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Agaro, il paese scomparso ma non dimenticato

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Agaro era il comune più alto e isolato dell’Ossola.
Il luogo della sua edificazione fu scelto molti secoli fa dalle genti Walser provenienti dal vicino Canton Vallese, e più precisamente dalla soleggiata e lussureggiante Valle di Goms, intorno all’VIII secolo. Ma una data precisa per quello che concerne Agaro non l’abbiamo. 
A 1561 metri, stretto fra le montagne, questo piccolo paese era costruito in una conca alluvionale formata dalla confluenza del Rio Topera, del Rio Bionca e del Rio Pojala. Per sette secoli, poco più di 20 famiglie, hanno deciso di condurre la loro vita qui e di chiamare casa questa bellissima vallata, ricca ancora oggi di boschi e vegetazione.
Una vita fatta di tenacia, amore per la terra, lotta contro la natura avversa, sacrifici e isolamento per molti mesi ogni anno.
Pensando agli Agaresi mi viene in mente una sola parola: volontà.
Oggi al posto del comune di Agaro, chi arriva in questa bella vallata trova un lago artificiale dal colore del cielo quando è sereno, un invaso della capacità di 20.000.000 di m³d’acqua, costruito fra il 1936 e il 1940 dalla ditta Umberto Girola, specializzata in grandi opere, l’attuale Salini – Impregilo.
Il progetto, voluto da Edison, fu curato dagli Ingegneri Claudio Marcello e Pietro Marinoni, gli stessi che progettarono e realizzarono la diga di Morasco nel medesimo periodo storico, quello relativo allo sfruttamento idroelettrico dell’Ossola.
Fino all’ultimo giorno gli Agaresi non hanno abbandonato le loro case in pietra e larice, continuando la vita di tutti giorni fra quelle montagne che fino a quel giorno hanno rappresentato una protezione ma anche un ostacolo verso il mondo esterno.
Le prime notizie di Agaro risalgono al 1298.
In un documento del 1515, redatto davanti al governatore della Valle Antigorio, rappresentante della Lega Svizzera, si fa riferimento ad un documento antecedente, risalente appunto al 1298, in cui si dirimeva una questione di confini fra gli uomini di Agaro e Costa da una parte, Baceno e Croveo dall’altra.
Fin da subito si comprende che la terra e i suoi confini per gli Agaresi avevano importanza fondamentale.
Il 10 luglio 1513, a sottolineare l’importanza della proprietà terriera e a regolare altre questioni di vita, Agaro ottenne il suo statuto, in cui il console Pietro Pezio, in accordo con gli uomini tutti di Agaro, chiedeva di poter conservare “i boschi, le biade, il fieno e tutti i possedimenti fino ad allora riconosciuti”.
Lo statuto regolamentava al meglio, per il bene comune, lo sfruttamento di ciascuna proprietà.
Ad esempio per i boschi di Topera, lungo la montagna che sovrastava l’abitato, era stabilito il divieto assoluto di tagliare le piante, “far legna”, perché costituivano una naturale protezione per le case contro le valanghe.
Sempre a salvaguardia della comunità intera, era sancito il divieto di vendere o cedere terreni a persone che non fossero di Agaro. In caso di matrimonio con un “forense”, le donne erano private delle loro terre e dei pascoli, che restavano in famiglia.
Una parte di ciò che veniva coltivato o prodotto era utilizzato per pagare i dazi ai signori locali, che oltre al denaro ricevevano pesce, pernici e formaggio d’alpe, ritenuto fra i più pregiati e saporiti.
Risalendo il vecchio sentiero che partiva da Beola e si inerpicava sulla montagna, si raggiungevano le case di Pioda Calva a 1249 mt e, dall’altra parte del Rio Agaro, quelle di Costa a 1250 mt, due piccoli abitati composti da poche case in sasso e legno, utilizzati dagli Agaresi nei periodi invernali, quando la loro piana veniva sommersa da diversi metri di neve.
Più in alto, a 1427 mt, ma dall’altra parte della montagna, quella che guarda la Valle del Devero, Ausone, situato su una terrazza naturale soleggiata e ricca di pascoli.
La sua origine è fatta risalire più o meno allo stesso periodo di Agaro. Era utilizzato durante l’inverno dagli Agaresi più agiati, anche in questo caso per sfuggire all’isolamento. Con l’andare degli anni Ausone, essendo abitata stabilmente, ottenne un suo statuto.
Risalendo da Costa e Pioda Calva verso la cima della montagna, oggi incontriamo la diga di Agaro. Un tempo si arrivava al piccolo centro di Margone, dove oggi sorge lo sbarramento. Anche da quel punto Agaro era invisibile agli occhi di chi arrivava.
Montagne scoscese, fitte e rigogliose foreste, dietro ad una piccola curva naturale, sorgeva Agaro dopo la sua ultima riedificazione, nel punto in cui il Rio Topera rallentava la sua discesa per iniziare a scorrere nella piana.
Poco più in là il Rio Bionca e il Rio Pojala. Nascosti agli occhi di chi cercava un segno di vita o di attività, vi erano gli alpeggi estivi dove le genti di Agaro si recavano con il bestiame per usufruire dei pascoli d’alta quota: l’Alpe Pojala, l’Alpe Nava, l’Alpe Corteverde, l’Alpe Bionca e l’Alpe Topera.
Tutto attorno le montagne stringevano in un eterno abbraccio questi pascoli ricchi di erbe aromatiche e di fiori dai mille colori, formando una barriera naturale verso l’evolversi del tempo.
La conformazione del territorio non protesse Agaro dalle valanghe e dalle frane, che nell’arco dei secoli costituirono un flagello per questo piccolo centro.
Alcune furono davvero devastanti. Immense quantità di neve si staccarono dal Pizzo Nava e dai fianchi del Rio Topera, per congiungersi e terminare la loro corsa fra le case.
La tradizione racconta che per ben 5 volte l’abitato sia stato distrutto e riedificato. La più imponente di queste valanghe fu nel 1650, quando neve e materiale roccioso rasero al suolo il paese intero.
Gli Agaresi lasciarono la piana? Niente affatto, costruirono le loro case più a sud, in un punto più riparato.
Fortunatamente non ci furono vittime e per gratitudine, essendo molto devoti, decisero ogni anno di celebrare, come festivo, il giorno di San Silvestro, in ricordo di quei tragici momenti. Durante quella notte gli Agaresi si mascheravano con poveri vestiti e, dopo aver simulato una danza, spazzavano via con le scope il vecchio anno. Il giorno dopo, vistiti con gli abiti migliori, accoglievano con una danza festosa il nuovo che arrivava.
L’ultima valanga, tristemente ricordata, risale al febbraio 1888.
Alle 15.00 una imponente slavina distrusse alcune case, una parte dell’oratorio e alcune stalle, uccidendo 3 persone, 16 mucche e altri capi di bestiame.
Molti furono tratti in salvo sotto la neve grazie all’intervento tempestivo di chi rimase illeso.
80.000 lire di danni, una cifra considerevole per l’epoca.
Impossibilitati a trovare questa somma o a ricostruire da soli gli edifici danneggiati, gli Agaresi chiesero aiuto alle autorità civili ed ecclesiastiche, scrivendo direttamente al papa Leone XIII.
Agaro non fu mai parrocchia autonoma. Matrimoni, funerali e battesimi erano celebrati alla chiesa di San Gaudenzio di Baceno.
I defunti, dopo un lungo viaggio fra i sentieri di montagna, erano composti in una parte dedicata del cimitero adiacente alla chiesa, in quella più bassa. Un trasporto lungo e difficile, che comportava ore di cammino per percorrere oltre 700 mt di dislivello, portando a spalle la salma.
Due sono gli oratori presenti nel territorio di Agaro: quello di San Giovanni Battista e quello di Santa Elisabetta, ad Ausone. Entrambi erano utilizzati dagli Agaresi, che poco badavano alla ricchezza dei paramenti e delle suppellettili, pensando di più alla salvezza della loro anima. Anche la poca disponibilità economica contribuiva a rendere essenziali i due luoghi di culto, che per un certo periodo di tempo, si dice, non avessero neppure i vetri. La data precisa della loro edificazione non è tutt’ora nota, ma quello che è certo è che furono abbondantemente utilizzati soprattutto durante il periodo invernale.
I vari parroci che si susseguirono negli anni, mandarono spesso a chiamare gli Agaresi perché frequentassero la messa a Baceno. La risposta fu sempre negativa.
Alcune visite pastorali misero in evidenza, secondo l’autorità ecclesiastica, l’inadeguatezza dei paramenti e dei luoghi di culto utilizzati. Ma le rimostranze vescovili caddero nel nulla; la primitività del sistema di vita e i pochi soldi a disposizione contribuirono a lasciare la situazione immutata.
Gli Agaresi si sentivano abbandonati dalla Chiesa. Da Baceno, il Parroco si faceva vivo solo per il pagamento dei tributi. In caso di necessità, per battesimi ed estreme unzioni, pretendeva il versamento di un extra per la lunga e perigliosa salita. Il malumore crebbe fino al 1616, anno in cui il feudatario Giovanni Marino scrisse una lettera al vescovo di Novara, Ferdinando Taverna, facendosi portavoce di una serie di richieste degli uomini di Agaro. Fra queste una su tutte spiccava: volevano un cappellano che vivesse stabilmente ad Agaro, che celebrasse i sacramenti nel paese e ad Ausone, che insegnasse la dottrina cristiana ai bambini e che parlasse la lingua Walser. Per invogliare un uomo di Dio ad accettare l’incarico, istituirono una dote in denaro successivamente aumentata.
Le avverse condizioni di vita si frapposero nuovamente tra la Chiesa e gli Agaresi.
L’indipendenza di cui godevano si rafforzò maggiormente.
L’isolamento contribuiva.
La loro grande devozione culminava ogni anno con una processione da Agaro ad Antillone, in valle Formazza, attraverso il passo del Muretto a 2350 metri sul livello del mare. Sei ore di cammino all’andata e altrettante al ritorno. Giunti a destinazione, gli uomini scendevano al lago a raccogliere le ninfee, fiore benedetto dalla Madonna, per poi conservarlo fino all’anno successivo appeso sopra la stufa. La processione fu vietata nel 1822 dal cardinale Giuseppe Morozzo. 
Nonostante questo divieto si hanno tracce della suddetta pratica sino al 1930 circa.

Rosella Reali





Con l'acqua gelida alle caviglie

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Agaro è una frazione di Premia nella provincia del Verbano-Cusio-Ossola. Già comune, venne soppresso nel 1928. La comunità, di origine walser, era posta in una valletta isolata, nella dorsale che separa la valle Antigorio dalla valle Devero.  Il luogo della sua edificazione fu scelto molti secoli fa dalle genti Walser provenienti dal vicino Canton Vallese, e più precisamente dalla soleggiata e lussureggiante Valle di Goms, intorno all’VIII secolo. Ma una data precisa per quello che concerne Agaro non l’abbiamo. A 1561 metri, stretto fra le montagne, questo piccolo paese era costruito in una conca alluvionale formata dalla confluenza del Rio Topera, del Rio Bionca e del Rio Pojala. Per sette secoli, poco più di 20 famiglie, hanno deciso di condurre la loro vita qui e di chiamare casa questa bellissima vallata, ricca ancora oggi di boschi e vegetazione.
L’organizzazione sociale di Agaro era molto semplice.


Poche famiglie, pochi cognomi, la terra era il bene supremo. Gli Agaresi erano fieri, dotati fisicamente, molto più alti della media popolazione walser e tenaci. Sulla loro forza fisica si tramandavano storie vicine alla leggenda. Si diceva portassero a “ciuffo” pesi straordinari da e per Baceno. Non essendo possibile utilizzare animali da soma a causa della conformazione del territorio e degli stretti passaggi tra i valichi di montagna, si utilizzava questo antico sistema. Per trasporto “a ciuffo” si intendeva il trasportare in sacchi di iuta, patate, crusca e farine. Gli uomini rivoltavano all’interno una parte del sacco, trasformandolo in cappello, per riuscire a portare il tutto sulla testa. 
La popolazione di Agaro era molto generosa. La comunità provvedeva insieme al benessere dei meno abbienti. 
Vivevano in una sorta di “Anarchia da Montagna”, sempre distanti e insofferenti agli ordini delle autorità, siano esse civili che religiose. La loro alta levatura morale era nota a tutti i forestieri. 
Per la cura dei malati usano le erbe disponibili, non conoscendo medici e medicinali. La fitoterapia era sufficiente al mantenimento in salute della popolazione, anche perché attendere un medico da Baceno o Croveo era inutile, poiché la strada da percorrere era troppo lunga e difficoltosa per permettere l’arrivo in un tempo ragionevole. 
L’istruzione era impartita in estate dal parroco che risiedeva in Agaro per occuparsi della scolarizzazione dei bambini per il tempo strettamente necessario.


I cognomi presenti erano circa una ventina. Le unioni per secoli si sono avute solo tra Agaresi, ma nonostante questo forzato isolamento non sono state rilevate tare genetiche, a differenza di quanto riscontrato in altri luoghi dove i matrimoni avvenivano esclusivamente tra una ristretta cerchia di persone. 
La sussistenza era costituita da allevamento e agricoltura. Ciascun nucleo familiare possedeva dalle 4 alle 6 mucche, i più ricchi sino a 12. Tutti avevano capre per la produzione di latte e per tenere in ordine i boschi, e pecore per la lana.
Il latte prodotto era utilizzato per fare formaggio, per autoconsumo, per pagare i dazi e da scambiare o vendere al mercato di Baceno. Gli “spressi” di Agaro erano conosciuti anche in Lombardia. Lo spresso era un formaggio prodotto esclusivamente nelle praterie che attorniavano l’antico borgo Walser. I prodotti della terra erano costituiti da lino, canapa, patate, segale, orzo e fieno, tagliato anche con l’ausilio di corde nei punti più scoscesi.
I lunghi inverni tenevano le persone in casa: mentre le donne filavano e tessevano la lana delle pecore, gli uomini intagliavano oggetti in legno.


La caccia era una parte fondamentale della loro economia di sussistenza. La carne essiccata della selvaggina era un’ottima variante nella monotonia della loro dieta. 
La lingua Walser di Agaro restò incontaminata dall’italianizzazione fino all’inizio del secolo scorso, quando l’apertura al mondo esterno era divenuta necessaria per la sopravvivenza. Oltre che con Baceno e gli abitanti della valle, da cui erano chiamati “tedesconi” per il loro idioma stretto e quasi incomprensibile, gli Agaresi avevano rapporti frequenti con il Vallese, loro cantone di origine. 
La chiusura della frontiera con la Svizzera non gli impedì di trovare il modo di eludere la sorveglianza delle guardie di confine, per continuare a rifornirsi di tabacco, zucchero, caffè e sale. I rapporti tra le due popolazioni erano talmente buoni che operai specializzati del Vallese corsero in aiuto degli Agaresi durante la ricostruzione del 1888. 
Un’altra testimonianza dei contatti con la loro valle di origine si ha nell’uso di fumare e masticare tabacco da parte delle donne, comportamento tipico della popolazione femminile che abita le valli di Binn e Goms. 
La lingua Walser di Agaro andò perduta. Il suo idioma era fra i più arcaici e caratteristici dei Walser. Purtroppo nessuno decise per tempo di salvare questo immenso patrimonio linguistico e culturale. 
La toponomastica di montagne e boschi era decisamente differente. Nessuna delle Cartine esistente, neppure la più minuziosa, riportava nomi di creste, pascoli e boschi conosciuti e tramandati dagli Agaresi.


Quello che resta fervido, in chi conosce Agaro e i suoi discendenti, è la voglia di ridare voce a questo piccolo comune Walser, che riemerge dal suo letto eterno solo quando il livello del lago scende.
Ho avuto quest’anno la fortuna di incontrare i discendenti di quegli Agaresi che hanno resistito fino alla fine all’avanzare del progresso. Fieri e dagli occhi limpidi, sempre commossi a parlare delle loro origini, di quelle abitazioni in sasso e larice che i loro nonni o bisnonni avevano chiamato casa.
Con uno di loro abbiamo avuto il privilegio di vedere Agaro emergere dalle acque. 
Silenzio ed emozione. Commozione nel vedere ancora i muri paravalanghe intatti, le travi con i chiodi in legno, parte dei camini e soprattutto i gradini di entrata di una casa sparire nell’acqua. 
La su quei sassi ho visto quell’uomo di Agaro commuoversi e una lacrima è scesa anche a me, ripensando a quell’ultima notte in cui poche persone, con i loro animali, hanno lasciato definitivamente la piana, con l’acqua gelida alle caviglie.


Rosella Reali





Esperimento del fuoco e morte di Savonarola

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Girolamo Maria Francesco Matteo Savonarola nacque a Ferrara il 21 settembre del 1452, terzogenito dei mercanti Niccolò di Michele della Savonarola e di Elena Bonacolsi, discendete della famiglia che guidò Mantova in un non lontano passato.
I Savonarola, originari di Padova, si trasferirono a Ferrara poiché il nonno Michele, autore di testi di medicina, svolgeva l'attività di medico di corte della famiglia d'Este. L'estrema religiosità del nonno influenzò il giovane l'alba della vita di Girolamo. Il padre indirizzò il ragazzo allo studio delle arti liberali, espressione con la quale s'intendeva il curriculum di studi seguito dai chierici prima di accedere all'università. Ottenuto il titolo di maestro in arti liberali decise di effettuare studi di medicina, facoltà che abbandonò a 18 anni per dedicarsi alla teologia.
Il 24 aprile 1475 decise d'abbandonare la famiglia per entrare nel convento bolognese di San Domenico. La scelta fu influenzata dalle parole di un predicatore che Girolamo udì nella chiesa di Sant'Agostino a Faenza.
Ottenuti i voti, fu inviato inizialmente nel convento di Ferrara, successivamente in quello di Reggio Emilia e infine fu nominato lettore nel convento fiorentino di San Marco. Dopo un breve soggiorno in Lombardia fece ritorno a Firenze, dove il 1 agosto del 1490 riprese le lezioni nel convento di San Marco. Le parole di Girolamo Savonarola furono interpretate da tutti gli ascoltatori come vere e proprie predicazioni. Basandosi sul tema dell'apocalisse formulò la necessità del rinnovamento e della flagellazione della Chiesa. Fra Girolamo non temette di accusare politici e prelati, filosofi e letterati, viventi e deceduti. I detrattori iniziarono ad appellarlo “il predicatore dei disperati”. Il consenso intorno alla figura di Savonarola crebbe tanto da portarlo, il 16 febbraio del 1491, a predicare dal pulpito del Duomo di Firenze e il 6 aprile le sue parole furono udite in Palazzo Vecchio.
Le prediche iniziarono a trasformarsi in ammonimenti nei confronti di politici e prelati, tanto da profetizzare sciagure e catastrofi per Firenze e l'Italia. Il Papa, Alessandro VI, ordinò alla Signoria di far tacere il Savonarola pena la confisca di tutte le sostanze che i mercanti fiorentini detenevano in paesi esteri e, come non bastasse la perdita dei beni, l'assalto delle truppe pontificie alla città placidamente adagiata sull'Arno.
I fiorentini, abbandonati dalla Francia, non avevano altro alleato, motivo che comportò l'ubbidienza al monito papale. Il 17 marzo del 1498 fu comandato a Girolamo Savonarola d'astenersi dalle predicazioni. Costui si congedò dai suoi uditori con un eloquente e ardito ragionamento.
In mezzo a questi ribollimenti il monaco Francesco della Puglia, che predicava a Santa Croce, disse in pulpito che aveva udito che il Savonarola si vantava di provare le sue dottrine con un miracolo. Frate Francesco aggiunse d'essere un peccatore e che non aveva la presunzione di sperare in un miracolo e proponeva, al rivale domenicano, d'entrare con lui in mezzo ad un rogo ardente. Frate Francesco disse che “io sono certo di perirvi, ma la carità cristiana m'insegna a dare la mia vita, se a tale prezzo posso liberare la Chiesa da un eresiarca che di già ha strascinato e strascinerà tante anime nell'eterna dannazione”.
La strana proposta fu riferita al Savonarola. Al frate domenicano l'idea di passare attraverso il fuoco non piaceva, non perché diffidasse del proprio potere d'operare miracoli ma presumeva che dietro la proposta covasse l'inganno della parte nemica. Frate Domenico da Pescia, fervido seguace del frate ferrarese, disse d'essere pronto ad assoggettarsi alla prova del fuoco in vece del maestro per confermare la verità delle parole di frate Girolamo Savonarola. Frate Domenico disse d'essere sicuro che non sarebbe servito un miracolo di Dio per salvarsi, poiché sarebbe intervenuto il maestro a favorire la sua salvezza.
Il popolo accolse con insolito ardore quella tremenda sfida. I devoti di Savonarola si rallegrarono di poter ottenere un luminoso trionfo contro Roma per il miracolo che già credevano di tenere in pugno. I nemici del frate giunto da Ferrara non erano meno contenti di poter vedere un eretico condannarsi da se alle fiamme, di cui lo credevano meritevole.
Tutta Firenze desiderava uno spettacolo così straordinario, anche i magistrati della città poiché potevano liberarsi del dubbio in cui si trovavano tra Chiesa di Roma e pensiero di Savonarola.
Il Papa scrisse il giorno 11 di aprile ai francescani di Firenze, rendendo loro grazie per lo zelo dimostrato nel difendere l'autorità della Santa Sede.
Quando Francesco della Puglia seppe che non sarebbe entrato nel fuoco purificatore con il grande eresiarca, ma con un frate qualunque, rifiutò l'idea che esso stesso aveva avanzato. Il francescano non voleva esporsi a indubitata morte se non poteva avere come compagno di sventura Frate Girolamo.
Anche i francescani non volevano essere da meno dei domenicani: due giovani frati si offrirono per la prova del fuoco in compagnia del domenicano frate Domenico da Pescia. Il primo di essi, frate Nicolò di Pilli si sentì venire meno il coraggio sin dagli istanti successivi all'inopinata nomina che esso stesso aveva avanzato. Il secondo, frate Andrea Rondinelli, stette fermo nella volontà di ardere nelle fiamme della prova. I domenicani per non essere inferiori ai francescani, si offrirono in gran numero per sostituire il maestro e il frate che per primo aveva deciso d'immolarsi nel fuoco.
Si creò una gran sommossa. La città di Firenze, invasa dai fedeli del predicatore Girolamo, era in stato confusionale. Molti si offrivano d'entrare nel fuoco accompagnando il maestro, o chi per esso, per poter godere del favore di Dio. I magistrati decisero che le fiamme avrebbero lambito le vesti di frate Andrea Rondinelli, per i francescani, e frate Domenico di Pescia, per i domenicani. Decisero altresì che la prova si sarebbe svolta il giorno 7 di aprile del 1498.
Giunse il giorno designato.
In mezzo alla piazza un palco alto 5 piedi, largo 10 e lungo 80, coperto di terra e mattoni crudi per preservarlo dall'ardore delle fiamme. Furono poste sul palco due cataste di legna. Tra le due pire correva un viale largo due piedi, poco più di mezzo metro, che andava da un capo all'altro delle cataste. I due contendenti dovevano entrare insieme ed attraversarlo in lunghezza.
I francescani si presentarono senza clamore mentre i domenicani, guidati da Savonarola con le vesti sacerdotali, seguivano il crocifisso cantando salmi con delle piccole croci rosse nelle mani. Seguivano i fedeli con le fiaccole accese.
Nelle quattro ore seguenti i domenicani non smisero di cantare e pregare, invocando l'aiuto di Dio.
I francescani, forse intimoriti dalla presenza domenicana, vollero svestire il frate della parte opponente, concedendogli delle vesti di loro gradimento. Ritenevano Savonarola uno stregone, e come tale poteva nascondere degli incantesimi negli abiti di frate Domenico di Pescia.
Quando il fuoco stava per innalzarsi, frate Girolamo consegnò il tabernacolo nelle mani di frate Domenico, affinché Dio lo proteggesse dalle fiamme. I francescani, ora probabilmente intimoriti dal rogo, gridarono all'empietà quando compresero che l'ostia consacrata poteva ardere insieme a loro.
Trascorsero le ore poiché Savonarola risultò inflessibile sull'idea di lasciare nelle mani del frate domenicano il tabernacolo.
Nel frattempo il popolo, che da ore era assiepato per assistere allo spettacolo, soffriva la fame e la sete. I fedeli iniziarono a dubitare della reale volontà di entrambi i contendenti.
La paura del fuoco aveva soggiogato le loro menti?
A spegnere ogni ardore si presentò una dirompente pioggia che bagnò la pira e gli spettatori.
La Signoria decise di accomiatare l'assemblea.
Savonarola si recò nel convento di San Marco per predicare contro i francescani, che a loro volta ammutinavano il popolo contro il predicatore.
Il giorno seguente un solo grido serpeggiava per Firenze: “Alle armi, a San Marco”.
Una plebaglia scatenata assediò il convento con armi, scuri e fiaccole.
Decisero di ardere le porte per poter entrare a catturare il grande calunniatore.
Savonarola e due frati domenicani furono tratti in arresto camminando tra due ali giubilanti di popolo minuto.
Girolamo Savonarola affronterà, suo malgrado, una prova del fuoco.
All'alba del 23 maggio, alla vigilia dell'Ascensione, Savonarola, accompagnato da Fra Silvestro e Fra Domenico, fu impiccato tra le urla della folla. Fu appiccato il fuoco alla catasta sulla quale penzolavano i corpi dei domenicani.
La legna in breve fiammeggiò, bruciando i corpi senza vita degli impiccati.

Fabio Casalini


Bibliografia

J.C. Simonde de Sismondi, Storie delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, Tipografia Elvetica 1831

P. Tamburini, Storia generale dell'inquisizione, Francesco Sanvito 1862

P. Antonetti, Savonarola, il profeta disarmato, Bur 1998


Santuario della Beata Vergine del Castello a Fiorano Modenese

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Appoggiato sul colle di Fiorano il Santuario della beata Vergine del Castello, simbolo del paese, ha una storia secolare da raccontare a coloro i quali decidono di fargli visita.
Tutto cominciò poco prima dell’anno 1000 quando, per difendere i cittadini da razzie e invasioni da parte di varie popolazioni, venne decisa la costruzione di un castello sul colle di Fiorano.
Il castello rimase a dominare la collina per oltre 300 anni e divenne residenza di ricchi signori del posto fino a quando, nell’estate del 1325, la fortezza venne presa d’assedio e dopo una settimana di resistenza venne espugnata. Ne seguì la distruzione di tutte le opere di fortificazione e gli edifici all’interno delle mura vennero dati alle fiamme: solo la chiesa parrocchiale venne risparmiata.
Ciò che era rimasto del castello fu definitivamente raso al suolo nel 1510 da truppe impegnate in azioni di conquista nel territorio modenese. Il forte fu prima bombardato con i cannoni e successivamente definitivamente demolito con l’ausilio di picconi. Nelle macerie venne trovata quasi intatta solo l’immagine della Madonna col bambino posta, secondo la tradizione, sopra l'ingresso del castello di Fiorano.
Fu il duca Francesco I di Este che nel 1634 fece costruire il santuario, in architettura barocca, per custodire l’immagine della Madonna col bambino. Alla protezione dell'immagine furono attribuiti diversi eventi miracolosi che risparmiarono il borgo di Fiorano da incendi assalti e pestilenze. 
Uno degli eventi più ricordati risale al 1558 quando le truppe spagnole incendiarono il borgo e l’affresco venne inspiegabilmente risparmiato. Nel dipinto, ai piedi della vergine, si scorge inginocchiato il soldato penitente per le azioni perpetrate dalle truppe a ricordare il miracolo del fuoco.
Il Santuario affaccia sulla prospiciente, e recentemente restaurata, Piazza Giovanni Paolo II dove, oltre ai resti i resti archeologici di un ambiente interrato del castello di Fiorano, è visibile una statua in bronzo dedicata al Pontefice a cui la piazza è intitolata.
Su un lato della Basilica, una terrazza panoramica permette di ammirare una romantica veduta sulle prime colline e la vasta pianura, nei giorni più limpidi capita di poter distinguere persino la torre del Duomo di Modena e, sullo sfondo, le Alpi.
A conclusione della visita, prima di gustare i piaceri di questa meravigliosa ed accogliete terra, non può mancare una passeggiata tra le case del borgo antico detto il Sasso. In Via Bonincontro è possibile ammirare un edificio che conserva le finestre decorate con formelle in terracotta originali del 400.

Marco Boldini

Il trombettiere italiano di Custer

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Il “Generale” Custer si sporse in avanti sulla sella studiando attentamente la valle sottostante e, voltandosi verso il giovane trombettiere, gli affidò l’importante messaggio. Il ragazzo era John Martin, al secolo Giovanni Martini, l'ultimo bianco che vide Custer vivo, l’unico bianco che il destino scelse di salvare quel giorno sul Little Big Horn. 
Giovanni Crisostomo Martini nacque a Sala Consilina in provincia di Salerno probabilmente attorno al 18 gennaio 1853, orfanello rinvenuto sulle scale della Chiesa dell’Annunciazione avvolto in un semplice panno bianco. La sua avventura iniziò presto, quando appena 14enne lasciò il piccolo paese campano per immergersi nella 3^ Guerra d’Indipendenza e arruolarsi come tamburino nel “Corpo Volontari Italiani” di Giuseppe Garibaldi, con i quali partecipò attivamente alla campagna Tridentina del 1866/1867 per liberare dalla Regola Austriaca Veneto e Trentino militando, probabilmente, anche nella battaglia di Mentana e forse nella guerra Franco-Prussiana del 1870. Nel marzo del 1873, Giovanni, poco più che ventenne, inebriato come molti altri giovani italiani ed europei dal fascino del Nuovo Mondo, si imbarcò a Napoli sul veliero inglese SS Tyrian di Glasgow diretto a New York, dove si stabilì per qualche tempo con il nome anglofonizzato di John Martin. La vita a Brooklin era ben misera per i molti immigrati costretti a lavori faticosi, saltuari e sottopagati, per cui John rispose ben presto alla chiamata alle armi dell’Esercito, in continua ricerca di giovani disoccupati e particolarmente attento ai molti italiani ansiosi di combattere, dopo decenni di attività rivoluzionaria e di guerra di riunificazione in Madre Patria. John Martin non era diverso dagli altri ed il 1° giugno 1874 si arruolò come trombettiere venendo assegnato alla Compagnia H del Settimo Cavalleria dell'Esercito degli Stati Uniti di stanza nel Territorio Indiano, in allerta per l’irrequietezza dei Sioux delle Grandi Pianure. Dal suo foglio matricolare il soldato 21enne risultava “alto un metro e 68, occhi marroni, capelli neri e carnagione scura. Soldato disciplinato e volenteroso.” L’apprezzamento dei propri superiori in quel periodo non era così scontato per una giovane recluta, i territori di frontiera infatti erano terre turbolente, inospitali e senza legge, l’alta mortalità tra i soldati non era solamente causata dall’incredibile forza con cui le tribù pellerossa si opponevano all’Esercito, ma spesso era dovuta anche a problemi come l’alimentazione insufficiente, i servizi igienici inesistenti, l’alcolismo dilagante, l’impreparazione dei militari, spesso non addestrati adeguatamente a cavalcare ed all’uso delle armi. I commilitoni di John erano per il 70% immigrati (soprattutto italiani, polacchi, messicani, tedeschi, inglesi ed irlandesi) ed i pochi americani erano spesso ex confederati, economicamente in ginocchio a causa della Guerra Civile da poco conclusa. Insomma una forza di disperati difficilmente governabile sia a causa della scarsa disciplina sia per le differenti lingue parlate dai soldati, anche se molti degli ufficiali tra i quali il Ten. Col. George Armstrong Custer erano esperti e spietati veterani della Guerra di Secessione (le imprese valorose di Custer nella “Civil War” gli valsero il rango temporaneo - brevet - di Generale, idealmente riconosciuto anche in seguito, una volta riacquisito il grado originario). Per tali motivi il mantenimento dell’ordine era imprescindibile e le punizioni molto severe: in base alla gravità delle mancanze i soldati venivano a volte fatti marciare con lo zaino carico di sassi sotto il sole, oppure frustati o ancora legati per ore a terra sotto il calore rovente, fino anche alla fucilazione per i reati più gravi. Custer in particolare si distinse per severità, nel 1867 fu persino deferito e poi assolto dalla Corte Marziale dall’accusa di crudeltà sui sottoposti, pur avendo avuto comunque il pregio di dare spesso l'esempio, nonsolo in termini di coraggio, ma anche sottoponendosi assieme ai suoi uomini alle medesime esercitazioni e alle marce più dure, riscuotendo spesso il loro rispetto (nonchè l’invidia di altri Ufficiali meno capaci).
Nella metà del 1876 Martin scriveva in una nota del suo diario: "… Siamo arrivati a Fort Abraham Lincoln nei territori del Dakota, il 7° Cavalleria dopo diversi anni si è finalmente unito il 12 maggio sotto il Comando del Generale Terry. E’ arrivato anche il Generale Custer da Washington … ”. In quel periodo infatti il Generale Sheridan aveva dato ordine alle truppe di muovere verso le Black Hills per sedare una rivolta indiana. Le forze, suddivise in tre colonne provenienti rispettivamente dal Montana, dal Wyoming e dal Dakota, dovevano convergere nella regione del Powder River in cui le guide avevano avvistato il movimento di circa 800 nativi guidati da Toro Seduto e Cavallo Pazzo, da catturare e ricondurre nella riserva.
La colonna Dakota – di cui faceva parte il 7° Rgt. Cavalleria - avrebbe dovuto essere comandata dallo stesso Custer e non dal Generale Terry, se nel marzo dello stesso anno l’Ufficiale – esperto e coraggioso ma anche impulsivo e poco incline alla disciplina - non fosse stato trattenuto presso una Commissione d’Inchiesta del Congresso a Washington, per rendere testimonianza su uno scandalo per corruzione, denunciato dallo stesso Custer, che vedeva coinvolti il Segretario di Stato per la Guerra William. W. Belknap, il fratello del Presidente degli Stati Uniti Orville Grant e alcuni commercianti che avevano venduto derrate all’Esercito sottraendole illegalmente dalle forniture destinate alle Riserve indiane. La denuncia di Custer fu duramente criticata dai Repubblicani, venendo invece lodata dalla stampa democratica. L’Ufficiale quindi, destituito dal Comando, sapeva che la sua carriera, a questo punto, rimaneva appesa ad un filo e solo l’intercessione in suo favore da parte del Generale Terry, che si fidava dell’intuito bellico di Custer, convinse Washington a rimetterlo in gioco ridandogli comunque il Comando del 7° Cavalleria, in seno alla Colonna Dakota. La Campagna delle Black Hills era cominciata.
Notte del 24 giugno: gli Squadroni del 7° Cavalleria, inviati in avanscoperta dal Gen. Terry tra la vallata del Rosebud e quella del Little Bighorn, preparavano il bivacco esausti e stremati per la marcia forzata. Le istruzioni di Terry suggerivano a Custer di dirigere ancora più a sud lungo il Rosebud attendendo fino al giorno 26 il ricongiungimento con le altre colonne, ma le tracce fresche dell’accampamento scovate la sera precedente dagli scout Absaroka, convinsero l’Ufficiale a forzare i tempi.
Alba del 25 giugno: Custer dalla collina del Crow’s Nest scrutava tra la foschia con il suo cannocchiale senza riuscire a vedere l’accampamento nemico, ma solamente un piccolo gruppo di Sioux darsi alla fuga su alcuni crinali poco distanti; ogni speranza di sorpresa era ormai perduta e per impedire la fuga degli indiani (i quali, sebbene combattenti coraggiosi e resistenti, preferivano notoriamente mettere in salvo donne e bambini piuttosto che impegnarsi in un confronto armato con l’Esercito) bisognava attaccare al più presto, adottando la ormai collaudata manovra a tenaglia in modo da non lasciare scampo agli avversari. Inoltre la presa in ostaggio di donne e bambini avrebbe senz’altro costretto i guerrieri ad arrendersi e rientrare nella Riserva. Il Reggimento fu suddiviso in 4 distaccamenti: il Maggiore Marcus Reno con tre Compagnie avrebbe attaccato il villaggio da Sud attraversando un piccolo torrente (in seguito chiamato Reno Creek), seguito a distanza dal Capitano Thomas Mc Dougall e dal suo convoglio di muli carichi di vettovagliamenti e munizioni, mentre al Capitano Frederick Benteen furono affidate altre tre Compagnie per un’ampia manovra sul fianco sinistro di Reno con lo scopo di intercettare eventuali gruppi in fuga; Custer con 5 Compagnie avrebbe sfondato il villaggio irrompendo da un promontorio posto a settentrione, sulla riva opposta del torrente.
Ore 15.00: mentre i soldati controllavano sella e armi, Custer raggiunse l’altura a cavallo unitamente ai suoi attendenti ed a John Martin il quale, successivamente, dichiarò “Il Comandante mi diceva di stare dietro di lui mentre salivamo in cima alla collina, da cui potevamo finalmente vedere tutto il villaggio di Sitting Bull." Custer ebbe per la prima volta una visione completa della vastità dell’accampamento indiano e delle migliaia di guerrieri: ordinò subito al giovane trombettiere che gli stava al fianco di correre a chiedere rinforzi alla colonna di Benteen rimasta in retroguardia. Il Tenente William W. Cooke, per il timore che il ragazzo di lingua italiana non avesse ben capito il senso del messaggio, pensò di metterlo per iscritto su un foglietto (oggi conservato nel Museo di West Point): “Benteen come on. Big Village. Be quick. Bring Packs” (che tradotto significa “Benteen raggiungici. Un grande villaggio. Sbrigati. Porta le salmerie”, queste ultime da identificare con rifornimenti e munizioni). Custer si era reso conto troppo tardi della propria schiacciante inferiorità numerica (non i circa 800 ostili stimati ma diverse migliaia, forse addirittura 10.000 indiani erano confluiti sotto la guida di Toro Seduto) e cercava ora di riunire le truppe, preparandosi ad una lunga resistenza.
Ore 15.20: John con la tromba a tracolla infilò il pezzo di carta nel guanto e partì ventre a terra giù per la collina. A dispetto della sua giovane età e a differenza di molti suoi commilitoni l’italiano era un esperto cavaliere, veterano di terribili guerre in Europa e forse per questo in un frangente così delicato si trovava al fianco del Comandante; forse per questo Custer gli aveva affidato la propria vita e quella dei suoi Cavalleggeri. Tra i resoconti del trombettiere si legge: "ho cavalcato in fretta e furia fin sulla cresta della collina di fronte, guardando indietro ho visto che gli Indiani avevano già attaccato e che i nostri ragazzi stavano reagendo con eccitazione. Ho fermato solo un attimo il mio cavallo e sono rimasto a guardare l'azione in lontananza. In quel momento non immaginavo che quella era l'ultima volta che vedevo quegli uomini vivi”. Mentre incitava violentemente il cavallo il ragazzo avvertì le prime scariche di fucileria, guerrieri urlanti sbucavano da ogni parte, le pallottole gli fischiavano attorno rischiando innumerevoli volte di colpirlo. Testa bassa e redini a frusta, doveva farcela.
Ore 16.00: il Capitano Benteen lesse il messaggio consegnatogli dal giovane soldato arrivato come un fulmine, senza fiato e stralunato per lo sforzo compiuto. Senza apparente fretta, passando il foglietto al Capitano Thomas Weir , chiese a Martin l’esatta posizione di Custer. Per John solo il tempo di cambiare il cavallo che lo aveva condotto in salvo e che ora, con la bava alla bocca, sgorgava sangue dal collo come una fontanella. Quando gli Squadroni guidati dal trombettiere italiano giunsero nel teatro della battaglia le truppe di Reno erano allo sbando: dopo la fallita penetrazione dell’angolo meridionale del villaggio erano subito rimaste schiacciate dall’enorme numero di guerrieri (si stima un rapporto di uno a dieci), provando ad abbozzare una difesa e poi una ritirata ben presto diventata una disastrosa fuga prima nel torrente e poi trincerandosi su un vicino promontorio (poi chiamato Reno Hill). Le perdite erano enormi, il Comando delle operazioni fu subito preso dal Capitano Benteen, molto più calmo e lucido del Maggiore Reno, ormai crollato psicologicamente e praticamente incapace di dare ordini. Il quadrato di difesa si ricompose ma non vi era nessuna apparente possibilità di uscire dalla trappola per raggiungere le postazioni di Custer, almeno così valutò Benteen, in disaccordo con alcuni Ufficiali subalterni che volevano obbedire agli ordini impartiti e tentare ricongiungersi al “Generale”: il Capitano Weir, in particolare, con la propria Compagnia decise autonomamente di dirigersi verso le postazioni di Custer venendo tuttavia ben presto bloccato da formazioni di guerrieri. Cavallo Pazzo, sull’altro fronte conduceva gli attacchi in maniera efficace e scientifica, puntando ad isolare gruppetti di soldati che venivano facilmente neutralizzati. La situazione sulla Reno Hill rimase precaria per due giorni a causa della spietata determinazione con cui le bande Sioux e Cheyenne si alternavano nell’assedio. Il caldo, la sete, la polvere, le grida impazzite di cavalli e muli terrorizzati, gli uomini trincerati che ad uno ad uno venivano colpiti dal fuoco avversario. Diversi sopravvissuti, tra cui Martin, avrebbero poi testimoniato che molte vite furono sicuramente salvate da un Benteen fresco e composto, unico riferimento rimasto tra i soldati in preda al panico. I Sioux ritirarono l’assedio improvvisamente il 27 giugno, poche ore prima dell’arrivo delle colonne “Dakota” e “Montana”. Sulle colline vicine, i cadaveri di Custer e dei 210 componenti dei suoi 5 Squadroni vennero rinvenuti sparsi in mezzo all’erba, spogliati e scalpati, resi irriconoscibili dalle orrende mutilazioni e dagli spasimi della morte; unico superstite il cavallo del Capitano Keogh, testimone muto di tanta follia. Possiamo solo immaginare l’animo del soldato Martin quando vide lo scempio dei suoi commilitoni: sarebbe stato anche lui là nell’erba, trucidato come gli altri se il suo Comandante non gli avesse dato quell’incarico di portaordini. Affranto, avrebbe voluto ritirarsi nell’ombra e nel silenzio. Ma non fu possibile.
Un anno dopo, John Martin, ancora trombettiere nel ricostituito 7° Cavalleria, partecipò alla campagna contro il Capo Joseph e i suoi Nasi Forati (ennesima pagina di violenza e sangue questa volta a danno degli indiani che fuggiti dall’Idaho tentavano di rifugiarsi in Canada ove era riparato Toro Seduto) tra cui la battaglia di Canyon Creek in Montana nel giugno 1877. La vendetta dell’uomo bianco per l’onta di Little Bighorn era appena cominciata. Negli anni successivi il giovane italiano dovette testimoniare più volte nei procedimenti penali e nelle inchieste governative che seguirono il massacro di Custer. La sua testimonianza fu essenziale per stabilire le accuse di “codardia” a carico del Maggiore Reno e di “disobbedienza” nei confronti del Capitano Benteen, (entrambi assolti formalmente ma rimasti macchiati da quell’evento) per aver abbandonato Custer al suo tragico destino. Gli infiniti dibattiti sui presunti errori di Custer nel guidare l’attacco, sulle teorie del complotto repubblicano ai suoi danni, sull’eroismo romantico del 7° Cavalleria, furono talmente intensi negli anni che seguirono (e continuano a tutt’oggi) che passò in secondo piano persino il genocidio del popolo delle pianure, che pagò a caro prezzo la schiacciante vittoria sul Little Bighorn. John Martin, pur essendo spesso chiamato da storici e giornalisti per rilasciare dichiarazioni, interviste e resoconti, non smise mai di tenere i piedi ben piantati per terra, mantenendo umiltà e profilo basso in ogni circostanza. Il 24 giugno 1879 lasciò il 7° Cavalleria per continuare la sua carriera come musicista nel 3° Rgt. Artiglieria di Baltimora, dove sposò Julia Higgins, una 19enne ragazza irlandese. Quello che ormai era divenuto famoso come il trombettiere di Custer visse in relativa pace e tranquillità fino allo scoppio della guerra ispano-americana del 1898, periodo in cui dovette trasferire la famiglia prima a Tampa in Florida e poi a Cuba, rientrando definitivamente negli States alla fine delle ostilità, nel maggio 1901. Tre anni dopo, posto in pensione con il grado di Primo Sergente Maggiore dopo 30 anni di onorato servizio, aprì un negozio di dolciumi nei pressi di Baltimora; all’epoca era padre di otto figli, uno dei quali, George (così chiamato in ricordo del Comandante Custer) divenne Generale dell’Esercito. Nel novembre 1906 il Washington Times Magazine pubblicò un ampio articolo sulla figura di John Martin, divenuto nel frattempo bigliettaio nella nuova metropolitana di New York City, nel cui testo egli viene indicato come: “... dritto e robusto come allora, dispensa sempre un perfetto saluto militare ai dirigenti della metropolitana che lo conoscono personalmente e che non omettono mai di fermarsi per un minuto con l'antico veterano di almeno tre campagne attive. … Martin ha tenuto un diario dettagliato dell'intero servizio militare, che ha sempre messo a disposizione degli intervistatori per eventuali scopi di verifica storica …”. 
L’ultima battaglia del trombettiere John Martin si concluse in ospedale il 24 dicembre 1922, all’età di 69 anni, 10 giorni dopo essere stato investito da un autocarro pieno di casse di birra mentre attraversava una strada di Brooklin. Così alla vigilia di Natale finì, ironia della sorte, l’avventura dell’emigrante italiano, descritto da figli e conoscenti come un uomo buono, semplice e amante della famiglia. Nonostante le sue molte peripezie, per l’immaginario collettivo John Martin rimarrà sempre il trombettiere italiano del 7° Cavalleria. Al civico 833 di Jamaica Avenue a Brooklin, accedendo al cimitero militare di Cypress Hill, spicca oggi la scritta “state entrando nel bivacco dei morti”. Qui, in questo immaginario ultimo bivacco, si trova anche Giovanni Crisostomo Martini, sulla sua lapide qualcuno ha inciso la frase “portò l’ultimo messaggio del Generale Custer. Battaglia di Little Bighorn – 25 giugno 1876”.




Sergio Amendolia

Bibliografia
Leo Solimine – Custer’s bugler – the life of John Martin
Stephen E. Ambrose – Cavallo Pazzo e Custer

Sitografia
www.littlebighorn.info



La leggenda dell'ebreo errante

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Questa è la leggendaria storia di è un uomo di circa trentanni dalle vesti logore e sporche che cammina veloce appoggiandosi ad un bastone nodoso. Tiene alla cintura una vecchia bisaccia con dentro cinque monete che una volta spese ricompaiono nuovamente. Il suo volto è incorniciato da una folta e lunga barba bianca.
Guardandolo profondamente nel viso colpisce la sua espressione che comunica un infinita stanchezza, nel fondo degli occhi si vede lampeggiare un inquietudine che non trova mai pace. Quest’ uomo invecchia a poco a poco, arriva ad avere fino a cent’ anni, poi cade in una sorta di estasi e quando si risveglia il suo corpo è cambiato, è di colpo ringiovanito. Ancora una volta ha di nuovo trentatre anni, l’ età che aveva Cristo quando è salito al Calvario. E da trentatre anni ricomincia il suo cammino aspettando di arrivare nuovamente a cento per compiere un nuovo ciclo. L’ uomo è sempre solo, lo si può alcune volte incontrare lungo i sentieri di campagna, oppure qualche volta lo si può vedere camminare in città. Solo raramente si ferma a parlare con qualcuno per raccontare la sua storia. La storia dell’ Ebreo Errante costretto a peregrinare per il mondo senza poter mai fermarsi a riposare.

Dopo che il popolo a gran voce aveva deciso che Barabba venisse liberato e Gesù condannato a morte, Pilato fece flagellare il sedicente Messia e lo consegnò a chi si doveva occupare della sua condanna. I soldati condussero Gesù nel pretorio e dopo averlo spogliato lo rivestirono con un manto rosso e gli posero in capo una corona di spine, e in mano uno scettro fatto con una canna. Poi cominciarono a deriderlo, gli sputarono addosso, e lo bastonarono mentre gli urlavano “Salve re dei Giudei”. Poi gli rimisero la tunica e lo portarono fuori mettendogli la croce in spalle e si avviarono verso il Calvario. Mentre salivano incontrarono un uomo di Cirene un certo Simone e gli chiesero di aiutare Cristo a portare la croce. Questo è ciò che Vangeli raccontano della salita al Calvario di Gesù Cristo e della sua Passione ma altri particolari si aggiunsero in epoche successive. Mentre Cristo veniva trascinato in modo brutale verso il luogo della sua esecuzione gli si fece incontro un uomo, un ebreo che secondo la tradizione si chiamava Aasvero (secondo altre versioni successive medievali Cartaphilos o Buttadeus) che gli tirò un pugno in mezzo alla schiena facendolo cadere a poi apostrofandolo con un imperioso ora alzati e cammina. Dopo essersi rialzato Cristo guardò l’ uomo negli occhi e con pacatezza gli rispose: io ora cammino ma tua farai altrettanto finchè io non ritornerò. Cosi iniziò il viaggio senza fine di Aasvero l’ Ebreo Errante che da quel giorno cammina senza tregua per le vie di tutto il mondo portando con se solo la vecchia bisaccia che contiene le poche monete che gli servono per avere un tozzo di pane ed un pasto caldo. La leggenda sarebbe suffragata da alcuni brani del Vangelo che specificano: In verità vi dico che fra gli odierni viventi vi sono quelli che non morranno prima che vedano il Figlio dell’ Uomo venire nel suo regno. Aasvero secondo alcuni era un ciabattino, per altri un mercante. Altri raccontano che fosse il custode del palazzo di Ponzio Pilato, oppure un ufficiale del Sinedrio.
La nascita leggenda dell’ ebreo errante può essere collocata con l’ inizio della propaganda antisemita nel IV secolo quando i Cristiani acquistarono a poco a poco potere nell’ impero romano. Uno dei compiti dei cristiani che raggiungevano posizioni di potere era quello di scagionare agli occhi dell’ opinione pubblica i cittadini romani dall’ accusa di aver crocifisso Gesù Cristo. Il capro espiatorio naturalmente scelto fu il popolo ebraico, ignorando di fatto che a condannare Gesù fu un magistrato di Roma e cosi si cominciò ad accusare gli Ebrei di deicidio. Perciò nell’ ottica di questa politica si inserirono leggende come quella dell’ ebreo errante tese a dimostrare l’ assoluta cattiveria con cui gli ebrei si erano comportati contro Gesù e giustamente la logica punizione.
Altri leggono nella leggenda dell’ ebreo errante la rappresentazione metaforica della diaspora del popolo ebraico. L'Ebreo Errante rientra anche nel gruppo storie nate secoli dopo la morte di Cristo riguardanti personaggi come la Veronica la donna che con un velo avrebbe deterso il volto di Cristo mentre saliva al Calvario e Longino il soldato romano che trafisse Gesù con una lancia.
L’Ebreo Errante divenne presto una figura ricorrente nella tradizione folcloristica italiana, in particolare nelle zone a ridosso delle Alpi. Secondo molte leggende se al suo passaggio l’ Ebreo Errante incontrava astio e atti ostili le comunità responsabili di questo odio venivano punite con un immediata caduta in disgrazia rappresentata da temporali, gelate improvvise, o qualunque altro evento potesse distruggere i raccolti. Un atto di carità o di semplice gentilezza nei sui confronti di garantiva la salvezza dell’ anima e la benevolenza della natura. Inoltre l Ebreo Errante era considerato portatore di nuove conoscenze come ad esempio la preparazione del formaggio (molto importante per le popolazioni alpine)
Nel Medioevo su di lui fiorirono molte leggende, nel 1233 un monaco cistercense dell’ Abbazia di Santa Maria di Ferraria un monastero cistercense a Vairano Patenora, nei pressi di Caserta, riferisce che alcuni stranieri passando dal monastero avevano raccontato di aver incontrato in Armenia un anziano ebreo che sosteneva di aver schernito Cristo mentre saliva al Calvario, e per questo di esser stato punito a vagare per l’ eternità. Nel 1235 Roger de Wendover nel suo “Flores Historiarum” narra della visita fatta nel 1228 a Saint Alban da un vescovo armeno che raccontò di aver conosciuto un certo Cartaphilos che aveva affermato essere un tempo guardiano del palazzo di Pilato e che avendo deriso Gesù era stato punito a vagare nel mondo fino al suo ritorno. 
L’ uomo dopo la punizione si era convertito al cristianesimo e girava per il mondo con il nome di Giuseppe. Secondo il suo racconto a battezzarlo era stato Anania, lo stesso uomo che aveva battezzato San Paolo. Versione confermata qualche anno dopo da Matthew Paris nell’ “Historia Major” datata nel 1259. Guido Bonatti (divenuto poi personaggio dell’ Inferno Dantesco) famoso astrologo al servizio della corte di Guido di Montefeltro nella sua opera “Introductorius ad judicia stellarum” racconta di uomo che era passato da Forli nel 1267 conosciuto come Giovanni Buttadeo che affermava di aver assistito alla passione di Cristo. Lo stesso personaggio si ritrova anche in cronache successive a volte chiamato come Giovanni Devoto a Dio. Antonio di Francesco d’ Andrea racconta che Giovanni Buttadeo fu visto in Italia tra il 1310 e il 1320 a San Lorenzo di Mugello. Sempre il d’ Andrea narra che Giano Duccio di Sergialdo incontrò insieme ai figli Giovanni Buttadeo travestito da frate mentre fuggiva da San Lorenzo verso Bologna. Sempre il quegli anni il Buttadeo fu avvistato in Lombardia e a Vicenza dove sembra venne arrestato come spia. Il cronista Sigismondo Tizio afferma invece che i vecchi cittadini senesi asserivano che Giovanni Buttadeo era passato nell’ anno 1400 per la loro città e che guardando un dipinto di Andrea di Vanni raffigurante la crocifissione disse di non aver visto mai un immagine del Signore più somigliante. Dal medioevo in poi la storia dell’ Ebreo Errante fu narrata innumerevoli volte e i suoi avvistamenti si susseguirono in ogni angolo d’ Europa dalla Francia li conosciuto con il nome di Isaac Laquedem fino alla lontana Russia. Federico Eusebio (1852-1913) storico e archeologo albese scrive in “Alba Pompeia” che suo padre gli raccontava che negli anni trenta dell’ ottocento era apparso in città un uomo di aspetto trasandato dai lunghi capelli i e dalla barba bianca con una vecchia bisaccia con pochi soldi che spesso camminava lungo la via maestra della cittadina facendo un veloce giro di acquisti nelle botteghe. Veniva denominato come l’Uomo dei Cinque soldi. Nessuno riusciva a fermarlo ne a parlare con lui, poi un giorno lo videro attraversare il Tanaro camminando sulle acque ed a piedi asciutti andare verso Asti. Ormai la fantasia popolare l’ aveva collocato nella lista dei personaggi eterni senza spazio ne tempo come il Conte di Saint Germain e Fulcanelli. I poeti moderni si impadronirono di questa figura leggendaria, a cominciare da W. Goethe, che in un frammento poetico (1774) vagheggiò un Aasvero spettatore mordace delle umane miserie. Nel periodo romantico questo personaggio assunse diversi significati simbolici: rappresentante del suo popolo, tenace e perseguitato; negatore di Dio, con cui si riconcilia dopo una lunga espiazione; ma su tutti prevalse il simbolo del faticoso e interminabile cammino dell’umanità, anelante a una pace e a una giustizia lontana.

Luciano Querio

Bibliografia
Gian Luca Margheriti. I personaggi più misteriosi della storia. Newton Compton Editori 2014

Jean d'Ormesson, Histoire du Juif errant, Gallimard, Paris 1990 (ed. it.: Il romanzo dell'Ebreo errante, Rizzoli, Milano 1992)

Leo Perutz, Il marchese di Bolibar, Adelphi 1987 (l'ebreo errante è Salignac, ufficiale dell'armata napoleonica impegnata in Spagna, che copre con una fascia un marchio di maledizione che porta sulla fronte; apparentemente invulnerabile, la sua presenza causa disgrazie a tutti quelli che combattono al suo fianco)

Pär Lagerkvist, La Sibilla (Sibyllan) del 1956 e La Morte Di Assuero (Ahsverus Död) del 1960, incentrati su diversi personaggi perseguitati da Dio, fra i quali spicca la figura dell'Ebreo Errante.

Aleksander Wat (1900-1967); racconto "L'ebreo errante", dalla raccolta Lucifero disoccupato (1927)

Isajon Sulton, L'Ebreo Errante (Boqiy Darbadar), romanzo (Tashkent, 2011)

Joseph Roth - Ebrei erranti | Adelphi Edizioni


Tra Halal e Kosher. Il food-scape dall'ipermercato al negozio etnico

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La contemporaneità è confronto di culture

Il mondo in cui viviamo è frutto di un continuo confronto tra diverse realtà. Il termine maggiormente utilizzato per definirlo è quello di «globalizzato», sottintendendo, nel senso comune, una sorta di appiattimento e di “americanizzazione” diffusasi urbi et orbi.
L’immagine che viene in mente all’uomo medio è quella di una sorta di “vento di civiltà”  (ma forse un tornado sarebbe più efficace, dati i suoi effetti distruttivi) che, dall’America (per la precisione dagli Usa), si spinge verso il resto del mondo appiattendo e radendo al suolo le diversità culturali. Siamo sicuri sia così? Stiamo veramente uniformando le culture e perdendo diversità? O è forse vero il contrario, ovvero che proprio in risposta a questo ipotetico vento di cultura stiamo lavorando per creare sempre più identità definite? 
La contemporaneità, soprattutto in ambito alimentare, è contraddistinta da piatti tipici e feste tradizionali che diventano eponimo di un’identità estremamente locale, da forme di comunità idealmente costruite (ad esempio attraverso i social network ed il www, che azzerano le distanze) e spalmate su tutto il pianeta, di flussi di persone e di etnie che si incontrano / scontrano con le popolazioni autoctone aprendo dibattiti nel campo dell’integrazione.
Per ora non è stata ancora concepita nessuna teoria uniforme per spiegare la complessità in cui siamo immersi: Appaduraj, Bauman, Grimaldi teorizzano tutti partendo dall’analisi della società contemporanea, caratterizzata dalla liquidità, dalla crisi esistenziale e valoriale.
La tecnologia ed i cambiamenti nei rapporti umani, la creazione di un territorio di libera espressione (con i suoi pregi ed i suoi difetti) quale Internet (cfr Eco, 2016), la perdita della concezione storica ed ancora di più della memoria storica (Bauman e Bodoni, 2015, pp. 127-134) sono problematiche appena presentatesi all’umanità e che fanno necessariamente parlare e teorizzare che siamo andati ben oltre la modernità. 
Forse la teoria più interessante è quella di Arjun Appaduraj: la sua modernità in polvere ha elaborato uno schema di azione in cui si influenzano reciprocamente diverse forze, cinque “panorami”. Ai flussi di persone (ethnoscape), di tecnologia (technoscape), di idee (ideoscape), di simboli (mediascape) e di denaro (finanscape) elaborati negli anni ’90 del Novecento dallo studioso di origini indiane, aggiungerei un sesto “-scape”: quello del cibo (foodscape). Basta infatti guardare le offerte dei reparti etnici dei supermercati piuttosto che le food court dei centri commerciali, dove sempre più spesso troviamo specialità esotiche. Il caso, estremamente provinciale, di Domodossola può secondo me chiarire cosa intendo con food-scape.
Domodossola, mini-global-town

Siamo in una piccola cittadina dell’alto Piemonte, quasi al confine con la Svizzera, che ha subito, nel corso del tempo, due eventi migratori molto importanti: l’arrivo dei lavoratori per la galleria del Sempione (inizio Novecento) e la migrazione del boom economico, negli anni ’60, che portarono, in entrambi i casi, alla nascita di veri e propri quartieri etnici (cfr Ciurleo, 2006 e Ciurleo-Ciurleo, 2006).
Tralasciando volutamente questi due esempi, già studiati a livello antropologico, proporrei un’analisi degli anni più recenti, partendo da fine millennio.
Dapprima, limitando il discorso alla ristorazione, furono i cinesi ad arrivare: erano gli anni ’90 del Novecento e, per la prima volta, fece la sua comparsa, nella realtà provinciale domese, un ristorante cinese. In molti ci andarono per provare gusti esotici (e l’esoticità maggiore era il gelato fritto), a sfidarsi nell’utilizzare le bacchette per portare il cibo alla bocca. Si può dire che il ristorante cinese fosse il primo assaggio di alterità - almeno culinaria - che arrivava in questo lembo di Piemonte incuneato nella Svizzera tedesca. Nel corso degli anni il numero dei ristoranti etnici aumentò sempre di più: il cinese perse il suo appeal (e diventò quasi di routine, con la nascita di rosticcerie take away) a favore del giapponese. Si assistette quindi, dopo una prima diffusione di diversi ristoranti cinesi, all’apertura di un primo (di una lunga serie) ristorante giapponese (Sakana), diventato poi sino-giapponese. E, negli ultimi anni persino il “giapponese” (in realtà quasi sempre gestito da cinesi che sfruttano commercialmente il valore aggiunto nipponico) è entrato in crisi e per sopravvivere si affida (come risposta alla crisi economica) ai menù »all you can eat»: la voglia di sushi si soddisfa nei supermercati, dove non esistono dubbi sui protocolli HACCP.
Il food-scape tra food-court e cibo etnico

I centri commerciali sono diventati, negli ultimi anni, dei luoghi particolarmente interessanti dal punto di vista antropologico. Si tratta di vere e proprie “agorà 2.0”, luoghi di aggregazione e di ritrovo. E le food-court, ovvero le corti del cibo, dove, in un’area ben contrassegnata, si concentrano le attività di ristorazione, sono un ottimo esempio.
Analizzando infatti le diverse tipologie di cibi offerti, troviamo che rispondono a precise istanze della clientela: i centri commerciali sono luoghi dove, ad esempio durante la pausa pranzo, si ha necessità di mangiare in maniera veloce, ed ecco quindi proliferare i fast food, soprattutto franchising nazionali o internazionali (MacDonald piuttosto che Burger King o steak house quali Roadhouse o Old wild west). Nel caso delle catene internazionali si deve evidenziare che non ci troviamo di fronte ad un appiattimento dell’offerta culinaria (MacDonald = Big Mac), bensì all’elaborazione di menù fortemente a carattere nazionale, con preparazioni gastronomiche temporalmente limitate, campagne di marketing che propongono viaggi nei sapori del mondo; il famoso panino preparato da Gualtiero Marchesi o i menù vegetariani sono stati elaborati in risposta alla crescenti istanze dei consumatori, che vanno alla ricerca di qualità e sapori particolari. Analogo discorso per la sensibilità sull’origine degli ingredienti (dove trionfa il Made in Italy o il richiamo al biologico): si tratta di campagne che sono portate avanti in Italia, ma non - per citare un esempio molto vicino - in Francia.
L’offerta “fast” si affianca a ristoranti monomarca o monoprodotto: a titolo di esempio si possono citare i cosiddetti Coop café, che promuovono prodotti a marchio, o il franchising di Giovanni Rana. A questi si aggiungono le attività che rientrano nel fast food etnico (kebab o sushi) o tradizionale (pizza o piadine).
Oltre alla struttura del centro commerciale, bisogna analizzare anche la disposizione interna degli ipermercati, l’offerta di prodotti esposti. Come è chiaro, i super ed ipermercati sono “figli del proprio tempo” e, dagli anni ’60 del Novecento, hanno subito un cambiamento radicale: un buon punto di osservazione per vedere gli effetti del foodscape sono i reparti etnici, cresciuti a dismisura negli ultimi anni. 
Questi reparti, come le food court, sono la testimonianza di dove sta andando l’enogastronomia moderna, ovvero un ritorno alla tradizione (non necessariamente italiana), unita al sempre minor tempo da dedicare alla cucina: la preparazione di un brodo - base della cucina - richiedeva diverse ore, ma oggi questi tempi si sono ristretti.
Per rispondere alle necessità della clientela si sono sviluppati prodotti “pret a manger”, che uniscono tradizione ed innovazione. 
I reparti etnici, innanzitutto, si sono ingranditi, con un’offerta sempre più variegata; ai cibi asiatici, in primis noodles, si sono aggiunti piatti messicani, indiani, ma anche dell’est Europa o marocchini. Il cous cous viene venduto in prossimità dei cetrioli giganti e dei nachos, accanto al riso basmati e agli spaghetti di riso o di soia, in una sorta di viaggio culinario nel mondo globale e dalle distanze fortemente ridotte. 
A poca distanza dal cibo etnico, spesso nello stesso reparto, troviamo la polenta al baccalà, piuttosto che la ribollita toscana o la zuppa di legumi: piatti della tradizione italiana la cui preparazione, grazie alla tecnologia, è stata “condensata”. Si tratta di cibi pronti in 2-3 minuti, magari al microonde, o in padella, tramite processi di preparazione che prevedono la re-idratazione o l’aggiunta di ingredienti freschi o che completano il piatto in fase di presentazione (il classico giro d’olio a crudo).
Un’offerta quella etnica ed esotica che si arricchisce con i banchi dei freschissimi, con frutta esotica e postazioni che preparano sushi sul momento, sostituendo quelli preparati in atmosfera protetta o surgelati. 
Il mercato chiede di provare l’esotismo, ma in maniera edulcorata, con sapori meno forti, meno decisi, e tempi di preparazione molto più ridotti rispetto a quelli tradizionali.

Out of GDO

Questo foodscape esce anche dai supermercati e lavora sul tessuto cittadino, creando dei negozi etnici, piuttosto che delle botteghe etniche, che diventano luogo di approvvigionamento di cibo, ma anche di ritrovo per le comunità di migranti.
All’inizio furono i call center ad assumere questo ruolo: gestiti - almeno all’inizio degli anni 2000 - da senegalesi offrivano comunicazioni con la madrepatria ed internet a poco prezzo. In alcuni caso offrivano anche qualche specialità enogastronomica, ma erano gli albori.
Poi si è arrivati alla costruzione di negozi etnici effettivamente gestiti e rivolti ad una minoranza etnica (e non quindi i vari mercatini solidali). Proprio in questi negozi si vede la sovrapposizione tra ethno- e foodscape. Pensiamo ad esempio alle macellerie Halal, localizzate sempre dove si ha una presenza significativa di musulmani. In esse, oltre alla carne (naturalmente è escluso il maiale) troviamo anche pentolame e prodotti tipici fatti arrivare direttamente dalla madre patria. Perché, come si sa, il cibo “di casa propria” è sempre migliore. Analogo discorso per i negozi che vendono cibo cinese piuttosto che dell’Europa dell’est: le minoranze di acquartierano e portano non solo le proprie ricette (l’aspetto culturale della cucina), ma anche i propri prodotti.

Conclusioni

Il cibo, oggi, è dovunque, e la sua diffusione in ambito mediatico e culturale testimonia un netto cambio di prospettiva. Nelle librerie esistono vasti reparti dedicati all’enogastronomia ed ai suoi scritti, per non parlare poi dell’influsso mediatico che la cucina ha: ogni canale delle tv generaliste ha la sua porzione di palinsesto dedicata alla cucina, tralasciando le tv specializzate…
La cucina è diventata terreno di incontro tra le culture: nella Gdo si assiste ad un vero e proprio “flusso” di cibi, di tendenze culinarie che attraversano i cinque continenti in una continua interazione tra di loro. Il cibo etico si mischia a quello etnico, flussi di cibi si sovrappongono a flussi di popoli. E non solo nei supermercati: assistiamo a diverse iniziative dove si fanno sedere a tavola diverse culture, per creare integrazione tra comunità di migranti e autoctoni proprio sfruttando il cibo e “la pancia”. Sedersi ad un tavolo per mangiare insieme è un’iniziativa di successo per metabolizzare l’alterità.
Ma la cucina è anche terreno di scontro. Pensiamo alla diffidenza verso la ristorazione cinese (ed i suoi stereotipi), ma anche alle polemiche ed ai flame di sdegno suscitati da alcune notizie su Facebook quando si assiste alla condivisione ad oltranza di post relativi ai migranti “islamici” che “ieri”, nel loro centro di accoglienza italiano, hanno buttato via il cibo.
Si tratta di segni evidenti che l’unione, l’amalgama tra le culture, passa proprio dal cibo. Vedere coesistere pacificamente in un ipermercato cibi halal con pani azzimi ebraici, pizzerie napoletane con ristoranti all you can eat, MacDonald con tigellerie, è forse la migliore risposta a certi episodi di violenza (reale o virtuale) causati forse dall’aver preso troppo “di pancia” - è il caso di dirlo - la problematica migrazione ed integrazione.

Luca Ciurleo


Bibliografia
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2012 - Modernità in polvere, Ra aello Cortina editore, Milano
 
Ballarini, Giovanni
2003 - La cultura della buona cucina, in Il Libro dell'anno 2003, Treccani, reperibile sul sito www.treccani.it

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Bravo, Gian Luigi
2003 - Italiani - Racconto etnografico, Meltemi, Roma
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Ciurleo, Luca
2006 - Sempione: la sottile linea scura, Comitato Cent’Anni Sempione, Vercelli
2007 - Tradizioni e neotradizioni in Ossola: tra riscoperta del passato e rilancio per il futuro, Tesi di laurea in specialistica in Antropologia culturale ed etnologia, Università di Torino, Torino
2013 - Tradizioni di pastafrolla, Edizioni Ultravox, Domodossola

Ciurleo, Antonio - Ciurleo, Luca
2006 - Da Abissinia a Cappuccina, Parrocchia di sant’Antonio, Bergamo

Ciurleo, Luca - Piana, Samuel
2016 - Ciboland - Viaggio nell’Expo tra antropologia ed economia, Landexplorer, Boca

De
2012 - Dining Experience, La rivista di Acqua Panna e San Pellegrino, Evoluzioni, Quaderno I, Sanpellegrino, Milano

Dorson, Richard M.
1950 - Folklore and fakelore, in "American Mercury", LXX, pp. 335-343

Eco, Umberto
2016 - Pape Satàn Aleppe - Cronache di una società liquida, La nave di Teseo, Milano 

EXPO
2015 - Nutrire il pianeta Energia per la vita - Catalogo ufficiale, Electa - 24ore cultura, Milano 

Franchi, Maura
2009 - Il cibo flessibile - Nuovi comportamenti di consumo, Carocci, Roma

Gasparroni, Alessandra
2010 - Outlet e centri commerciali per una gita fuori porta, in Marucci, 2010, pp. 85-100

Grimaldi, Piercarlo
2012 - Cibo e rito. Il gesto e la parola nel cibo tradizionale, Sellerio, Palermo

Harris, Marvin
1992 - Buono da mangiare, Einaudi, Torino

Holt-Giménez (a cura di)
2011 - Food movement unite! Strategie per trasformare i nostri sistemi alimentari, Slow food editore, Bra

Marucci, Gabriella (a cura di)
2010 - Turisticamente - Antropologia del turismo, Bulzoni editore, Roma

Meter, Ken
2011 - I cibi locali come chiave di ripresa economica, in Holt-Giménez, 2011, pp. 256-279

Montagut, Xavier
2011 - Noi mangiamo, noi decidiamo, in Holt-Giménez, 2011, pp. 241-255

Neresini, Federico - Rettore, Valentina (a cura di)
2008 - Cibo, cultura, identità, Carocci, Roma

Petrini, Carlo
2006 - Slow food, Le ragioni del gusto, Laterza, Roma
2011 - La complessità è opportunità, in Holt-Giménez, 2001, pp. 11-16




Nessun miracolo a Sant'Anna di Stazzema

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Giugno 1944, i bambini di Sant'Anna di Stazzema festeggiano con un girotondo la fine della scuola.
Nemmeno due mesi dopo, tutti i bambini ritratti nella fotografia furono uccisi nell'eccidio del 12 agosto.
Nel mese di marzo 2016 abbiamo richiesto all’archivio della Camera dei Deputati della Repubblica Italiana materiale inerente all’armadio della vergogna. Ritengo che tutto questo debba essere comunicato al pubblico nella forma di divulgazione più semplice possibile. 
Nel 1994, durante un'indagine del procuratore militare Antonio Intilisano, furono ritrovati 695 fascicoli su eventi di sangue accaduti in Italia durante la seconda guerra mondiale. Tali documenti erano nascosti in un armadio di uno sgabuzzino di Palazzo Cesi-Gaddi a Roma. L'armadio era chiuso con le ante rivolte alla parete. Per questo motivo fu ribattezzato l'armadio della vergogna. La vergogna s'accompagnò alla menzogna, per un lungo periodo di tempo.
Sant'Anna è una frazione del comune di Stazzema, in provincia di Lucca.
Siamo a cavallo tra la collina e la montagna.
Dalla fine del 1943 e sino all'estate successiva, la popolazione di Sant'Anna di Stazzema s'incrementò notevolmente a causa dell'arrivo di molti sfollati dalle zone dove i combattimenti per la liberazione del paese entravano nel vivo. Un secondo avvenimento, che scosse la tranquillità di un piccolo borgo raggiungibile esclusivamente con una mulattiera e che aiutò la crescita della popolazione, attiene alla costruzione della linea di difesa Pietrasanta-Regel da parte dei tedeschi. L'obiettivo finale era la congiunzione di tale linea con quella verde-gotica.
Nell'estate del 1944 il quadro generale era complesso poiché la Wehrmacht era riuscita a fermare l'avanzata alleata sull'Arno dopo la liberazione di Roma. Le brigate partigiane presenti sull'Appennino Tosco-Emiliano operavano sabotaggi ai danni delle truppe tedesche che reagivano con terribili rappresaglie per stroncare il legame tra la popolazione civile e le brigate partigiane. La formazione partigiana che operava sulle Alpi Apuane si sciolse per dissidi interni, dando vita alla X Bis Brigata Garibaldi. Un distaccamento di questa brigata si posizionò nei pressi di Sant'Anna di Stazzema.
Il 26 luglio del 1944, il comando tedesco affisse sui muri della Piazza della Chiesa un manifesto dove ordinava a tutti gli abitanti di lasciare le abitazioni e trasferirsi altrove. La Wehrmacht aveva iniziato da tempo lo sgombero dei civili dalla costa e dalle Alpi Apuane. Molto spesso tali intimazioni di sgombero non ebbero seguito a causa di due ordini di ragioni: da una parte i tedeschi non avevano truppe e mezzi sufficienti per far rispettare l'ordine di trasferimento e dall'altra i partigiani invitavano alla resistenza passiva. Se da una parte è vero che i tedeschi ordinarono l'abbandono del paese, dall'altra è appurato che non poterono dare seguito all'ordine di sgombero.
Nell'estate del 1944, i tedeschi qualificarono Sant'Anna di Stazzema come zona bianca ovvero qualificata ad accogliere sfollati. La popolazione durante quella maledetta estate superò le 1000 unità. Nello stesso periodo le brigate partigiane abbandonarono la zona senza aver svolto operazioni di rilievo ai danni delle truppe tedesche.
In questo contesto si giunge all'alba del 12 agosto 1944.
Tre reparti delle SS salirono a Sant'Anna di Stazzema mentre un quarto sbarrava le possibili vie di fuga. Appena si resero conto della situazione, gli uomini del paese scapparono nei boschi circostanti per la paura d'essere deportati. Donne, anziani e bambini restarono nelle loro case certi che nulla sarebbe accaduto.
Erano civili inermi.
I tedeschi erano accompagnati da fascisti collaborazionisti locali che fungevano da guide.
Da questo momento la menzogna cercò di coprire uno degli atti più efferati dell'essere umano.
La distruzione in località Vaccareccia la mattina del 12 agosto
Nel rapporto giornaliero del 13 agosto 1944, il comandante della 14aarmata tedesca, sotto il titolo situazione delle bande scrisse: “alla fine delle riferite operazioni contro le bande a nord di 183/43, fatti saltare altri 4 depositi di munizioni, distrutto un impianto di grandi cucine e centro servizio informazioni. Messo al sicuro i resti di un magazzino vestiario. Altri 353 civili sospetti di far parte delle bande sono stati catturati, 68 dei quali sono stati riconosciuti come appartenenti alle bande, 209 trasferiti al centro di raccolta di Lucca”.
In un comunicato successivo scrisse: “trucidati 270 banditi. Ridotto in cenere un punto di appoggio delle bande”. Il punto di appoggio delle bande altro non era che la chiesa della piccola frazione. I banditi erano civili inermi.
Proseguiamo alla ricerca della menzogna.
Il 2 ottobre del 1944, il brigadiere generale inglese Hounsell scrisse in un comunicato: “è dubbio se questo massacro sia di competenza della Commissione dei crimini di guerra, poiché la maggioranza degli abitanti del villaggio ha svolto attività partigiana ed ha trasgredito un'ordinanza germanica”.
L'ultimo atto di questa menzogna è responsabilità dei governi che si alternarono alla guida del paese nel 1948, poiché sotterrarono tutti i fascicoli riguardanti i crimini dei tedeschi e dei collaborazionisti fascisti nell'armadio della vergogna.
Per comprendere la quantità di menzogne elargite dai tedeschi, dagli alleati e dai governi italiani, dobbiamo tornare all'alba del 12 agosto 1944.
I reparti delle SS ed i collaborazionisti locali decisero di rastrellare i civili e di chiuderli nelle stalle o nelle cucine delle case.
Freddamente iniziarono ad eliminare donne, anziani e bambini.
Le ragazze che attendevano di partorire furono sventrare con i coltelli.
I neonati furono lanciati in aria e colpiti dagli spari come al tiro al volo.
Altri infanti furono infilzati con le baionette.
Raccapricciante la testimonianza di Elio Toaff, storico rabbino capo di Roma: “... per arrivare dai partigiani dovevo passare attraverso il paese di Sant'Anna di Stazzema. C'erano voci che i tedeschi radunavano molti ostaggi. Vidi una casa con l'uscio spalancato. La casa era immersa nel silenzio, interrotto dal cigolio della porta mossa dal vento. In cucina c'era una donna incinta sventrata da una baionetta. Accanto il feto con il cranio trapassato da una pallottola”.
In poche ore uccisero centinaia di civili, di cui solo 350 poterono essere identificati. Tra le vittime vi furono 65 bambini di età inferiore ai 10 anni.
La menzogna dei documenti tedeschi è lampante quando parlano di 270 banditi trucidati.
La vittima più giovane, Anna Pardini, aveva solo 20 giorni di vita. Gravemente ferita fu ritrovata agonizzante dalla sorella maggiore Cesira, superstite all'eccidio, tra le braccia della madre.
Questa la sua testimonianza: “ci radunarono. Maria Bonuccelli teneva in braccio il figlio Claudio di 4 mesi. Disse al soldato che aveva di fronte – abbiate pietà di mio figlio, è leucemico, sta per morire – e quello cavò la pistola e sparò prima alla madre e poi al bambino. E fu il turno di mia madre, che aveva in braccio Anna, la mia sorellina di 20 giorni. Mi ferirono ad un braccio e a una gamba. Sentii dei lamenti, era Anna, ancora in braccio a nostra madre, la tirai su, era tutto un impasto di latte e sangue. Nel fasciatoio trovai sette pallottole. Morì pochi giorni dopo in ospedale, come l'altra mia sorellina, Maria”.
A mezzogiorno a Sant'Anna di Stazzema vi erano solo mucchi di cadaveri, uccisi e rapinati.
La presenza di italiani traditori è comprovata da molte testimonianze. Nello Bonuccelli, scampato all'eccidio, disse che “uno mi disse – come? Anche tu qui? - Non capii chi fosse, aveva il volto coperto da una retina”. Lilia Pardini ammise che “ erano in tre con la retina, irriconoscibili. Mi dissero in italiano, anzi in versiliese – vai al muro con gli altri – io poi riuscii a cavarmela”.
Giugno 1944, i bambini di Sant'Anna di Stazzema festeggiano con un girotondo la fine della scuola.
Nemmeno due mesi dopo, tutti i bambini ritratti nella fotografia furono uccisi nell'eccidio del 12 agosto.
Gli eventi di Sant'Anna di Stazzema devono essere ricordati come crimini contro l'umanità, come atti terroristici e non rappresaglie. I tedeschi, insieme ai collaborazionisti locali, vollero annientare la popolazione civile, soggiogandola grazie al terrore.
La menzogna alleata è scoperta dall'incedere degli eventi.
Se non questi, quali possiamo identificare come criminali di guerra?
Troppe poche corde penzolarono a Norimberga.
Dopo il rinvenimento dei documenti, Franco Giustolisi e Alessandro De Feo, denunciarono l'insabbiamento dei fascicoli processuali con una serie di inchieste. Franco Giustolisi analizzò le motivazioni dell'occultamento indicando nella Ragione di Stato tale comportamento omissivo. Il giornalista pubblicò il carteggio tra il ministro degli esteri Gaetano Martino e il ministro della difesa Paolo Emilio Taviani, uno dei capi della resistenza partigiana in Liguria.
Una parte della memoria negata è responsabilità diretta di alcuni esponenti della politica italiana, persone che negli anni precedenti hanno lottato per la liberazione del paese.
Viene da chiedersi perché la Ragion di Stato sia sempre superiore alla memoria delle vittime, tra cui molti bambini in età prescolare, in questo bellissimo ma assurdo bel paese.

Miracolo a Sant'Anna è un film del 2008 diretto da Spike Lee. Il film è ispirato all'eccidio di Sant'Anna di Stazzema. La storia si dipana sulle Alpi Apuane, tra Sant'Anna, il fiume Serchio e le montagne. Le vicende relative all'eccidio sono antecedenti alla trama del film, ma è sono collegate ad esso poiché si intrecciano le storie di gente comune e partigiani, soldati americani e tedeschi.

Fabio Casalini


Bibliografia
Archivio storico della Camera dei Deputati,Armadio della vergogna, 2016

V. Cappelli, Elio Toaff l'ultimo colloquio: l'orrore della strage di Stazzema e il capitano delle SS che ebbe pietà, Il Corriere della Sera del 22 aprile 2015

F. Giustolisi,L'armadio della vergogna, Biblioteca editori associati di tascabili 2011

Il Fatto Quotidiano, Sant'Anna di Stazzema, 72 anni fa la strage nazista in cui vennero uccisi 560 civili, 12 agosto 2016


P. Paoletti, Sant'Anna di Stazzema 1944. La strage impunita, Mursia 1998




Il Compendium maleficarum di Francesco Maria Guaccio

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Francesco Maria Guaccio, noto come Guazzo, nacque a Milano intorno al 1570. Fu frate dapprima dell’Ordine di San Barnaba e poi dell’Ordine di Sant’Ambrogio ad Nemus, dopo l’unione avvenuta nel 1589. Nel 1605 iniziò la stesura del Compendium maleficarum, l’opera per cui oggi è ricordato. Il libro fu stampato la prima volta a Milano nel 1608.
Il libro è un trattato di demonologia e stregoneria, suddiviso in tre volumi. All’interno dello scritto si possono trovare citazioni di numerosi esperti tra i quali il grande inquisitore Nicolas Remy.
La demonologiaè lo studio delle credenze riguardanti le creature definite demoni. Tali credenze possono essere diffuse all’interno di tradizioni religiose e popolari. Consistono nella convinzione dell’esistenza di esseri sovrannaturali malvagi che possono influire sulle vicende umane. Particolarmente sviluppata nella tradizione cristiana, la demonologia riguarda le creature, definite angeli, che avrebbero peccato contro la divinità cristiana. Quest’affermazione la possiamo convalidare con la seconda lettera di Pietro in cui si può leggere che “Dio, infatti, non risparmiò gli angeli che avevano peccato, ma li precipitò negli abissi tenebrosi dell’inferno, serbandogli il giudizio”. Sempre nelle lettere di Pietro possiamo trovare il nome di colui che guida tali creature:“L’avversario è la traduzione del nome ebraico Satan che la versione dei LXX ha reso col greco diàbolos che vuol dire il calunniatore. Quell'angelo ribelle è l'avversario di Dio e degli uomini. I fedeli non hanno da combattere soltanto cogli uomini o colle loro proprie passioni, ma devono lottare anche contro un nemico invisibile e potente, il quale suscita contro la Chiesa le passioni popolari e le persecuzioni. Che fomenta nella Chiesa errori e divisioni, nel cuore stesso dei fedeli lo scoramento e le tentazioni. Quel terribile nemico è paragonato al leone affamato e feroce che rugge per impazienza di preda e va attorno bramoso di divorare, cioè di perdere, chi si lascia sorprendere da qualche lato debole per mancanza di vigilanza o per troppa fiducia nelle proprie forze. Pietro ne sapeva qualcosa”. Nel corso dei secoli molti pensatori si sono alternati per confermare l’esistenza dei demoni, non ultimo San Tommaso d’Aquino, il quale espresse l’opinione che il demonio esisterebbe e potrebbe influire sull’intelletto umano.
Il Compendium maleficarum si occupò anche di stregoneria, intesa come l’insieme di pratiche magiche e rituali tese ad influire positivamente o negativamente sulle persone o sulle cose loro appartenenti, alla quale si ricorre con l’aiuto di un essere soprannaturale. La stregoneria è presente nella storia umana sin dall’antichità. 
Il Compendium maleficarum è un voluminoso trattato in tre libri, la cui prima edizione uscì a Milano nel 1608. La stesura dell’opera risale ad un periodo precedente, ed esattamente al 1605. Il Guazzo afferma che compose il trattato durante un soggiorno alla corte di Cleve, dove era stato chiamato a prendere parte, in qualità d’esperto, ad un processo per stregoneria istituito dall’Inquisizione contro un anziano sacerdote accusato d’aver provocato malefici al duca Giovanni Guglielmo di Julich-Cleve-Berg. In quest’occasione, probabilmente, Guazzo incontrò il grande inquisitore Nicolas Remy, che all’epoca ricopriva il ruolo di procuratore generale di Lorena. Remy occupò quella poltrona dal 1576 al 1606. In quel lunghissimo periodo, il procuratore riuscì nell’impresa di emanare oltre 2000 condanne al rogo. Il frate milanese dovette ricevere consigli, indicazioni e plausi per la stesura del Compendium maleficarum. Quest’affermazione la possiamo convalidare con il fatto che il testo, del Guazzo, rimanda continuamente all’ingente casistica processuale raccolta nel Daemonolatreiae libri tres di Remy. 
Il Guazzo negli anni compresi tra il processo di Cleve e la pubblicazione del Compendium maleficarum, avrebbe viaggiato attraverso l’Europa per ampliare le competenze professionali. 
Nel 1607 soggiornò sulle sponde del Lago Maggiore, esattamente nell’eremo di Santa Caterina del Sasso Ballaro dove ricoprì il ruolo di provincialis provinciae Mediolanensis Ordinis Sancti Ambrosii ad Nemus. Tale accadimento è rinvenibile in un atto notarile del 1 novembre 1607 dove il frate milanese, insieme con altri quattro colleghi, fu testimone del prelievo di una reliquia da inviare ad una diocesi della regione francese della Lorena. Il prelievo fu effettuato dalle spoglie del beato Alberto Besozzi, leggendario fondatore del monastero a picco sul Lago Maggiore. Il rapporto tra Francesco Maria Guazzo e il monastero non cessò sino al 1624, come attestato in numerosi documenti. Nel 1625 il Guazzo pubblicò una Vita del beato Alberto Besozzo, dal quale ha avuto principio il luogo tanto celebre, e miracoloso di Santa Caterina del Sasso Ballaro sopra il lago Maggiore. 
Nel 1626, sempre a Milano, uscì una seconda edizione del Compendium maleficarum notevolmente ampliata. Anche quest’edizione era suddivisa in tre libri a loro volta divisi in capitoli, ciascuno articolato in due sezioni, una teorica e una di esempi antichi, moderni e contemporanei. Nel trattato sono descritte in modo dettagliato, grazie ad un cospicuo numero di vignette, tuttel le fasi del patto diabolico e del sabba.
Il Compendium maleficarum apportò una scarsa innovazione all’interno dello studio dei fenomeni legati alla demonologia e alla stregoneria. Lo stesso autore lo definì un lavoro di scrupolosa compilazione non privo di difetti divulgativi dinanzi all’inarrestabile progredire di una scienza che aveva assunto, con l’inizio del Seicento, proporzioni tali da richiedere l’aiuto di volenterosi redattori. 
La bibliografia del Guazzo attinge principalmente a Remy, al trattato di Del Rio pubblicato nel 1600 con il titolo di Disquisitiones magicae e al tristemente noto Malleus maleficarum del 1487.
Il Guazzo decise d’includere nella propria opera una classificazione gerarchica dei demoni, basata su un precedente lavoro di Michele Psello.
Le prime classificazioni si basano sugli scritti di San Paolo. Nel IV secolo si riteneva che la corte angelica fosse costituita da tre gerarchie a loro volta divise in un determinato numero di categorie. La stessa classificazione fu effettuata per i demoni. Fu solo nel secolo XI, con gli scritti di Michele Psello, che i demoni furono suddivisi in 5 classi più una sesta definita ombra. Durante il Medioevo e il primo rinascimento, per il rinnovato interesse verso le arti magiche e lo sviluppo di una stregoneria tutta europea, fu necessario tracciare dei sistemi di gerarchie più organizzate, che delineassero l'esatta posizione e caratteristica di ogni immaginabile demone. La lista più famosa è quella fornita dal medico e mago inglese Johann Weyer nel suo "Pseudomonarchia daemonum" (1563), secondo cui i demoni erano 7.409.127, comandati da settantanove principi e specificando l'aspetto e il carattere di ciascun demone. Sembra lecito legare il conteggio dei demoni ad un pensiero di Margherita Hack, divulgatrice scientifica italiana: “L'etica laica e, in particolare, l'etica degli atei, che non credono in nessuna entità superiore non meglio definita, ma solo nel dato di fatto dell'esistenza della materia che origina le strutture presenti nell'Universo, da cui si originano anche gli esseri viventi, dai più semplici ai più complessi, si basa sul rispetto del prossimo, uomo o animale che sia e può essere riassunta dai comandamenti di Cristo, che certo non era figlio di Dio, ma una delle più grandi figure dell'umanità, che ha preceduto i suoi tempi di molti secoli: "Ama il prossimo tuo come te stesso" e "Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te".

Fabio Casalini


Bibliografia

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AA. VV., Dizionario delle religioni, a cura di Giovanni Filoramo, Einaudi, Torino, 1993

F. M. Guazzo, Compendium maleficarum, a cura di Luciano Tamburini, con la prefazione di Carlo Carena, Einaudi, 1992




Breve storia triste di un mugnaio del Cinquecento

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Domenico Scandella, di professione mugnaio, nacque a Montereale Valcellina nel 1532. Il borgo in cui vide la luce attualmente rientra nella provincia di Pordenone, in Friuli Venezia Giulia. 
Poche e scarse sono le informazioni della giovinezza del mugnaio. Lo ritroviamo, a circa trent’anni, implicato in una rissa che gli valse un bando dalla città d’Arba per due anni.
Domenico detto Menocchio, diminutivo del nome di battesimo, trascorse la sua ordinaria vita nel borgo nel quale era nato. Montereale Valcellina contava all’epoca oltre 600 abitanti. Il Menocchio era costretto a svolgere altre mansioni, oltre a quella di mugnaio, per mantenere la moglie e la numerosa prole composta di sette figli. Il sostentamento era garantito dal ricavato di due campi e due mulini, in affitto. Con molta probabilità queste entrate non erano sufficienti a sfamare tutte le bocche della numerosa famiglia, poiché sappiamo che il Menocchio svolgeva l’attività di muratore e falegname in aggiunta a quella nei campi.
Domenico era istruito con riferimento all’epoca nella quale viveva. Sapeva leggere, scrivere e fare di conto. La preparazione gli consentì di divenire podestà di Montereale, e dei paesi limitrofi, nel 1581, all’età di trentanove anni. Lo stesso anno, Domenico divenne amministratore della locale pieve.
La tranquillità della vita fu squarciata dall’arrivo dei rappresentanti della Santa Inquisizione.
Il 28 settembre del 1583 il pievano di Montereale, probabilmente istigato da un secondo prete, denunciò il Menocchio al Sant’Uffizio.
L’accusa era infamante: Domenico Scandella aveva opinioni e posizioni eretiche su Cristo.
I due preti furono affiancati da numerose persone del luogo. Le testimonianze avverse al Menocchio confermano, anzi allargarono, il terreno delle accuse.
Il 4 febbraio del 1584 l’inquisitore d’Aquileia, Felice da Montefalco, ordinò l’immediato arresto e la carcerazione nella prigione di Concordia.
Tre giorni dopo, il 7 febbraio, Domenico fu interrogato per la prima volta.
Rispose tranquillamente alle domande dell’inquisitore, esponendo una particolare concezione del mondo, secondo la quale “all’inizio tutto era un caos, in pratica terra, aria, acqua e fuoco insieme; e quel volume, andando così, fece una massa, appunto come si fa il formaggio nel latte, e in quel diventarono vermi, e quelli furono gli angeli, e tra quel numero d’angeli vi era anche Dio, creato ancora lui da quella massa in quel medesimo tempo. E furono fatti con quattro capitani, Lucifero, Michele, Gabriele e Raffaele..”.
Per quanto concerne la personale visione di Cristo, idea che lo aveva condotto dinanzi al frate francescano che svolgeva la mansione d’inquisitore, disse che “era uno dei figli di Dio, perché tutti siamo figli di Dio, e di quella stessa natura che fu crocifisso; era uomo come noi altri, ma di maggior dignità, come sarebbe dire adesso il Papa, il quale è uomo come noi, ma di più dignità di noi perché può fare; e quello che fu crocifisso nacque da San Giuseppe e da Maria vergine”.
Domenico era un fiume in piena, un rivoluzionario che non risparmiava critiche alla configurazione della gerarchia ecclesiastica: “Il papa, i cardinali, i vescovi sono tanto grandi e ricchi”. Inoltre si scagliò contro la lingua utilizzata nei procedimenti giudiziari perché “è un tradimento dei poveri, perché i poveri uomini non sanno quello che si dice e se vogliono dire quattro parole bisogna aver un avvocato”.
Domenico Scandella, detto il Menocchio, non arrestò il suo parlare, per la gioia degli inquisitori. Respinse i sacramenti come invenzione umana spiegando che “il battezzare è un’invenzione e i preti cominciano a mangiare le anime ancora prima che si nasca, e le mangiano continuamente sino dopo la morte”. Anche sul matrimonio aveva chiaro che “lo hanno fatto gli uomini, prima uomo e donna si davano la fede, e questo bastava”. La sua antipatia verso i preti è ben delineata dal pensiero sulla confessione: “Andare a confessarsi dai preti o frati, è tanto quanto andare da un albero”.
Gli inquisitori ebbero il dubbio, lecito per il tempo, di trovarsi di fronte un pazzo, al più una persona che voleva prendersi gioco di loro e del Sant’Uffizio. Compreso che il Menocchio era sano di mente, cercarono all’interno delle sue conoscenze qualche individuo che avesse potuto istruirlo. Trovarono un anonimo pittore di cassoni, tal Nicola da Porcia, che fu immediatamente rilasciato. Nicola doveva esser maldestro artista se di lui restano solo le parole di un signore di Pordenone che lo definiva come “homo eretichissimo”. Tale affermazione risaliva la 1571, un decennio abbondante in anticipo sui tempi del processo al Menocchio.
Le parole di Domenico non potevano essere riportate fuori le mura dei locali del tribunale dell’Inquisizione, per questo la sentenza fu di colpevolezza. Menocchio fu dichiarato non solo eretico ma anche eresiarca. La differenza tra le due accuse non è di poco conto poiché l’eresiarca era considerato il fondatore di un’eresia, e non solo un partecipante di un movimento ereticale. Fu condannato al carcere a vita, obbligando la famiglia a mantenerlo a proprie spese.
Il 18 gennaio 1586, il figlio di Domenico, Ziannuto Scandella, presentò una supplica scritta dal padre al vescovo Matteo Sanudo e all’inquisitore Fra Evangelista Peleo. Gli ecclesiastici decisero per la scarcerazione a seguito dell’ottimo comportamento del Menocchio durante la prigionia. Domenico manteneva l’obbligo d’indossare sempre l’abito dell’infamia che permetteva al popolo d’individuare pubblicamente i condannati per eresia. L’abitello d’infamia altro era una veste gialla con due grandi croci rosse sul petto e sulla schiena.
Domenico Scandella doveva essere ottima persona se nel 1590 fu nominato amministratore dei beni della parrocchia di Santa Maria di Montereale, questo nonostante l’infamia di una condanna per eresia.
Una disgrazia giunse a turbare la tranquillità della vita della famiglia Scandella, la morte del figlio Ziannuto. Le condizioni economiche della famiglia si aggravarono notevolmente, tanto da obbligare Domenico ad uscire dal proprio borgo per cercare lavori redditizi.  All’inizio del 1597 chiese la dispensa di muoversi liberamente e di non indossare l’abitello d’infamia. L’inquisitore d’Udine decise per la libera circolazione per aiutare la famiglia. In conformità alla sentenza del 1586, doveva indossare sempre, ed in ogni occasione, l’abitello d’infamia.
Domenico non smise mai di spiegare le proprie idee. L’inquisitore generale del Friuli, fra Gerolamo Asteo, quando seppe che metteva in dubbio la divinità di Cristo e la moralità di Maria, decise per l’immediato arresto. Dal giugno del 1599 conobbe dapprima la prigione d’Aviano e in seguito quella di Portogruaro. Fu interrogato ripetutamente prima che gli fosse assegnato un difensore d’ufficio, fatto che avvenne il 19 luglio.
Il 2 agosto la Congregazione del Sant’Uffizio lo dichiarò recidivo.
L’inquisitore voleva una vittoria piena, schiacciante.
Prima d’emettere la sentenza, decise di torturarlo al fine di conoscere eventuali complici.
Il Menocchio tra i tormenti non fece alcun nome, disse di non conoscere quali altre persone potessero condividere i suoi pensieri.
L’inquisizione romana fu informata dei fatti ed il cardinale Santori la definì gravissima.
La sentenza fu emanata e prevedeva la morte di Domenico Scandella, detto Menocchio.
L’inquisitore del Friuli aveva forti dubbi sull’esecuzione di tale sentenza, espressi ampiamente in una lettera inviata la cardinale Santori. La risposta dell’alto prelato non si fece attendere: “Non manchi di procedere con quella diligenza che ricerca la gravità della causa, a ciò non vada impunito dei suoi orrendi ed esecrandi eccessi, ma con il debito e rigoroso castigo sia esempio agli altri in quelle parti. Però non manchi di eseguirlo con sollecitudine e rigore d’animo”.
Lo scritto del cardinale si chiudeva con l’affermazione che questa era la volontà di Clemente VIII.
Da questo momento, di Domenico Scandella parlano solo due documenti: un atto notarile del 26 gennaio 1600 che lo definisce defunto e un atto dell’inquisizione che si riferisce all’interrogatorio di Donato Serentino che afferma, il giorno 6 luglio 1601, d’essere stato a Pordenone poco dopo che il Menocchio vi era stato giustiziato.
Così si conclude la vita di Domenico Scandella, mugnaio e falegname, eretico ed eresiarca, rivoluzionario e libero pensatore.

Fabio Casalini


Bibliografia
A. Del Colo, Domenico Scandella detto Menocchio. I processi dell'inquisizione 1583-1599, Pordenone, Biblioteca dell'Immagine, 1991 
C. Ginzburg, Il formaggio e i vermi. Il cosmo secondo un mugnaio del ‘500, Torino, Einaudi, 1976; 2ª ed., 1999 
E. Benini Clementi, Riforma religiosa e poesia popolare a Venezia nel Cinquecento. Alessandro Caravia, Firenze, Olschki, 2000 
F. Capone, L'eretico mugnaio. Nel '500 Domenico Scandella finì sul rogo per le sue idee, Focus Storia, 1 dicembre 2015

Immagini
1-2 Domenico Scandella dit Menocchio su Focus Storia
3 Clemente VIII


Lo strano avvelenamento di massa di una notte di mezza estate

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Funerale a Pont-Saint-Esprit dopo l'avvelenamento di massa
La Francia ancora non aveva scordato l'occupazione e la guerra quando un evento stravolse la tranquillità di una notte di mezza estate.
I leader politici francesi, nelle immediatezze della fine della guerra, cercarono di garantire la sicurezza alimentare fornendo cibo proveniente dall'estero alla popolazione che ancora non riusciva a reagire allo shock della guerra. 
Malgrado gli sforzi della politica, restavano grandi sacche di povertà e problemi irrisolti di approvvigionamento. Una delle zone maggiormente colpite da questa insoddisfacente mobilitazione fu il sud della Francia, soprattutto la zona della Linguadoca-Rossiglione.
All'interno di questa regione un borgo, Pont-Saint-Esprit, fu colpito da uno strano fenomeno di massa.
Pont-Saint-Esprit oggi è un comune di circa 10,000 anime nel dipartimento del Gard, nella regione meridionale della Linguadoca-Rossiglione. Questo borgo era il più importante e rappresentativo per l'agricoltura di tutta la regione. Le coltivazioni di grano però erano crollate dall'inizio del secolo, e nel periodo seguente la fine della guerra erano molto lontane dal soddisfare le esigenze alimentari degli abitanti.
La vita del paese fu incredibilmente sconvolta la notte del 16 agosto 1951.
Una parte della popolazione, che all'epoca contava su poco più di 4000 abitanti, cadde preda di allucinazioni. I tre medici del paese si trovarono ad affrontare un grande numero di pazienti assaliti da brividi, dolori allo stomaco, vomito, vampate improvvise di calore e, soprattutto, allucinazioni. In base ai sintomi, inizialmente sospettarono un'intossicazione alimentare, ma non trovarono alcuna possibile fonte di avvelenamento.
I resoconti medici parlarono di 3 morti nei primi giorni e di altri 2 nelle ore seguenti.
Il 21 di agosto altre 130 persone presentarono sintomi d'intossicazione, tra loro 3 bambini.
La situazione peggiorò sino a crollare la notte tra il 25 e il 26 agosto, chiamata la Notte dell'Apocalissedagli abitanti del paese. Solo quella notte oltre 20 persone furono ricoverate nel reparto d'emergenza dell'ospedale di Pont-Saint-Esprit. Alcuni dei ricoverati dissero di combattere con le tigri, altri ballavano sui letti, altri ancora si gettarono dalle finestre.
Copertina di Life sugli eventi di Pont-Saint-Esprit
Le ricerche portarono ad ipotizzare che la causa dell'avvelenamento di massa fosse il pane di cui gli abitanti del borgo si nutrivano. La panetteria locale fu sbarrata con una croce, con intento chiaramente esorcistico, e il panettiere, considerato al pari di un untore di manzoniana memoria, rischiò il linciaggio da parte dei parenti delle vittime.
La Gendarmeria locale decise d'arrestarlo, più per proteggerlo dalla violenza degli abitanti che per la convinzione che fosse realmente responsabile dell'intossicazione di massa.
Quale fu la causa dell'avvelenamento?
Il mugnaio che riforniva i forni del paese fu arrestato con l'accusa d'aver mescolato del loglio alla farina di frumento, possibile vettore di ergot, un parassita delle graminacee. La traduzione letterale dal francese del termine ergot ci riconduce allo sperone.
Perché questo nome?
Nelle piante contaminate da ergot si generano degli infestanti simili a speroni, come nel caso della segale dove si producono delle escrescenze a forma di corna, da cui il nome comune di segale cornuta per indicare il cereale affetto da ergotismo. Gli speroni della segale cornuta sono corpi fruttiferi del fungo stesso, in cui sono contenuti alcuni alcaloidi velenosi e psicoattivi, tra cui l'acido lisergico.
L'acido lisergico è noto per il fatto che può essere utilizzato per sintetizzare una potente droga allucinogena, la famosa LSD.
Il paese era in subbuglio per l'incredibile avvelenamento di massa che aveva causato cinque morti. Furono eseguite le autopsie sui corpi delle vittime e fu accertata come causa degli eventi di Pont-Saint-Esprit l'ergotismo.
Gli abitanti del paese non accettarono questa diagnosi.
Non volevano dare credito alle spiegazioni scientifiche.
Il pane incriminato delle allucinazioni di massa di Pont-Saint-Esprit
A Pont-Saint-Esprit si preferiva abbracciare l'ipotesi della stregoneria, motivo che fornisce una valida spiegazione al nome in francese di questa tragedia: pane del demonio o pane maledetto.
Quali sono i motivi per cui gli abitanti credevano alla stregoneria e non alla moderna scienza?
Le persone di Pont-Saint-Esprit si ricordavano cosa era accaduto in un lontano passato: analoghi fenomeni di apparente follia collettiva nella regione. Questi fenomeni sono ascrivibili anch'essi all'ergotismo, secondo le moderne conoscenze mediche.
Il 31 agosto successivo si chiuse il caso del pane maledetto: il mugnaio Maurice Maillet confessò alle forze dell'ordine di Montpellier d'aver utilizzato della farina di segale avariata in aggiunta a quella di frumento. Quest'operazione fu eseguita per risparmiare 2000 franchi sulla fornitura. La segale, per coincidenza, era infettata e il pane che da esso fu prodotto aveva provocato l'intossicazione.
L'ergotismo fu confermato anche da un laboratorio di Marsiglia.
L'inchiesta giudiziaria che seguì, accertò la truffa alimentare del mugnaio, ma non vi fu alcune sentenza che attribuì esplicitamente la causa dell'intossicazione.
Da una parte fu riconosciuto il fatto che il mugnaio aveva infettato il paese con l'uso della segale cornuta, dall'altra non vi fu il riconoscimento di quest'operazione come causa dell'avvelenamento di massa, non essendoci sentenze a riguardo.
Il pane incriminato degli eventi di Pont-Saint-Esprit
L'ergotismo era l'unica possibile causa di questo tragico evento?
Uno storico statunitense, Steven Kaplan, riporta un interessante articolo giornalistico dell'epoca dei fatti: “..dunque, una volta scoperto il male, se ne vuole conoscere il responsabile. Sono circolate le versioni più inverosimili: si accusa il panettiere, il suo lavorante, l'acqua delle fontane, le trebbiatrici meccaniche, le potenze straniere, la guerra batteriologica, il demoni, il Papa, Stalin, la Chiesa e le nazionalizzazioni”.
Tra le verosimili cause dell'avvelenamento non possiamo escludere la guerra batteriologica, questo perché un progetto della CIA noto come MKULTRA fu oggetto di un'audizione davanti ad una commissione al senato nel 1977.
Il riferimento alla guerra batteriologica, delle potenze straniere, nasceva da una tesi definita complottistica che circolava da molto tempo in Francia ed esplicitata nel 2009 dal giornalista statunitense Hank Albarelli. La tesi precisava che la CIA avesse contaminato i prodotti alimentari di Pont-Saint-Esprit con LSD, tramite irrorazione con aerosol.
Lo storico Kaplan cercò di smontare la tesi complottistica spiegando che vi era discordanza nei tempi tra l'assunzione del pane avariato e la comparsa dei sintomi. Gli abitanti del paese francese manifestarono sintomi legati all'ergotismo, o all'assunzione di LSD, 36 ore dopo l'assunzione, la droga invece agisce immediatamente. Inoltre spiegò che LSD non causa problemi gastro-intestinali e psichici descritti dagli abitanti del paese. Per chiudere la sua esposizione, affermò che non aveva senso infettare gli abitanti di una cittadina all'epoca semidistrutta dai combattimenti della seconda guerra mondiale.
Un quotidiano francese chiede: e se fosse stata la CIA a drogare il pane maledetto?
Il giornalista Hank Albarelli non è il solo a spingere l'ipotesi complottistica relativa all'uso della droga nota come LSD. Nel 2015 il documentarista Olivier Pighetti ha diretto e pubblicato il film Pont-Saint-Esprit 1951: 5 morti, 30 arrestati, 300 pazienti. La cospirazione della CIA.
Probabilmente non sapremo mai la verità, ma siamo a conoscenza che nel 1995 il presidente degli Stati Uniti, Bill Clinton, si scusò pubblicamente per gli esperimenti fatti su cavie umane involontarie durante la guerra fredda. Non solo Pont-Saint-Esprit , ma molti abitanti di altri piccoli borghi furono utilizzati come cavie dagli americani per testare medicine, batteri e droghe. I documenti declassificati esistono, purtroppo le informazioni importanti sono barrate da un pesante strato di nero.

Fabio Casalini

Bibliografia

Steven L. Kaplan, Il pane maledetto, Fayard, 2008

Cyril Guinet, Il pane maledetto Pont-Saint-Esprit, in Geo terreni, ottobre-novembre 2013 

La morte del pane, Punto di vista - Immagini del mondo,6 settembre 1951 

Régis Delaigue, San Antonio Fuoco e sorprendente ergotée avvelenamento, Contributo allo studio di bruciare malattia e ergotismo, Saint-Romain-en-Gal, Armine-Ediculture 2002

Piazza Navona: il trionfo del conflitto

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Dove le due concezioni dell’arte e delle forme del Bernini e del Borromini dopo una vita di sfide finalmente si danno appuntamento per il duello finale, e dove probabilmente la disputa si conclude con due vincitori.
Gian Lorenzo Bernini e Francesco Borromini, geni indiscussi del barocco romano, disseminarono la città eterna di opere che per tutta la loro straordinaria carriera artistica si sono rincorse, specchiate, richiamate, copiate, ispirate le une alle altre in un dialogo complesso e destinato a non finire mai. 
Fin dagli esordi, quando iniziarono entrambi allievi del Maderno nella costruzione di Palazzo Barberini, le loro vicende artistiche si sono intrecciate in modo indissolubile e hanno cosparso di capolavori luminosi, ingannevoli, splendenti e misteriosi ogni angolo di Roma. 
Una storia umana e artistica come quella che ha legato i due artisti più rappresentativi del seicento romano doveva trovare prima o poi un suo luogo fatidico, dove consumare fino in fondo il contrasto fino alle estreme conseguenze.
Questo luogo esiste, e la sfida è divenuta perenne, rinnovando la sua rappresentazione tutti i giorni a tutte le ore sotto gli occhi di tutti i frequentatori, abituali e non, di una delle piazze più giustamente famose del mondo.
E’ piazza Navona, nel cuore della Città.
E’ un antico stadio romano, e ne conserva intatta la forma.
E’ un luogo da sempre dominio dell’acqua, quell’acqua che in ongi angolo di Roma non ci abbandona mai, ora seguendoci ora precedendoci. Gli imperatori romani allagavano lo stadio sfruttando le piene del vicino fiume Tevere e vi organizzavano autentiche battaglie navali, in uno degli spettacoli probabilmente più incredibili del mondo antico.
I palazzi rinascimentali hanno poi seguito il perimetro delle rovine dello stadio romano, e questo è diventato piazza. Ampia, lunghissima, luminosa e vivace.
Nel 1648 il papa Innocenzo X commissiona al Bernini la realizzazione della fontana centrale della piazza, che dovrà fare da base ad uno degli obelischi egizi che si stanno innalzando ai quattro angoli della città.
Esiste, per questa fontana, anche un progetto del Borromini, assai più semplice, razionale, ma certo non molto spettacolare rispetto a ciò che il papato si aspettava. Il concorso viene vinto, si potrebbe dire a mani basse, dal folgorante progetto del Bernini.
Al Borromini comunque venne affidata la ristrutturazione della chiesa di Sant’Agnese in Agone, esattamente di fronte alla fontana. E qui inizia la leggenda, e non potrebbe essere altrimenti giacché i due capolavori si sfidano e si fronteggiano da quasi cinque secoli.
I lavori per la chiesa vennero presi in mano dal Borromini quasi un anno dopo il termine della fontana da parte del Bernini, ed appare quindi strano che il secondo possa aver lavorato anche per sfidare il suo rivale. E’ pur vero però che l’affidamento, o gli indizi in tal senso così come l’intenzione del papa di affidarsi anche all’altro grande architetto per la risistemazione della piazza, potevano essere già noti assai prima, e quindi anche la leggenda è legittima. Del resto, anche fosse tutto frutto della fantasia popolare, il risultato parla agli occhi assai più di qualunque ricostruzione storica. E che sia diretta o indiretta, è una sfida brillante, folgorante e sfacciata che non perderà mai il suo fascino.
La fontana dei quattro fiumi realizzata dal Bernini è probabilmente il suo capolavoro assoluto. Innalza l’obelisco sopra una struttura in marmo complessa e apparentemente fragile. Lui sa benissimo che è solidissima, calcoli e studi della massima precisione ne assicurano la stabilità. La struttura, che crea quattro aperture lasciando il vuoto al centro, riproduce rocce e montagne, e su esse alberi e piante, e fra di esse animali e mostri, e ad ogni angolo un personaggio simbolico che rappresenta un fiume e con il suo fiume uno dei quattro continenti conosciuti. Il Nilo per l’Africa, il Gange per l’Asia, il Danubio per l’Europa e il Rio della Plata per le Americhe. Un giro del mondo simbolico e vertiginoso dominato dallo scorrere dell’acqua, che mai come in questa fontana non si limita a zampillare e a rinfrescare l’aria, ma scivola e modella, crea forme e vi si integra.
E’ un trionfo di simboli e di forme che realizzano il magico effetto di non essere mai statiche. Palme, leoni, delfini, cavalli, serpenti, coccodrilli, rocce scavate, alberi piegati dal vento, luce che si riflette sul marmo e ombre che nascondono le forme all’interno di caverne.
La prima leggenda riporta che il Bernini, assaporando il trionfo, giocò uno scherzo al papa durante l’inaugurazione: mostrò la fontana senza acqua. Ugualmente bellissima e ugualmente da lasciare tutti a bocca aperta, ma certo con una serpeggiante delusione nella folla e nell’illustrissimo ospite, che però, per educazione, non si azzardò a dire nulla. Quasi al momento del commiato quindi, il Bernini diede un ordine convenuto e l’acqua iniziò a sprizzare da tutti gli anfratti, riempiendo la fontana e mettendone in movimento tutte le straordinarie forme. La folla impazzì di meraviglia e di sorpresa, e papa Innocenzo pare abbia esclamato: Cavalier Bernini, con questa vostra piacevolezza ci avete accresciuto di 10 anni di vita!.
La seconda leggenda, quella che interessa anche la storia dei due artisti, è quella celeberrima che vuole il Bernini ironizzare sull’opera del rivale, atteggiando la statua con il personaggio che simboleggia il Rio de la Plata con un braccio alzato verso la chiesa borrominiana, come a voler dire “Questa prima o poi mi casca addosso”.
Se certamente non è vero che la vicina statua del Nilo abbia il volto coperto per non guardare la chiesa (in realtà il drappo stava a significare che le sorgenti del fiume erano ancora sconosciute), sulla mano alzata a protezione del famoso personaggio è legittimo che resti il dubbio, e ancor più che legittimo è eternamente divertente.
Allo stesso modo nulla può far escludere del tutto che il Borromini, una volta presi in mano i lavori per la chiesa e avendo di fronte lo sberleffo scultoreo del rivale, non abbia proprio per questo accentuato la concavità della facciata e l’avanzamento dei due campanili, dando innegabilmente all’osservatore che si pone sotto di essa l’impressione che l’intero edificio sporga in avanti quasi a cadergli addosso. Di certo è che l’effetto ottico, di cui Borromini era maestro indiscusso, accentua la mole della cupola e la slancia verso l’alto. Più che legittimo però che anche qui resti il dubbio sul significato del restante effetto, e che uno come lui non abbia ottenuto un tale effetto di curvatura in avanti per puro capriccio, men che mai per caso, di certo mai e poi mai per errore. In ogni caso le polemiche, queste invece ben documentate, non mancarono, tanto che le svariate insinuazioni sulla tenuta statica dell’edificio e sul suo peso eccessivo sui pilastri sfociarono addirittura nell’estromissione del Borromini prima del termine dei lavori (polemiche infondate, giacché la chiesa è ancora oggi ritta e ben piantata), provocandogli una delle tante delusioni che minarono il suo animo lungo tutta la sua vita.
La chiesa di Sant’Agnese in Agone comunque, al di là delle dispute e dei pettegolezzi, è di una bellezza commovente. E’ maestosa e insieme proporzionatissima alla piazza, senza mai invaderla, senza mai offuscarne le altre bellezze. E’ in equilibrio instabile e perciò mai statico con ogni altro elemento, e soprattutto appare quasi in simbiosi con la straordinaria fontana ai suoi piedi. Mai come a piazza Navona le due anime artistiche così distinte e così profondamente divergenti trovano un punto di miracolosa sintesi, restando separate ed in contrasto in ogni singola curva e al tempo stesso indispensabili una all’altra. Un miracolo terreno, fatto di acqua, di marmo, di scienza e di passione. Un capolavoro impalpabile custodito da due capolavori ben concreti. La soluzione finale di una equazione sublime il cui risultato è infinito su infinito.
Ogni percorso, o viaggio, nel barocco romano dovrebbe concludersi qui, nel luogo dove esso raggiunge il suo apice e con esso la sua sublimazione, e dove questi vengono perpetuati non solo dai fatti e dalle opere, ma anche dalle vite, dalle storie popolari, dalle bassezze terrene e dalle leggende che a questi si accompagnano. Di certo mai come in Piazza Navona tutti questi aspetti si fondono in un unicum senza distinzioni nette e senza possibilità di sciogliere definitivamente i dubbi. Di certo proprio questo ne aumenta a dismisura la grandezza.
I due straordinari artisti che hanno dato vita a questa meraviglia rappresentano il sistema nervoso della Roma barocca, i suoi neuroni, le sue sinapsi e i suoi scatti di ira e di vigore. Senza giraci intorno, le nostre simpatie vanno senza dubbio al Borromini, come si simpatizza sempre per il fratello più sfortunato o per l’anatroccolo più brutto, ma è evidente che la disputa sulla grandezza dell’uno o dell’altro è destinata a non risolversi mai, tanto diversi e tanto complementari si sono sempre dimostrati, e tanto l’opera dell’uno ne verrebbe sminuita se dovesse sparire d’un colpo l’opera dell’altro.
Sulla natura delle loro diversità invece molto ancora si potrebbe dire e molto potrebbe ognuno di noi scoprire ed aggiungere sui pregi e sui difetti dell’uno e dell’altro, affinché in ciascun lettore e osservatore si possa insinuare un conseguente dubbio da coltivare come preziosa ricchezza.
E che ognuno, secondo la propria percezione e secondo il proprio sguardo, possa autonomamente scegliere e tracciare il labile confine che separa l’Architetto dal Genio.
Del resto, loro per primi ce l’hanno insegnato: la percezione è relativa, e lo sguardo ingannevole.

Fontana dei Quattro Fiumi- Piazza Navona (1648 - 1651)
Gian Lorenzo Bernini
Napoli, 7 dicembre 1598
Roma, 28 novembre 1680

Sant’Agnese in Agone – Piazza Navona (1653–1657)
Francesco Borromini, nato Castelli
Bissone, 25 settembre 1599
      Roma, 3 agosto 1667

Alessandro Borgogno 

PS: Questo articolo è un estratto, personalizzato per il blog “viaggiatori che ignorano”, di un capitolo del libro “Il Genio e l’Architetto” dello stesso autore, edito da L’Erudita Editrice.

Il massacro di Aigues-Mortes

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Aigues-Mortes è una graziosissima cittadina francese, affacciata sul delta del Rodano fra la Provenza e la regione di Languedoc-Roussillon, nel Midi. Circondata completamente da poderose mura, è una meta turistica di grande fascino. Piccola, pulita, pittoresca, piena di ristorantini dove si mangia un ottimo pesce.  
Ma Aigues-Mortes appena un secolo fa era un luogo faticoso, complicato e fosco, dove si consumò una orribile strage razzista, una guerra fra poveri e fra lavoratori che finì nel peggiore dei modi, come sempre accade quando si comincia a considerare “altri” e “loro” chi semplicemente è nato in un posto diverso dal proprio.

La zona è tuttora occupata da grandi saline, immense vasche sulla costa per l’evaporazione e la raccolta del sale, e alla fine dell’800 era un luogo dove erano costretti a convivere, in condizioni che si possono solo immaginare, molti lavoratori provenienti da diverse parti d’Europa. Naturalmente molti francesi, ma anche molti italiani, data anche la vicinanza fra i due paesi. 
La convivenza era difficile, gli italiani erano spesso visti come quelli che “venivano a togliere il lavoro ai francesi” (dove l’abbiamo già sentita?), e spesso, perché ormai sradicati dalla propria terra e dalle proprie famiglie, erano anche disposti a subire condizioni peggiori di quanto sopportassero i locali. 
Era un periodo di crisi in tutta Europa, e nell’estate del 1893 arrivarono più lavoratori stagionali del solito, e molti italiani. La Compagnie des Salins du Midi organizzava squadre all’interno delle quali erano costretti a convivere italiani e francesi, probabilmente per uniformare la produttività, ma la convivenza era sempre più tesa. Gli italiani erano sempre più visti come stranieri, apostrofati come Macaroni o Piemontais (venivano principalmente dall’Italia del nord, all’epoca il nord emigrava, i leghisti di oggi erano gli extracomunitari del secolo scorso). 
Il 16 Agosto scoppiò una rissa, per motivi certamente futili. Un insulto di troppo, una discussione sulla spartizione del cibo o chissà quale altra fesseria. In paese si sparse rapidamente una voce falsa: qualcuno disse che gli italiani avessero ucciso nella rissa alcuni lavoratori francesi. Come sempre, le notizie false più sono orribili, più rafforzano i pregiudizi, e più prendono piede e forza. Nel giro di pochissimo tempo si formarono bande di francesi inferociti, lavoratori delle saline e concittadini che erano rimasti disoccupati, e iniziò una caccia all’uomo. 
Allo straniero. 
Alcuni italiani vennero assediati in una panetteria a cui si cercò di dar fuoco. Intervenne la Gendarmerie ma troppo tardi. La situazione era ormai degenerata.
Ma non sarebbe finita lì. La mattina dopo i soldati cercarono di scortare gli italiani alla stazione per rimetterli sul treno e rispedirli in Italia. Ma per l’odio razziale ormai scatenato non era sufficiente neanche più la cacciata, per quanto ingiusta. Il corteo venne raggiunto dalla folla inferocita, la gendarmerie sopraffatta, e gli autoctoni ormai fuori controllo diedero vita ad un allucinante linciaggio fra i campi e i corsi d'acqua del delta. Vennero inseguite, uccise, sgozzate e gettate nei canali almeno dieci persone, e almeno altre venti ferite gravemente. Qualche corpo non fu mai più ritrovato. 
Ci fu un processo, ma fu tanto razzista quanto il massacro stesso. Affidato il giudizio ad una giuria popolare (ah! il popolo, la gente...), tutti gli imputati vennero assolti. Chi pensa si tratti di un episodio minore, è legittimato dal fatto che la memoria ormai si sgretola sempre più rapidamente, e tutto concorre a cancellare e ribaltare anche il significato storico di certi avvenimenti. In realtà fu uno scandalo continentale. Il Governo Crispi protestò in modo veemente e dichiarò che i rapporti fra Italia e Francia non sarebbero più stati amichevoli come prima. Un giornale inglese scrisse "Sulla colpevolezza di ognuno di loro, sia francesi che italiani, non c'era alcun dubbio e nessuno fu stupito dal verdetto più dei rivoltosi stessi. Ma poiché la maggior parte delle vittime della rivolta dello scorso agosto erano italiani, la giuria ha ritenuto di dover mostrare il proprio patriottismo, dichiarando in pratica che per un operaio francese uccidere un concorrente italiano non è un reato”. 
Questa è la storia. Anche oggi, di fronte a fatti di violenza che sempre più spesso si ripetono, c’è subito chi si affretta a dire “si ma…” “ma chi ha cominciato?” “si però noi siamo a casa nostra” “si però dovrebbero essere loro per primi a volere l’integrazione” (dove solitamente integrazione vuol intendere sottomissione). 
Invece è solo razzismo. Cercare altre parole vuol dire solo tentare di giustificare, assolvere, difendere l’indifendibile. I francesi di Aigues-Mortes di fine ottocento furono razzisti. Per povertà, disperazione, ignoranza, ma razzisti. E il razzismo li trasformò in criminali. 
Chi è sempre pronto a credere alla versione di un “compaesano” di fronte a quella di uno “straniero” è razzista. Chi pretende sempre dagli “altri” comportamenti che mai ha pretesto dai suoi concittadini è razzista. Chi diffonde notizie parziali o false per sostenere una sola tesi è razzista, ed è anche il mandante di crimini. Farlo per ignoranza o per calcolo distingue solo fra buonafede e malafede, ma davvero non fa grande differenza. 
Il razzismo è sempre un crimine, sia che faccia o non faccia morti. 

Alessandro Borgogno

PS: fra i pochi a raccontare questa storia, pur se inserita in un romanzo di fantasia, Francesco Guccini e Loriano Macchiavelli nel loro bellissimo “Macaronì. Romanzo di santi e delinquenti” 

Giulia Tofana, la donna che uccise oltre 600 mariti

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Costanze, la moglie di Mozart, ricordò che il compositore era ossessionato dall'idea che qualcuno lo avesse avvelenato con l'acqua tofana.
Dopo due secoli dall'invenzione, da parte di una donna e di una famiglia alquanto particolare, questo liquido riusciva ancora a penetrare nell'immaginario collettivo.
Per comprendere i motivi dell'agitazione mentale che l'acqua tofana insinuava negli uomini, soprattutto nella veste di mariti, dobbiamo fare un salto nel tempo. 
Durante il XVII secolo, una cortigiana, fattucchiera, meretrice e quant'altro, di Palermo, elaborò la ricetta per una pozione incolore, insapore e inodore, che fece la sua fortuna, e quella delle persone che con lei condividevano questo turpe intento.
La donna si chiamava Giulia Tofana, o Toffana, e grazie a questa invenzione divenne ricca e potente.
Perché una pozione velenosa riuscì a rendere ricca una donna di misere origini?
Giulia riuscì in breve tempo a far conoscere il suo veleno e a commercializzarlo fuori dalla sua zona d'origine. Il successo fu accelerato dalla volontà di molti coniugi, soprattutto o esclusivamente donne, che sentivano la necessità di divenire vedove, in un'epoca nella quale il divorzio non era riconosciuto.
Chi era e da dove veniva questa donna che possiamo inserire nelle vette di una ipotetica classifica di serial killer?
Le notizie biografiche su Giulia Tofana sono scarse e lacunose. Probabilmente era figlia, forse nipote, di Thofania d'Adamo, giustiziata a Palermo il 12 luglio del 1633 per aver avvelenato il marito. Giulia, rimasta orfana in giovane età, non ebbe la possibilità di studiare, risultando analfabeta e priva di ogni rudimento culturale.
Ma conosceva la vita e i veleni.
Come riuscì a sopravvivere?
Vendendo il proprio corpo a uomini di ogni estrazione sociale e culturale. Il commercio carnale non permetteva d'elevare il proprio ceto sociale, neppure d'essere amata dal popolo, almeno non da tutto il popolo. Giulia aveva una seconda arma, più importante dell'aspetto e della capacità di far sognare i propri clienti: l'inventiva.
La ragazza ereditò dalla parente, assassina, la volontà d'uccidere e il sangue freddo di attuare tale volontà. Affermazione che possiamo certificare con l'accusa, a Thofania, di aver avvelenato il marito. Esistono molte possibilità che sia stata la donna stessa, madre o zia di Giulia, la reale inventrice dell'acqua tofana. Se fosse vera questa ipotesi, Giulia avrebbe avuto il grande merito d'aver incrementato le vendite, allargando il mercato potenziale creato dalla parente, commercializzando il prodotto fuori dalla Sicilia, giungendo ad ottenere ricavi nelle città di Napoli e Roma. Il mercato si allargò a tal punto che decise di trascinare in questa impresa la figlia, forse sorella, Girolama Spera. Le due donne migliorarono il veleno al punto che risultava sufficiente una piccola quantità per procurare una morte priva di sintomi, facendo in modo che l'assassino non venisse scoperto.
Il vero pregio dell'acqua tofana?
Lasciava roseo il colorito del morto.
Risulta molto interessante scoprire la composizione chimica della mortifera pozione. Gli ingredienti sono noti, ma non se ne conoscono le esatte dosi. L'acqua tofana conteneva arsenico, piombo e, probabilmente, belladonna. Il medico di Carlo VI d'Austria descriveva il contenuto come una soluzione di anidride arseniosa in acqua distillata aromatica, addizionata con alcoolato di cantaridi.
Possiamo pensare alla donna, e alle maestranze, alle prese con boccette ed alambicchi.
Andremmo fuori strada.
Giulia Tofana faceva bollire, in una pentola sigillata, dell'acqua con miscela di anidride arseniosa, limatura di piombo e antimonio, ottenendo un liquido trasparente e privo di odore e sapore. Leggendo gli scritti del medico di Carlo VI d'Austria, l'anidride arseniosa nell'acqua creava un ambiente acido consentendo lo scioglimento del piombo e dell'antimonio, creando una soluzione dotata di elevata tossicità.
Allargandosi il mercato aumentarono i rischi d'essere catturata.
Intorno alla metà del Seicento, Giulia fu colpita da una denuncia proveniente da un marito sopravvissuto a un tentativo di avvelenamento da parte di una moglie sbadata, che non aveva seguito alla lettera le indicazioni fornite dalla produttrice.
Su Giulia si allungarono le tristi ombre, questa volta benevole, della Santa Inquisizione.
La donna decise di scappare, accettando le lusinghe di un frate, Girolamo o forse Nicodemo. L'ecclesiastico la condusse a Roma, dove potevano entrambi costruirsi una nuova vita. Abbandonarono Palermo per un bel appartamento nel quartiere Trastevere, pagato dal frate, amante fisso della donna, che trascorreva le ore di preghiera e silenzio nel convento di San Lorenzo.
Grazie ad un parente dell'ecclesiastico spregiudicato, speziale in un altro convento di Roma, Giulia riuscì per anni a rifornirsi di tutte le materie prime necessarie per la produzione del veleno.
La fortuna girò le spalle a questo strano insieme di anime.
Una cliente della donna, la contessa di Ceri, commise un errore grossolano, ma fatale in questo contesto: ansiosa di liberarsi del marito utilizzò tutto il contenuto della boccetta smuovendo i sospetti dei parenti del defunto.
Le indagini condussero, in breve tempo diremmo oggi, a Giulia Tofana.
La donna, imprigionata, passò per la camera dei tormenti.
Durante il rigoroso esame, leggasi tortura, ammise d'aver venduto, la maggior parte nella città di Roma, veleno sufficiente ad uccidere 600 persone, leggasi uomini, in un periodo compreso tra il 1633 e il 1651.
Nell'anno 1659 fu condannata e giustiziata a Roma, nello stesso luogo che vide ardere il libero pensatore Giordano Bruno. La giustizia a Campo de' Fiori si prese anche la figlia, o sorella, Girolama, gli apprendisti delle donne e alcune mogli accusato d'aver avvelenato i rispettivi mariti.
La follia omicida che aveva attraversato un lungo tratto della nostra penisola, si trasformò in paura. Molte donne accusate dalla Tofana d'aver ricorso ai suoi veleni, furono catturate, torturate e pubblicamente giustiziate. Altre furono strangolate nelle segrete dei palazzi.
Paracelso sosteneva che “tutto è veleno e nulla esiste senza veleno. Solo la dose fa in modo che il veleno non faccia effetto”.
La morte di Giulia Tofana non provocò l'arresto della produzione dell'acqua che da lei prese il nome, tanto è vero che, tra il 1666 e il 1676, la marchesa de Brinvilliers avvelenò suo padre e due fratelli prima d'essere arrestata, in entrambi i sensi, e giustiziata. 
Ancora a metà dell'Ottocento il ricordo di Giulia Tofana, e della sua acqua, erano vivi, tanto che Dumas inserì un riferimento nel Conte di Montecristo: "...noi parlammo signora di cose indifferenti, del Perugino, di Raffaello, delle abitudini, dei costumi, e di quella famosa acqua tofana di cui alcuni, vi era stato detto, conservano ancora il segreto a Perugia". 

Fabio Casalini



Bibliografia

Stuart, David C. Giardino pericoloso . Frances Lincoln ltd, 2004

Dash, Mike (2017). "Capitolo 6 - Aqua Tofana". In Wexler, Philip. Tossicologia nel Medio Evo e Rinascimento . Press Academic

Alessandro Dumas, Il conte di Montecristo, traduzione di C. Siniscalchi, Milano, Editrice Lucchi, 1974

    L'oratorio di San Silvestro, una fake news del medioevo

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    Roma è una città unica al mondo per tanti motivi, e uno di questi è che ci si possono trovare luoghi che concentrano in pochissimo spazio l’arte, la storia e la filosofia, e piccoli angoli quasi nascosti che una serie di eventi del tutto eccezionali (ma forse non per una città come Roma) hanno reso crocevia di intere epoche storiche, a volte più di una.  
    Uno di questi luoghi si trova a due passi dalla Basilica di San Giovanni, più precisamente fra la Basilica e il Colosseo, a chiusura di una stradina che taglia il colle Celio, proprio dietro l’ospedale San Giovanni.
    E’ la Basilica dei SS. Quattro Coronati, che di per sé, fra chiesa e chiostro, meriterebbe già da sola la visita. Ma il luogo davvero straordinario è accessibile imboccando un ingresso subito a destra del primo cortile della chiesa, prima del portico. Il complesso è un convento dove ancora vivono le monache di clausura, e il primo elemento di unicità del luogo ce lo offre proprio una grata aperta nel muro che divide la clausura dal mondo esterno, attraverso la quale dobbiamo parlare con un'ombra che ci concede l’ingresso in cambio di una modesta offerta di pochi euro. 
    Con questo diritto che sembra quasi esserci concesso da una entità che proviene da un’altra epoca (e forse è proprio così) possiamo finalmente entrare in un luogo misterioso e al tempo stesso di una importanza storica incalcolabile.
    L'Oratorio di San Silvestro.
    Con le parole del poeta e scrittore Claudio Rendina, studioso e appassionato della storia della città, « un ambiente straordinario, un angolo di medioevo, meglio conservato della chiesa stessa »
    E’ una cappella paleocristiana del 1200 (1246) conservata in modo egregio, e contiene un ciclo di affreschi (1248) che rappresentano un rarissimo se non unico esempio di testimonianza storica e di propaganda politica le cui conseguenze hanno cambiato la storia del mondo occidentale (e non solo). 
    Gli affreschi raccontano la storia di Costantino e Papa Silvestro, della miracolosa guarigione dell'imperatore dopo l'immersione nel fonte battesimale (da cui discende l'intera vicenda della conversione dell'ultimo imperatore romano al Cristianesimo) e soprattutto vi è rappresentata figurativamente la famosa "Donazione di Costantino", con l'imperatore che consegna la tiara (che diverrà il tipico copricapo regale del Papa Re), l'ombrellino (simbolo dell'imperatore di Roma) e un cavallo al Papa cristiano, e con essi simbolicamente gli consegna il famoso potere temporale che ne farà l'Imperatore della città eterna.
    Sono magnifici affreschi in stile bizantino, che molto ricordano le iconografie dei mosaici ravennati, ma che raccontano con stile e pathos narrativo, letteralmente come un fumetto medioevale, gli avvenimenti che portarono alla conversione dell’imperatore e alla conseguente “donazione” alla chiesa del potere politico della città (e quindi dell’impero).
    Allora come oggi, ciò che "si vede" vale più di qualunque parola, e questi affreschi, voluti da papa Innocenzo IV allora in lotta con l'imperatore Federico II, servirono a ribadire il primato temporale della chiesa romana su qualunque potere politico di altra natura. 
    E trattandosi di una immagine, chiara e inequivocabile, furono ancor più efficaci dell'altrettanto famoso documento in cui Costantino cedeva i poteri al papa Silvestro, documento che fu poi, secoli dopo, definitivamente smascherato dagli studiosi come un falso costruito ad arte secoli dopo i fatti. Il documento rappresenta uno dei primi e più clamorosi esempi di falso storico dalle conseguenze incalcolabili (basti pensare che il potere temporale del Papa resisterà, con tutto ciò che avrebbe comportato, fino alla breccia di Porta Pia nel 1870. Parliamo quindi di più di seicento anni di storia), e questi affreschi, oltre alla sublime bellezza e all'immenso valore artistico, rappresentano anche uno dei primi e più importanti (sicuramente uno dei più clamorosi) esempi di utilizzo del potere di persuasione delle immagini scientemente indirizzato alla falsificazione della realtà e della storia ad uso di una propaganda politica.
    Prima scena: L’imperatore Costantino si ammala di lebbra
    Seconda scena: Costantino malato vede apparire in sogno i santi Pietro e Paolo che gli dicono di rivolgersi a Papa Silvestro
    Terza scena: I delegati dell’imperatore partono per il Monte Soratte (a nord di Roma) per fare visita a Silvestro
    Quarta scena: i delegati salgono sul Monte Soratte e incontrano Silvestro 
    Quinta scena: Silvestro dopo la visita dei delegati imperiali rientra a Roma e mostra a Costantino le effigi di San Pietro e Paolo. L’episodio dovrebbe indicare il fatto che anche Silvestro vide apparire in sogno i due santi, contemporaneamente a Costantino, e questo lo convinse di essere chiamato dall’altro ad intervenire per la salvezza dell’imperatore
    Sesta scena: Costantino riceve il battesimo direttamente da Papa Silvestro, e l’acqua benedetta lo guarisce istantaneamente dalla lebbra
    Settima scena: L’imperatore, guarito, siede sul trono e dona a Silvestro i simboli del governo della città eterna. E’ la scena della famosa “donazione”.
    Ottava scena: Papa Silvestro a cavallo, da imperatore, sfila in corteo, accompagnato da Costantino.
    Sulla parete destra della cappella, meno clamorosi da un punto di vista propagandistico ma altrettanto straordinari per importanza storica e artistica, altri affreschi raccontano altre vicende legate a Silvestro (che resuscita un Toro ucciso da un sacerdote ebreo e che libera Roma dalla minaccia di un drago) e soprattutto la crociata della madre di Costantino, Elena, durante la quale ella ritrova la “vera croce”, cioè la croce dove fu crocefisso il figlio di Dio. L’immagine esplicita un altro racconto/storia/leggenda di importanza capitale per la storia di Roma e dello stesso imperatore, e si collega ad un’altra chiesa poco distante, che prende il nome proprio dalla straordinaria reliquia contenuta in una sua cappella e riportata a Roma da Elena: Santa Croce in Gerusalemme (che naturalmente merita da sola una storia a parte).



    Alessandro Borgogno


    Per approfondimenti

    M. Armellini, Le chiese di Roma dal secolo IV al XIX, Roma 1891, p. 500
    C. Villa, Rione XIX Celio, in I Rioni di Roma, Newton & Compton Editori 2000, p. 1124-1125
    C. Rendina, Le Chiese di Roma, Newton & Compton Editori, Milano 2000, p. 320-322


    Amelia Dyer, la donna che uccise oltre 200 bambini

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    Londra 1896, un pescatore vede affiorare un sacco dalle acque del Tamigi. Lo prende senza immaginare cosa possa celarsi all’interno. Con curiosità lo apre scoprendo il contenuto del triste ritrovamento: il cadavere di una bambina in evidente stato di putrefazione.
    Sconvolto si dirige verso la più vicina stazione delle forze dell’ordine. Gli ispettori notano, quasi immediatamente, due particolari che saranno decisivi per le successive indagini e che collegano questo rinvenimento a degli eventi accaduti nei mesi precedenti nella capitale inglese. Il primo consiste nel ritrovamento di un nastro bianco stretto intorno al collo della piccola vittima, simile a quello ritrovato addosso ad altri due piccoli cadaveri restituiti dalle acque gelide del fiume nelle settimane precedenti. Il secondo particolare annotato dagli ispettori riguarda il nome riportato sulla carta da imballaggio che ricopriva il corpo, Signora Thomas.
    I sospetti si concentrarono su Amelia Dyer, che fu immediatamente messa sotto stretta sorveglianza dagli inquirenti.
    Chi era Amelia Dyer?
    Ancora, perché le forze dell’ordine rivolsero verso di lei le attenzioni ed i sospetti?
    Amelia Elizabeth Dyer nacque a Bristol, ultima di cinque fratelli, nel 1838 da una famiglia agiata. Il padre svolgeva l’attività di mastro calzolaio mentre la madre soffriva di una malattia mentale, probabilmente causata dal tifo. 
    All’età di 10 anni dovette assistere alla morte della madre; a circa 20 anni morì il padre, che le aveva permesso d’imparare a leggere e scrivere.

    Nel 1861 si trasferì a Trinity Street, sempre a Bristol, dove conobbe, e in seguito sposò, George Thomas. Data la gran differenza d’età tra i due, lui aveva 59 mentre lei 24, dovettero falsificare le carte per potersi sposare. Thomas si levò 11 anni, lei aggiunse sei. Dal 1835 la legge disciplinava il matrimonio in tutto il Regno Unito. Tra le varie regole introdotte anche quella che prevedeva che un vedovo non poteva sposare la sorella della moglie defunta. Divenuta la signora Thomas, Amelia iniziò ad interessarsi alla medicina. Con il trascorrere del tempo, e degli studi, divenne infermiera. I rapporti con il marito dovevano essere tendenzialmente buoni, dato che alla coppia nacque una figlia.
    Nel 1869 George morì, lasciando Amelia sola. La donna iniziò a sopportare le prime difficoltà economiche, ma decise di continuare nella sua attività d’infermiera sino a quando conobbe una levatrice, che le spiegò un modo semplice, e sicuro, di guadagnarsi da vivere. I figli nati all’esterno dal matrimonio destavano scandalo e le madri erano allontanate dalla società civile, relegandole per sempre nel ruolo di peccatrici. La levatrice s’offriva di ospitare le partorienti, di permettere la nascita del bimbo e di occuparsi del piccolo sino a quando non raggiungeva l’età per l’adozione.
    Normalmente il prezzo per il disturbo si aggirava tra le 50 e le 80 sterline.
    Una volta che il bimbo raggiungeva l’età prefissata, la levatrice iniziava nuovamente il ciclo con un’altra donna e altri bimbi.
    Peccato che molte levatrici, cadute presto nel baratro della disgrazia economica, uccidevano i bimbi lasciandoli senza cibo o intossicandoli un poco alla volta con alcool e sostanze oppiacee.
    Ad Amelia Dyer questa possibilità piacque, poiché decise di lasciare il lavoro per diventare allevatrice di bambini.
    In quest’ambiente nasce la risposta alla seconda domanda, in altre parole perché le forze dell’ordine indirizzarono su di lei i sospetti dopo il ritrovamento del corpo della piccola nel Tamigi.
    Amelia Dyer seguì alla lettera i consigli dell’amica levatrice, prendendo presso il proprio domicilio molti bambini nati da relazioni esterne al matrimonio, sopprimendoli nel giro di poco tempo per iniziare nuovamente il ciclo e guadagnare nuovi soldi.
    La donna riuscì per molto tempo ad eludere le forze dell’ordine ma nel 1879 fu arrestata in seguito alla denuncia di un medico, che si occupava della certificazione del lavoro svolto dalla levatrice.
    Il medico scoprì che “sotto le sue cure” erano molti diversi neonati. La Dyer non fu accusata d’omicidio plurimo, come sarebbe lecito attendersi, ma solo di negligenza nei confronti delle vittime innocenti. L’accusa si limitò ad accertare che i neonati erano morti non per volontà della donna, bensì per le scarse cure che la stessa rivolgeva ai piccoli.
    Fu condannata a sei mesi di lavori forzati.
    Provata nel corpo e nello spirito, Amelia assunse massicciamente alcool e sostanze oppiacee.
    Finita la detenzione riprese tranquillamente la propria attività, continuando ad uccidere bambini.
    Per eludere il controllo delle forze dell’ordine decise di cambiare spesso città, assumendo di volta in volta vari pseudonimi.
    Nel 1890, dopo un tentativo di suicidio, fu internata in un ospedale psichiatrico. Uscì tre anni dopo profondamente provata.
    Due anni dopo decise di trasferirsi nel Berkshire, con la figlia e la socia. Il gruppetto d’anime perse portò con se anche due figliastri della Dyer.
    Nel 1896 uccise tre bambini, presso la propria abitazione, strangolandoli con del nastro.
    I piccoli corpi furono depositati in un sacco pieno di mattoni e gettati nel Tamigi.
    La sua terribile opera fu interrotta dal pescatore che trovò un piccolo corpo nel fiume. Amelia Dyer fu messa sotto stretta sorveglianza dagli inquirenti. Una donna si finse levatrice per ottenere un colloquio con il mostro venuto da Bristol. L’espediente funzionò. La finta levatrice chiese delucidazioni e consigli ad Amelia, la quale non risparmiò le parole e nemmeno i dettagli del proprio modo d’operare.
    Scattò immediatamente una perquisizione nell’abitazione della Dyer. Furono trovati dei telegrammi che parlavano d’adozioni, lettere di madri che chiedevano la salute dei propri figli e bordi di nastro che utilizzava per sopprimere i bambini.
    Amelia Dyer fu arrestata.
    Gli inquirenti dragarono il Tamigi rinvenendo altri sei corpi di bambini.
    Le persone che si occuparono del caso provarono ad effettuare una stima di quanti bimbi potesse aver ucciso la donna: Amelia fu sospettata della morte di un numero variabile di bimbi, che andava da un minimo di 200 ad un massimo di 400.
    Il 22 maggio del 1896 fu processata e riconosciuta colpevole di un omicidio, poiché non esistevano prove schiaccianti per gli altri delitti.
    Fu impiccata alle nove del mattino del 10 giugno 1896.
    I corpi rinvenuti nel Tamigi cui fu possibile associare un nome appartenevano a Doris Marmon, di quattro mesi, Harry Simmons, di 13 mesi, e Helena Fry di un anno circa.
    Fu soprannominata Jill the Ripper, poiché il suo caso era cronologicamente vicino a quello di Jack lo squartatore.
    Un’ipotesi remota vorrebbe identificare Amelia Dyer come la persona che si nascose nell’ombra degli omicidi di Jack lo squartatore.

    Fabio Casalini


    Bibliografia

    Alison Rattle, Allison Vale, Amelia Dyer: Angel Maker: The Woman Who Murdered Babies for Money, Andre Deutsch, 2007

    Lionel Rose, The Massacre of the Innocents: Infanticide in Britain, 1800-1939, Routledge, 1986


    Arles con lo sguardo di Vincent

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    Vi voglio invitare ad una visita in Provenza utilizzando uno sguardo del tutto particolare.
    Questa sorta di reportage abbastanza insolito nasce da un dibattito sempre aperto fra gli appassionati di fotografia e più in generale di arte: quello sulle regole.
    Sono valide? non sono valide? vanno rispettate? bisogna infrangerle?
    Personalmente rimango sempre dell’idea, anch’essa abbastanza classica, che per poterle infrangere, ammesso che davvero di infrazione si tratti, occorra conoscerle. Conoscerle e studiarle. 
    Il tema si è rivelato un utile filo conduttore per visitare alcuni luoghi utilizzando lo sguardo di un artista molto amato, non solo da me, e che negli anni ho cercato di seguire e approfondire, da un punto di vista “visivo”, arrivando anche a realizzare dei quasi “pellegrinaggi” nei luoghi dove ha vissuto e esercitato la sua attività creativa.
    Non è, almeno apparentemente, un fotografo, ma un famosissimo pittore. 
    Come già anticipato dal titolo si tratta di Vincent Van Gogh, artista sul quale ci si interroga periodicamente vista la sua importanza capitale per la cultura dell’immagine anche contemporanea e anche per la sua evidente e apparentemente inarrestabile “modernità”.
    Il discorso non è semplicissimo anche se cercherò di renderlo tale il più possibile, ma se avrete la pazienza di arrivare in fondo a questa chiacchierata troverete le “prove” visive e fotografiche di quanto qui si tenterà di raccontare.
    Personalmente ritengo sia particolarmente significativo per questo tipo di discorso perché proprio Van Gogh passa spesso per essere un artista che ha infranto le regole, le ha stravolte e reinterpretate a suo piacimento secondo una visione propria e unica della realtà. Ed è vero.
    È altrettanto vero però che non le ha stravolte a caso. Non ha scomposto la realtà in base a visioni astratte, suggerite magari dalla sua mente malata o dalla sua presunta visione distorta dei colori.
    Già, perché spesso accade anche questo: ciclicamente viene esposta da qualcuno una qualche teoria, spesso di origine medica, che pretende di trovare una spiegazione “diagnostica” al suo modo di riportare la realtà sulla tela. Schizofrenia, daltonismo e molto altro ancora. Tutte cose magari clinicamente vere, ma che in realtà non spiegano nulla. È come se non volessimo ammettere che la sua capacità di vedere la realtà in modo diverso dagli altri non fosse dovuta ad una qualche dote estranea alla sua volontà ma, esattamente al contrario, fosse proprio il frutto di una osservazione rigorosa e attenta della realtà stessa. Talmente rigorosa e attenta da poterla riprodurre non solo nelle sue linee e nelle sue forme, ma anche nelle emozioni e nelle sensazioni che provocava.
    Nel caso di Van Gogh (così come nel caso di Monet e delle sue ninfee) c’è però un modo assai diretto per constatare quanto in verità le loro opere siano aderenti alla realtà, molto più di quanto normalmente si pensi. Molti luoghi da lui dipinti infatti esistono ancora, e sono per molti aspetti assai simili a come erano all’epoca in cui vi si posarono “gli occhi blu profondo di Vincent”.
    La prova si può fare in particolare ad Arles, in Provenza, dove il pittore olandese visse uno dei suoi periodi più prolifici e più significativi, dipingendo angoli e scorci della cittadina e dei dintorni, trasformandoli in alcuni dei quadri più famosi della storia dell’arte.
    E’ qui che, in più occasioni, mi sono recato proprio cercando e trovando i luoghi esatti da lui dipinti (negli ultimi anni aiutato dall’ente del turismo che ha colto l’opportunità e ora li segnala in modo egregio), cercando le posizioni esatte da lui scelte per riprodurre su tela quegli scorci, e cercando di verificare sul posto quanta attenzione avesse posto, o non posto, alla composizione dell’immagine che doveva riprodurre quelle realtà.
    Ebbene, guardando e attraversando i luoghi esatti riprodotti dall’artista, e cercando, da fotografo, di “inquadrare” il più possibile ciò che lui stesso “inquadrò”, saltano subito all’occhio (all’occhio attento, naturalmente) almeno due cose.
    La prima è che Van Gogh si posizionava sempre in un punto ben preciso. Se si cerca la posizione esatta che corrisponde al quadro ci si accorge facilmente che il pittore deve aver provato e riprovato diversi punti di vista prima di scegliere quello definitivo dove piazzare il suo cavalletto. Lo si capisce bene, poiché il punto scelto non è mai il più immediato, mai il più comodo, mai il più banale.
    La seconda è che Van Gogh non inventava un bel niente. In ogni suo quadro semmai aggiungeva. Aggiungeva colori per comunicare sensazioni, aggiungeva gesti e pennellate per rappresentare movimento e forze intangibili, ma non inventava né stravolgeva affatto la realtà. La coincidenza fra le scene reali e i quadri di Vincent è pressoché totale, in alcuni casi di un realismo impressionante. Nulla, ma davvero nulla, era lasciato al caso o all’improvvisazione. Le misure, le distanze, la prospettiva, gli elementi. Tutto coincide in modo esemplare.
    Sento di non esagerare quindi dicendo che Van Gogh ragionava in modo non molto diverso da quello di un fotografo (non di un fotografo qualsiasi, naturalmente). Il suo intento era riprodurre la realtà che vedeva, rispettandone le misure, le proporzioni e l’atmosfera, trasferendo al tempo stesso sulla tela l’emozione che quelle visioni gli provocavano. 
    E nel riprodurre quelle visioni, ci si accorge anche di quanto conoscesse, avesse approfondito e fatto proprie quelle regole di composizione che ancora oggi valgono per molte immagini, siano essi quadri, foto, disegni, cartelloni pubblicitari o inquadrature cinematografiche.
    E nelle sue composizioni, anche quelle che trasmettono in modo particolarmente fantasioso e immaginifico scene che si avvicinano ad allucinazioni, oltre ad essere sempre riprodotta la scena reale con la massima fedeltà, possiamo trovare regolarmente la regola dei terzi, quella dei pesi, dell’entrata, della chiusura e delle diagonali. Non ci sono elementi fuori posto, non ci sono mai squilibri.
    Inutile quindi illudersi che Van Gogh dipingesse in quel modo perché era pazzo, o daltonico, o chissà cos’altro. Dipingeva in quel modo perché era un genio, certo, ma un genio che conosceva perfettamente tutte le regole della prospettiva e della composizione, le studiava e ristudiava, le provava e le riprovava. E cambiava continuamente il suo punto di vista finché non ne trovava uno che gli mostrasse la realtà in un modo nuovo, diverso.
    Non più fantasioso, ma più reale.
    Ecco quindi i risultati della ricerca e dei confronti fra la realtà fotografica e quella che ci ha trasmesso il genio olandese: 
    Il famoso Caffè dipinto da Van Gogh è stato mantenuto come all’epoca, probabilmente anche ridipinto con i colori cari al pittore, ma ciò che più colpisce è la fedeltà dell’atmosfera notturna che ancora si respira a Place de Forum, e la precisione delle prospettive dei palazzi e della porzione di cielo (come spesso accadeva, arricchita dall’artista con la sua famosa visione “lampeggiante” delle stelle)
    La “casa gialla” dove visse Vincent purtroppo non c’è più (distrutta dai bombardamenti) e la possiamo vedere solo nel quadro, ma tutto il resto è talmente preciso (impressionanti i due ponti della ferrovia) che volendo la si potrebbe anche ricostruire prendendo la tela come progetto di riferimento.

    La maestosa riva del Rodano, stellata come solo Van Gogh riusciva a illustrare, appare ancora oggi identica. I Lampioni lungo la riva, oggi ripristinati nelle stesse posizioni dove un tempo illuminavano con le lanterne a petrolio, disegnano la curva del grande fiume nello stesso modo. Qui lo sguardo dell’artista ha davvero composto il quadro in modo insuperabile. Quando si cerca di fotografarla, ci si rende conto che quella e solo quella è la posizione e la com/posizione perfetta (anche di giorno, come si vede dalla foto in testa all’articolo).
    Il famoso ponte levatoio, riprodotto molte volte dal pittore, è oggi stato ripristinato, forse non esattamente nello stesso luogo ma comunque in modo fedele. Prospettive e particolari della struttura si possono ritrovare identici.
    Il cortile dell’ospedale dove Van Gogh risiedette per qualche tempo (ottenendo il permesso di dipingere) è oggi giustamente ribattezzato “Espace Van Gogh”, ed è stato restaurato in modo del tutto fedele al quadro. In questo caso non è stato possibile riprodurre la stessa identica inquadratura dell’artista, poiché lui dipinse fissando il suo cavalletto dalla balconata del primo piano, che al momento della mia visita era purtroppo inaccessibile. L’ambiente però risulta ugualmente fedele, quadro e luogo reale si possono sovrapporre.
    Per il viale nei giardini pubblici della cittadina, la composizione è quasi simmetrica. Van Gogh però in questo caso evidenzia la prospettiva e equilibra i pesi rendendo dinamica la visione utilizzando le figure umane disposte nel quadro. Il Signore a sinistra, la signora di spalle lontana, le figure sedute sulle panchine.  Per riprodurre l’effetto compositivo (tra l’altro rispettosissimo della famosa “regola dei terzi”) Francesco Borgogno si è prestato a interpretare il signore con il cappello che legge il giornale. 
    Appendice cinefotografica: Per chi vuole continuare l’esplorazione, oltre alle foto può essere utile anche guardare questi video da me realizzati proprio ad Arles. Video che, oltre ad essere evidentemente un gioco, vogliono anche essere un modo per comunicare visivamente quanto si è qui cercato di descrivere a parole. 


    Buon viaggio!

    “Vincent nei luoghi di Vincent”: http://www.youtube.com/watch?v=17G8aDPA9vE



    Alessandro Borgogno

    Questo reportage è stato pubblicato in versioni differenti anche su www.lakasaimperfetta.com e su photoriflettendoci.wordpress.com

    Dopo Altamira tutto è decadenza

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    Nel 1879 un archeologo dilettante scoprì, grazie al contributo decisivo della figlia di nove anni, delle pitture rupestri sulla volta di una grotta. L’archeologo, dilettante, si chiamava Marcelino Sanz de Sautuola e la bimba, cui tutto il genere umano dovrebbe rendere ringraziamenti, Maria.
    Nei mesi successivi, Sanz si fece affiancare da un archeologo dell’Università di Madrid, Juan Vilanova y Piera, per effettuare degli scavi nel complesso di grotte. Trovarono un mondo incantato e perduto che fecero risalire all’epoca paleolitica. Sanz e Vilanova riportarono le ricerche, le opere rinvenute e le datazioni in un notissimo studio pubblicato nel 1880. Nello stesso anno, a Lisbona, si consumò il Congresso preistorico dove le tesi degli spagnoli furono rigettate senza appello. Non solo gli specialisti francesi, di cui riporto i nomi perché non si perdano nei meandri della storia, Gabriel de Mortillet ed Emile Cartailhac rifiutarono la datazione al paleolitico, ma aggiunsero ridicolo allo studio degli spagnoli, senza pensare che la storia avrebbe coperto loro di ridicolo. Sanz de Sautola fu accusato di truffa a causa dell’elevata qualità artistica e dell’eccezionale stato di conservazione delle pitture rupestri. Il ridicolo nella storia della scoperta delle grotte d’Altamira sembra non chiudersi mai: un contadino locale sostenne che le pitture sulle pareti erano state create da un artista contemporaneo su invito di Marcelino Sanz de Sautuola.
    Sanz de Sautuola morì, nel ridicolo degli accademici, nel 1888.
    Nel 1902, quando altre scoperte avevano contribuito ad avallare l’ipotesi della datazione al paleolitico delle pitture d’Altamira, la società scientifica si decise a rivedere il proprio giudizio sulle scoperte degli archeologi spagnoli. Uno dei francesi che irrise Sanz de Sautuola ammise, anche troppo enfaticamente, il proprio errore in un articolo divenuto celebre con il titolo di Mea culpa d’un sceptique. Il saggio fu pubblicato sul giornale L’anthropologie. Negli stessi momenti un secondo studioso francese, Joseph Déchelette, si spinse a definire Altamira la Cappella Sistina della Preistoria.
    Purtroppo Marcelino Sanz de Sautuola non poté assistere al trionfo delle proprie ricerche.
    Con il benestare della comunità scientifica internazionale, ripresero gli scavi. A dirigere i lavori Hermilio Alcalde del Rio. Gli anni passarono velocemente, sino a giungere al 2008 quando la datazione uranio-torio fece risalire ad un periodo compreso tra 35000 e 25000 i dipinti sulle pareti della magnifica grotta.
    Occorre aggiungere che recenti studi sembrano confermare l’ipotesi che ci si possa trovare di fronte ad opere collettive, completate da migliaia di mani diverse in centinaia d’anni.
    L’impatto culturale della grotta d’Altamira è rintracciabile nelle parole del maestro Pablo Picasso, che al termine di una visita esclamò: “Dopo Altamira tutto è decadenza”.
    Purtroppo anche in questo sito, come a Lascaux in Francia, l’anidride carbonica prodotta dal respiro dei tanti visitatori ha gravemente danneggiato le opere. La decisione fu di chiudere al pubblico il sito dal 1977. Nel 1982 furono riaperte parzialmente. Da quell’anno i visitatori sono accettati in un numero tanto ridotto che la lista d’attesa è di almeno tre anni.
    Le istituzioni si chiesero quale fosse il modo migliore per permettere al pubblico di visionare le magnifiche opere celate nell’antro della terra, e la decisione ricadde sulla costruzione di una copia, o replica, delle pitture rupestri. Dal 2001 è possibile visitare la riproduzione della grotta d’Altamira in un sito non lontano dall’originale.
    E’ lecito porsi la domanda sul perché siano così importanti le pitture rupestri spagnole?
    La grotta d’Altamira, è una caverna situata nei pressi di Santillana del Mar, nella regione della Cantabria, circa 30 chilometri ad ovest di Santander.
    Dal 1985 è inclusa tra i patrimoni dell’umanità dell’Unesco.
    La grotta originaria è lunga 270 metri. Il cunicolo principale ha un’altezza che varia dai due ai sei metri.
    Malgrado siano state trovate pitture rupestri su tutta la lunghezza del cunicolo, gli studiosi hanno ipotizzato l’occupazione umana della grotta limitatamente all’ingresso. Probabilmente il resto della grotta era usato per cerimonie religiose.
    I nostri antenati utilizzarono il carboncino e l’ocra per dipingere. Probabilmente diluirono i colori per produrre delle tonalità diverse. Incredibilmente sfruttarono i contorni naturali delle pareti per dare l’impressione della tridimensionalità ai soggetti dipinti.
    L’animale più rappresentato è il bisonte. Ci sono sedici copie policrome e una in nero, di varie dimensioni, posizioni e tecniche di pittura, undici delle quali in piedi, le altre statiche o in movimento sul lato sinistro. Le dimensioni delle rappresentazioni del bisonte variano dal metro e quaranta centimetri al metro e ottanta centimetri. Accanto alle rappresentazioni del bisonte, vi sono cavalli, cervi e cinghiali.
    Le pitture rupestri di Altamira potrebbero essere immagini di significato religioso, relativo ai riti di fertilità o cerimonie per promuovere la caccia, significato sessuale, totemismo o potrebbero semplicemente essere interpretati come arte per l’arte. Quest’ultima possibilità è stata respinta con vigore da molti studiosi perché gran parte dei dipinti è posizionata in luoghi delle grotte di difficile accesso, quindi difficilmente visualizzabili dagli abitanti dell’epoca di produzione dei dipinti.
    Interessante la teoria che le pitture possano essere interpretate come la battaglia tra due clan rivali, rappresentati da cervi e bisonti.
    La categoria più ricorrente nell’arte rupestre è quella del mondo animale. Gli artisti adoperavano ogni tipo di accorgimento tecnico per far sì che i dipinti, o le incisioni, si avvicinassero alla realtà. Gli animali erano riprodotti con un’impressionante cura dei particolari.
    Alcuni studiosi hanno avanzato l’idea che i nostri antenati avessero una sorta d’ossessione per il mondo animale. Questa teoria è accettabile poiché abbiamo scoperto una scarsa volontà di rappresentare se stesso da parte dell’uomo preistorico.
    Gedion scrisse che “la figura dell’essere umano appariva trascurabile a paragone con la bellezza e la forza della figura animale. L’auto esaltazione con cui sia l’uomo che la donna erano presentati nudi alla luce del sole nella scultura greca, era totalmente inimmaginabile per l’uomo primitivo”.
    Ammirazione per gli animali o culto religioso?
    La risposta sarà per sempre sepolta nel buio di queste grotte dipinte.


    Fabio Casalini


    Bibliografia
    Antonio Beltran (a cura di), La grotta preistorica di Altamira, Milano, Jaca Book, 1998.

    Collins D.,L’avventura della preistoria. Viaggio nel passato dell’uomo dalla scimmia all’artista. Newton compton editori, 1980.

    Gedion S., L’eterno presente: le origini dell’arte. Feltrinelli, 1965.

    Gregory Curtis, The Cave Painters. Probing the Mysteries of the World's First Artists, New York, Knopf, 2006. 

    Russell Dale Guthrie, The Nature of Paleolithic Art, Chicago, University of Chicago Press, 2006. 

    William H. McNeill, Secrets of the Cave Paintings, in The New York Review of Books, vol. 53, n. 16, 19 ottobre 2


    Chianci Palermu, chianci Siracusa. La triste storia della Baronessa di Carini

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    C’è una storia siciliana che merita di essere raccontata, anche perché solo siciliana non è. Molti la conosceranno, molti no, sicuramente moltissimi non ne conoscono tutte le tracce e i percorsi sparsi nei secoli fino ai nostri giorni. E allora qui, nei brevi spazi dei nostri racconti, proviamo a ripercorrerli, anche se in fretta.
    La storia è straordinaria soprattutto perché è un esempio quasi unico di come a volte l’arte, l’arte più popolare, quella della musica, delle canzoni e della poesia, possa sostituire e addirittura riempire i vuoti che la storia ufficiale, a volte colpevolmente e consapevolmente, cerca di nascondere con tutti suoi mezzi.
    La storia parte nel 1500, per la precisione nel 1563, in piena Sicilia feudale, dominio dei Baroni. Uno di questi feudi è Carini, vicinissimo a Palermo, dove regna il Barone Vincenzo La Grua, della potente dinastia dei La Grua-Talamanca. Per classici motivi di convenienze politiche e dinastiche, al Barone viene data in sposa, ancora quattordicenne, la bellissima donna Laura Lanza di Trabia, figlia del potente Barone Cesare Lanza, vero artefice del matrimonio e della conseguente ventennale prigionia della figlia nel pur magnifico ma isolato Castello di Carini.
    Dopo aver onorato il matrimonio con anni di fedeltà e molta prole, la bella Baronessa Laura alla fine cede, evidentemente, alla passione vera e non imposta, iniziando una relazione, non si sa quanto casta, con un bel cavaliere del quale è innamorata fin dall’infanzia, Lodovico Vernagallo, del vicino feudo di Montelepre.
    Gli eventi precipitano il 4 Dicembre del 1563. Laura e Lodovico si incontrano segretamente nel Castello, ma qualcuno li sorveglia da tempo. Un infamissimo frate, imboccato dal Barone Vincenzo - marito cornuto e anche vigliacco - corre a Palermo ad avvertire Don Cesare Lanza, il feroce padre di Laura.
    Cesare parte con i suoi cavalieri alla volta del Castello di Carini, irrompe nelle stanze e uccide senza pietà la propria figlia, per leso onore del casato. Poi fa inseguire dai suoi 'picciotti' il Vernagallo in fuga e fa uccidere anche lui.
    Questa è la storia, più o meno nuda e cruda. Inevitabile che a questa si sovrappongano varie leggende, fra le quali la più suggestiva è quella dell’impronta della mano insanguinata della baronessa su un muro del castello, che per secoli tornerà a farsi vedere ad ogni anniversario dell’atroce delitto.
    La prima cosa straordinaria è che questa storia, così come ve l’ho riportata, si è potuta accertare con relativa sicurezza solo da pochi decenni.
    E’ accaduto infatti che subito dopo l’infame omicidio, il Barone di Carini e quello di Trabia avviarono una sistematica azione di occultamento e, diremmo oggi, depistaggio, facendo sparire documenti, mettendo a tacere voci scomode e, grande elemento di modernità, pagando adeguatamente storici e “giornalisti” dell’epoca per tramandare versioni di comodo.
    Così per secoli non si è riuscito a capire davvero né chi fossero i protagonisti della vicenda, né se il vero assassino fu il padre il marito o altri ancora, né chi fosse realmente la baronessa uccisa, né se il Vernagallo fosse stato anche lui trucidato oppure fosse fuggito. Lo stesso Castello di Carini, nei secoli, fu abbandonato dagli eredi e lasciato all’incuria e alla decadenza.
    Ciò che però ha continuato a viaggiare nei secoli portando con sé la verità storica, è stata la voce popolare. In particolare un poemetto lirico in dialetto siculo composto da un anonimo contemporaneo alla vicenda, fortemente colpito dall’accaduto e dalla risonanza che aveva avuto in tutta la Sicilia al momento degli accadimenti (Piange Palermo, piange Siracusa). E non potendo essere scritta in documenti ufficiali, ha continuato a resistere per cinque lunghi secoli tramandata dai cantastorie ('cuntastorie'), quelli che giravano per i paesini con qualche strumento e con tabelloni disegnati - i fumetti dell’epoca - per diffondere e raccontare le storie più belle e più drammatiche.
    E a partire dall’ottocento, con l’avvento di storici moderni e di ricercatori di etnomusicologia, la canzoncina popolare ha cominciato ad essere riscoperta e studiata come meritava. Si è quindi accertato che conteneva molte più verità storiche di qualunque documento esistente. Il professor Salomone Marino, in particolare, ne raccolse in giro per l’Italia quasi quattrocento versioni diverse, e con un lavoro immenso iniziò a fare luce sugli elementi che indubitabilmente concordavano con fatti e personaggi realmente esistiti. Ho scritto in giro per l’Italia perché lo splendido poema ha varcato i confini dell’isola per arrivare anche a Napoli, dando vita ad una delle ennesime versioni che ora è anche uno dei più classici pezzi della tradizione partenopea: “Fenesta ca lucive e mo’ nun luce” ("Finestra che splendevi e ora non splendi"). E il merito di averne fatto una versione quasi moderna, magari non filologicamente ineccepibile ma meritoria di uscire finalmente dalla ristretta cerchia degli studiosi, va ad Otello Profazio, cantante folk di origine calabrese degli anni Sessanta, che ne ha tra l’altro ritrovato la musica proprio in un paesino della Calabria, da un altro cantastorie. Infine, ma siamo proprio agli ultimi anni, un paio di documenti ufficiali ritrovati in Sicilia e in Spagna (regno cui rispondeva il Baronato) hanno definitivamente dato la certezza che su questo giallo cinquecentesco la canzone popolare, e solo lei, diceva la verità: il Barone Cesare Lanza uccise a sangue freddo la figlia Laura Lanza di Trabia, su istigazione del marito Barone di Carini Vincenzo La Grua. E uno dei suoi sgherri, tale Musso, uccise anche il Vernagallo in fuga.
    Riportiamo qui il testo di uno dei documenti, davvero notevole nel linguaggio e nel significato, nel quale l’assassino, Cesare Lanza di Trabia, scrive al re di Spagna, Filippo II, per discolparsi del delitto della figlia:
    “Sacra Catholica Real Maestà, 
    don Cesare Lanza, conte di Mussomeli, fa intendere a Vostra Maestà come essendo andato al castello di Carini a videre la baronessa di Carini, sua figlia, come era suo costume, trovò il barone di Carini, suo genero, molto alterato perchè avia trovato in mismo istante nella sua camera Ludovico Vernagallo suo innamorato con la detta baronessa, onde detto esponente mosso da iuxsto sdegno in compagnia di detto barone andorno e trovorno detti baronessa et suo amante nella ditta camera serrati insieme et cussì subito in quello stanti foro ambodoi ammazzati.
    Don Cesare Lanza conte di Mussomeli”.
    Per proseguire le infinite traiettorie di questa storia, non si può non citare il bellissimo sceneggiato televisivo realizzato e trasmesso dalla RAI in quattro puntate nel 1975, periodo televisivo prolifico e creativo come mai più. E’ “L’amaro Caso della Baronessa di Carini”, in cui una sceneggiatura assolutamente geniale sposta la vicenda ai primi dell’ottocento, dando modo di raccontare il periodo di transizione e conflitto fra il feudalesimo e il regno d’Italia, e in cui il delitto del cinquecento diventa un episodio del passato scomodo da ricordare e così intriso di significati anche politici da giustificare ogni nefandezza pur di tenerlo ancora nascosto, ancora a tre secoli di distanza, e immergendo così i protagonisti e discendenti in un’atmosfera di predestinazione e quasi di reincarnazione storica. Elegantissima regia di Daniele D’Anza, ottime prove d’attore di Ugo Pagliai nel suo periodo d’oro, di Adolfo Celi nella sua versione più gelidamente mefistofelica, di Janet Agren al massimo del suo splendore, e di un Paolo Stoppa narratore contrappuntista assolutamente fantastico. Titoli di testa in cui echeggiava, in una versione assai semplificata ma di forte impatto, la ballata della Barunissa cantata in siculo da un ispiratissimo Gigi Proietti.
    E infine, il Castello.
    Fino ad una quindicina di anni fa (io ci andai per la prima volta nel ‘95 o ’96), era ancora chiuso al pubblico e in uno stato di rovina quasi irreparabile. Ora, finalmente, è oggetto di un restauro notevolmente ricco ed accurato, che ne ha già restituito lo splendore per quasi due terzi della sua estensione. Tornatoci nell’estate del 2006, l’ho trovato visitabile in molte stanze e anche nella cappella interna: oltre ad essere un magnifico maniero, è un luogo che come nessun altro riesce a restituire l’atmosfera delle corti cinquecentesche, comprensive delle loro infinite trame di intrighi, passioni e atroci delitti.
    P.S. Ho parlato di una prima puntata, perché ne ho già pronta una seconda, quasi temeraria. Delle tante versioni del poemetto ce ne è una considerata la più fedele al testo originario del cinquecento. E’ di una bellezza e di un’arte del racconto davvero notevoli, piena di metafore, flashback e flashforward, immagini di struggente poesia e momenti di feroce realismo. Tentarne una traduzione poetica in italiano è un’impresa già tentata e abbandonata da molti, perché il vernacolo siciliano risulta insostituibile. Il mio tentativo sarà di riportarla sì in italiano ma in prosa, per mantenere le immagini e le frasi il più possibile fedeli e al tempo stesso comprensibili. Operazione arbitraria e discutibile, ma noi di Parolae amiamo anche le sfide (e poi, lo ha fatto Baricco con l’Iliade, perché noi non potremmo?). Insomma, preparatevi: proverò con somma presunzione ("è uno sporco lavoro ma qualcuno deve pur farlo…") a raccontarvi la storia io, ma nel modo in cui decise di tramandarla ai posteri il magnifico anonimo del cinquecento.

    Alessandro Borgogno

    La caccia di Orso in piedi

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    Lo spirito del tatanka aleggiava sulla pianura. Dal grande cerchio del villaggio l’anziano Sakem cominciò a ripetere "I-ni-la"… non era necessario dire altro, gli uomini sapevano di dover preparare senza un fiato le loro armi, le madri avrebbero evitato di far piangere i neonati, i cavalli non avrebbero nitrito e i cani avrebbero smesso di abbaiare. Magicamente. Per tutta la notte. 

    Luther Orso in Piedi (1868-1939) figlio del Capo Lakota Brulè George Orso in Piedi, nacque e visse fino all’età di 11 anni in una riserva Sioux del South Dakota, venendone poi sradicato per essere mandato presso la scuola indiana di Carlisle in Pennsylvania con lo scopo di assimilare gli usi ed i costumi della società bianca. Da adulto, divenuto a sua volta insegnante ma anche filosofo e scrittore, nel ricordare quel periodo di ricondizionamento forzato disse "Anche mentre imparavo tutto quello che potevo sulla cultura dell'uomo bianco, non ho mai dimenticato la mia gente, i suoi usi e costumi". Agli inizi del 20° secolo, Orso in Piedi si distinse nella lotta per i diritti dei Lakota e per la conservazione del loro patrimonio culturale, lasciando con i suoi numerosi scritti una preziosa testimonianza delle tradizioni orali proprie della cultura degli indiani d’America; ancora oggi le sue memorie vengono spesso richiamate in testi universitari di antropologia, letteratura, storia e filosofia, quale importante eredità della saggezza dei nativi americani. Tra gli aspetti che egli amò spesso porre in evidenza, c’era l’importanza del bufalo americano nella vita del popolo delle pianure prima dell’arrivo dell’uomo bianco. La dipendenza dell’uomo dall’animale era pressoché totale, le tribù vivevano e si spostavano seguendo la pista del bisonte. Ogni sua parte veniva utilizzata per l’alimentazione ma non solo: i pezzi preferiti erano la lingua, le cotolette ed il fegato mangiato caldo, ma si mangiava anche il grasso sotto il muso, la gobba, il cuore, il midollo delle ossa; con l’intestino si facevano degli insaccati. Il resto della carne che veniva trattato per la conservazione si chiamava pemmican: si tagliava la carne a strisce, la si lasciava asciugare al sole per qualche giorno, poi la si riduceva in polvere con l’aggiunta di grasso. Conservato in sacchetti di cuoio, il pemmican poteva essere consumato mesi più tardi. Con le ossa dell’animale l’indiano fabbricava coltelli, punte di frecce, utensili. Con il crine le donne intrecciavano corde per i cavalli, i tendini servivano come filo per cucire, con le corna si fabbricavano cucchiai e piccoli recipienti. Infine le donne trattavano la pelle bagnandola con acqua calda unita al grasso, essiccandola poi al sole per qualche giorno e quindi liberandola dei peli con la cenere; divenuta morbida e leggera, era utilizzata per confezionare capi di vestiario, mocassini, sacche ornate di disegni geometrici in rosso e a ricoprire i tepee. Per questi motivi la caccia al bisonte rappresentava uno dei riti primari nelle popolazioni delle Grandi Pianure Nord-americane. Essa assumeva connotazioni quasi religiose.
    Il racconto che segue è stato liberamente tratto dalla descrizione fornita da Orso in Piedi sulla sua prima ed unica caccia al bisonte, da lui vissuta attorno al 1875 nei Territori del Nebraska Occidentale, quando aveva appena 7 anni, inserita poi nel libro “My people the Sioux”, pubblicato nel 1928:
    “Finalmente arrivò il giorno in cui mio padre Orso in Piedi mi permise di unirmi a lui per la caccia al bisonte. Ero solo un bambino ed ero molto fiero della grande fiducia, anche perché già dai primi anni di vita, durante le fredde serate accanto al fuoco, egli mi aveva insegnato tutto ciò che avrei dovuto sapere per diventare un buon cacciatore: come costruire un arco e stringarlo, come bilanciare le frecce, sapevo ormai come cavalcare il mio bellissimo pony nero, non importava quanto avrebbe corso veloce, sentivo di essere coraggioso e non temevo il pericolo perché avrei cavalcato fianco a fianco con i migliori cacciatori della tribù. Con loro avrei sentito il terribile rumore delle grandi mandrie in corsa. Gli esploratori avevano spinto una grossa mandria a poche miglia dal villaggio e così la sera precedente c’era nell’aria qualcosa di magico, dai tepee che pur erano in frenetica attività nessun rumore trapelava all’esterno. Lo spirito del tatanka aleggiava sulla pianura. Dal grande cerchio del villaggio l’anziano Sakem cominciò a ripetere "I-ni-la", che nella mia lingua significa state tranquilli, restate in silenzio. Non era necessario dire altro, gli uomini sapevano di dover preparare senza un fiato le loro armi, le madri avrebbero evitato di far piangere i neonati, i cavalli non avrebbero nitrito e i cani avrebbero smesso di abbaiare. Magicamente. Per tutta la notte. Ci sono parole tra il mio popolo che sono comprese anche dagli animali: anche sul terreno di caccia, se un guerriero dice "Aa-ah" piuttosto rapidamente e bruscamente ogni uomo, cavallo e cane si ferma e ascolta. Finché i cacciatori ascoltano, gli animali ascoltano. Anche il vento trattiene per sé i rumori. Il giorno della caccia iniziò all’alba, preparai con orgoglio la mia piccola giumenta nera e, veloce come un daino, mi portai al fianco di mio padre, volevo dimostrargli subito che sapevo cosa fare, che sarebbe stato fiero di me. Raggiungemmo un centinaio circa di cacciatori, i migliori della tribù, davanti a noi cavalcavano due uomini montati su bei cavalli pezzati e muniti di bastoni di frassino: il loro scopo era mantenere l’ordine del gruppo in modo che nessuno avesse la possibilità di portarsi in testa e spaventare i bisonti prima del tempo. Dalla cima di una collina le vedette avvistarono la mandria e studiarono il modo migliore per avvicinarla. Bisognava calcolare le distanze, il terreno, gli odori, era necessario accostarsi al bisonte il più possibile prima di dare inizio alla caccia perché se l’animale si accorge troppo presto del pericolo, corre più del necessario prima di essere abbattuto e la carne diventa coriacea. Sapevo tutte queste cose, mi guardavo attorno eccitato notando che, nell’attesa, qualcuno si legava le trecce dietro la nuca, altri si appendevano le faretre al fianco invece di tenerle sulla schiena per acquisire maggiore libertà di movimento. Nessuno aveva l’acconciatura di penne o portava picche o lance, ogni possibile impedimento doveva essere escluso. Ad un tratto le due guide si voltarono ed urlarono “Ho-ka-he!" che significa: "Pronti, andiamo!", era il segnale che tutti aspettavano.
    I cavalieri diedero improvvisamente briglia al cavallo, io spronai felice il mio pony e, subito dopo, mi accorsi che, nel trambusto, avevo già perso di vista mio padre: non era importante perché quello era il mio giorno, gettai via la coperta e mi spinsi velocemente nella mischia. Ho sempre amato cavalcare, ma quella fresca mattina d’autunno era meravigliosa perché l’avevo sognata da tempo: correvo libero nell’erba della grande pianura e non sentivo alcun grido, nessun rumore, solo l’incedere ritmico degli zoccoli dei cavalli ed il fruscio delle loro criniere al vento, per la prima volta nella mia vita vivevo la caccia la bisonte. Ben presto però tutto cambiò: mi trovai all’improvviso nel mezzo di un’immensa nuvola di polvere, dove non vedevo ad un palmo dal mio naso, tutto quello che potevo udire erano i muggiti e il calpestio degli zoccoli dei bisonti, intuivo le loro ombre che mi correvano al fianco con un fragore di tuono. La mia cavalla si imbizzarrì, cominciò a sbandare di qua e di là e io improvvisamente mi accorsi che l’eccitazione iniziale si stava ora trasformando in paura, la sentivo salire dallo stomaco, sempre più su: tornai di colpo ad essere un bambino di 7 anni, non sapevo più cosa fare e mi aggrappai alla criniera chiudendo gli occhi. Fu allora che nella mia mente si fecero prepotentemente strada le parole di mio padre “tieni gli occhi fin da subito bene aperti, ci sarà una grande quantità di polvere, ma una volta che avrai superato quella zona ti ritroverai nell’aria limpida, sarai in grado di vedere tutto chiaramente e allora saprai cosa fare”. Aprii gli occhi e pensai a chi ero, perché mi trovavo lì e cosa dovevo dimostrare, la polvere stava scomparendo e il mio pony sembrava apprezzarlo poiché non cercava più di sgropparmi, rividi finalmente il cielo azzurro mentre mi accorsi che tutto attorno a me l’erba era scomparsa: al suo posto la grande mandria scura mi stava correndo accanto, il rombo degli zoccoli era spaventoso ma io ormai avevo superato il momento di sgomento, le parole di mio padre mi avevano reso di nuovo invincibile. Provai a concentrarmi di nuovo: “… figlio mio ricorda, non perdere mai d’occhio il bisonte che decidi di inseguire, se vedi che continua a correre senza voltarsi indietro, puoi avvicinarlo e avrai molte probabilità di colpirlo al cuore. Ma se invece ti guarda con la coda dell’occhio, stai attento! Sono animali velocissimi e fortissimi, capaci di infilzare le corna nella pancia del cavallo e farlo volare per aria, per te potrebbe essere la fine …” I bisonti si accorsero della mia presenza e iniziarono a correre in due diverse direzioni, era il momento di decidere, scelsi uno dei due branchi e mi lanciai all’inseguimento. Mentre cavalcavo estrassi una freccia e mirai nel fitto dei dorsi. Nulla di fatto. Non sapevo neppure dove fosse finito il dardo e stavo quasi per demotivarmi di nuovo e abbandonare l’impresa, quando mi accorsi che una giovane giovenca correva più piano degli altri: quella vista mi ridiede coraggio perciò spronai di nuovo la cavalla e mi buttai dietro alla bestia. Quando gli arrivai addosso si fermò, si voltò per un attimo verso di me e mi guardò, come se mi stesse aspettando. Poi partì correndo in un’altra direzione, stava però perdendo velocità, non era grossa come gli altri e questo mi rinfrancava: era lei il mio tatanka.
    “ … se lo colpisci nel punto giusto può bastarti anche una sola freccia, in caso contrario dovrai usarne altre; controlla la corsa, se il tuo cavallo riesce a stargli vicino mira dietro le ultime costole, potresti arrivare al cuore. Se stai correndo in discesa o sull’argine di un fiume tira invece alla giuntura dell’anca, il tuo bisonte dovrà accosciarsi e tu potrai prendere la sua vita …”, le parole di mio padre erano sempre con me. Ora. Tenendomi saldamente solo sulle gambe incoccai la seconda freccia e scagliai con tutte le mie forze, ero convinto di avere mirato benissimo ma invece il dardo finì nel collo, il bisonte si limitò a scuotere la testa continuando a correre. Spronai ancora e riprovai con un’altra freccia che questa volta trafisse l’animale vicino al cuore. Benché non l’avessi tirata con forza sufficiente per ucciderla sul colpo, vidi che la bufala era indebolita e correva molto più lentamente di prima. Allora estrassi la quarta freccia e tirai. Stavolta la colpii al cuore, me ne accorsi perché prese subito a perdere sangue dal naso. Alla quinta freccia la bestia barcollò e si abbatté sul fianco. Avevo ucciso il mio primo tatanka. Il mio cuore tornò progressivamente a battere in maniera regolare, mi accorsi che ero lontano da tutti gli altri, non avevo amici attorno a me, nessuno che potesse vedermi. Scesi ad esaminare l’animale morto e realizzai che in tutto avevo usato cinque frecce: davvero troppe! Mi ricordai di quando mio padre aveva ucciso due bufali con una sola freccia: colpito il primo al punto giusto si era portato al fianco dell’animale in corsa prima che questi cadesse per affondarla ancora di più e poi estrarla dalla ferita, scartare abilmente la bestia morente e usarla nuovamente per uccidere il secondo bufalo. Stavo dunque lì pensieroso, vergognandomi della mia scarsa abilità di tiratore, quando ad un tratto mi venne l’idea di estrarre tutte le frecce e buttarle via, tranne una. Nessuno se ne sarebbe accorto, sarei stato ammirato e lodato come un grande cacciatore. E già stavo per farlo, quando mi tornò alla mente un rimprovero fattomi una volta da mio padre: “figlio mio, ricordati sempre che un uomo che dice bugie non va a genio a nessuno”. Così, invece di imbrogliare la gente, decisi di dire la verità e mi sentii subito molto meglio. Tolsi le frecce, estrassi il coltello e presi a scuoiare la bufala. Tutto andò a gonfie vele finché tentai di rivoltare l’animale. Sarà pesato almeno duemila libbre (un quintale). Impossibile! Mi ricordai con un sospiro che avevo solo sette anni. Di nuovo non sapevo che fare. Chiusi gli occhi e fu allora che sentii la voce di mio padre in lontananza, mi stava cercando preoccupato per non avermi più visto accanto a lui. Saltai sul pony e mi avvicinai alla collina fin quando fui certo che mi avesse visto, poi girai il cavallo e corsi di nuovo verso la mia preda. Mio padre capì che era successo qualcosa e spronò a sua volta il proprio mustang. Quando egli arrivò gli additai la bufala morta, che giaceva scuoiata a metà. Ricordo come fosse oggi, mio padre era un grande capo guerriero ed un grande cacciatore, alto, forte e coraggioso: la sua espressione preoccupata mutò immediatamente in un ampio sorriso, sembrava compiaciuto. Allora mi feci coraggio e gli raccontai tutto in un solo fiato, gesticolando e mimando tutta l’azione: seppe della mia prima freccia sprecata alla cieca in mezzo al branco, delle altre quattro tirate un po’ approssimativamente. Lui rise, ma sembrava orgoglioso di me. Capii che lo era non solo perché avevo ucciso il mio primo bufalo, ma soprattutto perché avevo detto la verità e non avevo tentato di imbrogliarlo e di mentire, benché fossi ancora un ragazzino.
    Poi mio padre si occupò della bufala, con grande perizia la scuoiò completamente e la fece a pezzi, alcuni dei quali li sistemò sulle cavalcature, avvolgendo il resto nella pelle per recuperarlo in un secondo tempo con il “travois” (traino costituito da due pertiche legate ai fianchi del cavallo e unite tra loro con pelli e rami). Prima di partire alla volta del villaggio ci fermammo a ringraziare “il Grande Tatanka”, il maestro dell’invisibile che presiede alla condotta degli uomini, lo pregammo di fare tornare le mandrie in primavera, gli chiedemmo perdono per la sorella uccisa. Non è consuetudine per il mio popolo vantarsi in pubblico, ma appena giunti all’accampamento mio padre chiamò l’anziano della tribù che ricopriva la carica di araldo, perché annunciasse che “Ota Kte” (“uccide molto” diventò il mio nome da ragazzo) aveva abbattuto il suo primo tatanka, e che “Orso in Piedi” suo padre, gli regalava un cavallo. Il vecchio cantò la mia storia a tutta la gente del villaggio, era un canto di lode. Ricordo ancora con emozione quei momenti. E mi sento più orgoglioso di me stesso per aver detto la verità quel giorno a mio padre, più di quanto non lo sia per aver ucciso quella giovane bufala. Questa fu la mia prima e ultima caccia al bisonte, che vive ormai solo nella mia memoria, unitamente ai ricordi della mia gente e a come essa viveva un tempo, prima che finissero i giorni del bisonte.”
    A quell’epoca il giovane “Ota Kte” Orso in Piedi non poteva sapere che l’uomo bianco stava pianificando la più grande carneficina di animali della storia dell’umanità: dei circa 60 milioni di bisonti presenti sulle grandi pianure nordamericane agli inizi dell’800, sarebbero sopravvissuti nel 1890 appena 750 esemplari. Un ecocidio.
    “Questi uomini (I cacciatori di bisonti) hanno fatto più di quanto sia riuscito a fare l’Esercito negli ultimi trent’anni. Stanno distruggendo i viveri degli indiani … dunque se ambite ad una pace duratura lasciate che uccidano, scuoino e vendano finché il bisonte sarà sterminato. Solo allora le vostre praterie potranno essere popolate di vacche e di esultanti cowboys, che seguiranno i cacciatori come seconda avanguardia di una civiltà più avanzata” (Generale Philip Henry Sheridan in un discorso al Parlamento Texano nel 1875). 

    Sergio Amendolia

    Bibliografia:

    Charles Hamilton – Sul sentiero di guerra – scritti e testimonianze degli Indiani d’America – Feltrinelli;

    Philippe Jacquin – Storia degli Indiani d’America – Mondadori;

    Luther Standing Bear – My people the Sioux – New Edition;

    Jeremy Rifkin – Ecocidio – Mondadori. 

    Sitografia: www. spa.walsingham.org

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