisto sin dal principio di servizi igienici annessi e un giardino condiviso al piano terreno.
    Nella sua intensa attività di progettista non si rivolse solo alla abitazioni civili ma si interesso anche del campo dell’architettura industriale: la Conceria Fiorio (1900), il Birrificio Metzger (1903), la Manifattura Gilardini (1904), la Fabbrica Itala (1905), le Concerie Italiane Riunite (1906), la Fonderia e Smalteria Ballada (1906) e la Venchi Unica (1907) sono solo alcuni dei molti interventi realizzati sul territorio cittadino. Pietro Fenoglio si interessò anche di editoria compare infatti tra i fondatori de «L’architettura italiana moderna», importante rivista di architettura.
    La sua proficua attività edilizia lo portò a ricoprire ruoli dirigenziali e amministrativi nel mondo imprenditoriale che arricchirono le sue competenze e ne moltiplicarono l’ influenza nel settore delle costruzioni più raffinate, fu direttore della Società Anonima Cementi del Monferrato, vice presidente della Società Porcheddu (un delle prime imprese di costruzioni a usare il calcestruzzo armato) nonché membro del consiglio d ‘amministrazione tra i fondatori della Società Torinese per Abitazioni Popolari. Tra i tecnici più attivi della Società d’ Igiene, egli contribuì alla gestione urbanistica della città di Torino ricoprendovi incarichi politici. Eletto nel 1902 consigliere comunale fu membro della Commissione d’ Ornato urbano e assessore al piano regolatore fuori della cinta daziaria; diede inoltre un importante impulso al piano regolatore del 1908.
    Negli ultimi quindici anni di vita abbandonò la professione edilizia ed impegnò tutte le sue competenze imprenditoriali e organizzative nel mondo dell’ alta finanza scalando rapidamente i vertici della Banca Commerciale Italiana, fino a divenire prima amministratore delegato e poi vice presidente. Anche in questo nuovo ruolo egli continuò a promuovere l’ architettura di qualità partecipando direttamente ai processi decisionali volti alla realizzazione di varie sedi e filiali, fino alla costruzione della nuova sede centrale in piazza Colonna a Roma, dove promosse le proposte progettuali e l’ incarico a direttore dei lavori del giovane Marcello Piacentini. Mori a Corio nel Canavese nel 1927.

    Luciano Querio

    Bibliografia
    Coda Fraternali Ostorero Torino Liberty 2017 Edizioni Capricorno

    26 Itinerari di Architettura a Torino 2000 Società degli Ingegneri e degli Architetti di Torino


    Renzo Rossotti I Palazzi di Torino 2000 Newton & Compton Editori

    Parigi, le Muséum, l'origine della specie e Edgar Allan Poe

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    Parigi è sempre Parigi, e ovviamente lo è per tanti motivi. Uno dei tanti è che, come tutte le grandi città con qualche secolo di storia alle spalle, anche all’ennesima visita puoi scoprire qualcosa di nuovo e affascinante, percorsi ed intrecci che potresti approfondire e prolungare all’infinito.
    Fra i tanti luoghi pieni di fascino ce ne è uno a me particolarmente caro, per come intreccia storia, scienza, letteratura e perfino cinema in traiettorie e rimbalzi ad effetto che potrebbero riempire un intero libro. Parlo del Muséum national d'histoire naturelle, collocato fin dal 1798, in piena epoca rivoluzionaria, all’interno del magnifico Jardin de Plantes, ai bordi del Quartier Latin, sulla Rive Gauche.
    Il fatto che per molti parigini sia semplicemente “Le Muséum” la dice lunga sull’importanza che in un modo o nell’altro questo luogo ancora mantiene, nonostante le mille novità che la capitale francese sforna continuamente sul fronte della divulgazione e delle strutture culturali e turistiche.
    Fra i vari padiglioni che lo compongono, infatti, spicca oggi la nuovissima Gran Galeriè dell’evolution, modernizzata e riaperta al pubblico nel 1994, che rappresenta il tipico ambiente museale moderno, pieno di ricostruzioni, pannelli didattici, suggestioni di luce e di atmosfere. Bellissima e moderna, ma per una volta forse anche troppo. Ciò di cui invece voglio parlare qui è un altro padiglione, quello di Paleontologia e Anatomia comparata, che è ancora (chissà per quanto, ahimè!) identico a quando è stato allestito nel 1898. Rappresenta quindi, oltre ad una collezione assolutamente straordinaria, anche un magistrale esempio di che cos’era un museo all’inizio del secolo scorso.
    Le collezioni espongono in modo sistematico e con severa precisione una quantità incredibile di scheletri, di animali contemporanei nella galleria di anatomia comparata al piano terreno e di dinosauri e altri animali preistorici nella galleria di paleontologia situata al piano superiore.
    Che ci si interessi o no di storia naturale o campi simili delle scienze, è impossibile non rimanere colpiti di fronte all’impressionante sfilata di scheletri, disposti e allineati in un unico enorme ambiente a far perdere lo sguardo fra migliaia di ossa composte e ricostruite di minuscoli topolini, di stranissimi struzzi, di anatomie scimmiesche ed umane, di massicci ippopotami, di immense balene e capodogli. La galleria conserva anche alcuni scheletri davvero unici: fra gli altri, anche lo scheletro del famoso rinoceronte che per qualche tempo soggiornò nel serraglio di Versailles, alla corte del Re Sole, e anche alcuni dei pochi scheletri esistenti di animali ormai estinti a causa dell’uomo, come la Ritina di Steller (gigantesco sireninde simile ai lamantini sterminato nel settecento nell’isola di Bering, unico luogo in cui sopravviveva) e il Tilacino (o lupo marsupiale, il cui ultimo esemplare morì nello zoo di Hobart, in Tasmania, nel 1936). Salendo di piano, e risalendo quindi indietro nel tempo, l’altra galleria ci immerge fra le sequenze infinite di costole di brachiosauri, mitici teschi di triceratops e di tirannosaurus rex, enormi mammuth, cervi preistorici dalle corna inverosimili.
    E’ una sfilata macabra e solenne, una parata che sembra camminare e venirti incontro dalle profondità del tempo fino ad oggi. Difficile non sentirsi affascinati, perfino dalla polvere che ricopre alcuni reperti, dall’impressione di antico e al tempo stesso di solidamente attuale che percorre entrambe le gallerie, il senso dell’evoluzione, il senso della classificazione, il senso stesso della ricerca e delle scienze.
    Ma il luogo è anche il punto fisico di origine dell’evoluzionismo, e la sua importanza storica per una delle teorie più importanti dell’intera storia dell’umanità risiede nel suo stesso nome che sta lì ad enunciarne la funzione. L’Anatomia comparata infatti è praticamente nata qui, ed è proprio dallo studio e soprattutto dal confronto fra gli scheletri di animali tanto diversi fra loro che sono nati i primi dubbi e i primi sospetti riguardo agli antenati comuni di specie apparentemente tanto dissimili. Zoologo insigne di questo museo fu, a cavallo fra ‘700 e ‘800, Jean-Baptiste Lamarck. Che, a parte la discreta sfortuna storica di aver sbagliato ad interpretare l’ereditarietà dei caratteri pensando che si potessero trasmettere anche quelli acquisiti, ed essendo quindi poi stato surclassato dalle straordinarie e rigorose intuizioni di Darwin, fu un naturalista di primissimo ordine, anzi fu anche lui un genio a tutti gli effetti.
    Non solo si deve a lui l'introduzione del termine “biologia” per identificare lo studio degli esseri viventi, ma fu il primo a dare un colpo mortale al creazionismo intuendo che le specie come le vediamo oggi erano il frutto di cambiamenti e modificazioni graduali.
    Lo aiutarono in questa straordinaria scoperta proprio gli scheletri che ancora oggi popolano la strabiliante galleria de Le Muséum . Si vide infatti, tanto per fare un esempio, che se si prendevano gli arti di mammiferi molto diversi fra loro, questi erano composti sempre dallo stesso numero e stesso tipo di ossa. La pinna di una balenottera, la zampa di una giraffa, l’ala di un pipistrello, la zampa di una tigre, il braccio di un uomo. Tutti le stesse ossa, con forme e dimensioni totalmente diverse ma esattamente le stesse: omero, radio, ulna, articolazione del gomito e del polso, e poi carpo, metacarpo, falangi, falangine e falangette. E tutti con cinque dita. Né quattro né sei. Cinque.
    Scienziati accorti e intelligenti non potevano certo attribuire una cosa del genere al caso.
    Tutti questi animali, e anche noi uomini, dovevano essersi sviluppati, modificati, adattati e trasformati da una unica forma iniziale. Tutti i mammiferi (nel caso di questo esempio) forse avevano un antenato comune, forse discendevano tutti dalla stessa forma vivente.
    Si sa, nel progredire del sapere umano l’elemento fondamentale è il dubbio. E proprio questo dubbio, nato dall’osservazione di centinaia di scheletri in quel padiglione in un parco sulla Rive Gauche ai bordi del Quartier Latin, era destinato a infrangere tutte le certezze fino a quel momento coltivate con cura dalla cultura occidentale. Cadde la prima goccia e iniziò a scavare la roccia.
    Di lì a poco Darwin sarebbe tornato dal suo fenomenale viaggio intorno al mondo, avrebbe messo insieme nel suo cervello e nei suoi quaderni tutte le osservazioni fatte, tutte le specie osservate, tutti i ragionamenti geniali di cui era capace, li avrebbe confrontati e rafforzati con le scoperte e le idee precedenti, compresa questa, avrebbe scartato quelle che non funzionavano, cercato prove inoppugnabili per quelle che invece sembravano funzionare, ed infine avrebbe seppellito definitivamente il creazionismo assestando a quella roccia la picconata definitiva, schiantandola e mandandola in frantumi in un sol colpo. 
    Quando si esce, e ci si ritrova nella sempre viva e multiforme Parigi, impossibile sfuggire al senso di una risalita, alla maniera di Jules Verne dal cento della Terra, da una specie di centro originario della sapienza, da uno dei luoghi dove meglio sono rappresentate nella forma e nella sostanza le fondamenta del metodo scientifico che ha sorretto e sorregge ancora quel poco che sappiamo del mondo in cui viviamo.
    Ma il padiglione in questione ha, fra i tanti, anche un altro motivo di interesse, ed è una grande statua collocata nell’atrio della galleria. Impossibile non notarla, impossibile non restarne colpiti, dato che si tratta sostanzialmente della rappresentazione violenta e selvaggia di un omicidio.
    C’è un enorme orango che strangola un uomo, e un piccolo orango al suo fianco che urla eccitato nell’osservare la scena. Orangutang uccide un selvaggio del Borneo è il titolo della statua. Lo scultore è Emmanuel Fremiet, artista di una certa fama nella sua epoca e di sicuro talento. Suo l’Elefante che campeggia davanti al Musée d’Orsay, sua la famosa Giovanna d’Arco a piazza des Pyramides, suo il San Michele che sconfigge il Drago che ora si trova sempre al d’Orsay ma che era nato per essere collocato sulla guglia della celeberrima abbazia di Mont-Saint-Michel. Se questa non è la sua opera più famosa, comunque, di certo è una delle più singolari e originali, insieme ad un piccolo semisconosciuto bronzo con un Gorilla che rapisce una fanciulla, che è impossibile non collegare, magari fra le possibili fonti ispiratrici, alla successiva trasposizione del mito della Bella e La Bestia magistralmente reinventata nella figura tutta cinematografica di King Kong.
    Anche questa statua nell’atrio del museo comunque, oltre ad essere un’opera notevole e impressionante, non manca di riferimenti e collegamenti intriganti. La scena davvero bestiale, le lunghissime braccia dell’orango che esprimono una forza e una violenza fuori dal comune, la figura scomposta del povero selvaggio sovrastato dal suo omicida, il piccolo orango che guarda eccitato quasi a presagire il successivo strazio che faranno del corpo, richiamano con impressionante precisione un’immagine direttamente proveniente da un capolavoro della letteratura. Si tratta de I delitti della Rue Morgue, di Edgar Allan Poe, universalmente considerato il capostipite del romanzo poliziesco tanto che si fa coincidere giustamente la data di nascita di questo genere letterario proprio con la sua prima pubblicazione, nell’aprile 1841, circa cinquant’anni prima della realizzazione scultorea di Fremiet che quasi ne rappresenta la raffigurazione tridimensionale. Nel racconto (del quale sto per svelare la soluzione, se qualcuno non l’ha ancora mai letto peggio per lui, se lo merita!) l’investigatore Auguste Dupin, adottando per la prima volta il metodo investigativo esclusivamente basato sulla logica deduttiva che poi farà la fortuna del suo più illustre discendente, l’insuperabile Sherlock Holmes, fa luce su un atroce doppio delitto consumatosi ai danni di due donne in un piccolo appartamento all’ultimo piano di una via, guarda un po’, proprio di Parigi. Le due donne sono ritrovate selvaggiamente uccise e orribilmente mutilate, la loro camera chiusa dall’interno, le loro finestre altissime senza apparenti appigli, molti testimoni hanno sentito le urla ma nessuno riesce a definirle con esattezza. Per tagliare corto, la straordinaria soluzione del caso sta nel fatto che i delitti sono stati commessi proprio da un orangutan del Borneo, scappato ad un marinaio appena rientrato in Europa dai uno dei suoi viaggi esotici, e finito per caso in quella stanza, armato anche del rasoio con cui il suo padrone era solito farsi la barba (particolare, quest’ultimo, usato anche come citazione da Dario Argento in Phenomena per uno dei suoi migliori finali).
    Insomma, come detto all’inizio, si tratta di un luogo che non manca di suggestioni davvero singolari che intrecciano fra loro storia, scienza, arte e letteratura. E’ comprensibile che un soggiorno a Parigi magari rapido, con tutto ciò che di straordinario c’è da vedere e visitare possa non riuscire a tener dentro anche posti come questo, ma di sicuro nel caso di un soggiorno più prolungato, o in occasione di un secondo viaggio, questo è uno dei luoghi che meritano senza dubbio una visita.

    Alessandro Borgogno



    Bibliografia & sitografia

    Edgar Allan Poe – I Delitti della Rue Morgue – (Racconto) - 1841

    Emmanuel Fremiet – Orangutan che uccide un selvaggio del Borneo - (Scultura) - 1895

    Ernest B. Schoedsack – King Kong – (Film) – 1933

    Dario Argento – Phenomena – (Film) - 1985

    Corrado Augias – I segreti di Parigi - (Saggio) - 1997




    Su internet sono sorprendentemente scarse le pagine in italiano relative a questo luogo, a Fremiet e alla sua straordinaria scultura, riportiamo quindi dei link in altre lingue:


    Giovanni Antonio Bazzi, detto Il Sodoma, e quelle maledette malelingue

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    Giovanni Antonio Bazzi nacque a Vercelli nel 1477 da un calzolaio originario di Biandrate, Giacomo, e da Angela da Bergamo. All'età di tredici anni iniziò il suo apprendistato entrando a lavorare nella bottega di Giovanni Martino Spenzotti, una delle principali figure del rinnovamento rinascimentale della pittura in Piemonte.
    Giovanni Spenzotti è ricordato per lo splendido ciclo di affreschi, raffiguranti la vita di Cristo, che si trovano nella chiesa dedicata a San Bernardino nella città piemontese di Ivrea. Giovanni Antonio all'età di 21 anni, nel 1498, si trasferì prima a Milano e successivamente a Siena dove, nel 1501, prese residenza stabile. Il Bazzi fu operativo anche a Roma: nel 1508 Papa Giulio II gli affidò le decorazioni del soffitto delle stanze di Raffaello della Segnatura in Vaticano. Questo luogo è uno degli ambienti delle stanze abbellite da Raffaello e fu la prima ad essere decorata nel periodo compreso tra il 1508 ed il 1511.
    Il luogo prende il nome dal più alto Tribunale della Santa Sede, la Segnatura Gratie et Iustitiae, presieduto direttamente dal pontefice. All'interno del ciclo di affreschi, esattamente nella Scuola di Atena, Giovanni Antonio Bazzi è raffigurato vicino allo stesso Raffaello. Questa rappresentazione del Bazzi è notevolmente diversa da tutte le altre che sono giunte sino a noi, per età e per fisionomia, fatto che induce potenzialmente ad escludere la raffigurazione dal corpus dei ritratti e degli autoritratti.
    Tornando alla vita artistica del Bazzi, la sua opera più conosciuta, Le nozze di Alessandro e Rosanne, si trova all'interno di Villa Farnesina, a Roma, e fu commissionata dal ricco banchiere senese Agostino Chigi. L'opera fa parte di un ciclo di affreschi avente come oggetto scene della vita di Alessandro Magno. Il ciclo era destinato a glorificare Agostino Chigi, che fu identificato con il personaggio della classicità.
    Un grande artista, raffigurato da Raffaello al suo fianco, che rischiò di passare alla storia non per la sua opera pittorica ma per il soprannome che gli fu affibbiato.
    Giovanni Antonio Bazzi si sposò in gioventù, ma ben presto si separò dalla moglie. Ebbe discendenza ed una delle figlie sposò Bartolomeo Neroni, meglio conosciuto come il Riccio Senese, uno dei principali allievo del maestro.
    La domanda che sorge spontanea è la seguente: perché il Bazzi fu soprannominato il Sodoma?
    Era considerato omosessuale dai contemporanei?
    Sodoma è un'antica città nominata ripetutamente nella Bibbia, situata nei pressi del Mar Morto. Nell'Antico Testamento si narra della distruzione di Sodoma e di Gomorra, Adma, Zoar e Zeboim, per opera di Dio, a causa dell'empietà dei suoi abitanti. Secondo la narrazione biblica le cinque città, denominate le città della pianura, erano situate sulla riva del fiume Giordano, a sud di Canaan. La pianura nella Genesi è paragonata al giardino dell'Eden. Anche se non è molto chiaro quali fossero i peccati di cui si macchiarono gli abitanti delle città distrutte per volontà divina, molti studiosi ritengono che questi siano da ritrovare nell'omosessualità, poiché il termine sodomia fu usato più volte come accusa per descrivere i comportamenti degli abitanti delle città devastate. Altri studiosi ritengono che il motivo della distruzione debba essere cercato nelle cattive abitudini degli abitanti poiché nel Pentateuco vi è un riferimento ai sodomiti e al loro sterminio, voluto dal Dio perché colpevoli di arroganza, indifferenza e di empietà.
    Il soprannome Sodoma per quanto concerne Giovanni Antonio Bazzi, è attestato a partire dal 1512. Il pittore stesso, talvolta, si firmava Il Sodoma.
    Dove possiamo trovare dei riferimenti per comprendere il motivo del soprannome il Sodoma?
    Il nomignolo si trova trascritto in vari modi, da Sodoma a Soddoma, da Soddona a Sodone, e con molta probabilità si trattava di uno pseudonimo scherzoso che gli era stato imposto, secondo l'uso del tempo, in qualche congrega o accademia.
    Dato che lo stesso Bazzi utilizzò più volte il soprannome per firmarsi, pare da escludere che alludesse ai costumi dell'artista, il quale anche se di temperamento estroso e spregiudicato conduceva una vita irreprensibile, in un momento storico in cui Papi e cardinali si lasciavano andare a comportamenti squallidi e privi di ogni morale.
    Uno di questi personaggi, Papa Leone X, lo insignì del titolo di Cavaliere di Cristo.
    Una teoria pare mettere in relazione il soprannome con una toscanizzazione di alcuni modi di dire del pittore di origine piemontese. Giovanni Antonio Bazzi era solito ripetere “su 'anduma” ovvero “forza andiamo”. Non è complesso comprendere come da “su 'anduma” si sia giunti a “Sodoma” attraverso vari livelli di contrazione del detto.
    In conclusione è da escludere che il soprannome Il Sodoma, affibbiato a Giovanni Antonio Bazzi, sia da mettere in relazione con i suoi comportamenti sessuali, non tanto per la stima che godeva dai personaggi influenti del tempo, molti dei quali dediti a comportamenti lascivi malgrado occupassero posizioni di rilievo all'interno della cristianità, ma perché lo stesso pittore era solito firmarsi con tale nomignolo.

    Fabio Casalini



    Bibliografia
    Enzo Carli (a cura di), Mostra delle opere di Giovanni Antonio Bazzi detto "Il Sodoma"', catalogo / Comitato Vercelli-Siena per la Celebrazione di Gio. Ant. Bazzi detto "Il Sodoma" nel IV Centenario della Morte, 2ª ed., Vercelli, SAVIT, 1950

    Enzo Carli, Bazzi, Giovanni Antonio, detto il Sodoma, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 7, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1970

    Fiorella Sricchia Santoro (a cura di), Da Sodoma a Marco Pino: pittori a Siena nella prima metà del Cinquecento, testi di Alessandro Angelini, et al., Firenze, S.P.E.S., 1988 

    Roberto Bartalini, Giovanni Antonio Bazzi detto il "Sodoma" (Vercelli 1477-Siena 1549), in Domenico Beccafumi e il suo tempo (catalogo della mostra tenutasi a Siena), Milano, Electa, 1990 

    Roberto Bartalini, Le occasioni del Sodoma: dalla Milano di Leonardo alla Roma di Raffaello, Roma, Donzelli, 1996

    Roberto Bartalini, Sodoma a Palazzo Chigi, in Cristina Acidini Luchinat, Luciano Bellosi, Miklós Boskovits, Pier Paolo Donati e Bruno Santi (a cura di), Scritti per l'Istituto Germanico di Storia dell'Arte di Firenze: settanta studiosi italiani, Firenze, Casa Editrice Le Lettere, 1997

    FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
    Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale, che si avvia a diventare un vero e proprio modello di diffusione della tradizione popolare, dell’arte meno conosciuta, dei misteri e delle leggende conosciuti o meno, in un felice connubio con le moderne tecnologie. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.

    Le Gole del Verdon, il Grand Canyon d'Europa

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    Tra la costa azzurra e la Provenza, a poco meno di un’ora d’auto da Cannes, le impressionanti gole del fiume Verdon tagliano la lussureggiante terra per oltre 20 Km regalando al visitatore viste mozzafiato su pareti a strapiombo che si gettano nel colore verde smeraldo del fiume che nasce presso Barcelonette nelle Alpi della Haute Provence e che, in millenni di lenta erosione, ha modellato questo scenografico passaggio.  
    Fino a che con l’auto si rimane sulla costa o in autostrada i paesaggi, seppur molto belli e caratteristici, sono quelli a cui si è abituati durante una visita qualunque alle città costiere di Nizza, Cannes o St. Tropez. 
    E’ quando si incomincia a puntare verso l’interno in direzione Les Salles-sur-Verdon, paese sulle sponde del Lac de Sainte-Croix prima tappa del viaggio e preziosa anticamera delle spettacolari gole, che si percorrono itinerari apparentemente poco esplorati. Morbidi tornati si alternano a più impegnative salite che costeggiano vigneti, olivi e campi di girasole e ad ogni curva un nuovo paesaggio o un nuovo borgo da scoprire con caratteristiche case in pietra del posto e persiane colorate. 
    In alcuni tratti la natura è così selvaggia, impenetrabile e priva di centri abitati che sembra di essersi smarriti, ma ecco poco più avanti che scorci panoramici e belvedere rassicurano nuovamente il viaggiatore lasciandolo allo stesso tempo stupito e maravigliato davanti a così tanta bellezza. 
    Les Salles-sur-Verdon è un paese relativamente recente, il borgo antico is trova sommerso dalle acque del lago successivamente alla costruzione della diga che ha costretto, nei primi anni 70, la costruzione del nuovo paese sul promontorio alle spalle di quello esistente in luogo più sicuro. 
    Le spiagge di sassi e di sabbia si alternano lungo buona parte del litorale e lambiscono le acque turchesi del lago che offrono refrigerio ai turisti nelle calde giornate estive. Molte le attività disponibili tra le quali l’affitto di canoe, pedalò o piccole barche con motori elettrici che permettono di scoprire gli angoli più remoti di questo meraviglioso lago. per i più avventurosi trekking, scalate, caynoning e sport d’acqua come canoa e kayak.
    Le due sponde del canyon sono percorse da altrettante strade panoramiche: la “Rive Droite”, o “Route des Crètes“, si dipana nella parte alta delle gole regalando scorci e panorami mozzafiato al contrario la “Rive Gauche”, o “Corniche Sublime” corre più bassa. Due punti uniscono le strade, il primo in prossimità del Lac de Sainte-Croix mentre l’arto più interno, è una struttura a un’arcata che scavalca lo strapiombo denominato Pont de l’Artuby omonimo affluente del Verdon da cui prende il nome. Da questo punto è possibile ripiegare in direzione Grasse e in un ora circa raggiungere nuovamente la Costa Azzurra. 
    Luogo naturale di eccezionale bellezza è protetto da un parco naturale, offre molteplici itinerari e svariate attività per accontentare diversi gusti: a ciascuno il proprio, assolutamente da visitare !
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