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Channel: I Viaggiatori Ignoranti

L'animalino docile di Indro Montanelli

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Sappiamo tutti cos'è il R.D.L. 880 del 19 aprile 1937?
Ad intuito possiamo comprendere che sia una legge promulgata dal regime fascista, ma ne conosciamo anche il contenuto?
In sostanza è la prima legge a tutela della razza, che andava a colpire gli italiani che vivevano nelle colonie africane di Somalia, Eritrea, Etiopia e Libia. Da quel giorno, il cosiddetto madamato diventava fuorilegge, perseguibile con una pena da 1 a 5 anni di reclusione. Ma andiamo per gradi….
Le prime leggi razziali in Italia non furono contro gli ebrei. La promulgazione della R.D.L. 880, denominata Sanzioni per i rapporti d’indole coniugale tra cittadini e sudditi, fu la prima a sancire la superiorità assoluta della razza italiana rispetto alle genti delle colonie, ritenuti di razza inferiore. Si vietò definitivamente qualsiasi unione mista. La propaganda fascista in quegli anni aveva speso fiumi di parole e inchiostro per ribadire la superiorità della propria razza rispetto ad altre. Si rischiava, tollerando certi comportamenti, di cadere in contraddizione, soprattutto perché nessuna prudenza era usata rispetto alla possibilità di mettere al mondo dei figli. Due concetti fondamentali erano ribaditi con fermezza: la politica demografica doveva essere volta a salvaguardare la razza bianca, ma allo stesso tempo si doveva combattere il preoccupante calo demografico in atto in quegli anni. Chiunque avesse ignorato questo divieto, avrebbe commesso un duplice reato: uno biologico, inquinando la razza, e uno morale, portando allo stesso livello una donna indigena.
Un anno dopo arrivarono le leggi contro gli ebrei, che proiettarono il nostro paese a fianco della Germania nella seconda Guerra Mondiale.
Ma cos’era il madamato? E dove trova origine questa parola?
Un tempo la parola madama era utilizzata per indicare le signore in modo generico, ma anche, con accezione dispregiativa, le tenutarie delle case chiuse. Durante l’epoca coloniale, era chiamata madama la donna del luogo che conviveva con un uomo bianco, nel nostro caso con un italiano.
Inizialmente la parola madamato fu utilizzata in Eritrea, per poi estendersi a tutte le altre colonie italiane; indicava la relazione di carattere temporaneo fra una nativa del posto e un cittadino italiano senza che questi avessero contratto matrimonio. Nell’Africa orientale questa unione trovava giustificazione nel dämòz, che secondo la tradizione locale era un “matrimonio per mercede”. In cosa consisteva? In sostanza si traduceva in un contratto matrimoniale fra due persone, con una serie di obblighi reciproci, fra cui, per l’uomo, quello di mantenere i figli anche dopo che il contratto si fosse sciolto. Venuti a conoscenza di questa usanza locale, gli italiani delle colonie decisero di adeguarsi e di approfittarne, per avere così, fino alla fine della loro permanenze nel territorio, una donna che svolgesse sia funzioni domestiche che di prestazione sessuale, ignorando però la reciprocità degli obblighi. A fare largo uso del madamato furono soprattutto i soldati.
L’allora governatore dell’Eritrea, Ferdinando Martini, aveva assunto una posizione contraria rispetto a questo costume, rendendosi conto che ad usufruire del dämòz erano anche soldati che in patria avevano già contratto matrimonio. Ma questa soluzione era preferita fra le truppe, che si sentivano più tutelate rispetto alla larga diffusione di malattie a carattere sessuale che vi era in quel tempo.
Come prevedibile da queste unioni nacque un numero imprecisato di bambini che, in molti casi, non fu mai riconosciuto dal legittimo padre, il quale sapeva con certezza che quella situazione sarebbe stata solo temporanea e una volta rientrato in Italia il problema non sarebbe stato suo. Ma non mancarono i casi di riconoscimento e di assunzione di responsabilità da parte di chi era celibe e pertanto libero di prendersi carico di una famiglia.
Il fenomeno si stese anche alla Libia, tanto che nel maggio del 1932, Rodolfo Graziani, ricordato come il "macellaio del Fezzan", per i suoi metodi poco ortodossi, emanò un decreto di espulsione con il quale rinviava in patria quattro ufficiali italiani che avevano fatto ricorso al madamato, specificando che il loro comportamento era ritenuto deplorevole dal punto di vista politico e morale.
Le leggi razziali avrebbero dovuto mettere un freno a questo mal costume, per evitare la contaminazione della razza, ma così non fu. Va sottolineato che nessuno si preoccupava del fatto che molto spesso, le madame, erano ragazzine, minorenni. Si avanzava come giustificazione a un atto oggi condannato dal mondo intero come abominevole, il fatto che nelle colonie era normale, che nessuno si scandalizzava.
Questi fatti tornarono prepotentemente alla ribalta quando nel 1982, quando il giornalista Enzo Biagi intervistò durante un programma televisivo un suo collega, Indro Montanelli.
Indro Montanelli, che tutti conosciamo, raccontò davanti alle telecamere, con grande naturalezza e come se stesse parlando di un cucciolo esotico, che nel 1936 aveva acquistato per 500 lire, trattabili, una bambina di 12 anni, che divenne la sua “madama”. All’epoca dei fatti il giornalista aveva 27 anni ed era un uomo adulto. Nella cifra spesa erano compresi anche un cavallo e un fucile. La bambina lo seguì sempre durante tutto il periodo che rimase nei territori colonizzati.
Il pensiero di Montanelli sull’argomento credo sia chiaro. A quel tempo scriveva per la testata Civiltà Fascista, un mensile dell'Istituto Nazionale Fascista di Cultura, edito dal 1934 al 1943. Oltre a lui scrissero per il giornale anche Giovanni GentileTelesio Interlandi, molto attivo nella diffusione delle idee razziali sulla superiorità indiscussa di alcune razze su altre.
In più di una occasione Montanelli espresse la sua convinzione che l’operato degli italiani nelle colonie era necessario, per dare una civiltà ad un popolo evidentemente inferiore. Alla domanda in merito alla sua giovane sposa, l’uomo rispose con grande naturalezza: «aveva dodici anni, ma non mi prendere per un Girolimoni, a dodici anni quelle lì erano già donne.»
Nessun imbarazzo. Raccontò che l’aveva comprata a Saganèiti, una piccola città del sud dell’Eritrea. La definì un animalino docile. Attrezzò per lei un tucul, con lo stretto indispensabile e prese dei polli. Era molto bella. La chiamava Milena. Ogni due settimane la sua sposa lo raggiungeva, ovunque si trovasse, insieme alle mogli deli ascari, ufficiali eritrei. Arrivava a piedi, con una cesta in testa piena della biancheria pulita di cui l’uomo aveva bisogno. Al momento del rimpatrio in Italia, la giovane moglie restò a vivere in Eritrea, mentre il giornalista rientrò in patria, dove fu travolto, come tutti gli italiani, dallo scoppio del secondo conflitto mondiale.
Il suo adattamento alle usanze del luogo fu pari a quello di molti altri ufficiali e soldati che si trovarono nelle colonie. Le leggi razziali misero un freno a questo mal costume, che oggi sarebbe condannato con più severità, soprattutto dall’opinione pubblica.
In patria Indro Montanelli minimizzò sempre la questione, giustificandosi appunto sul fatto che… paese che vai usanza che trovi. Alcuni lo condannarono, altri lo giustificarono. Lui stesso prese una posizione sul suo comportamento, rimanendo della propria idea che quei giorni in Eritrea con la sua madama furono felici e senza costrizioni.
Il giornalista si spense il 22 luglio del 2001; negli anni immediatamente precedenti alla sua morte e successivamente, furono pubblicate molte versioni su questa vicenda. Lui stesso ne parlò, ribadendo il concetto che la sua fu una scelta dettata prevalentemente dalla necessità di trovare una “compagna intatta per ragioni sanitarie”. I dettagli sul prezzo e sul nome cambiarono, come del resto l’età, che passò da 12 a 14 anni. In un’altra intervista dichiarò: «… Faticai molto a superare il suo odore, dovuto al sego di capra di cui erano intrisi i suoi capelli, e ancor di più a stabilire con lei un rapporto sessuale perché era fin dalla nascita infibulata: il che, oltre a opporre ai miei desideri una barriera pressoché insormontabile (ci volle, per demolirla, il brutale intervento della madre), la rendeva del tutto insensibile…»
Circa il fatto che Montanelli ebbe o meno dei figli con la ragazza, non si seppe mai con certezza. Lui respingeva con fermezza ogni attribuzione di paternità rispetto a un bambino che portava il suo nome, asserendo che fosse nato da una successiva regolare unione della piccola con un altro uomo, 20 mesi dopo il suo rientro in Italia. Ogni considerazione sulla vicenda resta prettamente personale. Io mi sono limitata a riportare i fatti. Personalmente ritengo che la scusa dell’adattamento alle usanze delle colonie fu avanzata solo per liberarsi la coscienza di fronte a una nazione che guardava a lui e a quelli come lui come a dei “Girolimoni”.

Rosella Reali


ROSELLA REALI
Sono nata nel marzo del 1971 a Domodossola, attualmente provincia del VCO. Mi piace viaggiare, adoro la natura e gli animali. L'Ossola è il solo posto che posso chiamare casa. Mi piace cucinare e leggere gialli. Solo solare, sorrido sempre e guardo il mondo con gli occhi curiosi tipici dei bambini. Adoro i vecchi film anni '50 e la bicicletta è parte di me, non me ne separo mai. Da grande aprirò un agriturismo dove coltiverò l'orto e alleverò animali. 
Chi mi aiuterà? Ovviamente gli altri viaggiatori.
Questa avventura con i viaggiatori ignoranti? Un viaggio che spero non finisca mai...



I gemelli Colloredo, fenomeni da baraccone

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Sono definite fenomeni da baraccone le persone che si esibiscono negli spettacoli che furono in voga, principalmente negli Stati Uniti, a partire dal XIX secolo fino alla prima metà del XX secolo. Questi spettacoli a pagamento (in inglese: freak show) consistevano nell'esibizione di persone o animali con aspetto insolito o anomalo, quali ad esempio l'altezza, la presenza di malattie o di rare malformazioni fisiche, al fine di impressionare gli spettatori e attirare visitatori alle fiere. Nei freak show venivano mostrate, ad esempio, coppie di gemelli siamesi, persone molto basse o molto alte, con caratteri sessuali secondari tipici del sesso opposto, affette da malattie particolari o con molti tatuaggi o piercing. Negli spettacoli si esibivano anche performer con capacità e abilità estreme, come i mangiafuoco ed i mangiaspade. Il diverso attira da sempre la curiosità della popolazione. Già nel corso del XVI secolo il cardinale Ippolito de Medici possedeva una collezione d’essere umani di diverse razze. Il cardinale si vantava di disporre d’uomini e donne di oltre venti diverse lingue: tartari, turchi, mori, indiani e varie etnie africane. Il cardinale Ippolito de Medici precursore di quest’ignobile usanza – anche se occorre specificare che, con molta probabilità, altri prima di lui vollero dimostrare la superiorità di una certa etnia rispetto ad un’altra. Il cardinale Ippolito non fu l’unico italiano precursore di quest’orrore umano: il tanto amato Cristoforo Colombo portò con se dei nativi americani, dai suoi viaggi, alla corte del Re di Spagna. Nel XVI secolo iniziarono ad affermarsi anche le mostre dei cosiddetti fenomeni da baraccone; divennero un passatempo popolare in Inghilterra. Le deformità iniziarono ad essere viste come fonti d’interesse e d’intrattenimento per le folle che accorrevano numerose a tali rappresentazioni. Un famoso, e precoce, esempio di tali spettacoli fu l’esibizione dei gemelli Lazzaro e Giovanbattista Colloredo alla corte di Carlo I d’Inghilterra. 
I gemelli Colloredo nacquero a Genova nel 1617. 
Erano gemelli siamesi, in altre parole una coppia di gemelli uniti in una parte del corpo alla nascita. Il termine siamese deriva dal caso più celebre, quello di Chang ed Eng Bunker, gemelli nati nel Siam, l’attuale Thailandia, nel 1811 ed uniti al torace da una striscia di cartilagine. I gemelli Bunker avevano il fegato in comune. I Bunker emigrarono negli Stati Uniti e lavorarono per il circo Barnum. Sposarono due sorelle ed ebbero 21 figli. Vissero sino a 62 anni d’età. 
I gemelli, meglio conosciuti come fratelli, Colloredo erano Lazzaro ed il parassitico Giovanbattista: la parte superiore del corpo di Giovanbattista e la sua gamba sinistra sporgevano dal corpo di Lazzaro (malgrado alcune rappresentazioni giovanili dei Colloredo mostrano la gamba destra sporgere dal corpo di Lazzaro). Giovanbattista non parlava e teneva gli occhi chiusi e la bocca costantemente aperta. Secondo alcune testimonianze dell’epoca, Lazzaro quando non si esibiva teneva coperto, con un mantello, il fratello per evitare attenzioni non necessarie. Secondo l’anatomista danese Thomas Bartholin, noto per essere stato il primo a descrivere completamente il sistema linfatico umano, se qualcuno premeva sul petto di Giovanbattista, il fratello parassitico, egli muoveva le mani, le orecchie e le labbra. 
Per guadagnarsi da vivere, Lazzaro girò l’Europa e visitò Basilea e Copenaghen prima d’imbarcarsi per la Scozia, nel 1642. 
Successivamente si trasferirono a Londra. Il 4 novembre del 1637 Sir Henry Herbert, Master of the Revels della città di Londra, concedette una licenza di pubblico spettacolo della durata di sei mesi “a Lazzaro per mostrare suo fratello Battista”. Lazzaro riscontrò rapidamente un notevole successo e la letteratura di strada non perse l’occasione di immortalarne l’ascesa. Tra le più conosciute quella di Robert Milbourne, del 1637, e quella di Martin Parker, The two inseparable brothers. 
Abbandonata l’Inghilterra, i Colloredo visitarono Danzica e viaggiarono in Germania ed in Italia. Le ultime informazioni risalgono al 1646, per cui la morte è da considerarsi posteriore a questa data.

Fabio Casalini

FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio. Nel 2018 pubblica il suo secondo libro, in collaborazione con Rosella Reali, per la casa editrice Albatros dal titolo E' una storia da non raccontare. 

Gli eroi sono sempre giovani e belli

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Nel cuore di Torino correva veloce, ed accaldata, l’estate del 1939 quando un industriale di nome Ferruccio Novo decise di assumere la presidenza del Torino Calcio, succedendo a Giovanni Battista Cuniberti. Per Novo si trattava di un ritorno a casa poiché da giovanissimo giocò nelle file del Toro, senza mai accedere alla prima squadra.
Le prime attività della nuova dirigenza riguardarono la riorganizzazione della società, sulla base dei suggerimenti pervenuti da Vittorio Pozzo. L’obiettivo era di rendere la gestione simile a quella delle squadre inglesi, all’epoca all’avanguardia nel mondo calcistico. Novo decise di mettere sotto contratto molti ex giocatori, tra i quali spiccano i nomi di Giacinto Ellena ed Antonio Janni. Rinaldo Agnisetta assunse l’incarico d’amministratore delegato della società. Agnisetta aveva un passato da direttore di un’azienda di trasporti. La nuova dirigenza decise di assumere Leslie Lievesley come allenatore delle squadre giovanili. La prima squadra fu affidata ad Ernest Egri Erbstein, allenatore d’origini ebraiche nato, nel 1898, nella parte ungherese dell’Impero Austro-Ungarico. Prima di sedersi sulla panchina del Torino, Erbstein aveva allenato a Vicenza, Bari, Cagliari e Lucca. Nella città toscana era osannato e, quasi sicuramente, sarebbe restato volentieri se non fossero giunte le nefaste Leggi Razziali Fasciste del 1938. Il razzismo di stato mutò radicalmente la vita d’Erbstein, tanto che alle figlie fu negata la possibilità di studiare nelle scuole pubbliche. L’allenatore di origini ebraiche decise di accettare l’offerta del Torino anche per amore delle figlie: nella mente di Erbstein il trasferimento sarebbe servito a giustificare l’iscrizione ad una nuova scuola, chiaramente privata, senza creare preoccupazioni nella mente delle piccole.
Ferruccio Novo, dopo aver modificato l’assetto societario, decise d’intervenire pesantemente sulla composizione della squadra. Il primo acquisto di spessore fu Franco Ossola, attaccante del Varese, che si rivelerà una pedina fondamentale nello scacchiere granata. L’acquisto di Ossola fu caldamente consigliato dall’ex calciatore Antonio Janni. [1]
Nel frattempo Benito Mussolini aveva deciso d’entrare nel conflitto mondiale al fianco della Germania. Mussolini, sicuro che si sarebbe trattato di una guerra lampo, giustificò la scelta di non reclutare soldati tra i calciatori sostenendo che “servono più sui prati che all’esercito”. Nel campionato 1940/41 Ossola iniziò a dimostrare il proprio valore ed il Torino chiuse la stagione al settimo posto, a nove punti dal Bologna campione d’Italia. Nell’estate del 1941, malgrado mancassero soldi da investire, Novo decise di giocare d’anticipo acquistando giocatori che entreranno nella Leggenda Granata. Il primo acquisto fu Pietro Ferraris, comunemente noto come Ferraris II, dall’Ambrosiana (nel 1928 per adeguarsi alle direttive del regime la società, nata con il nome di F. C. Internazionale Milano, fu costretta a fondersi con l’Unione Sportiva Milanese e, sempre per ragioni politiche, fu costretta a cambiare denominazione in Società Sportiva Ambrosiana). [2]
Un secondo fondamentale acquisto fu quello relativo a Romeo Menti dalla Fiorentina. Menti era noto come Menti III, per distinguerlo dai fratelli Mario ed Umberto anch’essi calciatori professionisti. [3]
Dalla Juventus giunsero Felice Borel e Guglielmo Gabetto, uno dei pochissimi italiani ad aver segnato oltre 200 gol nella massima serie. [4]
A ridosso dell’inizio del campionato 1941/42 il Toro decise di modificare il proprio assetto di gioco, aderendo al modulo chiamato Sistema: un 3-4-3, forse sarebbe più precisa l’indicazione di un 3-2-2-3, detto anche WM poiché la disposizione in campo dei giocatori ripeteva idealmente la forma delle due lettere. Quel campionato fu vinto dalla Roma; il Torino giunse al secondo posto anche a causa di una sconfitta contro il Venezia guidato, sul campo, da Loik e Valentino Mazzola. Nel frattempo era cambiato l’allenatore della squadra granata; il ruolo fu assunto da Andras Kuttik che sostituì Erbstein, costretto a collaborare in incognito con il Toro a causa delle leggi razziali persistenti in Italia. All’inizio della stagione successiva, il 1942/43, Novo acquistò dalla squadra del Venezia sia Mazzola che Loik. Il presidente spedì nella città lagunare l’incredibile cifra, per i tempi bui del nostro paese, di 1.200.000 lire. [5]-[6]
Prima della partenza del campionato Ferruccio Novo acquistò, dalla Triestina, Giuseppe Grezar. Tutti i nuovi acquisti facevano parte della nazionale italiana di calcio guidata da Vittorio Pozzo. [7]
Il Toro vinse il campionato 1942/43 lottando, a sorpresa, con la squadra del Livorno. Fu un gol di Valentino Mazzola, sul campo del Bari, che permise alla squadra granata di vincere lo scudetto all’ultima giornata.
L’inizio dell’epopea del Grande Torino fu gravato dall’arrivo del 1944. L’Italia era devastata dalla guerra e spezzata in due dalla Linea Gotica. I campionati, in una situazione surreale ed in seguito ad una decisione quantomeno rivedibile, proseguirono sotto i bombardamenti. Le maggiori squadre di calcio, per evitare la chiamata alle armi dei propri giocatori, strinsero accordi con le industrie più importanti del paese; in questo modo i calciatori divennero indispensabili alla produzione dell’industria bellica nazionale. Il Torino trovò un accordo di collaborazione con la FIAT ed i giocatori furono inquadrati come operai nella casa automobilistica. Malgrado le condizioni assurde fu disputato un campionato di calcio, che alla fine vide la vittoria della squadra dei Vigili del Fuoco di La Spezia.
Dopo la fine della guerra, l’Italia si ritrovò spezzata in due. I combattimenti avevano compromesso le linee di comunicazione sull’Appennino rendendo difficoltosi gli spostamenti. La Federazione decise di far ripartire il campionato con la formula dei gironi. Nel nord del paese tutte le squadre che avevano diritto furono iscritte alla massima serie; nel Sud del paese, data la scarsità di società titolate a disputare il campionato di Serie A, furono incluse alcune squadre che avrebbero dovuto giocare nel campionato inferiore.
Ferruccio Novo diede alla squadra l’assetto definitivo acquistando Bacigalupo, Maroso, Rigamonti e Ballarin. Il campionato fu vinto dal Torino, il terzo della sua storia ed il secondo dell’era Novo.
Il campionato 1946/47 fu largamente dominato dalla squadra granata. L’attacco del Toro concluse la stagione con 104 gol realizzati, alla media di quasi 3 a partita. Valentino Mazzola fu capocannoniere con 29 reti.
La Serie A 1947/48 fu il campionato più lungo della storia del Calcio: fu disputato da 21 squadre per motivi geopolitici (fu recuperata la Triestina che era scesa nella divisione cadetta). La massima serie iniziò a metà settembre e si concluse a giugno inoltrato. Fu l’anno del prezioso rientro di Erbstein come consigliere dell’allenatore Mario Sperone. Il campionato fu vinto dal Torino con 16 punti di vantaggio sulla seconda. La squadra granata concluse con 29 vittorie su 40 partite; 125 gol realizzati e solo 33 subiti.
Nella stagione successiva, l’ultima di questa gloriosa epopea, il Toro si presentò al torneo dopo una lunga tournée in Brasile. In quella Serie A, ridimensionata a 20 squadre dopo le 4 retrocessioni e le 3 promozioni, guidò le operazioni granata Erbstein, come direttore tecnico, con l’inglese Lievesley come allenatore. Il campionato iniziò con alcune difficoltà per il Torino, ma alla fine del girone d’andata prese la testa della classifica. Il vantaggio sulla seconda, l’Internazione – che nel frattempo aveva ripreso l’antica denominazione, salì sino a sei punti. Alla vigilia della trentaquattresima giornata, però, l’Inter si era riportata a quattro punti di distacco. Lo scontro diretto a Milano finì a reti inviolate. A quel punto la squadra granata partì per il Portogallo, dove giocò un’amichevole con il Benfica. Nel viaggio di ritorno l’intera formazione perirà nel disastro aereo di Superga. L’impatto causò la morte istantanea di tutte le trentuno persone a bordo del velivolo.
Per la fama della squadra, la tragedia ebbe una grandissima risonanza sulla stampa mondiale, oltre che in Italia.
Il giorno dei funerali quasi un milione di persone scese in piazza a Torino per dare l’estremo saluto ai campioni granata.
Per finire il campionato il Toro schierò la formazione giovanile. I ragazzi vinsero tutte e quattro le partite rimanenti contro i pari età mandati in campo dagli avversari in segno di rispetto.
Il Torino fu proclamato vincitore del campionato.
Nel disastro di Superga perirono tutti, i cui nomi sono nella leggenda dello sport. Tra loro anche Renato Casalbore, fondatore di Tuttosport, Renato Tosatti, della Gazzetta del Popolo e padre di Giorgio, e Luigi Cavallero, giornalista de La Stampa di Torino.
Pochi conoscono le vicende che consentirono a Vittorio Pozzo e Nicolò Carosio, la celebre voce sportiva, di aver salva la vita.
Luigi Cavallero prese all’ultimo momento il posto sull’aereo di Pozzo, inviato sportivo della Stampa, poiché l’ex allenatore della nazionale di calcio non era gradito alla società granata dopo il recente avvicendamento sulla panchina azzurra ed alcune incomprensioni nate tra lui e Novo. Vittorio Pozzo volerà a Londra a vedere la finale della Coppa d’Inghilterra.
Nicolò Carosio, l’inventore della radiocronaca sportiva, non poté recarsi a Lisbona con l’aereo del Torino poiché fu impossibile far coincidere la trasferta portoghese con la cresima del figlio.
Quel maledetto giorno di maggio, tenebroso e lugubre, arrestò il tempo e la visione delle future generazioni sui calciatori che scrissero una delle più belle pagine della storia sportiva italiana.
Saranno sempre giovani e belli.
Per tutta la tifoseria granata saranno, per sempre, degli eroi.
E sappiamo che gli Eroi sono sempre giovani e belli.

Fabio Casalini



[1] Franco Ossola giocherà 176 partite con la maglia granata segnando 86 gol.
[2] Pietro Ferraris II giocherà nel Torino sino alla stagione 1947/48 quando fu ceduto al Novara Calcio giocando 168 partire e segnando 55 gol.
[3] Romeo Menti giocherà 131 partite con il Torino segnando 54 gol.
[4] Guglielmo Gabetto giocherà 219 partite con il Torino segnando 122 gol.
[5] Valentino Mazzola giocherà nel Toro 195 partite segnando 118 gol.
[6] Loik giocherà, da centrocampista, 176 partite con la maglia granata segnando 70 gol.
[7] Grezar giocherà 126 partite segnando 16 gol.



La storia dei Bacha Bazi, bambini abusati dagli adulti

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Il filosofo svizzero Jean-Jacques Rousseau nel corso del settecento scriveva: amate l’infanzia; favoritene i giochi, le gioie, le amabili inclinazioni. Chi di voi non ha rimpianto, talvolta, per quest’età in cui il riso non si spegne mai sulle labbra e l’anima è sempre serena?
In diversi paesi del mondo le bambine ed i bambini hanno un prezzo. Accade anche in Afghanistan, nel vicino Oriente. Rousseau non conosceva i Bacha Bazi, bambini per i quali il riso si è spento molto presto sulle labbra.
Il Bacha Bazi, che significa essere interessato ai bambini, è una forma di schiavitù sessuale, e di prostituzione minorile, in cui i ragazzi non ancora entrati nell'adolescenza sono venduti a potenti uomini afghani. Il compito di questi ragazzini è di intrattenere e di compiacere sessualmente i ricchi signori afghani. Nella martoriata terra dell’Afghanistan questa pratica è un business di grandi dimensioni, e molti adulti considerano i Bacha Bazi uno status symbol. I ragazzi, nonostante la considerazione dei propri padroni, sono schiavi e debbono sottomettersi sessualmente agli adulti, pena lo stupro. I ragazzi hanno un'età che può andare dagli 8 ai 14 anni (rientrando quindi sia nella fattispecie della pedofilia che in quella della pederastia); le canzoni trattano spesso di un amore non corrisposto o di avventure erotiche e vi possono anche essere vere e proprie gare di canto e ballo tra i vari minori.
I bambini sono venduti dalle famiglie stesse, poverissime, dietro il pagamento di un compenso in denaro. In altri casi i Bacha Bazi possono essere degli orfani costretti a vivere per strada. Le autorità governative e locali fingono d’intraprendere pratiche atte a reprimere il fenomeno della schiavitù sessuale dei minori, poiché molti dei potenti e ricchi signori afghani che prediligono la compagnia dei bambini sono ex comandanti militari. Le autorità non s’interessano delle vicende dei Bacha Bazi sebbene la pratica sia illegale poiché contraria alla Sharia, la Legge di Dio, ed al codice civile afghano. Le leggi non esistono per tutti, in Afghanistan come in molti altri paesi, per cui le autorità fingono d’interessarsi alla vicenda ma raramente applicano le norme quando non sono gli stessi funzionari artefici dei reati. Nel 2009 l’allora Segretario generale delle Nazioni Unite affermò: "È tempo d'affrontar seriamente la questione riguardante tale pratica, per por fine al più presto ad essa. Molti leader religiosi del paese si sono appellati a noi per aiutarli nella lotta contro quest'attività; i responsabili dovrebbero essere puniti e i ragazzi protetti di modo che possano avere il diritto ad un'infanzia senza sfruttamento".
La pratica della schiavitù sessuale dei minori, in Afghanistan denominata Bacha Bazi, è una forma istituzionalizzata di pedofilia, diffusa in quelle regioni sin dai tempi antichi. L’abuso dei minori, da parte dei potenti, è stato soggetto ad un cambiamento nel corso dei secoli, soprattutto in seguito alla colonizzazione di una parte della regione: poiché gli inglesi, i francesi ed i russi disapprovavano tale pratica, le élite culturali, che stavano assorbendo i valori occidentali, si sono a mano a mano allontanati dalla schiavitù sessuale dei minori. I Bacha Bazi, purtroppo, sono tuttora considerati uno status symbol nelle zone del Nord del paese.
Storicamente, i rapporti con ragazzini erano tollerati, se non approvati, già nel medioevo, sia tra i governanti sia tra i poeti arabi; una certa forma di pederastia, termine che indica la relazione erotica stabilita tra una persona adulta ed un adolescente, era parte integrante della morale sociale della classe dominante, l’élite, musulmana. Non possiamo dimenticare che già nel VIII secolo vi erano bimbi che si esprimevano artisticamente vestiti da donna. Accadeva nella capitale, Baghdad, dei califfi abbasidi, una dinastia che governò il mondo islamico per oltre cinque secoli, dall’ottavo al tredicesimo. La pratica del travestimento dei bimbi continuò anche con l’impero ottomano, tanto che nacque, e si affermò, una categoria di ragazzi, i Kocek, che intrattenevano gli uomini con danze e canti, sempre vestiti da donna.
Un certo numero di viaggiatori europei riportò la propria testimonianza in relazione al fenomeno: attraversando il Turkestan,nel 1872, l'esploratore Eugene Shuyler osservò che "qui ragazzini maschi e giovani appositamente formati ed istruiti assumono il ruolo che in altri paesi hanno le danzatrici femmine". La sua opinione era che tali danze "non giungevano mai all'indecenza, anche se a volte potevano assumere un tono molto provocante.” I ragazzi-ballerini sono un istituto riconosciuto in tutto il territorio dell'Asia centrale. Una storia particolare riguarda la città di Taskent, dove la tradizione fiorì sino a quando una grave epidemia di colera convinse i mullah che il Bacha Bazi violava i precetti coranici.
Esiste una giustificazione religiosa o morale alla pratica dei Bacha Bazi?
La visione culturale e religiosa odierna si basa sull'idea che il contatto con un ragazzo, o un bambino, è sempre considerato puro, a differenza del rapporto con una donna che può essere impuro. In relazione a questa visione, la pratica del Bacha Bazi non è generalmente considerata neppure una violazione della Sharia. Il rapporto con un bimbo o un ragazzo è puro poiché si pratica il sesso intercrurale, ovvero una forma di sessualità non penetrativa: il pene si trova stretto tra le cosce del partner ed è spinto per creare attrito, simulando un rapporto sessuale penetrativo.
Nel 2010 la pratica della schiavitù sessuale dei minori fu conosciuta da tutto il mondo quando Radhika Coomaraswamy, responsabile della protezione dei minori delle Nazioni Unite, parlò della del Bacha Bazi in una conferenza stampa in Afghanistan. Il 18 luglio 2010 fu creata una commissione per migliorare la protezione dei bambini in Afghanistan. 
Lo sfruttamento sessuale dei ragazzi è all'ordine del giorno, compreso quello imposto dalle forze di sicurezza afgane.

Fabio Casalini

Bibliografia
Ferdinand Karsch-Haack: Die Rolle der Homoerotik im Arabertum – Gesammelte Aufsätze 1921–1928 (= Bibliothek rosa Winkel, Sonderreihe: Wissenschaft; Bd. 3). hrsg. von Sabine Schmidtke; Ferdinand Karsch, MännerschwarmSkript-Verlag, Hamburg 2005 

Jennifer Fisher, Anthony Shay (edit.): When men dance: choreographing masculinities across borders. Oxford University Press, Oxford/ New York 2009 

"Boys in Afghanistan Sold Into Prostitution, Sexual Slavery", Digital Journal, Nov 20, 2007 

Afghan boy dancers sexually abused by former warlords, Reuters, 18 novembre 2007 

Jon Boone, Foreign contractors hired Afghan 'dancing boys', WikiLeaks cable reveals, in The Guardian (London), 2 dicembre 2010


FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio. Nel 2018 pubblica il suo secondo libro, in collaborazione con Rosella Reali, per la casa editrice Albatros dal titolo E' una storia da non raccontare. 

“Fu allora che vidi il Pendolo”

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Fu allora che vidi il Pendolo.
Con queste parole Umberto Eco iniziò il suo secondo, straordinario romanzo, intitolato proprio “Il Pendolo di Foucault”. Una vertiginosa cavalcata attraverso i complottismi e i misteri veri o presunti della storia dell’umanità, costruita attraverso un artificio narrativo che vede dei colti ma spesso ingenui redattori di una casa editrice impelagarsi in una sorta di “gioco” intellettuale attraverso il quale si divertono a inventare complicati e misteriosi complotti partendo da reali fatti storici fino a scoprire che in molti, più o meno apertamente, ci credono davvero, tanto da diventare persino pericolosi per se stessi e per gli stessi autori inconsapevoli del “gioco”.
Una trama sorprendente e complessa, che in questa epoca brulicante di “complottismi” ai vari livelli si rivela essere stata, come spesso accadde al grande scrittore piemontese, una autentica e clamorosa anticipazione degli anni che stiamo vivendo (Basti pensare che tutto il meccanismo che regola “Il codice Da Vinci” di Dan Brown, clamoroso caso letterario e non solo di inizio millennio, è già raccontato e racchiuso in uno solo dei dieci capitoli del romanzo di Eco, scritto nel 1988).
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Riportiamo, giusto per rendere l'idea di quanto Dan Brown non abbia inventato nulla che lo scrittore italiano non avesse già provveduto a "smantellare", la citazione presente in testa al capitolo 66 del romanzo di Umberto Eco: 
« Se la nostra ipotesi è esatta, Il Santo Graal... era la stirpe e i discendenti di Gesù, il 'Sang Real' di cui erano guardiani i Templari... Nel contempo il Santo Graal doveva essere, alla lettera, il ricettacolo che aveva ricevuto e contenuto il sangue di Gesù. In altre parole doveva essere il grembo della Maddalena. (M. Baigent, R. Leight, H. Lincoln. "The Holy Blood and the Holy Grail" 1982, London, Cape, XIV)»
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Fra le sempre innumerevoli suggestioni e gli infiniti rimandi che ogni scritto di Eco ha sempre portato all’attenzione dei lettori, ci interessa qui raccontare l’elemento che l’autore scelse per il titolo, elemento che all’interno della storia assume significati simbolici e presenza fisica di primaria importanza per tutto lo svolgimento della vicenda.

Chi era Foucault? E di che pendolo si sta parlando?

Si tratta di Jean Bernard Léon Foucault, conosciuto più semplicemente come Léon Foucault, un fisico francese dell’800, nato a Parigi il 18 settembre del 1819 e morto nella stessa capitale francese l’11 febbraio del 1868, a soli 48 anni. Fu un brillante scienziato che si interessò prima alla medicina e poi alla fisica, e con invenzioni ed esperimenti tanto semplici quanto geniali produsse delle dimostrazioni spettacolari di diversi fenomeni fino ad allora conosciuti solo nella teoria.
Nel 1850 riuscì a dimostrare, per mezzo di uno specchio girevole, che la velocità di propagazione della luce nell'aria è maggiore che nell'acqua. Stabilì anche che la velocità della luce varia in maniera inversamente proporzionale all'indice di rifrazione del mezzo nel quale si propaga.
Con uno dei suoi geniali esperimenti, utilizzando opportunamente il cosiddetto specchio di Wheatstone, riuscì a calcolare la velocità della luce, con i mezzi dell’epoca, scostandosi da quella reale accertata quasi un secolo dopo di solo uno 0,6% (ottenne un valore di 298.000.000 metri/sec, ben  10.000.000 metri/sec  inferiore al valore comunemente accettato all'epoca. Oggi la velocità della luce è indicata a 299.792.458 metri/sec). Vi riuscì misurando lo scostamento di un raggio di luce dopo che questi aveva colpito un primo specchio curvo, poi un secondo specchio piano che rimandava indietro la luce al primo specchio mentre questo stava ruotando e infine lo rimandava al punto di partenza. La distanza fra il punto da dove era partito il raggio e il punto dove era tornato, in relazione a quanto lo specchio era ruotato nel frattempo, gli fornì la velocità che aveva impiegato il raggio di luce a percorrere avanti e indietro la distanza fra i due specchi. Molto più complesso a dirlo che a farlo, in realtà, e forse meglio comprensibile con un disegno: 
Ma l’esperimento più spettacolare Foucault lo ideò per una dimostrazione ancora più clamorosa: rendere evidente a tutto il mondo la rotazione del pianeta Terra intorno al suo asse. Nel 1850 la fisica non aveva più dubbio alcuno riguardo alla rotazione terrestre e ai suoi meccanismi, ma non era ancora stato trovato il modo di rendere visibile a tutti, senza ricorrere alle stelle e agli altri pianeti, il fatto apparentemente ovvio che la terra girasse!
Il colpo di genio di Foucault arrivò da una constatazione semplice (come spesso capita per i colpi di genio) riguardante un attributo fondamentale di un oggetto da tutti conosciuto: il pendolo. L’attributo riguardava il suo piano di oscillazione. Si sapeva, anche per semplici esperienze dirette, che qualunque pendolo mantiene inalterato il suo piano di oscillazione (per le proprietà di un sistema inerziale) anche se il suo supporto si muove. È una esperienza che chiunque può fare avendo a disposizione anche un piccolo pendolo con una struttura portante che lo sostenga: se si ruota la struttura alla quale è appeso, il pendolo continua ad oscillare nella stessa direzione. Lavorando su questo principio, fra l’altro, lo stesso Foucault inventò qualche anno dopo il giroscopio, un meccanismo che ormai trova applicazioni in centinaia di apparecchi anche di uso comune.
Ma l’idea di Foucault nel 1851 fu ancora più grandiosa: se avesse usato come supporto girevole proprio la terra? Per qualunque osservatore, che poggiava sulla terra stessa, sarebbe stato il pendolo a cambiare direzione!
Per poter rendere visibile un simile fenomeno, Foucault aveva bisogno di uno spazio molto grande, un filo molto lungo e un pendolo piuttosto pesante che potesse compiere ampie oscillazioni. La location fu la più adatta e la più spettacolare possibile: il Pantheon di Parigi.
Il 31 Marzo del 1851 Foucault appese alla volta dell'altissima cupola del Pantheon un gigantesco pendolo con un filo di 67 metri in fondo al quale pendeva una sfera di 28Kg, e lo fece oscillare di continuo per molte ore. In un sistema inerziale, il pendolo avrebbe dovuto continuare ad oscillare sempre nella stessa direzione, ma accadde qualcosa di molto diverso.
Per rendere evidente il movimento, Foucault applicò alla sfera una punta che sfiorava il pavimento senza toccarlo, e fece disporre a terra uno strato di sabbia. I segni lasciati sulla sabbia dalle oscillazioni del pendolo sarebbero stati così ben visibili. Accadde quindi che col passare delle ore il pendolo cominciò a tracciare linee curve, tendendo sempre a deviare verso destra, fino a compiere dopo molte ore un giro completo: il Pantheon, tutti gli spettatori ormai a bocca aperta, Parigi, la Francia, l’Europa e con loro tutta la Terra avevano girato intorno al pendolo, unico punto fermo in tutto il pianeta.
Diremo ora, per precisione scientifica, che il pendolo avrebbe impiegato un giorno esatto a compiere tutto il giro solo se si fosse trovato posizionato su uno dei due poli. Ad altre latitudini infatti il suo periodo di rotazione cambia in base ad una semplice formula matematica (e al di sotto dell'equatore ruota in senso inverso, cioè "piega" verso sinistra), che comunque non staremo ad illustrare qui. Ci basti sapere che alla latitudine di Parigi impiega (ed impiegò all’epoca) circa 32 ore a compiere un giro completo. Il fenomeno era (ed è tuttora) comunque sensibilmente riscontrabile anche ad intervalli più brevi, perché ogni orail piano di oscillazione del pendolo (in realtà, come detto, tutta Parigi) si sposta comunque di circa 11 gradi, ed è una variazione ben visibile.
Per capire l’importanza della geniale dimostrazione di Foucault, nonostante la rotazione terrestre fosse all’epoca ben conosciuta ed accettata, riportiamo ciò che scrisse lui stesso sul “Journal des debats” dopo il clamoroso successo del suo “spettacolo”:
“La nozione del movimento della Terra è oggi  talmente diffusa ed ha così vittoriosamente superato l’ambito accademico per diventare un’idea in possesso di tutti, che potrà sembrare inutile cercare di fornirne una nuova prova. Tuttavia, se si considera che i principali argomenti a sostegno di tale movimento sono basati sull’osservazione dei fenomeni celesti, si vorrà forse prestare attenzione al risultato di un esperimento che permette di dimostrare la rotazione terrestre attraverso l’osservazione di un fenomeno prodotto a domicilio, senza gettare un occhio al cielo”
Lui comunque amava gettare gli occhi al cielo, dato che dopo essere stato colpito, nel 1866, da un morbo allora sconosciuto che con tutta probabilità fu una forma di sclerosi (multipla o laterale amiotrofica) una volta perso  l'uso delle gambe e poi quello della parola, da un certo punto in poi si fece montare uno dei suoi specchi (una sua invenzione, che seguiva il moto degli astri) in modo da poter continuare a vedere la volta stellata anche se paralizzato nel letto. Trascorse così, con gli occhi al cielo, l’ultimo periodo della sua vita finché la morte non lo raggiunse nel febbraio del 1868.
Ma non saremmo “viaggiatori” se non invitassimo anche alla visita. Tutto ciò che si è appena raccontato è tuttora visibile. Nella volta del Pantheon di Parigi (luogo da visitare anche per le solenni sepolture “laiche” dei più grandi personaggi della storia francese, da Hugo a Voltaire, dai Dumas a Zola, da Rousseau ai Curie) è di nuovo appeso un pendolo tal quale quello di Foucault (appena più moderno, con un meccanismo elettromagnetico, sempre inventato da Léon, che ne perpetua le oscillazioni per evitare che l’attrito dell’aria lo rallenti) e che permette in ogni momento di osservare “dal vivo” il movimento del nostro pianeta. Uno spettacolo indimenticabile che fa rivivere in ogni istante la meraviglia scientifica pensata e messa in scena dal grande scienziato.
E non solo al Pantheon. Il pendolo di Foucault dà mostra della sua meraviglia anche in un altro luogo di Parigi, che è esattamente quello dove Umberto Eco colloca le scene iniziali e finali del suo geniale e monumentale romanzo.
È la chiesa sconsacrata di Saint-Martin-des-Champs (un ex priorato, la cui struttura originaria risale alle epoche merovinge e carolingie, tanto per restare nell'ambito cospirazionista), nel quartiere del Marais. Fa parte del magnifico Conservatoire National des Arts et Métiers, dove è possibile viaggiare nel tempo attraverso le più grandi conquiste tecniche e scientifiche dei secoli passati (dal laboratorio chimico di Lavoisier alle prime macchine da stampa, dal metroalle cineprese dei fratelli Lumiere,  dalle prime “macchine volanti” fino ai primi modelli di Ford T), interamente allestito negli edifici del priorato divenuti proprietà dello stato e dedicati alle scienze dal governo rivoluzionario fin dal 1794.
La chiesa è stata trasformata in un tempio della storia della tecnologia e delle invenzioni umane. Fluttuano appesi dalle volte a crociera i primi aeroplani della storia, stazionano nella navata automobili primordiali che sembrano sempre sul punto di mettersi in moto e partire, svetta al centro della facciata interna una garitta sulla quale si erge un modello in scala della statua della libertà di New York, notoriamente realizzata dallo scultore francese Bartholdi aiutato per le soluzioni tecniche più ardite dall’ingegnere Eiffel (si, proprio quello della torre, naturalmente). E infine, nel transetto, di nuovo lui, il pendolo di Foucault, proprio quello descritto da Eco (che all'epoca del romanzo era anche quello originale) che oscilla all’infinito scivolando sulla sua base e buttando a terra ad ogni passaggio un piccolo birillo diverso, a mostrarci ancora una volta come lui sia fermo, parallelo a se stesso, mentre noi con tutta la chiesa continuiamo inesorabilmente a danzargli intorno.
È un luogo magico, che il racconto del grande scrittore alessandrino coglie in tutta la sua suggestione per farne teatro del coagularsi di cento eventi storici tramutati dalla fantasia malata degli umani in grandi complotti planetari, fino a precipitare in eventi tragicamente gotici (come le strutture stesse della chiesa) che naturalmente qui non sveleremo.
Una visita imperdibile per qualunque viaggiatore curioso e appassionato di storia e di scienza (anche l’omonima fermata del metro è degna di essere vista), e altrettanto imperdibile per gli amanti della letteratura. 
E per chi, come il sottoscritto, è anche ammiratore sconfinato del professor Eco, un autentico universo parallelo che ad ogni ingresso trasmette la sensazione di entrare (letteralmente e letterariamente) in un altro mondo dal quale si riesce ad uscire soltanto dopo aver nuovamente varcato il portale ed essersi allontanati per almeno qualche centinaio di metri, seguendo una Rueo lungo un Boulevard, ma probabilmente senza riuscire del tutto a togliersi dalla mente le parole con cui lo stesso Foucault descriveva il suo pendolo:

« Il fenomeno si svolge con calma; è inevitabile, irresistibile [...]. Vedendolo nascere e crescere, ci rendiamo conto che non è in potere dello sperimentatore accelerarlo o rallentarlo [...]. Chiunque si trovi in sua presenza [...] è indotto a riflettere e tacere per qualche secondo, e in generale ne ricava un senso più forte e intenso della nostra incessante mobilità nello spazio.»


Note per i viaggiatori: oltre alle due parigine menzionate nell'articolo, ci sono nel mondo molte altre versioni del Pendolo di Foucault visibili ai visitatori. A solo titolo di esempio citiamo:
Palazzo della Ragione di Padova(Italia)
Museo delle Scienze della Ciudad de las Artes y las Ciencias di Valencia (Spagna)
Franklin Institute di Philadelfia (Pennsylvania, USA)


Jean Bernard Léon Foucault (Parigi,  18 settembre 1819 – Parigi, 11 febbraio 1868) 
Umberto Eco (Alessandria5 gennaio 1932 – Milano19 febbraio 2016
Il pendolo di Foucault (prima edizione 1988, Bompiani)



ALESSANDRO BORGOGNO
Vivo e lavoro a Roma, dove sono nato il 5 dicembre del 1965. Il mio percorso formativo è alquanto tortuoso: ho frequentato il liceo artistico e poi la facoltà di scienze biologiche, ho conseguito poi attestati professionali come programmatore e come fotoreporter. Lavoro in un’azienda di informatica e consulenza come Project Manager. Dal padre veneto ho ereditato la riservatezza e la sincerità delle genti dolomitiche e dalla madre lo spirito partigiano della resistenza e la cultura millenaria e il cosmopolitismo della città eterna. Ho molte passioni: l’arte, la natura, i viaggi, la storia, la musica, il cinema, la fotografia, la scrittura. Ho pubblicato molti racconti e alcuni libri, fra i quali “Il Genio e L’Architetto” (dedicato a Bernini e Borromini) e “Mi fai Specie” (dialoghi evoluzionistici su quanto gli uomini avrebbero da imparare dagli animali) con L’Erudita Editrice e Manifesto Libri. Collaboro con diversi blog di viaggi, fotografia e argomenti vari. Le mie foto hanno vinto più di un concorso e sono state pubblicate su testate e network nazionali ed anche esposte al MACRO di Roma. Anche alcuni miei cortometraggi sono stati selezionati e proiettati in festival cinematografici e concorsi. Cerco spesso di mettere tutte queste cose insieme, e magari qualche volta esagero.



Aum Shinrikyo Il tunnel del fanatismo

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Siamo in Giappone, la terra del cammino dei Samurai in cui onore, dedizione e perseveranza sono parte integrante del corredo genetico.
Corre l’anno 1995, la popolazione con fatica si rialza dopo l’immane disastro dell’ “Hanshin Daishinsai”: il terribile terremoto che il 17 Gennaio ha colpito la regione del Kansai, più precisamente nella zona della prefettura di Hyogo, con capitale Kobe, causando oltre seimila vittime, decine di feriti e danni strutturali inestimabili.
L’inesauribile tenacia che contraddistingue i Giapponesi trascina il paese verso un’ardua, ma costante risalita. Il tempo delle lacrime ha reso fertile il terreno della rinascita, la vita lentamente si prepara a rifiorire insieme alla primavera.
E’ giunta la settimana dell’ “Higan”, l’equinozio di Primavera, le giornate trovano il proprio equilibrio fra buio e luce, il sole risplende confortando gli animi esausti.
Il 20 Marzo è un lunedì particolare, di festa, ma molti giapponesi decidono comunque di recarsi al lavoro: le strade sono gremite, la folla si snoda fra gli incroci, sui marciapiedi fra gli alti palazzi, dipanandosi ordinata giù per i gradini che portano alla metropolitana, fino a essere ingoiata dai vagoni metallici della stazione.
Raramente si ha la fortuna di poter viaggiare seduti, in quanto i vagoni si riempiono oltre misura, quindi non è inusuale che alcuni individui sostino in piedi in prossimità delle porte.
Hayashi Ikuo è uno di questi: sale sul vagone in testa al convoglio della linea Chiyoda in partenza alle 7:48, in prossimità della sua fermata perfora con la punta dell’ombrello una sacca contente del liquido, e scende.
Undici minuti dopo (7:59) alla stazione di Yotsubashi un giovane, Hirose Kenichi, sale sul treno A777 della linea Marunochi e compie il medesimo folle gesto; altrettanto succede sulla altre due carrozze della stessa linea.
Sulla linea Hibiya in partenza dalle stazioni di Naka Meguro e Kitasenju, si diffonde oscuro e silenzioso il veleno letale per mano dei giovani Toyoda Toru e Hayashi Yasuo.
I fatti che seguono hanno quasi dell’inverosimile agli occhi degli ignari protagonisti e dei soccorritori che giungeranno sul posto, trovandosi entrambi stritolati in un letale ingranaggio dalla diabolica perfezione.
Ogni treno lascia la stazione con la precisa puntualità che contraddistingue il Giappone: i viaggiatori che son riusciti a occupare qualche posto a sedere sonnecchiano tranquilli, i meno fortunati rimasti in piedi si sorreggono alle tenute predisposte, scorrendo mentalmente il programma per la giornata.
Improvvisamente alcuni passeggeri lamentano un forte bruciore agli occhi, l’aria si fa irrespirabile, soffocante, altri vengono colti da tosse convulsa talmente violenta da impedirne la respirazione, molti si accasciano al suolo privi di sensi.
La gente urla, chiede aiuto, quelle scatole di metallo compresse diventano ancora più anguste, claustrofobiche.
Si tenta disperatamente di provocare l’arresto del treno in modo da consentire l’uscita dei passeggeri che smaniano nel tentativo di conquistare l’aria aperta.
Il panico si diffonde.
Partono i primi allarmi, ma i treni devono comunque raggiungere la stazione più vicina.
Il tempo scorre, i minuti sono stilettate negli occhi, nel cervello, i secondi scorrono circolarmente come cappi che lentamente si stringono attorno alla gola, le forze svaniscono insieme all’ossigeno che si cristallizza nei polmoni.
I primi convogli si arrestano alla stazione, le porte si spalancano rigurgitando abulici esseri dai movimenti impastati, quasi meccanici; non ci sono corse, spintonamenti, sembra di assistere ad un film in time-laps.
Un uomo di mezza età si accascia al suolo appena varcata la soglia, qualcuno cerca di aiutarlo ignaro del pericolo a cui si espone. Una donna si contorce su se stessa espellendo schiuma dalla bocca, la maggior parte vaga disorientata a causa della cecità causata dalle esalazioni.
Gli operatori della ferrovia intervengono immediatamente prestando i primi soccorsi; c’è chi pensa a una bomba, chi a un incendio, nessuno ha la reale percezione del disastro in atto.
La situazione precipita fino a svelare la reale portata del disastro: nei giorni successivi alla tragedia si conteranno 13 vittime e oltre 6200 feriti, un gran numero di questi ultimi subirà danni fisici irreversibili di media e grave entità.
Negli ospedali si diffonde il caos in quanto non si conosce il tipo di urgenza a cui far fronte - questo buio operativo sarà fatale per molti operatori ferroviari, per i cittadini che presteranno i primi soccorsi, e per i paramedici i quali non saranno in grado di prendere le dovute precauzioni per proteggersi dalla sostanza-.
I primi pazienti arrivano con diagnosi da avvelenamento: si ipotizza da cianuro.
Vengono trattati con il kit anticianuro e stabilizzati, ma dopo le prime analisi il referto è sconvolgente: avvelenamento da Sarin.
Il Sarin è un gas nervino ottenuto per la prima volta nel 1938 da scienziati tedeschi, agisce sugli enzimi della Colinesterasi, presenti nei globuli rossi e nelle cellule, deputati al corretto funzionamento del sistema nervoso.
I danni causati dall’avvelenamento da Sarin sono devastanti: lesioni polmonari, alla milza, compromissione permanente delle terminazione nervose, dell’encefalo, del fegato, del sistema muscolare, del pancreas, cuore e apparato visivo.
Immediatamente l’attenzione delle forze dell’ordine si rivolge verso il movimento religioso dell’ Aum Shinrikyo – il quale era stato precedentemente coinvolto in un episodio simile, anche se di portata minore- il cui leader,  nelle ore successive al fatto, si affretta a tenere una conferenza stampa in cui nega qualsiasi coinvolgimento, pur non essendo stata mossa a loro carico nessuna accusa ufficiale.
Nei giorni successivi le comunità Aum vengono setacciate centimetro per centimetro. Vengono rinvenuti depositi importanti del gas incriminato, prodotto e conservato allo stato liquido, e così utilizzato nelle buste perforate dagli ombrelli sui vagoni delle linee ferroviarie. Viene incriminato il leader nonché fondatore Shoko Asahara e i suoi adepti prescelti.
Comincia una serie di interrogatori a catena, da cui emerge tutto l’orrore e la follia del piano ideato e messo in opera da Asahara, e la natura effimera e violenta del movimento reigioso da lui fondato.
Facciamo un passo indietro, chi era Shoko Asahara?
Matsumoto Chizuo, noto appunto come Shoko Asahara, era un giovane di umili origini, nato nel 1955 presso la prefettura di Kumamoto.
Alla nascita presenta una grave patologia oculare che rasenta la cecità, viene così iscritto in un collegio statale per non vedenti, in cui prosegue gli studi fino al diploma.
Già in quest’epoca manifesta i tratti salienti di un carattere controverso che si acuirà nel tempo fino ad estremizzarsi totalmente. Viene descritto come un bambino prepotente, subdolo, teso continuamente al dominio sui compagni – peraltro affetti da cecità totale, quindi già in posizione di svantaggio rispetto a lui- perennemente avvezzo alla prevaricazione, con scarso rispetto per l’auorità e le norme sociali.
Dopo il diploma segue una scuola preparatoria per tentare l’ingresso all’università di Tokyo, da cui successivamente viene rifiutato. Sfuma così il suo sogno di diventare primo ministro, e cresce la rabbia nei confronti di un sistema societario che non lo capisce e lo rifiuta.
Frequenta diverse scuole di Yoga, studia tecniche di massaggio e nel 1981 diventa adepto di un moviemento buddista.
Durante la metà degli anni ’80 apre la propria scuola di yoga nel quartiere Shibuya a Tokyo, costituendo l’azienda Aum; intorno al 1989 l’azienda si trasforma nel movimento religioso Aum Shinrikyo, ottenendo successivamente l’approvazione della Prefettura di Tokyo.
L’anno seguente è di fondamentale importanza nel delineare il clima e l’ambiente utili al germogliare del seme della follia e della violenza.
Nel 1990 Shoko Asahara si presenta alle elezioni generali giapponesi con il “Partito della Verità”convinto di poter instillare il suo credo nella popolazione e diffonderlo in maniera più efficiente tramite la cassa di risonanza politica.
La disfatta è totale. L’Aum Shinrikyo manca il bersaglio e sfiora il ridicolo a causa dell’imbarazzante teatrino mediatico messo in atto da Asahara e dai suoi adepti nell’elemosinare consensi.
La frattura fra lui e la società si fa abissale, insanabile. Non solo mette in imbarazzo il suo credo, ma vede sfumare per sempre la possibilità di diventare primo ministro; il rifiuto della gente è chiaro e certificato ora, questo comincia a far gestare nella sua mente il disegno di una vendetta divina.
I suoi insegnamenti assumono uno spirito differente, non sono più volti all’accoglienza e alla maturazione dello spirito, ma a una violenza salvifica atta al trasferimento dello spirito a un livello superiore tramite la morte – o più precisamente l’omicidio -. Prende forma il “Poa”, di provenienza Indiana, un concetto del Buddismo Vajrayana.
E’ interessante fare una breve riflessione anche riguargo il significato del nome del movimento in relazione alla data prescelta per l’attentato .
Aum Shinrikyo è composto da due termini: “Aum” – simbolo sacro dell’induismo - viene considerato lo stato primordiale dell’universo, la vibrazione da cui scaturisce il tutto; “Shinrikyo” significa l’insegnamento della sacra verità.
Sembrerebbe quasi un passaggio dallo stato primordiale dell’ignoranza a quello del risveglio nella verità, tramite gli insegnamenti del maestro.
Tutto ciò suona quasi come un oscuro presagio analizzando il significato della data prescelta per l’attentato: la settimana dell’Higan, l’equinozio di primavera, considerato come “ l’insegnamento che guida dal mondo dell’illusione al mondo del risveglio – conosciuto anche come “la soglia del passaggio all’altra sponda”-.
Nel percorso di Asahara niente avviene per caso, pervaso da lucida follia egli sale con passo grave i gradini che lo separano dalla realizzazione del suo disegno superiore, punendo una società incosciente per elevarne i pochi superstiti all’illuminazione.
Il movimento Aum diventa così strumento di rivalsa nelle sue mani: è una comunità eterogenea che richiama giovani e meno giovani di alta grado d’ istruzione, con una posizione sociale medio-alta, i quali nonostante questo, sono pervasi da un senso di inadeguatezza che impedisce loro di vivere serenamente.
Vengono accolti nelle comunità disseminate per tutto il Giappone, alla cui soglia rinunciano al propri o ego – rinunciando al proprio nome -, alla propria dote – versandola volontariamente nelle casse dell’Aum – e alla loro famiglia – con la quale non avranno più contatti- .
La “nuova vita” è scandita da ritmi di preghiera, a ognuno viene affidato un compito da svolgere; Asahara stabilisce ogni regola vigente, come anche le varie prove di iniziazione per passare al livello successivo del percorso spirituale durante le quali viene richiesto agli adepti, oltre che subire violenze inaudite, di versare un’ ingente somma di denaro per poter accedere alle prove.
Questo crea aspri conflitti con le famiglie dei membri, le quali agitano l’opinione pubblica nel vano tentativo di riavere indietro i loro cari, convocando anche un avvocato il quale, suscitando l’ira di Asahara, è vittima di una spedizione punitiva in cui paga con la vita sua e della propria famiglia.
I tre scompaiono in circostanze misteriose.
L’ira di Asahara si abbatte anche su coloro che tentano la fuga e sui loro familiari – come nel caso di Kariya Kiyoshi, fratello di un membro fuggito dalla comune, al quale era stata iniettata una dose eccessiva di siero della verità nel tentativo di estorcergli informazioni, cagionandone la morte -.
Il cammino verso il risveglio spirituale è costellato di violenza e sottomissione: gli adepti sono spesso sottoposti a privazione del sonno, del cibo, isolamento in anguste celle, vengono disorientati tramite somministrazione di sostanze psicotrope che ne fiaccano la lucidità e volontà di fuga, nonostante ciò sono costretti a portare a termine le mansioni operative a loro assegnate.
Grazie alle generose “donazioni” effettuate dai membri al loro ingresso nel movimento, Asahara acquista per conto di Aum diversi appezzamenti di terreno su cui fa costruire dai membri stessi nuove strutture, laboratori e impianti chimici.
Proprio a causa di questi ultimi la situazione precipita in quanto la popolazione dei villaggi di Namino e Kamino si ribella per le continue perdite di prodotto (gas) , intentando una causa contro il movimento, che terminerà col pagamento da parte dei cittadini di una somma di 920 milioni di yen per costringere Asahara ad abbandonare quei territori.
La comunità e gli stabilimenti vengono così trasferiti presso la città di Matsumoto, dove viene avviata la produzione del Sarin.
Il 27 Giugno del 1994, neanche un anno prima dell’attentato, nella città si verifica un’ingente perdita del gas incriminato che causa l’avvelenamento di oltre cento persone, di cui sette perdono la vita e centoquaranta restano gravemente intossicate.
Viene alla luce una macabre scoperta: un’auto in grado di espandere il Sarin utilizzata per il tentato avvelenamento dei giudici assegnati alla valutazione delle strutture del movimento Aum, il cui processo fu rimandato senza fornire spiegazioni precise.
Inspiegabilmente sia le indagini della polizia che il corso della giustizia vanno a rilento nonostante tutti siano a conoscenza della politica violenta del movimento Aum e delle attività illecite in atto all’interno delle strutture.
L’ineluttabile destino è già in moto come una sfera sul piano inclinato, la tragedia del 20 Marzo è ormai inevitabile. Rimarrà nella storia del Giappone come una ferita aperta che tutt’ora sanguina dolorosamente.

Stefania Pocozen

Bibliografia 
Stefano Bonino, "IL caso Aum Shinrikyo: società, religione e terrorismo nel Giappone contemporaneo", Solfanelli, Chieti 2010; 

Shoko Asahara, "Supreme Initiation: an Empirical Spiritual Science for the Supreme Truth", Fumihiro Joyu, AUM USA, 1988; 

Murakami Aruki, "Underground: racconto a più voci dell'attentato alla metropolitana di Tokyo", Einaudi, Torino 2014. 


Vengo alla luce il 3 Novembre del 1975, mancando di un soffio il giorno dei defunti, e per giunta di Lunedì. Fin dall'infanzia manifesto tutta la solarità che mi contraddistingue restringendo le mie amicizie a Lisa e i primi libri - Lisa era l'amica immaginaria con cui disquisivo in merito alle storie che più mi appassionavano. Crescendo non son cambiata poi di molto: Lisa a un certo punto se n'è andata, ma le storie hanno continuato ad accompagnarmi e scandire la mia esistenza. La scrittura si rivela fin da subito essere il mio mezzo di comunicazione prediletto, consentendomi tutt'ora di interpretare e capire più a fondo il mondo che mi circonda, in un turbinio continuo di domande, ricerche e scoperte in cui spero di coinvolgere più persone possibile.


La misteriosa morte dell’aviatore francese Antoine de Saint-Exupèry

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"Sotto la minaccia della guerra, sono più nudo e spoglio che mai. Se verrò abbattuto, non avrò nulla da rimpiangere. Ero nato per essere un giardiniere".

Antoine lasciò queste parole incise su una lettera adagiata sulla sua scrivania; fu come un presentimento, una sensazione nel petto che pulsava come le frasi del suo capolavoro “Il Piccolo Principe” pubblicato il 6 aprile 1943, da una casa editrice di New York, un anno prima del suo ultimo volo. “Rimase immobile per un istante. Non gridò. Cadde dolcemente come cade un albero. Non fece neppure rumore sulla sabbia.” 
Poi partì come il protagonista del suo capolavoro per una spedizione aerea scomparendo per sempre nel suo mistero. 
“sembrerò morto, e non sarà vero”. 
Era il 31 luglio del 1944, sul finire della Seconda Guerra Mondiale. Lo scrittore, esperto aviatore e amante del volo, era divenuto capitano di complemento e si arruolò nell’ Armèe de l’air, fu destinato ad una squadriglia di ricognizione aerea. 
Molti anni prima ebbe un grave incidente aereo, era il 30 dicembre del 1935, precipitò tra le dune dorate del deserto libico, qui rimase per molti giorni stremato e con ormai poche risorse per poter sopravvivere, venne tratto in salvo da una carovana di nomadi. 
Qui in questo deserto solitario incontrerà la meraviglia del Piccolo Principe. 
“Si è soli nel deserto, disse il piccolo principe. Si è soli anche con gli uomini, rispose il serpente.” 
Lo scrittore decollò con un P-38 con i colori della Francia libera, dalla base militare di Borgo, in Corsica, era diretto a Lione. 
Sorvolando il Tirreno, scomparve nel nulla, come una cometa nella notte. 
Come il suo piccolo principe. 
Un caro amico dello scrittore dichiarò che Antoine gli confessò che sarebbe voluto sparire come il piccolo principe, questo alimentò le voci di un possibili suicidio. 
Si parlò anche di un presunto sabotaggio al motore, vista la forte inimicizia con il futuro presidente Francese Charles De Gaulle. 
La realtà venne a galla con un braccialetto, intrappolato nelle reti di un pescatore di Marsiglia. Era il settembre del 1998. Era il bracciale di Antoine. Lo dichiarava l’incisione del suo nome sull’argento logorato dal mare. 
I resti del suo velivolo furono ritrovati nel 2004 al largo dell’Ile de Riou, a più di sessanta metri di profondità. 
Ma nel 2008 una dichiarazione pose forse fine a questa misteriosa morte. 
Horst Rippert, ex pilota della Luftwaffe confessò di aver abbattuto con il suo Messerschmitt Bf 109, un P-38 proprio in quella notte. 
“Quando ho saputo di chi si trattasse, ho sperato fino all’ultimo che non fosse lui”. 
“Non avrei mai sparato se lo avessi saputo”.
Le sue opere erano fonte di ispirazione per ogni pilota, come “Volo di notte” e “Terra degli uomini”, lo erano anche per lui. 
Dopo la guerra, il pilota nazista, divenne un giornalista nell’NDR, lavorò come giornalista sportivo. Non dichiarò mai prima del 2008 questa verità, mantenne il suo segreto per paura, per il timore di aver ucciso il Poeta del Cielo e con lui una parte di se stesso e di tutti gli aviatori. 
Di tutti quei sogni, della magia dei suoi testi per l’amore e il volo tra i cieli. 
Antoine morì a soli 44 anni. 
Rippert morì nel 2013, all’eta della guerra aveva soli 25 anni. 
Antoine de Saint-Exupèry continuò con il suo fascino a suscitare leggende e ipotesi surreali, ma come il suo piccolo principe forse è solo dal un’altra parte. 

“Capisci? É troppo lontano. Non posso portare appresso il mio corpo. É troppo pesante". 

Il suo corpo non fu mai ritrovato. 

Simone De Bernardin 


Simone De Bernardin nasce a Verbania sul Lago Maggiore il due settembre 1989. Fin dalla tenera età, dimostra di essere un bambino molto introspettivo, riflessivo e creativo, passa le sue giornate a inventare, osservare, riflettere e a domandarsi i perché dell’esistenza e tutto ciò che riguarda la vita e la natura. Verso la fine delle scuole elementari, comincia a scrivere appunti, riflessioni e poesie su ciò che gli accade e su ciò che lo circonda raccogliendole tutte in un grosso raccoglitore dove continua tutt’oggi a scrivere. Il primo anno di scuola media riceve la sua prima macchina fotografica con la quale comincia a scattare e a sperimentare la fotografia e da subito s’innamora del bianco e nero per la sua capacità espressiva di cogliere l’essenza delle cose.Studia fotografia e comincia a realizzare immagini e poesie che toccano temi tipici del Romanticismo di cui egli si sente attratto e che ne condivide i principi quali, il tema dell’infinito, il sentimento, il mistero, l’inconscio, la natura e il rapporto tra vita e morte. Nel 2012, realizza la sua prima mostra fotografica, presso il Comune di Verbania, e successivamente partecipa al concorso Il Segno dove viene segnalato come giovane artista, esponendo le sue opere a Venezia presso Palazzo Zenobio e successivamente a Milano presso la Galleria Zamenhof. Nel 2013 raccoglie un'insieme di sue poesie in un libriccino dal titolo Animam Meam. Nel 2014 termina il suo primo romanzo Lettere.








Rita e il Porajmos (Lo sterminio di Rom e Sinti)

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La vita di Rita, donna tedesca d'etnia sinti, cambiò improvvisamente mentre guidava la propria automobile lungo una strada sperduta dello stato di Washington, negli Stati Uniti. Rita perse i sensi ed andò a sbattere contro un palo della luce. Sul posto giunsero i soccorsi che la trasportarono ad un vicino ospedale. Quando la donna si riprese fu tempestata dalle domande dei medici che avevano analizzato gli esami e le lastre; quelle precise domande avevano lo scopo di risalire alle cause delle cicatrici, vecchie, che aveva dietro gli occhi. La donna non trovò risposte e decise di contattare la madre, che viveva in Germania, per conoscere qualcosa del proprio passato. L'anziana signora la raggiunse dopo un paio di giorni ed iniziò a raccontarle del Porajmos e del dottor Heyde. Rita conobbe in questo modo l'atroce vicenda umana che toccò a lei ed alla gemella Rolanda. Prima di approfondire la storia di Rita, e della gemella Rolanda, dobbiamo risalire la linea del tempo ed addentrarci nella conoscenza del Porajmos e del dottor Heyde.
Il Porajmos, traducibile con devastazione o grande divoramento, è il termine con cui Rom e Sinti indicano lo sterminio del proprio popolo perpetrato da parte dei nazisti durante la seconda guerra mondiale. Si stima che i nazisti provocarono la morte di circa 500.000 sinti e rom. La diffidenza e le origini storiche della discriminazione verso gli zingari risale al medioevo poiché, essendo nomadi, si mostravano diversi dalle altre popolazioni per usi e costumi. Risalendo velocemente nella cronologia degli eventi riguardanti queste popolazioni giungiamo al 1933, anno in cui Hitler divenne Cancelliere. In quell'anno il numero di zingari che vivevano nel Reich ammontava a circa 25.000 individui. La natura nomade di queste popolazioni fu la base per cui la società tedesca iniziò a vedere gli zingari come razza straniera, quindi non ariana.
Gli zingari erano cittadini tedeschi come gli altri; lavoravano come giocolieri nei circhi, danzatori, musicisti e non pochi di loro erano proprietari di sale da ballo. Alcuni servirono nell'esercito, sino a raggiungere la decorazione militare della Croce di Ferro. Con l'avvento del nazismo la condizione di rom e sinti si modificò sensibilmente tanto che alcune istituzioni, come il Servizio informazioni sugli zingari di Monaco di Baviera, che studiavano il fenomeno furono convertiti in Uffici per la lotta alla piaga zingara. I nazisti utilizzarono i dati di questi istituti per avvalorare la tesi per cui gli zingari non appartenevano alla razza ariana e, quindi, dovevano essere catalogati come razza impura. Una pietra miliari per la persecuzione degli zingari fu il libro razzista di Tobias Portschy, edito nel 1938: La questione zingara. Un secondo mattone fondamentale per il pregiudizio contro rom e sinti fu un articolo apparso su una rivista medica a firma di Robert Ritter.
Il medico affermava che gli zingari, a causa delle loro migrazioni, non potevano essere considerati ariani puri ma ariani decaduti, appartenenti ad una razza degenerata. Ritter rincarò la dose scrivendo che gli zingari erano pericolosi per la società tedesca poiché erano portatori di un gene pericoloso, l'istinto del nomadismo. Una volta entrato nelle grazie della popolazione tedesca, Ritter convinse le masse che l'unica soluzione possibile per quella razza degenerata e criminale fosse la sterilizzazione forzata di tutti i nomadi. In seguito alle sue affermazioni fu promosso direttore dell'Istituto di biologia criminale. Da quella posizione privilegiata, Ritter curò personalmente la redazione di 30.000 schede di rom tedeschi. Sulla maggioranza di quelle schede il medico scrisse la parola tedesca evak, assimilabile ad evacuata. Quella singola parola indicava il viaggio dei rom verso i campi di concentramento.
Con l'avanzare delle truppe naziste nel cuore dell'Europa, aumentò considerevolmente il numero di zingari uccisi o deportati nei lager. Le cifre, approssimative, raccolte dai ricercatori nel corso della storia parlano di almeno 500.000 tra rom e sinti morti per mano nazista. Il numero potrebbe essere arrotondato per difetto: basti pensare che 30.000 zingari trovarono la morte nei campi di concentramento di Sobibor e Treblinka, altri 7.000 furono soppressi ad Auschwitz ed almeno 20.000 a Birkenau. Occorre ricordare che uno dei metodi prediletti dai nazisti durante l'attacco all'Unione Sovietica fu la fucilazione di massa. Il fenomeno è facilmente spiegabile con il fatto che gli zingari non sono abituati, per cultura, a vivere in luoghi fissi per lunghi periodi di tempo. I nomadi tendevano ad insorgere e fuggire dai ghetti dove erano reclusi durante l'avanzata nazista. Questo comportamento spinse le autorità tedesche ad eliminare numerosi zingari ancora prima che fossero indirizzati ai lager.
Rita, e Rolanda, come entrano in questa vicenda terribile?
Rita nacque nel 1943 a Wurzburg in una famiglia numerosa. I nonni costruivano cesti per i viticoltori mentre il padre suonava il violino in una banda musicale. La madre di giorno lavorava in fabbrica mentre la sera diventava cantante ed attrice. Con l'avvento delle persecuzioni di massa la vita della famiglia di Rita cambiò radicalmente. Prima di essere sottoposta alla sterilizzazione, la madre di Rita riuscì a rimanere incinta. La Gestapo la convocò per procedere all'aborto immediato. Quando dagli esami risultò che Theresia era in attesa di due gemelle gli fu imposto un ultimatum: se non avesse lasciato le bimbe ai medici nazisti le avrebbero imposto l'aborto e la deportazione immediata ad Auschwitz.
Nella città tedesca d'origine delle gemelle operava il dottor Heyde, seguace di Mengele, specializzato negli esperimenti sui gemelli e non solo. Il dottor Heyde fu il consigliere di Hitler per quanto concerne l'utilizzo del monossido di carbonio per l'eliminazione degli esseri umani internati nei campi di sterminio. La storia dello sterminio delle persone internate iniziò con le iniezioni letali, ma il metodo risultò lento ed inefficace; con l'avanzamento della guerra, momento nel quale i farmaci utilizzati per lo sterminio divennero scarsi, risultò chiaro che sarebbe stato necessario trovare un altro metodo. Le alte gerarchie tedesche optarono per la soluzione proposta da Heyde, ovvero l'uccisione mediante monossido di carbonio puro, a differenza di quanto avvenne in alcuni campi dove il gas era prodotto con i fumi di scarico dei grandi motori.
Theresia, la madre delle gemelle, fu costretta a scegliere l'abbandono delle figlie nelle mani dei medici nazisti, entusiasti di avere a disposizione altri corpi sui quali effettuare i loro devastanti e perversi studi. Theresia, tempo dopo la nascita delle bimbe, si recò all'ospedale dove sapeva essere internate le figlie. Dopo aver convinto un'infermiera, riuscì a vedere Rita. La stessa infermiera, dopo alcune insistenze di Theresia, condusse la madre in una stanza da bagno. In quel luogo tetro e maleodorante vide il corpo della piccola Rolanda giacere all'interno della vasca da bagno. La piccola aveva indosso una maglietta e la testa risultava fasciata. Rolanda era morta in seguito a delle iniezioni di inchiostro negli occhi. Il motivo di questa depravata pratica era quello di tentare di modificare il colore degli occhi dei piccoli reclusi. Rolanda morì, abbandonata a se stessa i una vasca da bagno, che ancora non aveva compiuto 2 mesi.
Theresia, esausta e sopraffatta dal dolore, corse nella stanza di Rita e la prelevò per condurla nella cappella di Santa Rita, dove la fece battezzare. Due giorni dopo le SS si presentarono a casa della famiglia per prelevare la piccola Rita.
Dopo il prelievo forzoso, Theresia perse ogni tipo di rapporto con la piccola Rita sino a quando non giunse a casa della famiglia una lettera, inviata dalla Croce Rossa, che conteneva le istruzioni per andare a riprendere la figlia.
Da quel momento Theresia Seible oscurò ogni notizia circa il passato della figlia, che soffriva di dolori alla testa lancinanti e che fu esonerata dall'obbligo di andare a scuola. I dolori dipendevano dal fatto che anche Rita fu sottoposta al trattamento per il cambio del colore degli occhi.
Ma invano, poiché i suoi occhi sono di un bellissimo colore verde.
Se uno di quei fortissimi dolori non avesse colpito improvvisamente Rita Prigmore, mentre guidava l'automobile, il genere umano avrebbe perduto un importante testimone delle violenze naziste perpetrate ai danni dei bambini.

Fabio Casalini

Bibliografia 
L'Osservatore romano, La testimonianza della zingara Rita Prigmore, vittima delle atroci sperimentazioni naziste: Perché vi racconto la mia storia, aprile 2013 

Robert J. Lifton, I medici nazisti. La psicologia del genocidio, Milano, BUR, 2003 

Giorgio Giannini, Vittime dimenticate, lo sterminio dei disabili, dei rom, degli omosessuali e dei testimoni di Geova, Stampa Alternativa, Viterbo 2011 

Il Giornale, Io, sopravvissuta a Mengele. Voleva cambiarmi gli occhi, febbraio 2013

FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio. Nel 2018 pubblica il suo secondo libro, in collaborazione con Rosella Reali, per la casa editrice Albatros dal titolo E' una storia da non raccontare. 


Victor Hugo e la Nostra Signora di Parigi

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“Ogni faccia, ogni pietra del venerabile monumento è una pagina non soltanto della storia del paese, ma anche della storia della scienza e dell'arte.” (Victor Hugo, Notre-Dame de Paris)

Lo spaventoso incendio (per fortuna meno grave di quanto era sembrato nei primi momenti) che ha distrutto il tetto di Notre-Dame a Parigi ci ha portato a ripercorrere alcuni sentieri letterari e storico artistici che mai come in questo momento ci sembra importante ricordare.
Partiamo da un altro quartiere di Parigi, il Marais, e per la precisione da Place des Vosges per poi tornare indietro con un flashback. In questa piazza, famosa per essere la più antica di Parigi e anche una delle più belle, al numero 6 (Hotel de Rohan-Guémené) abitò Victor Hugo, dal 1832 al 1848.
Non c’è bisogno di dire chi fu Victor Hugo. Di sicuro uno dei più grandi scrittori di tutti i tempi, per Parigi e per la Francia un autentico monumento nazionale, tanto che questa sua abitazione, che negli anni che la videro abitata fu l’anima culturale e intellettuale dell’intera nazione, grazie anche alle frequentazioni e alle ricorrenti riunioni fra le grandi menti di Francia che vi si svolgevano, è oggi uno splendido museo (gratuito) che ci riporta negli ambienti e nelle atmosfere che videro il materializzarsi di tante idee e pensieri che ancora oggi sono parte integrante e irrinunciabile del pensiero occidentale per come lo conosciamo.
Come spesso accadde alle grandi menti, più moderne dei tempi che si trovavano a vivere, anche Hugo subì persecuzioni politiche per le sue idee fino a dover lasciare non solo questa casa ma il proprio paese, alla fine del 1851, per proseguire in esilio la sua attività di scrittore e intellettuale.
Ma quei 280 metri quadri all’angolo di Place des Vosges rimasero comunque un “suo” luogo, fino al suo rientro in Francia nel 1870, e così ancora fino alla sua morte nel 1885 (il suo funerale è ancora oggi ricordato come uno degli eventi di massa più clamorosi della storia, e Hugo resta uno dei pochissimi personaggi, e l’unico scrittore, ad essere stato direttamente portato al Pantheon di Parigi senza passare per alcun cimitero. Caso raro di grandezza riconosciuta già in vita e sublimata al momento dell’addio da una nazione intera). E infatti già nel 1902, ristrutturati in modo da riportarli il più possibile allo stato in cui furono da lui vissuti, divennero un museo nazionale nel quale oggi entrano circa 160.000 visitatori ogni anno.
La stanza “cinese, il suo scrittoio, la camera da letto, gli specchi, le finestre affacciate sulla magnifica piazza sono una tappa indispensabile nei percorsi parigini di chi ama la storia e la letteratura.
Ma il motivo per cui proprio oggi torniamo a parlare di Victor Hugo e della sua Parigi è naturalmente il suo famoso romanzo, intitolato e dedicato alla grande cattedrale: “Notre-Dame de Paris”. La sua storia è di per sé straordinaria, e forse rappresenta proprio il precedente storico più illustre per ciò che riguarda i “pellegrinaggi letterari” a cui spesso chi scrive invita i propri lettori. 
Ciò che infatti fece Hugo con il suo romanzo, scritto e pubblicato a 29 anni, fu non soltanto scolpire i canoni del moderno “romanzo storico” (narrazioni e personaggi di fantasia che si muovono in periodi e ambienti storicamente reali e ben caratterizzati), ma una autentica operazione di recupero culturale attraverso la sua opera, una operazione che oggi definiremmo “mediatica”, che ridisegnò agli occhi della Francia e dell’Europa l’intera idea di medioevo e ne creò letteralmente il simbolo che oggi tutti ammiriamo (e che in questi giorni abbiamo osservato con sgomento sull’orlo dell’abisso).
Accadde infatti che dopo la rivoluzione francese la cattedrale, già spogliata e fortemente danneggiata, sebbene riportata a inizio secolo al suo ruolo originario di Chiesa cattolica, ancora nei primi decenni dell’800 si trovava in stato di semiabbandono, nella necessità di radicali restauri che nessuno si curava di mettere in cantiere, ed era con tutta probabilità destinata alla distruzione, destino che aveva già colpito, e ancora colpirà in seguito, molti edifici medievali parigini e dell’intera Francia. Per la cultura dell’epoca, in effetti, il medioevo era ancora considerato un periodo tetro e barbarico, e il gotico stesso l’espressione architettonica di tale retrograde mostruosità (a pensarci oggi c’è da sorridere o da rabbrividire).
Il romanzo di Hugo piombò così in questa sostanziale e diffusa indifferenza verso le memorie del glorioso passato parigino con l’effetto di una vera e propria bomba. La complessa e coinvolgente storia, drammatica e romantica, i personaggi ambivalenti e portatori di una sofferta umanità, la sottile e mai netta distinzione fra buoni e cattivi fino a portare, all’apice dell’originalità narrativa, il mostruoso e inquietante campanaro ad essere il vero eroe romantico, rapirono i lettori facendo deflagrare il suo romanzo e consacrandolo in pochissimo tempo come uno dei casi letterari più clamorosi della storia moderna.
Ma soprattutto la sua più grande invenzione fu, come denunciato dal titolo, far diventare personaggio principale non un umano, ma un edificio. La cattedrale di Notre-Dameè infatti il vero protagonista di ogni pagina. La sua maestosità, i suoi anfratti, le sue guglie, le sue statue, le sue immense campane che pulsano come un cuore. Ha il suo carattere, la sua personalità, interviene in ogni momento con la sua autorevolezza e la sua forza morale, è di volta in volta rifugio, minaccia, prigione, città, paradiso e inferno. La sua presenza materiale e immateriale influisce sulle vite di tutti, nel bene e nel male, ne determina i destini e dà il vero senso alle loro vite. Ciò che davvero scoprirono i parigini scorrendo le pagine del suo capolavoro, fu la grandezza e l’importanza storica della loro cattedrale, la sua bellezza artistica, il suo animo tenebroso e romantico, la sua incalcolabile importanza filosofica e spirituale.
Si verificò un fenomeno del tutto nuovo. I parigini, che fino a poco prima passavano distratti davanti alle sue mura e ai suoi portali in rovina, cominciarono ad affollarsi e fare la fila per vedere i luoghi raccontati dal romanzo. Le volte illuminate dalla luce che filtrava fra le (ormai poche) vetrate colorate, le scale delle torri, il luogo dove si trovava la cella di Esmeralda, le statue che avevano ripreso vita grazie alla penna dello scrittore. Qualcosa di veramente moderno, se pensiamo ad oggi.
Accadde quindi proprio ciò che, in tutta probabilità, lo scrittore aveva voluto si realizzasse: la curiosità si tramutò in interesse e poi in passione, e nell’andare a visitarla tutti ne scoprirono coi propri occhi le condizioni precarie. Fu così che tutta la Francia iniziò ad impegnarsi per salvare quell’edificio, quel personaggio da romanzo, quella gigantesca costruzione che doveva tornare a meritare il titolo di Signora di Parigi.
Come qualcuno ha giustamente fatto notare, Victor Hugo ha probabilmente nascosto nella sua stessa costruzione narrativa il vero scopo del suo monumentale (è il caso di dirlo) romanzo: nel tentativo di salvataggio di Esmeralda (che peraltro fallisce tragicamente) c’era in realtà un intento di salvataggio ben più ambizioso e di per sé stesso monumentale. Mentre Quasimodo, il povero campanaro Gobbo (brutto a vedersi ma di animo e spiritualità capaci di grandi imprese, vera metafora della stessa chiesa che è anche tutto il suo mondo) tentava con le sue misere forze di salvare la giovane e bella gitana di cui si era perdutamente innamorato, il giovane ma già grande scrittore cercava con la sua penna e la sua arte di salvare la grande cattedrale facendola diventare il simbolo della storia e della grandezza di Francia.
E tanto drammaticamente fallisce l’intento di Quasimodo, così invece quello di Hugo ha un successo clamoroso. Sulla spinta del successo e della diffusione del suo romanzo, nel 1844 (a soli 13 anni dalla prima stampa di Notre-Dame de Paris) inizia un restauro imponente che entro la fine del secolo riporterà la cattedrale alla monumentalità e allo splendore che lo scrittore gli aveva dato con le sue parole (La Flèche, la freccia, che è la famosa Guglia ora crollata fra le fiamme davanti ai nostri occhi, fu costruita a partire dal 1860, su un progetto ispirato a quella originaria che era già andata distrutta alla fine del 1700).
Come si sa, il restauro ebbe anche interventi fantasiosi, di relativo rigore storico e filologico, e come molti si sono affrettati a dire in questi giorni (alcune volte fuori luogo) la Notre-Dame che conosciamo non è l’originale capolavoro medievale, ma molto più la rappresentazione di come l’ottocento immaginava le cattedrali medievali.
Ma ciò che, proprio per questi stessi motivi e per questa sua storia del tutto particolare, pochi hanno invece pensato di sottolineare, è che la Notre-Dame che tutti conosciamo non è soltanto la grande cattedrale descritta e raccontata dal grande scrittore, ma è proprio la sua cattedrale, quella di Victor Hugo, ricostruita il più fedelmente possibile a come lui ce l’ha voluta raccontare.
Se non è l’unico caso di luoghi che prendono (o riprendono) vita a partire dalle pagine di grandi scrittori, lo è senz’altro per l’enormità delle sue dimensioni, per l’epoca in cui avvenne e per la spettacolarità del risultato. Si tratta di letteratura, di grande letteratura, materializzata in un capolavoro architettonico grazie al lavoro di migliaia di artisti ed artigiani. Come se dalle pagine di Melville prendesse vita negli oceani una vera balena bianca gigantesca, viva, piena di cicatrici, e che nonostante gli attacchi forsennati di Achab, anche ferita fino all’inverosimile, restasse viva e implacabile continuando a sfrecciare fra le onde.
Perché Moby Dick è immortale.
E lo è anche Notre-Dame.

Alessandro Borgogno

Victor Hugo (Besançon26 febbraio 1802 – Parigi22 maggio 1885)
Notre-Dame de Paris  (prima edizione 1831)
Cattedrale di Notre-Dame de Paris

ALESSANDRO BORGOGNO
Vivo e lavoro a Roma, dove sono nato il 5 dicembre del 1965. Il mio percorso formativo è alquanto tortuoso: ho frequentato il liceo artistico e poi la facoltà di scienze biologiche, ho conseguito poi attestati professionali come programmatore e come fotoreporter. Lavoro in un’azienda di informatica e consulenza come Project Manager. Dal padre veneto ho ereditato la riservatezza e la sincerità delle genti dolomitiche e dalla madre lo spirito partigiano della resistenza e la cultura millenaria e il cosmopolitismo della città eterna. Ho molte passioni: l’arte, la natura, i viaggi, la storia, la musica, il cinema, la fotografia, la scrittura. Ho pubblicato molti racconti e alcuni libri, fra i quali “Il Genio e L’Architetto” (dedicato a Bernini e Borromini) e “Mi fai Specie” (dialoghi evoluzionistici su quanto gli uomini avrebbero da imparare dagli animali) con L’Erudita Editrice e Manifesto Libri. Collaboro con diversi blog di viaggi, fotografia e argomenti vari. Le mie foto hanno vinto più di un concorso e sono state pubblicate su testate e network nazionali ed anche esposte al MACRO di Roma. Anche alcuni miei cortometraggi sono stati selezionati e proiettati in festival cinematografici e concorsi. Cerco spesso di mettere tutte queste cose insieme, e magari qualche volta esagero.



La bocca sollevò dal fiero pasto quel peccator

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I termini cannibale e cannibalismo derivano dalla parola canniba, riportata per primo da Cristoforo Colombo. Il termine era utilizzato dagli amerindi delle Piccole Antille per designare alcune popolazioni dedite all'antropofagia. Cristoforo Colombo, di ritorno da uno dei suoi viaggi nei Caraibi, utilizzò la parola canniba per indicare i costumi dei nativi delle terre che aveva visitato, gettando le basi per giustificare il massacro di quelle popolazioni da parte dei conquistadores. Grazie all'esploratore genovese, la parola cannibalismo è sinonimo della pratica di mangiare i proprio simili. Il termine antropofagia indica un organismo che si nutre di esseri umani. Cannibalismo è impiegato per indicare l'atto di mangiare membri della propria specie mentre antropofagia è sinonimo di cannibalismo umano. 
Cibarsi di carne umana non era prerogativa delle popolazioni indigene dei Caraibi poiché, nel corso del tempo, sono emersi reperti archeologici di ossa umane che sembrerebbero attestare il cannibalismo rituale ad un tempo prima del tempo. Sino alla descrizione di Colombo, nel mondo occidentale non esisteva un termine per definire il consumo di carne umana da parte degli uomini, malgrado esistesse da sempre. Tuttavia non è facile stabilire quanto ci sia di veritiero nei singoli episodi tramandatici sotto varie forme nel Medioevo, dove il cannibalismo viene spesso presentato in maniera stereotipata o usata per sottolineare una punizione divina. In Occidente una delle tipologie più frequenti di tale pratica è il cannibalismo dettato da emergenze alimentari. Una delle prime cronache in Europa a riportare tale comportamento è quella di Idazio, vescovo di Chaves in Portogallo. L'opera tratta degli eventi occorsi tra il 379 ed il 468. In seguito all'irruzione dei vandali nella penisola iberica, nel 409 si scatena una carestia terribile, al punto da spingere il genere umano a cibarsi di carne umana sotto la pressione della fame, e le madri, anche loro, si nutrivano del corpo dei loro infanti dopo averli uccisi e cucinati. (R. W. Burgess, 1993). 
La stessa sorte sembra essere toccata ai cittadini romani nel 551, quando la città era assediata dalle truppe di Alarico. Procopio di Cesarea riferisce che una matrona romana aprì le porte al nemico, per compassione dei concittadini che stavano morendo di fame e di stenti ed erano arrivati a mangiarsi tra loro. Notizie similari le ritroviamo nell'anno 546 in merito all'assedio di Piacenza, dove i romani, sprovvisti di vettovaglie, furono spinti dalla fame a nutrirsi contro natura, mangiandosi tra loro. (Procopius Caesariensis, De Bello Vandalico). 
Un'altra grande carestia si ebbe nel 793 e di tutte le cronache dell'epoca solo gli Annales Mosellani riportano casi di cannibalismo: “la fame era cominciata l'anno precedente, si aggravò a tal punto che costrinse le persone non solo a cibarsi di cose immonde, ma in verità, anche a causa dei nostri peccati, essa costrinse l'uomo a mangiare l'uomo, il fratello a mangiare il fratello e la madre a mangiare i propri figli”. 
Fenomeni di cannibalismo si registrarono nella grande carestia dell'anno 868. Tre documenti diversi riferiscono del ricorso a tale pratica. Negli annali Sanctae Columbae Senonensis è descritta la carestia che colpì l'Aquitania e la Borgogna. La cronaca parla di fames et mortalitas inaudita, al punto che non si riusciva nemmeno a seppellire i morti. In un solo giorno nel villaggio di Sens furono rinvenuti 56 cadaveri. Si scoprì che nello stesso luogo uomini e donne uccidevano e mangiavano altri uomini. La cronaca aggiunge un episodio molto indicativo e particolare: una donna venne ospitata in una casa, in seguito fu uccisa e fatta a pezzi; fu messa sotto sale per essere cucinata e mangiata dal padrone di casa e dai suoi figli. 
Spesso, nelle cronache di quel tempo, appare evidente che la fame e il cannibalismo sono strumentalizzati per illustrare la collera divina abbattutasi su una regione. 
Un posto a parte meritano le cronache di Rodolfo il Glabro, monaco benedettino ed uno dei maggiori cronisti medievali. Scrittore incline al simbolico e al demoniaco, approccia le problematiche del tempo senza una successione cronologica degli eventi, cercando di conferire un ordine ed una spiegazione al caos della realtà. Rodolfo racconta della carestia degli anni 1005-1006 con le seguenti parole: Nello stesso periodo si ebbe una gravissima carestia, che durò cinque anni in tutto il mondo latino. Non c'era paese della cui indigenza e mancanza di pane non si sentisse parlare. Gran parte del popolo morì consunta dall'inedia. Era una fame orrenda che induceva a nutrirsi non solo con le carni di animali schifosi e di rettili, ma perfino di uomini, donne, bambini, senza riguardo neppure per i più stretti legami di sangue. 
Accanto al cannibalismo dettato dalla fame esiste un'altra forma variamente attestate che è l'uso di cibarsi della carne del nemico. In Italia le testimonianze storiche non mancano, tra queste possiamo citare Bernardino da Siena. Il teologo fornisce esempi di uccisione dei nemici: essi venivano lacerati, il loro cuore strappato dal petto e divorato crudo, mentre i corpi venivano arrostiti e poi mangiati. (Bernardino da Siena, Prediche volgari di San Bernardino da Siena). 
Casi di antropofagia e di divoramento dei cadaveri dei nemici si registrarono a partire dal XII secolo in Sicilia e poi ancora nei corso dei secoli in vari regioni d'Italia, fino alle soglie dell'epoca moderna nella Milano del 1476, quando il corpo dell'assassino di Gian Galeazzo Maria Sforza fu trascinato per la città ed alcuni cittadini gli morsero il cuore, il fegato e la mano. 
Una particolare rielaborazione del tema del cannibalismo, che resisterà a lungo nelle culture popolari europee, affiora nelle lunghe dispute teologiche medievali ed inquisitoriali riguardo i fenomeni di licantropia, vampirismo e stregoneria. Per comprendere sino a che punto fosse arrivata la follia stregonica con le accuse di cannibalismo rituale infantile basterebbe leggere quanto riportò il frate domenicano J. Nider nel suo celebre Fornicarius. Secondo il frate, comportandosi come lupi che divorano la propria prole, alcune streghe oltre ad aver praticato una serie di aborti avevano cotto i loro stessi figli appena nati e li avevano mangiati. L'opera di Nider fu una delle principali fonti del famoso Malleus Maleficarum, la guida per gli inquisitori scritta dai domenicani Kramer e Sprenger. 
Nella stregoneria vengono a confluire tutte le accuse di omicidio e di antropofagia, e tale sincretismo è destinato a segnare un immaginario che, attraverso la letteratura, perdura sino ai nostri giorni.

Fabio Casalini

Bibliografia 

A. Montanari, Il fiero pasto. Antropofagie medievali, Bologna, il Mulino, 2015 

E. Petoia, Storia segreta del Medioevo, Roma, Newton Compton Editori, 2018

FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio. Nel 2018 pubblica il suo secondo libro, in collaborazione con Rosella Reali, per la casa editrice Albatros dal titolo E' una storia da non raccontare. 

Henri Arnaud e l’orgoglio valdese

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A Torre Pellice in Piemonte vi è un monumento, commissionato nel 1886 allo scultore torinese Davide Calandra che ne eseguì il bozzetto (ora alla Gipsoteca Civica di Savigliano), realizzato nel 1925 dal suo allievo Emilio Musso. La statua in bronzo, su basamento in pietra di Luserna, rappresenta Herni Arnaud vestito da ufficiale dell’epoca con la Bibbia infilata nella cintura. 
Ma chi era Henri Arnaud? 
Raccontiamo la sua gloriosa storia. 
I valdesi sono l’unica setta a suo tempo considerata eretica che essendosi trasformati in chiesa riformata sono sopravvissuti fino a noi fra varie vicissitudini e terribili persecuzioni. Nati come un movimento pauperistico sotto la guida di Pietro Valdo nel 1200 furono duramente perseguitati nei secoli successivi ma a differenza dei catari o di altre sette definite eretiche la chiesa cattolica non riusci a eliminarli nonostante anni di durissima repressione. Vivendo nella clandestinità, e spesso ritirandosi in zone montane e poco accessibili il movimento valdese sopravvisse fino al XVI secolo e aderì alla Riforma protestante calvinista nel 1532 col sinodo di Chanforan che segnò una svolta decisiva per il futuro della comunità. Henri Arnaud è stato uno dei loro principali protagonisti della loro travagliata storia. 
Henri nacque nel 1641, ad Embrun città francese che si trova nella valle della Durance, da Francesco, che era un nobile ugonotto, e da Margherita Grosso, oriunda di Dronero, ma egli si considerò sempre un abitante delle valli valdesi, ove emigrò adolescente con i suoi genitori. Per completare gli studi si poi trasferì in svizzera dove seguì studi teologici sia a Basilea, nel 1662-1664 che all'accademia di Ginevra e poi studiò anche in Olanda. Nel 1670 egli ritorna nelle valli valdesi, per esercitare il ministero pastorale. 
In seguito alla revoca dell'editto di Nantes da parte di Luigi XIV con l’ editto di Fontainebleau, anche Vittorio Amedeo II di Savoia si adeguò emanando un n editto nel gennaio 1686, che ordinava l'abolizione del culto riformato dei valdesi, la distruzione dei loro templi, l'esilio dei pastori e la consegna dei figli al clero, affinché venissero educati nel cattolicesimo. Il breve periodo di relativa pace per i valdesi trascorso dopo le stragi e le persecuzioni delle cosiddette Pasque Piemontesi era per loro purtroppo terminato. Si avvicinava di nuovo un duro periodo di lotta sofferenza e persecuzioni 
Henri Arnaud, pastore a Torre Pellice, era padre di una numerosa famiglia, consigliò la resistenza armata alla popolazione valdese, ma all’ inizio gli abitanti esitarono di seguire i suoi consigli attendendo una soluzione diplomatica del problema. Due ambasciatori dei cantoni svizzeri che erano venuti a intercedere per loro presso il duca senza ottenere risultato poiché lo trovarono irremovibile, proposero ai Valdesi di emigrare in massa. Il duca Vittorio Amedeo II di Savoia, emise altro editto il 9 aprile 1686 imponendo ancora più gravi condizioni , imponendo a loro l'esilio, l'obbligo di vendere le loro terre entro dieci giorni e presentarsi disarmati ai commissari ducali. Alla popolazione esasperata, non rimase che seguire i consigli dell’ Arnaud, presero le armi e dopo alcuni scontri, in cui lo stesso Henri partecipò come da valoroso combattente, cacciarono le forze ducali e quelle francesi inviate come rinforzo da Luigi XIV. In seguito le ostilità cessarono , per l’ inganno di false promesse da parte dei comandanti franco-sabaudi. 
Henri Arnaud fu costretto a fuggire con la famiglia a Ginevra e poi a Neuchâtel. I valdesi rimasti a combattere furono massacrati a tradimento, quelli catturati morirono di fame e stenti in prigionia, salvo qualche migliaia di superstiti, ai quali Vittorio Amedeo II concesse nel 1687, di raggiungere la Svizzera. Henri Arnaud. si prodigò per aiutare gli esuli, i quali ebbero generoso un generoso aiuto dagli svizzeri, che cercarono poi di avviarli in Germania, ove si sperava di sistemarli come agricoltori. Ma questo progetto allora fu abbandonato, in seguito alla guerra della lega d'Augusta e all'avanzata francese in Germania: del resto, gli stessi valdesi erano molto riluttanti, per l’ irriducibile attaccamento alla loro terra. 
Henri Arnaud in esilio concepì allora l'idea di un loro rimpatrio a mano armata e tentò di attuarlo nell'estate dell'anno 1688. Fallito questo primo tentativo, andò in Olanda a sollecitare l'aiuto di Guglielmo III di Orange e, ottenutolo, riorganizzò segretamente gli esuli. Si fece dare istruzioni militari, risultate poi preziose, da un vecchio mitico guerrigliero valdese, che aveva combattuto nei precedenti scontri durante le cosiddette Pasque Piemontesi Giosuè Janavel, italianizzato in Gianavello un altro eroe della lunga epopea valdese, anch'egli profugo a Ginevra. Henri Arnaud partì da Prangins, presso Ginevra, con un migliaio di armati, tra valdesi e ugonotti, la notte del 25-26 agosto 1689 (15-16 agosto, secondo il calendario giuliano allora seguito dai protestanti: di qui l'uso dei valdesi di celebrare il 15 agosto, con adunate popolari, il ricordo del Glorioso Rimpatrio). Con una romanzesca lunga marcia attraverso le Alpi, piombò in Val di Susa, sbaragliando un corpo di 2.500 francesi a Salbertrand, e poi nelle valli valdesi, ove impegnò una accanita guerriglia contro le forze nemiche enormemente superiori di numero. Combattimenti e disagi decimarono i suoi uomini, Ma Henri Arnaud. poté salvarli, trincerandosi nella fortezza naturale del monte Balziglia, in Val Germanasca, secondo i consigli avuti dal Janavel. Resistette sino al maggio 1690, allorché fu snidato dall'artiglieria e ridotto all'estremo. 
Ma come molte volte succede la sorte cambiò, Vittorio Amedeo II passò dall'alleanza col Re Sole al campo della lega d'Augusta e allora chiese a Henri Arnaud. di collaborare alla guerra contro i Francesi. Per ottenere l'appoggio dei valdesi nella difesa dei confini il duca emanò l'Editto di Tolleranza nel maggio 1694 che garantiva la libertà di culto, vennero liberati i carcerati e ritornarono altri profughi, il ghetto alpino pur essendo un'area marginale era nuovamente libera per la propria fede anche se ciò provocò le irate proteste del papa Innocenzo XII. 
Col "Glorioso Rimpatrio" capeggiato dall'Arnaud. fu assicurata per sempre l'esistenza della popolazione valdese del Piemonte. Sospinto dal suo temperamento, irrequieto e ambizioso, l'Arnaud. continuò a partecipare alla lotta contro il Re Sole come colonnello dei suoi valdesi e poi come agente segreto di Vittorio Amedeo II in Svizzera. Nel 1698 il Savoia strinse con Luigi XIV un accordo, per cui otteneva Pinerolo e la Val Perosa, ma fu costretto ad espellere dal suo ducato i riformati nati nei domini del Re Sole. Anche l Henri Arnaud., come nativo francese di Embrun, dovette di nuovo esulare, insieme ai valdesi della Val Perosa, alla volta della Svizzera. Andò in Inghilterra a sollecitare nuovi aiuti da Guglielmo III e questa volta sistemòi profughi valdesi nell'Assia e nel Württenberg, ove fondarono villaggi, oggi germanizzati, ma che conservano traccia delle proprie origini piemontesi nei toponimi (Villar, Pinasca, Perosa) e nei cognomi. 
Henri Arnaud. Divenne pastore a Schönenberg (Württenberg), da dove ripartì più volte per viaggi in vari paesi. Tra l'altro, durante la guerra di successione spagnola, ricomparve nel 1704 nelle Valli Valdesi: ma è in dubbio che abbia avuto altri incarichi militari o religiosi, mentre è certo che nel 1707 torno a vivere nuovamente a Schönenberg. 
Subito dopo il Rimpatrio, aveva sollecitato un amico di Ginevra, il lucchese Vincenzo Minutoli, professore di teologia, a scrivere la storia delle sue gesta. L'opera fu composta dal Minutoli nel 1690, sulla base di informazioni dell' Henri Arnaud. e dai diari tenuti da due ufficiali della spedizione (Reynaudin e Huc), ma restò inedita, forse per le circostanze politiche del tempo. Morto, il Minutoli, l' Arnaud . apportò modesti ritocchi al manoscritto e lo pubblicò col titolo: Histoire de la Glorieuse Rentrée des Vaudois dans leurs Vallées... par Henri A., pasteur et colonel des Vaudois, s. l. con una dedica alla regina Anna d'Inghilterra, tosto sostituita da un altra al duca del Württenberg. La paternità dell'opera, che ebbe anche traduzioni in olandese, inglese e tedesco, è stata solo di recente restituita al Minutoli. 
Henri Arnaud si spense a Schönenberg nel 1721 
I Valdesi negli anni successivi tuttavia furono costretti a rimanere confinati nell'area, soprannominata poi "Ghetto alpino", prevista fin dai tempi dell'Accordo di Cavour (stipulato con Emanuele Filiberto "Testa di Ferro" nel 1561). La piena libertà religiosa giunse finalmente soltanto nel 1848, grazie alle "Lettere Patenti" del 17 febbraio, che precedettero di poco lo Statuto del re Carlo Alberto. 

Luciano Querio

Bibliografia
Marcello Craveri L’ Eresia Mondadori 1996 

Della Histoire de la Glorieuse Rentrée Pignerol 1880. 

E. Comba, E. A., pastore e duce dei Valdesi, Firenze 1889 

Henri. Arnaud., sa vie, et ses lettres,La Tour 1889 

M. Viora, Storia delle leggi sui Valdesi di Vittorio Amedeo II, Bologna 1930 

A. Pascal, Le Valli Valdesi negli anni del martirio e della gloria, in Bollettino di studi valdesi, LVIII (1937) 

Henri Arnaud in Treccani.it Enciclopedia Online

LUCIANO QUERIO
Sono di origine canavesana essendo nato a Cuorgnè nel 1958. Sono sempre stato amante dell’arte, della storia e della filosofia medievale. Nel tempo libero mi diletto a fotografare. Pur amando i viaggi mi sento profondamente radicato alla mia terra. Così parafrasando Cesare Pavese il paese dove sono nato ho creduto da bambino che fosse tutto il mondo. Adesso che il mondo in piccola parte l' ho visitato davvero, ho visto che è fatto di città e di tanti piccoli paesi… perciò da bambino non mi sbagliavo poi di molto...Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, nel fiume e nella montagna che ti guarda dall’ alto c'è qualcosa di tuo che anche quando non ci sei resta sempre ad aspettarti…

Danuta, la donna con la borsetta

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Era il 13 aprile del 1985 quando a Växjö, Svezia, alcuni aderenti al Partito del Reich Nordico, movimento d'ispirazione nazista fondato nel 1956 sempre in Svezia, decisero di manifestare attraversando la città. Durante lo svolgimento della mesta processione, un uomo scattò una fotografia entrata nella storia: la donna con la borsetta (in svedese Kvinnan med handväskan). Il fotografo, Hans Runesson, immortalò una donna nel momento in cui picchiava, con la propria borsetta, un nazista.
La fotografia, apparsa il giorno seguente su alcuni quotidiani svedesi, fece ben presto il giro del mondo grazie alla pubblicazione sui quotidiani inglesi due giorni dopo gli avvenimenti della piccola cittadina svedese.
La donna protagonista della fotografia si chiamava Danuta Danielsson, mentre il nazista è Seppo Seluska. 
Danuta non poteva sapere che, qualche anno dopo gli eventi di Växjö, Seluska si sarebbe macchiato di un crimine orrendo ovvero l'uccisione di un ebreo omosessuale. Il nazista Seluska prima d'uccidere l'uomo decise di torturare l'ebreo omosessuale, caratteristiche etnico-sessuali che voleva reprimere nella popolazione, cercando di ricordare, sempre che avesse letto un libro nella propria vita, come i suoi predecessori lo facessero all'interno dei campi di sterminio.
Danuta era una donna d'origine polacca, emigrata in Svezia dopo il matrimonio. La madre fu internata nel campo di sterminio di Auschwitz, dal quale riuscì ad uscirne viva. 
Danuta era una donna fragile e quel giorno a Växjö volle scaricare la propria rabbia nei confronti di alcuni giovani ignoranti che cercavano, e cercano, di far ripiombare la popolazione umana nel buio della metà del secolo scorso.


Danuta, la donna fragile, riuscì nel proprio intento e, forse inconsciamente, smosse le coscienze delle persone che attraversavano le vie della città. Nei momenti successivi al lancio della borsetta sulla testa di Seluska, i cittadini presenti iniziarono ad insultare i nazisti. Alcuni si rifornirono nelle case e nei negozi della cittadina di uova ed iniziarono a bersagliare i manifestanti. Ben presto si radunò una folla di oltre 1000 persone intorno ai nazisti, otto in tutto compreso l'omicida-torturatore Seppo Seluska. I cittadini spinti dalla forza iniziarono ad avvicinarsi minacciosi ai manifestanti, riuscendo nell'intendo di strappare le bandiere svedesi. I nazisti si dispersero correndo verso la stazione, dove furono raggiunti dalla polizia locale. 
Dopo la pubblicazione sui quotidiani inglesi della fotografia della Donna con la borsetta, la cittadina di Växjö fu presa d'assalto dai giornalisti; tutti volevano parlare con Danuta Danielsson, la coraggiosa donna che si oppose alla manifestazione nazista.


Purtroppo Danuta, donna con una condizione emotiva fragile, si tolse la vita tre anni dopo, nel 1988, dopo un lungo periodo di cura. 
Il gesto di Danuta Danielsson si potrebbe far risalire al fatto che fosse incapace di reggere al clamore scatenato dal suo gesto ed alla stampa che chiedeva, a gran voce, di conoscere la storia della sua vita. 
La fotografia di Hans Runesson ebbe un grandissimo eco a livello mondiale e fu selezionata fotografia svedese dell'anno nel 1985 e, più tardi, come fotografia del secolo dalla Società Storica Fotografica Svedese. 
L'eco del coraggioso gesto di Danuta non si spense con la sua morte: nel 2014 una scultrice svedese, Susanna Arwin, realizzò una statua in miniatura basandosi sulla fotografia di Runesson.


Nello stesso anno partì un progetto per la realizzazione di una statua bronzea da collocarsi nella cittadina svedese. Purtroppo alcune esponenti locali del Partito di Centro, hanno bloccato tale progetto poiché la statua avrebbe promosso e giustificato un gesto violento.
Inoltre un esponente locale del partito ricordò che la stessa Danielsson non avrebbe voluto essere ricordata in quel modo. La città di Växjö, comunque, ricorda con affetto il gesto di Danuta e non è raro trovare delle borsette appese alle varie statue della città.

Fabio Casalini


Bibliografia
Berättelsen om det förra århundradets bästa foto, Dagens Nyheter, 15 febbraio 2014

Tanten med väskan " blir staty i brons, Dagens Nyheter, 2 aprile 2014

Judah Ari Gross, Swedish town nixes statue of woman hitting neo-Nazi, in The Times of Israel, 2 marzo 2015


FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio. Nel 2018 pubblica il suo secondo libro, in collaborazione con Rosella Reali, per la casa editrice Albatros dal titolo E' una storia da non raccontare. 

William B. Seabrook: vita e avventure di un cannibale gentiluomo

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Lo vedete quell’uomo, appoggiato al bancone del bar? Sì, quello con i baffi. La testa che ciondola sul bicchiere di whisky.
Il suo nome è William Buehler Seabrook. Seguitemi, sediamoci qui, lontani dal trambusto del jazz e dagli schiamazzi del bar, e vi racconterò la sua storia… Cosa bevete? Beh, visto che parliamo di lui, vi consiglio un cocktail che ha brevettato mentre era ricoverato in manicomio e cercava di disintossicarsi. L’ha chiamato Asylum Cocktail: una parte di gin, una parte di pernod e un tocco di granatina, non shakerato e su cubetti di ghiaccio.
Già, William Seabrook è davvero “bigger than life”. A dire il vero, la sua vita sarebbe sufficiente a riempire due o tre esistenze “normali”. Se cercate il suo nome su Wikipedia, scoprirete che è uno scrittore della cosiddetta “lost generation”, la generazione di scrittori americani che raggiunse la maggiore età in concomitanza con la Prima Guerra Mondiale. A differenza di Hemingway, Steinbeck, Dos Passos e compagnia, Seabrook ha dei titoli piuttosto esotici da vantare nel curriculum: lo si ricorda come esploratore e avventuriero, come occultista, come sadico dedito al bondage e, addirittura, come cannibale. Inoltre, ha un merito del tutto incontestabile: è l’uomo che ha introdotto la parola “zombie” nel vocabolario americano, trapiantandola dall’isola di Haiti, sulla quale aveva assistito a frenetiche cerimonie voo-doo.
Cominciamo dall’inizio: William Buehler Seabrook nasce nel 1884 a Westminster, nel Maryland. Suo padre è un avvocato di successo che decide di convertirsi in ministro protestante, condannando la famiglia alla povertà. Sua madre ha una personalità forte e dispotica e ha con il bambino un rapporto problematico: si ipotizza che la successiva passione di Seabrook per il sadomasochismo e le donne legate si origini da questo trauma irrisolto.
All’età di otto anni viene affidato ai nonni paterni, che avranno una forte influenza sulla sua personalità: dalla nonna “Piny”, un’anziana signora con un debole per il laudano, erediterà l’interesse per la spiritualità e la mistica, dal nonno, editore di un giornale della Lega della Temperanza, la passione per la scrittura e la magia della carta stampata.
Finito il college, il giovane Seabrook viene introdotto come impiegato nelle ferrovie, ma abbandona il lavoro per diventare un cronista del giornale locale, l’Augusta Chronicle. Ben presto, però, la vita del giornalista di provincia inizia a stargli stretta, così William intraprende la prima delle molte fughe che caratterizzeranno la sua esistenza: fughe dal grigiore della vita borghese, dalla routine delle convenzioni e, in ultima analisi, fughe da se stesso.
Si trasferisce in Svizzera, dove studia filosofia e metafisica all’Università di Ginevra. In Europa, conduce una vita vagabonda: si mantiene scrivendo piccoli reportage di viaggio, visita monumenti e cattedrali, impara il Francese e l’Italiano. Tornato negli Stati Uniti nel 1912, farà tesoro di queste sue conoscenze linguistiche ed entrerà nelle grazie del celebre cantante lirico Enrico Caruso (1873-1921), diventando un benestante e apprezzato giornalista d’opera. Risale a questo periodo il suo primo matrimonio con Katherine Pauline Edmondson.
Gli agi e la fama, però, non riescono ad appagare le ansie metafisiche di William, che si sente come un topo imprigionato “in una luminosa, pulita e scintillante trappola”, ma pur sempre una trappola. Sceglie così di rincorrere la “vita vera”, il sogno di un’esistenza autentica e senza compromessi, nella speranza di scrivere un’opera letteraria capace di lasciare un segno. La prima Guerra Mondiale che sta insanguinando l’Europa gli pare una buona occasione per inseguire l’avventura: proprio come Hemingway, Seabrook si arruola volontario nell’American Field Service nel 1915, prestando servizio in Francia, dove guida le ambulanze. Una bomba fumogena al cloro gli danneggia i polmoni e nel 1916 la sua esperienza bellica giunge già al termine: rientrato negli Stati Uniti, il benestante suocero gli da in gestione un fattoria con annessi campi di cotone in Georgia, trasformandolo, suo malgrado, in un “gentiluomo del Sud”.
L’agricoltura e l’economia domestica non sono le maggiori doti di Seabrook, che passa il tempo a bere bourbon fatto in casa e a cacciare conigli per sfuggire alla noia. La vita coniugale, inoltre, non appaga le fantasie di bondage e donne incatenate che infestano la mente dello scrittore, che trova in Deborah Luris una complice e un’amante per assecondarle.
Tra il 1917 e il 1918, il “latifondista per caso” riceve una visita importante: Aleyster Crowley (1875-1947) trascorre “sei deliziose settimane nel Sud”, nella sua tenuta. Di Crowley si è detto tutto e il contrario di tutto: molto spesso viene citato come “satanista”, sebbene la classificazione sia impropria. In realtà lo “stregone di Cambridge” fu un esoterista raffinato, cresciuto nell’alveo dell’Ordine Ermetico della Golden Dawn, un’associazione occultistica britannica di fine Ottocento, che raccoglieva intellettuali e letterati di spicco quali William Butler Yeats. Crowley si distaccò polemicamente dall’ordine e operò una sorta di rivoluzione copernicana in seno alle correnti occultistiche, dando origine al sistema denominato Magick, una rielaborazione psicologica della magia, ottenuta ibridando la tradizione occidentale con influssi orientali quali il tantrismo.
La sedicente Bestia 666 aveva molto in comune con Seabrook, a partire dall’amore per l’avventura (nel 1902 Crowley fu protagonista della prima spedizione per raggiungere la base del K2, ma non riuscì a scalarlo). Entrambi, poi, erano caratterizzati da una curiosità insaziabile, da costumi sessuali decisamente disinibiti, dal disprezzo per la vita borghese e dalla predilezione per gli stati di coscienza alterati (mentre Seabrook predilesse sempre l’alcol, Crowley fu un pioniere nell’uso di droghe, inclusa l’eroina).
Non è un caso, dunque, che i due si intendono bene tra di loro : conversano di esoterismo, fanno esperimenti medianici, e Seabrook finanzia una spedizione di Crowley sul fiume Hudson. Qui il teurgo trascorrerà quaranta giorni in totale solitudine, scrivendo frasi occulte (tra cui il suo celebre “Fai ciò che vuoi”) in gigantesche lettere vermiglie sulle scogliere affacciate sul fiume. Per ragioni sconosciute, tuttavia, l’idillio tra i due uomini andò guastandosi: il 20 settembre 1942, alla morte di Seabrook, il cosiddetto “uomo più malvagio del mondo” annotò nel suo diario: “il cane-suino W.B. Seabrook si è ucciso, finalmente”.
Per Seabrook è tempo di nuove avventure: nel 1925, viaggia in Medio Oriente, dove scriverà il suo primo libro dal titolo “Adventures in Arabia”, nel quale racconta, con un rispetto raro a quei tempi, la vita dei beduini del deserto, dei drusi e dei misteriosi Yaziditi, conosciuti come gli “adoratori del diavolo”.
Il libro ha un ottimo riscontro di pubblico e, sull’onda del successo, Seabrook intraprende la sua seconda avventura, questa volta nel Mar dei Caraibi, ad Haiti, per indagare sulle oscure pratiche del Vudu. Anche in questo caso, l’esperienza si trasformerà in un libro, Magic Island, pubblicato nel 1929. Come anticipato sopra, il libro introduce lo zombie al grande pubblico, consegnando alla cultura occidentale un archetipo destinato a fiorire rigogliosamente nell’ambito cinematografico. Cercando di spiegare questo stato di esistenza sospesa tra la vita e la morte, lo scrittore ipotizza che le causa non sia di origine soprannaturale, ma piuttosto chimica, riconducibile a qualche sostanza somministrata ai cosiddetti “morti viventi”, capace di alterare in modo permanente il loro stato percettivo. Con questa teoria, Seabrook anticipa i lavori della scrittrice Zora Neale Hurston e dell’etnobotanico Wade Davis, dal quale il regista Wes Craven ricaverà il suo film più bello, Il serpente e l’arcobaleno.
Durante il suo soggiorno ad Haiti, Seabrook incontra un’anziana sacerdotessa di nome Maman Célie, che diventerà sua protettrice e guida nei misteri del vudu. In sua compagnia, lo scrittore assisterà ad alcune cerimonie: tra galli decapitati e capre sgozzate, vedrà i corpi degli astanti venire posseduti dai “loa” e divincolarsi con movimenti frenetici. Seabrook non ha la spocchia né il distacco metodologico dell’antropologo: beve rum e sangue in compagnia dei celebranti, prende parte ai riti anziché giudicarli dall’alto di una pretesa superiorità culturale. Al momento della pubblicazione, tuttavia, gli stereotipi razzisti si insinueranno negli articoli da lui venduti alle riviste: Seabrook non può essere ricordato come un paladino dei diritti degli afro-americani, ma gli deve comunque venire riconosciuta un’apertura mentale non comune a quei tempi.
Al viaggio ad Haiti, segue quello in Africa, in Costa d’Avorio, nel 1929. Questa volta, l’obiettivo del reporter è il cannibalismo, che sarà il fil rouge della sua inchiesta. Dopo insistenti richieste al re tribale Mon Po, il giornalista riesce a farsi ammettere a un pasto cannibale, pratica che è stata progressivamente abbandonata perché proibita dalle autorità coloniali francesi. Nel corso del pasto, tuttavia, si rende conto di essere stato ingannato: la carne che gli viene servita è quella di una scimmia. Ciononostante, nel libro che seguirà, Jungle Ways del 1930, l’autore dichiarerà di essersi nutrito di carne umana, con vino rosso e riso per contorno.
La sincerità è una dote che non può venire contestata a Seabrook, che nei suoi libri squadernò senza esitazione e senza veli pratiche e perversioni capaci di scandalizzare anche un lettore contemporaneo. L’aver dichiarato il falso in un reportage doveva creargli non pochi problemi, o, forse, il desiderio non realizzato lo tormentava. Tornato a Parigi dal suo viaggio africano, Seabrook decide di colmare la lacuna: acquista da un obitorio il collo di un ciclista morto in un incidente stradale e lo consuma, dopo averlo fatto cucinare da un cuoco parigino (al quale viene presentata come “carne di capra africana”). Il verdetto di Seabrook è che la carne umana “sa di vitello”, e contraddice gran parte delle descrizioni precedenti di esploratori ed etnologi, che la volevano più affine al maiale.
A Parigi, lo scrittore, giunto all’apice del suo successo, ha una nuova compagna, Marjorie Worthington, che sposerà nel 1935. In Francia, il cannibale frequenta il fior fiore degli intellettuali dell’epoca: James Joyce, Thomas Mann, Aldous Huxley, Gertrude Stein, che gli darà dei suggerimenti per migliorare la sua prosa. Seabrook fuma oppio, tiene feste in cui donne incatenate pendono dal soffitto e soprattutto beve, sprofondando progressivamente nel vortice dell’alcolismo. L’artista surrealista Man Ray documenta con foto alcune delle pratiche BDSM dello scrittore e addirittura disegna alcuni dei collari e degli strumenti di restrizione che Seabrook usa per legare le sue modelle: la serie di foto si chiamerà “Le fantasie del Signor Seabrook”.
Il vizio del bere si impossessa progressivamente dell’anima di William Seabrook, trasformando lo scrittore acclamato in un ubriacone incapace di scrivere. Dopo aver toccato il fondo, decide di farsi internare nel manicomio di New York, il Bloomingdale Insane Asylum, dove trascorrerà sette mesi nel tentativo di liberarsi dal demone della bottiglia. Ne uscirà ristabilito, ma con l’errata presunzione di potersi concedere ancora un bicchiere ogni tanto: la sua vittoria sarà soltanto un successo temporaneo, preludio ad eccessi ancora peggiori. La sua esperienza di disintossicazione diventa uno dei suoi libri più riusciti: Asylum, del 1935.
Uscito dal manicomio, Seabrook e la sua nuova moglie si ritirano nella campagna newyorkese di Rhine Back, sul fiume Hudson, una roccaforte dell’alta borghesia americana. Manco a dirlo, la sonnolenta vita di campagna gli viene ben presto a noia, così il fienile della proprietà viene adibito a luogo di evasione e teatro di “esperimenti” sul paranormale. Tra le sue pareti, Seabrook mette in scena rituali dal sapore crowleyano, sui quali innesta le sue fantasie sessuali, che prevedono donne consenzienti e retribuite incatenate e “punite” con la deprivazione della possibilità di nutrirsi e di respirare. Il risultato di queste sperimentazioni, a metà tra il soprannaturale e il “dilettevole”, sarà il libro Witchcraft: its power in the world today, del 1940.
La relazione con la moglie Marjorie viene progressivamente incrinata dagli “esperimenti” di Seabrook: il loro matrimonio si conclude nel 1939, ma lo scrittore, ormai completamente prono all’alcol e deciso a “bere fino alla morte”, si risposerà ancora una volta, nel 1942, con la reporter di guerra Constance Kuhr, che darà alla luce il suo unico figlio.
Mentre la drammatica vita personale di Seabrook segue i suoi meandri tortuosi, il mondo è dilaniato dalla Seconda Guerra Mondiale. Il nostro tenta, per un’ultima volta, di evadere da sé stesso e dal fondo della bottiglia arruolandosi come reporter nell’esercito, ma il suo piano non va a buon fine a causa di un incidente stradale.
Dimesso dall’ospedale, minato nel fisico e nella mente da anni di eccessi, William Seabrook si suicida con una massiccia dose di sonniferi, il 20 settembre del 1945.

Avete finito il vostro drink? Si è fatto tardi e l’aria fumosa di questo bar mi è venuta a noia. Ora che conoscete la sua storia, potete pensare quello che volete del Signor Seabrook: potete condannarlo, ammirarlo o cercare di comprenderlo.
Potete trovare buone ragioni per amarlo, e altrettanto valide motivazioni per odiarlo. Avrete ragione in ogni caso, ma a lui, di sicuro, non importerà molto dei vostri giudizi.

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L’articolo che avete letto è in gran parte ispirato alla graphic novel The abominable Mr. Seabrook di Joe Ollman, pubblicato da Drawn & Quarterly nel 2017. Il fumetto è un vero e proprio capolavoro, maturato in dieci anni di lavoro. Senza dubbio, la migliore biografia a fumetti che chi scrive abbia mai letto. Attualmente, il testo, pubblicato in Canada, non è ancora stato tradotto in Italiano.

Gian Mario Mollar

GIAN MARIO MOLLAR
Classe 1982, si è laureato a pieni voti in Filosofia presso l’Università di Torino, con una tesi sul neoplatonismo magico. Uomo dagli interessi eclettici e disparati, dalla pesca all’esoterismo, dal trekking alla letteratura, da bambino ha incontrato Tex e Zagor, e da allora prova un’attrazione irresistibile per la Frontiera Americana, che rappresenta per lui il luogo dell’avventura e del sogno. Attualmente collabora con siti internet quali Farwest.it e Axis Mundi, nonché con la rivista Tepee di Soconas Incomindios, un comitato di solidarietà con i popoli nativi americani. Nei suoi scritti cerca di evidenziare aspetti insoliti e poco conosciuti dell’epopea western, il cosiddetto Weird West, una terra di mezzo in cui folclore e leggenda si fondono con la storia. Nel gennaio 2019 uscirà il suo primo libro, I misteri del Far West, per i tipi di Edizioni Il Punto d’Incontro.



Rugby Club La Plata, i desaparecidos della palla ovale

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Nel bar del Rugby Club La Plata ancora oggi sono appese le fotografie di alcuni dei venti giocatori che facevano parte della squadra negli anni settanta: uomini che sparirono, probabilmente uccisi, per mano del terrorismo di stato. Vicino a quell'immagine una targa, del 2006, che ricorda il trentennale del colpo di stato in Argentina ed il settantaduesimo compleanno della nobile squadra di rugby de La Plata.
Per comprendere cosa accadde ai giocatori della squadra di rugby dobbiamo fare un passo indietro: si ritene che tra il 1976 ed il 1983, in Argentina, sotto il regime della Giunta militare, siano scomparsi almeno 30.000 dissidenti o sospettati tali. Le modalità di sequestro e sparizione delle vittime fu ideata per raggiungere due obiettivi: il primo era quello di evitare quanto si verificò in seguito al Golpe cileno del 1973 (che aveva portato al potere la giunta militare guidata da Pinochet) dove le immagini dei dissidenti all'interno dello stadio di Santiago del Cile avevano fatto il giro del mondo, sollevando l'indignazione di cittadini e capi di stato. Il secondo era quello di terrorizzare la popolazione poiché la mancata diffusione delle notizie riguardanti i dissidenti limitava fortemente ogni altro possibile dissenso al regime.
Le modalità di sparizione dei dissidenti risultano sconcertanti: gli arresti avvenivano mediante rapimento grazie all'operato di squadre non ufficiali di militari. Questi terroristi di stato giungevano a bordo di una Ford Falcon verde scuro senza targa, piombando nelle abitazioni di notte con l'intento di sequestrare intere famiglie. L'assoluto mistero sulla sorte dei rapiti fece si che le stesse famiglie delle vittime tacessero per paura. La conseguenza principale di questa procedura fu che, in Argentina ma soprattutto nel resto del mondo, tale fenomeno rimase ignorato.
Le vittime una volta arrestate venivano rinchiuse in luoghi segreti di detenzione. I sequestrati venivano torturati per mesi. La sorte di molti fu terribile. Secondo testimonianze degli stessi militari coinvolti, molti desaparecidos, questo il nome con il quale sono conosciute le vittime del terrorismo di stato argentino degli anni settanta, furono imbarcati a bordo di aerei militari, sedati e lanciati nel Rio de la Plata, o nell'oceano. La quasi totalità di queste persone fu gettata dagli aerei con il ventre squarciato da una coltellata affinché fossero divorati dagli squali. Questa tipologia di omicidio di stato divenne nota come vuelos de la muerte. Una seconda parte dei rapiti sparì nei centri di detenzione clandestini. Uno di questi, rimasto celebre, ebbe sede nella scuola di addestramento della Marina Militare ESMA di Buenos Aires.
Il massimo responsabile di questi raccapriccianti avvenimenti fu Jorge Rafael Videla, generale e dittatore dell'Argentina tra il 1976 ed il 1981. Videla arrivò al potere con un colpo di stato ai danni di Isabelita Peron. Il suo governo fu contrassegnato dalle costanti violazioni dei diritti umani e dai contrasti frontalieri con il Cile, che per poco non sfociarono in una sanguinosa guerra tra i due paesi sudamericani. Fu condannato a due ergastoli e 50 anni di carcere per crimini contro l'umanità. Scontò la pena in un carcere di Buenos Aires durante gli ultimi anni della sua vita, che si concluse il 17 maggio del 2013. Il suo regime dittatoriale, militarista ed anticomunista, è stato paragonato al fascismo dai suoi oppositori.
Torniamo al bar del Rugby Club La Plata. La targa inaugurata nel 2006, come anticipato, non ricorda una vittoria, ricorda i giocatori della squadra di rugby ammazzati, o spariti, durante gli anni della dittatura militare. Furono diciassette i giocatori ad essere eliminati, uno dopo l'altro, dalle squadre della morte di Videla. Sparirono tutti: i piloni, le tre quarti ala, i tallonatori e le terze linee. Sparì il capitano Mariano Montequin. Sparì la coppia di mediani. Solo uno riapparve: Otilio Pascua, il numero 10. Il mediano di apertura, praticamente il regista della squadra, non riapparve vivo: il suo corpo fu ripescato in un affluente del Rio Lujan dopo, circa, un mese di permanenza in acqua. Pascua fu rinvenuto con un peso attaccato ai piedi e le braccia legate dietro la schiena.

Perché il regime decise di eliminare i giocatori di una squadra di rugby? 
Tutto iniziò nell'aprile del 1975. 
Hernan Roca, mediano della terza squadra, sparì nel nulla. Hernan non era un dissidente politico, era un semplice ragazzo dedito al rugby. Le squadre della morte lo prelevarono da casa scambiandolo per il fratello Marcelo, appartenente ai Montoneros, un gruppo radicale della sinistra peronista. Quando i rapitori si accorsero d'aver prelevato il ragazzo sbagliato lo ammazzarono e si liberarono del corpo. 
Una domanda sarà corsa nella mente dei più attenti: ma se la dittatura iniziò nel 1976, perché Hernan Roca fu rapito ed ucciso nel 1975? 
Già prima del Golpe militare erano attive le squadre della morte della Tripla A, ovvero Alianza anticomunista argentina. 
Dopo il rinvenimento del cadavere del povero Hernan cambiò radicalmente l'atteggiamento dei ragazzi del Rugby Club La Plata. Alcuni scelsero di emigrare all'estero, la maggior parte decise di rimanere e di continuare a giocare a rugby. Decisero anche di iniziare a fare politica. I ragazzi coniugarono la passione sportiva con la militanza politica ed all'interno dello spogliatoio si formò una cellula del PCML, il partito marxista-leninista argentino. I ragazzi del Rugby Club La Plata continuarono a giocare. E vincere. Purtroppo iniziarono anche le sparizioni. Gli assassini di stato. Ogni giocatore prelevato dalle squadre della morte veniva sostituito da un ragazzo delle squadre giovanili. Un solo giocatore della squadra iniziale rimase in vita, Raul Bandarian. Fu grazie a lui che la storia dei 17 desaparecidos della squadra di rugby de La Plata venne conosciuta da tutto il mondo. 
Ritengo sia interessante concludere con le parole di Raul Bandarian: «Mi chiedo da sempre come sia accaduto che siamo stati l' unica squadra a soffrire tutto questo in una percentuale così alta. Quando iniziammo a giocare a rugby, alla fine degli anni Sessanta, eravamo da poco usciti dal Collegio Nazionale, che dipende dall'università di La Plata. Credo che quella formazione da scuola pubblica ci abbia segnati: eravamo tutti ragazzi attenti a quello che accadeva intorno a noi, e fare politica fu una scelta naturale. I vertici della società si rendevano conto di quel che accadeva in spogliatoio: ma non ci hanno mai chiesto niente, né ci hanno mai discriminato».

Fabio Casalini


Bibliografia
Miguel Bonasso, Ricordo della morte, il Saggiatore, 2012

Enrico Calamai, Niente asilo politico. Diplomazia, diritti umani e desaparecidos, Feltrinelli, 2006

la Repubblica, Quei ragazzi del rugby. La squadra desaparecida, 2 aprile 2006

FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio. Nel 2018 pubblica il suo secondo libro, in collaborazione con Rosella Reali, per la casa editrice Albatros dal titolo E' una storia da non raccontare. 

Il Grande Torino: una lezione di vita

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Non sono un tifoso del calcio, non l’ho mai seguito e non mi ha mai particolarmente attirato probabilmente un po’ in controtendenza rispetto a buona parte degli italiani. A onore del vero, unica eccezione per me era quella di seguire la trasmissione “90° minuto” di Paolo Valenti che, poco dopo il termine degli incontri quando ancora si giocava solo di domenica, trasmetteva una breve sintesi delle partite del campionato di calcio di serie A. I miei amici, in fasce di età tra loro molto eterogenee, tifano squadre diverse: mi sono però reso conto che ce n’è una parte piuttosto corposa che, da una vita, è affezionata al Torino. Mi è capitato recentemente di imbattermi in alcuni articoli e trasmissioni che ricordano il Grande Torino degli anni 40 in occasione della 70° commemorazione della strage di Superga che mi hanno profondamente toccato e fatto riflettere. Se chiedete a un torinese dove fosse e cosa stesse facendo il 4 maggio 1949, difficilmente quel giorno lo avrà dimenticato. Probabilmente in molti direbbero che il cielo plumbeo era solcato da nuvole gonfie di pioggia e l’aria era cupa quasi come volesse anticipare cattivi presagi. Alle 17:03 l’aereo, che riportava a casa la squadra da Lisbona dove avevano disputato un’amichevole contro il Benfica, per un guasto meccanico all’altimetro e il pessimo tempo si schiantò contro il muraglione del terrapieno posteriore dellaBasilica di Superga. Dallo schianto non si salvò nessuno delle 31 persone a bordo: in un battito di ciglia tutti i 18 giovanissimi giocatori della squadra del Torino, 3 allenatori, altrettanti dirigenti e giornalisti e 4 uomini dell’equipaggio persero la vita. Quello fu il giorno che avvolse in una fiabesca malinconia il mondo del calcio e i tifosi del Grande Torino ma anche quello che consacrò la squadra alla leggenda.
Durante la 2° Guerra Mondiale la vita civile sociale subì dei contraccolpi molto forti e anche il periodo post-bellico immediatamente successivo alla fine del conflitto vedeva l’Italia in estrema difficoltà nel tentativo di riprendersi. Di fronte a un paese sfibrato da anni di guerra non si spegne la voglia di divertirsi per provare a ricominciare: i ragazzi del Torino vanno a giocare al Filadelfia nonostante quando suona il preallarme per i bombardamenti, debbano abbandonare tutto per rifugiarsi nei sotterranei dei Grandi Magazzini nella vicina Piazza Galimberti. 
Torino, nel 1945, è una delle prime città ad insorgere e la liberazione restituisce al paese un po’ di normalità: il pallone comincia a rotolare nuovamente negli stadi che si gremiscono sempre più di persone. Dal '43 in poi incominciano gli anni d’oro del Grande Torino che spesso vinceva con dei punteggi degni di una partita di tennis più che una di calcio: il Torino incarnava il simbolo della rinascita del paese e la voglia di riscatto del suo popolo. 
Nel 1946 gli italiani scelgono la democrazia: sono ancora anni difficili dominati da stenti e povertà, tuttavia timidamente ottimismo e leggerezza prendono piede e il paese ritorna a sorridere. In anni di difficile situazione politica che crea divergenze e spaccature lo sport sembra riunire e mettere d’accordo molti: campioni come Coppi e Bartali e imprese come quelle del Grande Torino aiutano a riacquistare fiducia e speranza in un paese messo in ginocchio. 
Eccoli i giocatori del Torino: la meglio gioventù dell’austera città Sabauda dai volti segnati dalle difficoltà di una vita dura che nessuno avrebbe meritato. Non si sentono dei supereroi, sono uomini veri e semplici che vivono una vita normale e che è possibile incontrare per le vie, in un caffè o nella poltrona accanto al cinema. Tre di loro, single e guasconi, condividono un appartamento in affitto in Via Nizza a Torino, due amici gestiscono in comune un bar che avevano messo a disposizione come quartier generale della squadra, uno - timido e introverso - aveva paura di tuoni e fulmini, un altro in campo imprecava da fare paura ma in fondo in fondo aveva un cuore grande per tutti, c’era chi era disposto a farsi spaccare le caviglie pur di portare avanti un’azione a favore del Torino. Persone semplici e straordinarie che, insieme, rappresentavano l’emblema della forza del Torino ed erano in grado di emozionare le persone. A caricare la squadra – ove ce ne fosse bisogno – c’è Oreste Bolmida, classe 1893, di mestiere capostazione a Torino Porta Nuova. Quasi per scherzo una volta suona la sua tromba d’ordinanza, come invito a “dare di più” sul campo: tale sprono viene colto dai giocatori che escono dal campo vittoriosi. Da allora la carica fu un’arma infallibile che veniva suonata all’abbisogna ma anche nei momenti in cui il pubblico desiderava divertirsi anche se il Torino stava già vincendo come in quella storica partita del 2 Maggio del 1948 quando l’Alessandria ne paga le spese con un incredibile 10-0.
Al tempo il presidente della squadra è Ferruccio Novo che sceglie di affiancare Luigi Ferrero a Ernst-Egri-Erbstein per dirigere la panchina del Grande Torino. Dopo due anni di fila di successi, Ferrero si dimette perché ritiene che i ragazzi siano così bravi da non aver bisogno di un allenatore quindi la sua presenza è superflua: rimanere gli sembrava quasi di rubare lo stipendio. In effetti i giocatori del Grande Torino sono così in gamba che ben 10 di loro sono convocati come titolari per comporre la nazionale italiana: un record, pare, ancora imbattuto.
I ragazzi sono incredibilmente affiatati in campo e fuori, hanno voglia di combattere e fame di vincere sono capaci di buttare il cuore oltre l’ostacolo per ripartire da zero quando tutto sembra perduto ribaltando risultati apparentemente impossibili da recuperare. Sono l’esempio per la squadra giovanile con la quale disputano regolarmente partite di allenamento, mediamente una alla settimana, che si dice siano sempre molto combattute. Valentino Mazzola capitano del gruppo è un condottiero altruista, un giocatore unico e irripetibile, capace di spendersi in campo e nella vita sacrificandosi per gli altri e per la squadra spronando e rendendo migliori anche i propri compagni.
Nel campionato 48/49 il Grande Torino risulta ancora la squadra da battere e i bambini conoscono la formazione a memoria, cuciono lo scudetto sulle maglie granata e godono di questo gioco raffinato accanto a padri e nonni. I quotidiani sportivi e la radio raccontano ogni settimana le imprese dei granata sia in Italia che fuori dai confini nazionali, purtroppo però si avvicina sempre più la data in cui il Grande Torino è destinato ad abbandonare la cronaca per entrare nella leggenda.
Per non venir meno alla parola data da Valentino Mazzola a Ferreira, capitano del Benfica ormai prossimo al ritiro, di disputare un’amichevole in suo onore, il Torino parte alla volta di Lisbona. Purtroppo da quel viaggio non tornarono vivi. Avrebbero potuto non partire, anche perché alcuni non erano nemmeno in perfette condizioni: ma la parola e l’onore venivano prima di tutto! 
Torino offrì il più illustre dei propri palazzi per ospitare e rendere onore a questi ragazzi, troppo presto portati via da un destino ingiusto. Una folla interminabile e silenziosa fluì nella camera ardente fino alla mezzanotte, quando furono chiuse le porte, per rendere l’ultimo omaggio ai loro beniamini. Il giorno successivo, in una città livida e ammutolita, sfilarono le bare su camion aperti attraversando Piazza Castello. A chiudere il corteo il pullman rosso del Torino, che aveva portato in giro per Italia ed Europa questi valorosi ragazzi, oramai tristemente vuoto.
Lo scudetto venne assegnato al Torino, che lo aveva già vinto con alcune settimane di anticipo, ma le ultime 4 partite furono giocate dalla squadra primavera che cercava di raccogliere un testimone troppo grande da portare e un’eredità troppo pesante da accogliere. Quando scesero in campo e venne annunciata la formazione lo stadio era gremito all’inverosimile, a ogni nome scandito della primavera ciascun tifoso associava il nome occupato nel medesimo ruolo dai giocatori scomparsi del Grande Torino. La squadra proverà a ricostruire quello che era stato, ma ormai i giocatori a cui ispirarsi, motore di quella squadra, non c'erano più. 
Ho pensato molto a questi protagonisti che, nonostante avessero poco e nulla e fossero sfiancati da una vita così dura, sono riusciti a creare un gruppo affiatato e coeso. Nessuno cercava gloria personale ma occasioni per dimostrarsi solidali, la squadra e il pubblico venivano prima di loro stessi: erano amati prima per quello che erano che per quello che facevano. Penso anche all’allenatore che si giudicava superfluo riconoscendo il valore dei ragazzi che dirigeva e ritenendo così di non meritarsi lo stipendio che gli veniva dato in quanto il suo valore aggiunto era praticamente ininfluente. Probabilmente impensabile al giorno d’oggi salvo qualche caso troppo raro e comunque evidentemente non degno di nota come meriterebbe. 
Spesso si accosta lo sport al business o al management, ma questa storia, che coinvolge tutto l’ecosistema aziendale, ci insegna che anche nelle difficoltà è possibile, molto spesso con poco, trovare la volontà per farcela e diventare persino migliori.
Penso a come sarebbe stato bello poter affiancare e imparare da persone così, magari con livelli di studio modesti ma con carattere e capacità umane di uno spessore che oggi difficilmente è possibile trovare. Avere fonti di ispirazione ed esserlo allo stesso tempo per gli altri in una macchina bel oliata dove tutti gli ingranaggi girano per un unico scopo comune senza rivalità e meritando il giusto rispetto per il lavoro svolto anche se apparentemente marginale. 
Dunque onore al Grande Torino nel 70° anniversario della terribile tragedia e grazie per aver contribuito a una piccola lezione di vita.

Marco Boldini

MARCO BOLDINI
Nato nel 1969 sposato, 3 figli e il gatto Balthazar, 47 anni ma in realtà ventisettenne con vent’anni di esperienza, cittadino del mondo e milanese di nascita ma miazzinese e, più recentemente, tainese di adozione. Volubile e curioso cerco quando posso di fuggire dalla noia e dalla routine, ho potenzialmente sempre la valigia aperta, pronto a passare da un aeroporto all'altro, a conoscere lingue, persone, culture e paesi diversi che ritraggo in maniera dilettantistica con la macchina fotografica. Amo in uguale maniera la montagna, che ti parla con i suoi silenzi e ti regala indimenticabili albe e romantici tramonti; da qui forse l’interesse per questo blog.



Sami blood

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“La mia casa è nel mio cuore, migra con me ... tu lo sai fratello, tu lo capisci sorella. Ma come faccio a dirlo agli stranieri che si sono diffusi ovunque, come posso rispondere alle loro domande che provengono da un mondo diverso”.
 (Trekways of the Wind, Nils-Aslak Valkeapää) 

I Sami, comunemente conosciuti come Lapponi, rappresentano gli ultimi popoli indigeni europei, stanziati già diversi millenni prima di Cristo nell’area artica e subartica di Norvegia, Svezia, Finlandia e Russia. Per molti anni si è creduto che le loro origini fossero asiatiche, ma oggi giorno si può affermare con una certa sicurezza che i Lapponi appartengono ad uno dei più antichi ceppi europoidi. Già l’illustre ricercatore svedese, Carl Von Linné (Linneo) nel suo “Iter lapponicum” (siamo nella metà del ‘700) dichiarò che nonostante numerosi viaggi e studi, non era riuscito a scoprire, nei tratti dei suoi conterranei del nord, alcun carattere comune a qualsiasi altro gruppo umano. Secondo alcune teorie successive, come quelle degli antropologi francesi ottocenteschi Topinard e De Quatrefages, l’unione dei dati della statura e del colore della pelle con gli indici cefalici e nasali, lasciava ipotizzare che i Lapponi appartenessero ad un’unica popolazione paleo europea - cui forse facevano parte anche sardi e liguri - che al sopraggiungere delle genti di lingua indoeuropea si sarebbe rifugiata verso zone più inospitali e meno battute (come le montagne pirenaiche e alpine oppure, nel caso dei Sami, a nord del Mar Baltico verso la tundra polare). 
I sirges durante il Calf marking [fotografia di Andrea Barghi]

Oggi giorno il maggior numero di Lapponi si trova in Norvegia, stanziati principalmente lungo le coste ed i fiumi (Sami del mare) dediti a caccia, pesca e ad un piccolo artigianato per turisti. In Svezia invece bisogna distinguere i Lapponi di montagna da quelli di foresta, i primi hanno conservato in gran parte l’antica cultura con l’allevamento delle renne attraverso forti transumanze stagionali, per due volte l’anno, dalla pianura ai pascoli e viceversa, mentre i secondi abitano con le loro mandrie nei recessi delle fitte foreste di conifere, effettuando solo brevi migrazioni di carattere locale. I lapponi finnici e russi sono in gran parte allevatori di foresta. I circa 75.000 abitanti della terra che loro chiamano “Sapmi” mantengono oggi una forte identità culturale e possono vantare un proprio Parlamento transnazionale, il Sámediggi, che, pur dovendo rispondere giuridicamente ai suddetti Stati “ospiti”, possiede una propria bandiera ed un giorno di festa “nazionale”, il 6 Febbraio, data del primo Congresso Sami nel 1917. Come tutti gli altri popoli nativi del mondo, tuttavia, anche queste genti hanno alle spalle una storia di colonizzazione, soprusi e repressioni. 
Il vento sibila sullo Jertàsuoloj [fotografia di Andrea Barghi]

La prima documentazione letteraria sulle genti del nord è quella dello storico Romano Publio Cornelio Tacito, che narra dei barbari “Fenni”, descrivendoli “… straordinariamente selvaggi e orribilmente poveri; non hanno armi né cavalli, né dimora fissa … la caccia alimenta tanto gli uomini che le donne … ma essi credono che in questo modo si sia più felici di quelli che sudano nei campi, s’affaticano nelle case, trafficano le loro fortune e quelle altrui fra la speranza e il timore; senza curarsi di uomini e dèi hanno conseguito la cosa più difficile: cioè non sentono più l’affanno del desiderio…”. Lo storico dei Goti, Procopio, ci parla di un popolo nordico di razza non germanica, che chiama “Scritifinni”, nomadi dediti alla caccia e alla pesca che egli giudica orrendamente selvaggi perché non coltivano la terra, non conoscono l’amabile ebbrezza data dal vino, tutti rivolti ad una continua e spietata caccia per sopravvivere nelle immense e gelide foreste. Anche un narratore longobardo, Paolo Diacono, cita un “popolo di sciatori” che, intravisto muoversi tra i ghiacci perenni, nell’alternanza di lunghi periodi astronomici di luce e buio, riusciva a convivere con animali molto simili ai cervi. Al di là dei primi avvistamenti per lo più casuali e sporadici, anche grazie all’indole pacifica e riservata dei Sami, le bellissime ed inospitali terre dell’aurora boreale, restarono per secoli completamente avvolte dal mistero, così come i loro abitanti che venivano descritti dagli esploratori norreni come esseri dalle apparenze semi umane. Ma la terra dei Sami era ricchissima di risorse naturali e, già tra il X ed il XIII secolo, essi dovettero arretrare verso nord, oltre il circolo polare artico o nelle zone montuose dell’entroterra, sospinti da vichinghi e finnici ai quali facevano gola le molteplici risorse offerte dall’ambiente artico e subartico. Gli indigeni che provavano ad assimilarsi a questi nuovi invasori, venivano sottoposti a tributi, per cui per salvaguardare la propria indipendenza e le proprie tradizioni culturali non c’era altro modo che spostarsi in zone difficilmente accessibili. Dal 1200 in poi iniziarono le spedizioni dei missionari per convertire i Lapponi al cristianesimo, raggiungendo l’apice con la diffusione del luteranesimo in scandinavia (sec. XVI). 
La mandria di renne [fotografia di Andrea Barghi]

L’antica religione sciamanica era mal vista dai nuovi venuti ed il cristianesimo cominciava a minare alle basi la sopravvivenza della cultura nativa, così come avveniva in altre parti del mondo, in particolare nel continente americano. Come gli indiani d’America i Sami ritenevano che la natura, gli animali, le foreste, i fiumi e le montagne, fossero dotati di un’anima. Tutto il creato aveva la stessa importanza dell’uomo. Credenza ovviamente inconcepibile per i missionari cristiani. Per i nativi artici ogni essere vivente è dotato di almeno due anime, una corporale ed una libera; quest’ultima può esistere anche al di fuori del corpo, sul quale esercita una forma di protezione. I fenomeni naturali come la nascita, il tuono, il vento, il sole, erano di cruciale importanza e formavano oggetto di culto. Particolarmente inviso ai portatori del vangelo era il culto di una “dea madre” (Madder Akka) quale divinità principale portatrice della vita. Tra i cacciatori di renne, infatti, il Dio celeste supremo (Jubmel) era stato trascurato in favore di Madder Akka e di altre divinità inferiori, ritenute più vicine agli eventi naturali e all’uomo. Ecco quindi la presenza di dei come Atjek “il padre”, un uccello padrone del tuono. Divinità simili si riscontrano anche tra alcune tribù nordamericane come i Pawnee che adoravano un essere supremo di nome Tirawa Atius (che in quella lingua significa appunto “padre”) così come presso i Cheyenne, gli Arapaho ed i Winnebago il dio del tuono era raffigurato sotto forma di uccello. Come in America settentrionale anche gli sciamani Sami erano in grado di “comunicare a distanza”, cadendo in trance al suono dei propri tamburi avvertivano il verificarsi di eventi straordinari molto distanti dal villaggio. (Fenomeni del genere accaddero ancora nella primavera del 1986 quando gli ultimi sciamani narrarono che una nuvola tossica stava dirigendosi verso il Finmark: era la nube di Chernobyl e il danno per gli allevatori di renne fu enorme). 
Delta del Ràhpaàdno [fotografia di Andrea Barghi]

Tale potere di relazionarsi con spiriti e divinità mediante l’uso dei tamburi sacri, agli occhi dei luterani apparve subito opera del diavolo. Sappiamo che già dal 1500 tali oggetti di culto cominciarono ad essere ricercati dai missionari per essere bruciati come veicoli di peccato e di perdizione. La situazione raggiunse aspetti fortemente critici con la scoperta di giacimenti minerari nel nord della Svezia. Sulle colline di Kiirunavaara e di Luossavaara arrivarono da sud carovane di coloni che espropriavano le terre ai lapponi, riducendo spesso intere comunità indigene in schiavitù. I diversi motivi che portarono alla perdita dei territori ancestrali, alla conseguente diminuzione della fauna cacciata in grande quantità dai coloni nonché alle difficoltà di continuare le antiche pratiche religiose e tradizionali, resero sempre più difficile il sostentamento e la sopravvivenza stessa delle comunità. I Sami tuttavia, contrariamente ad altre popolazioni aborigene sparse nel mondo, potevano contare su un notevole spirito di adattamento: assorbirono l’impatto con la “civiltà” estranea affiancando i nuovi dogmi a quelli tradizionali, in modo da mantenere vivi, almeno in parte, i tratti distintivi della loro cultura. Questo modo di fare accondiscendente, tuttavia, non bastava agli ecclesiastici norvegesi che, nel 1700, completarono la politica di distruzione sistematica di ogni simbolo pagano, già avviata 200 anni prima. Ogni oggetto sciamanico che si rifacesse alle antiche credenze, in particolare i tamburi rituali, i pugnali sacri ed i “vejtte” (gli idoli di legno) dovevano essere consegnati alle autorità cristiane. Coloro che si erano presentati davanti ai pastori luterani videro i loro tamburi sacri accatastarsi in un mucchio e prendere fuoco: nelle fiamme avrebbero dovuto scomparire anche tutte le antichissime credenze e le memorie millenarie di un popolo. 
Aurora boreale [fotografia di Andrea Barghi]

Gli antichi canti furono vietati, le feste tradizionali durante le quali si svolgevano giochi e gare e gli abituali raduni in occasione di festività antichissime in onore dei “passe-olmak” (semidei non bene identificati la cui origine si perdeva nel tempo) tutto venne proibito come fonte del male. Ma i tamburi, qua e là, rullarono ancora nascostamente tra i fitti boschi per invocare dagli dèi della tundra, delle acque e delle montagne le grazie concesse nei tempi trascorsi. Gli sciamani affermavano che gli dèi non li avrebbero mai abbandonati, anche se alcuni di loro vennero sorpresi e bruciati vivi coi loro tamburi ad Arjeplog nel 1692. Nel 1723 veniva emesso un regolamento, per il quale presso ogni chiesa doveva funzionare una scuola di istruzione religiosa, la cui direzione veniva affidata al “segretariato lappone del culto”. La religione animistica scomparve nelle foreste e sulle montagne dove clandestinamente gli sciamani continuavano a compiere gli antichi riti. Grazie a questi rifugi climaticamente inespugnabili, una conversione quasi totale della gente lappone avvenne molto tardi, verso la fine dell’800. Le autorità norvegesi imposero al popolo Sami una rigida politica di norvegesizzazione che prevedeva tra l’altro, la rinuncia della propria lingua e cultura e l’obbligo all’apprendimento e all’uso del norvegese. 
Bambini Sami in fila per la scuola

Nel 1922 la Svezia, anticipando la Germania nazista, fu il primo Paese ad aprire un centro statale per lo studio della razza, l’eugenetica. L’obiettivo era migliorare la razza nordica, una categoria rispetto alla quale i Sami erano considerati l’antitesi (come anche altre minoranze e i disabili fisici e psichici). Negli archivi dell’Università di Uppsala, si trovano 12.000 scatti di individui di cosiddetta razza inferiore, spesso nudi, contrapposti a soggetti più atletici definiti nordici. I Sami furono studiati come oggetti per provarne l’inferiorità e lo Stato si imbarcò in una campagna di sterilizzazione forzata. (Al filmfestival di Venezia 2016, una giovane svedese di origine Sami, Amanda Kernell, ha vinto il premio di regista emergente con il film «Sami Blood», Sangue sami, rievocando, come una doccia gelata, le tristi vicende del secolo scorso attraverso gli occhi di una ragazza di 14 anni). 
Scena tratta dal film "Sami Blood"

Un importante contributo per far conoscere e, finalmente, rispettare la cultura di questi popoli lo diede il libro di Johan Turi “Vita del Lappone”, pubblicato a Copenaghen in doppia lingua danese / Sami nel 1910 e tradotto successivamente in molte lingue. L’opera è considerata la più grande testimonianza linguistica e letteraria Sami. Le prime parole del libro sono emblematiche: “… il lappone non riesce a dire come stanno le cose veramente. E il motivo è che non capisce molto quando sta dentro una stanza chiusa, quando il vento non gli soffia nel naso. Se ci sono pareti ed è chiuso sopra la testa, i suoi pensieri non riescono a scorrere, né si trova bene nei boschi folti, dove l’aria è calda; ma quando è in alta montagna, allora sì che il suo cervello è davvero limpido …”. La giovane antropologa e artista danese Emilie Demant Hatt incontrò Johan Turi nel 1904, divenendo sua amica. Turi aiutò la studiosa a portare a termine il suo progetto di vivere per un anno insieme agli allevatori di renne. La donna, nel raccontare il suo rapporto con Johan dichiara: “scivolava da un argomento all’altro, il suo linguaggio ricco di immagini scorreva sul racconto con grandi tratti, aprendomi le porte di un mondo straniero, misterioso … raccontando di destini umani, di magia e di strani avvenimenti. La saga delle lande deserte risuonava nelle mie orecchie, immagini meravigliose scorrevano davanti ai miei occhi.” Attraverso quelle parole, forse per la prima volta, il mondo conosceva la bellezza di una cultura antica strettamente legata alla natura del grande nord europeo, agli animali e alla loro stretta simbiosi con l’uomo. Sentiva per la prima volta parlare dei mitici “Ulda”, specie di folletti che vivono sotto terra in possesso di particolari facoltà magiche, oppure del “Noaide”, il guaritore che grazie al suo tamburo magico cadeva in trance compiendo ogni tipo di divinazione. Per la prima volta il mondo conosceva lo “Joik” il canto spirituale basato su millenni di senso di appartenenza ad un posto, ad una famiglia e ad un popolo. Un assolo fortemente ritmico con cui il lappone celebra persone care, animali, luoghi e aspetti della sua vita, connettendosi con i sentimenti più profondi espressi dal tema cantato e permettendo la comunicazione mistica tra epoche, esseri umani e paesaggi inimitabili. 
Halo sul lago Saggat [fotografia di Andrea Barghi]

“Il libro di Turi rappresenta una supplica, un’ardente implorazione che viene dal cuore della Lapponia, un’accorata invocazione di giustizia verso i nomadi della Scandinavia. Non una richiesta di assistenza per i poveri, bensì un’esortazione alla comprensione e al diritto di vivere”
(Emilie Demant) 

Sergio Amendolia 

Ringraziamenti
Nella Pasqua 2018 ho avuto modo di percorrere i sentieri innevati della Lapponia Svedese; di questo ringrazio il mio amico, fotografo, scrittore ed editore Andrea Barghi il quale, con la sua scelta di vivere e lavorare sul tetto d’Europa, mi ha guidato con competenza e passione attraverso luoghi magici e incantati, facendomi conoscere la magnifica cultura dei Sami. 

Bibliografia
Roberto Bosi, Lapponi – sulle tracce di un popolo nomade, Nardini; 

Johan Turi, Vita del Lappone, Adelphi; 

AA.VV., Laponia - nature and natives, Varda 

Salvatore Patané, I Sami. Ultimi primitivi d’Europa, Bonanno

SERGIO AMENDOLIA
Nato 55 anni fa a Genova, sposato con 2 figli, 2 gatti e un cane, ho sempre guardato con stupore l'orizzonte e tutto ciò che quella linea rappresenta e contiene, convinto che dove il cielo finisce si celano sempre spazi e tempi lontani, spesso inesplorati o conosciuti poco e male. Forse per questo mi attira l'impostazione di questo blog ed i veli della Storia che gli articolisti provano spesso a sollevare, perché conoscere è importante e aiuta a capire ciò che siamo e come lo siamo diventati. Oltre alla nostra bella Italia ed alla sua impareggiabile ricchezza di arte e storia, mi affascinano molto gli scenari mozzafiato dell'Ovest Americano. In questi ultimi anni ne ho percorsi alcuni, ancora una volta cercando di varcare orizzonti i cui contorni sfuggono in continuazione, dimensioni che ho provato a malapena ad intuire nei volti dei nativi che ancora oggi si incontrano nelle riserve: a volte duri, scolpiti e aridi come i monoliti di arenaria rossa, probabilmente gli unici in grado di metabolizzare la sensazione di infinito che pervade quelle terre lontane. Per questo mi piace, quando il tempo libero me lo permette, collaborare con riviste e pagine web, tentando di approfondire le vicende che hanno caratterizzato la storia di quei popoli d'oltreoceano, in particolare l'epopea del West, con un occhio particolare agli uomini e alle donne che la vissero davvero, fuori dai luoghi comuni e dai grandi miti costruiti da Hollywood.

Nome di battaglia Mara

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La cascina Spiotta è ancora là, in cima alla collina, tra i dolci paesaggi delle langhe, circondata dagli alberi e con un grande prato davanti. Irriconoscibile, se non fosse per una targa sul cancello, rispetto alle foto che finirono sui giornali oltre 40 anni fa. Quel 5 giugno 1975 ad Acqui se lo ricordano ancora: il rapimento, gli spari, la morte sull’erba per un carabiniere e per quella giovane donna. Il grave ferimento di altri militari della pattuglia. La paura e la rabbia dall’una e dall’altra parte. Era il battesimo di sangue delle Brigate Rosse. Molti storici hanno definito il tragico evento della cascina Spiotta come la fine di un’epoca e l’inizio di un’altra. Quell’idea quasi romantica di cavalcare la rivoluzione di classe, nata nel 1966 con la prima occupazione dell’università di Trento, alimentata dai tumulti del ’68 e dalle grandi proteste operaie dei primi anni ’70, stava per segnare il passo ad un lungo periodo di buio e di terrore. La notte della Repubblica, che avrebbe lasciato disseminati per le strade italiane centinaia di morti tra gente comune, opposte fazioni politiche e uomini delle istituzioni. E comunque si vogliano leggere e interpretare i cosiddetti “anni di piombo” quel tragico evento di cascina Spiotta resterà legato per sempre all’immagine di una ragazza riversa sul prato in una giornata di sole, i jeans arrotolati, le scarpe di corda, il viso solcato da un rivolo di sangue. Così è morta quel giorno Margherita Cagol, nome di battaglia Mara, fondatrice del nucleo storico delle Brigate Rosse, capo della colonna torinese. La prima donna ad aver scelto la lotta armata, la prima a morire. 
Margherita nasce a Trento l’8 aprile 1945 in una famiglia della media borghesia. E’ l’ultima di tre figlie, il padre gestisce una profumeria e la madre lavora in una farmacia. Una famiglia molto unita e religiosa: scuola e lavoro durante la settimana, messa in chiesa alla domenica, vacanze estive negli scout o in colonia. Margherita quando non studia fa volontariato insieme ad un padre gesuita negli ospizi di Trento. Pratica sport, scia, gioca a tennis, ama fare trekking in montagna. La chitarra classica è la sua grande passione, è talmente dotata da eccellere a livello nazionale, si esibisce perfino all’estero. Potrebbe diventare un naturale sbocco lavorativo se la ragazza non decidesse di iscriversi alla facoltà di sociologia dell’università di Trento. E’ l’origine di tutto. In quegli anni l’ateneo è un’autentica fucina di idee: tanto all’avanguardia per la formazione dei futuri quadri del nuovo capitalismo industriale, quanto un sottobosco ideologico e antagonista per il ‘68 italiano. Tra i professori ci sono Romano Prodi e Beniamino Andreatta, tra gli studenti Renato Curcio e Mauro Rostagno. Margherita conosce Curcio con il quale ben presto si lega sentimentalmente. Lei è bella, di una bellezza tranquilla, non appariscente. Capelli neri e occhi verdi, un viso minuto. E’ seria, riservata, si trova subito bene con quel ragazzo che sembra avere sempre un’ombra di malinconia negli occhi. È il gennaio 1966, gli studenti decidono di occupare l’università. Margherita è fra loro anche se ogni giorno, entro le 19.00, deve per forza rientrare a casa dai genitori. L’anno successivo comincia a collaborare al giornale «Lavoro Politico» che nel 1968 diventa un periodico di riferimento per la sinistra. Si laurea il 29 luglio del 1969 con la tesi “Qualificazione della forza lavoro nelle fasi dello sviluppo capitalistico”. Uscirà con 110 e lode e saluterà tutti con il pugno chiuso: “mi ha spiazzato – ricorderà il rettore Francesco Alberoni – non credevo fosse così politicizzata”. Il primo agosto Margherita e Renato si sposano in Chiesa, con rito misto cattolico-valdese (Curcio proviene da Torre Pellice) nell’antico monastero di San Romedio, luogo incantato della Val di Non. Dopo un breve viaggio di nozze si trasferiscono a Milano, dove Mara ha vinto una borsa di studio di due anni per un corso di sociologia. Studia la vita di fabbrica, coltivando il suo impegno politico in maniera sempre più pressante. 
L'8 settembre 1969 Margherita Cagol, Renato Curcio ed altri fondano il Collettivo Politico Metropolitano (CPM) venendo introdotti nelle fabbriche milanesi: SIT Siemens, Alfa Romeo, Marelli; conoscono Mario Moretti e Alberto Franceschini. Siamo in pieno “autunno caldo”, scaduto il contratto nazionale dei metalmeccanici le proteste ed i disordini si susseguono incessanti. Il 12 dicembre del 1969 accade qualcosa che cambierà per sempre il destino di questa generazione di giovani e dell’Italia intera: in piazza Fontana scoppia una bomba che uccide diciassette persone e ne ferisce novanta. L’opinione pubblica è disorientata, i depistaggi, la morte dell’anarchico Pinelli, l’arresto di Pietro Valpreda. Ha inizio la strategia della tensione. I militanti della sinistra extra-parlamentare si riuniscono in convegni, a Pecorile parlano per la prima volta di strage di Stato, di reazione ad un sistema imperialista capace di sacrificare chiunque pur di mantenere il potere, discutono di lotta armata e di clandestinità. Margherita partecipa e intanto scrive lunghe lettere ai familiari, in particolare alla madre, alla quale confessa che la sua coscienza sta cambiando, che Milano le appare sempre più “… un mostro feroce che divora tutto ciò che di naturale, di umano e di essenziale c’è nella vita. Milano è la barbarie, è la vera faccia della società in cui viviamo … Questa società … ci toglie la possibilità di coltivare la famiglia, di coltivare noi stessi, le nostre esigenze, i nostri bisogni, ci reprime … ha estremo bisogno di essere trasformata da un profondo processo rivoluzionario …. Tutto ciò che è possibile fare per combattere questo sistema è dovere farlo perché questo io credo sia il senso della nostra vita.” La militanza passa dalle parole ai fatti. In una malandata Fiat 850, nel traffico di piazzale Loreto, il 29enne Renato Curcio fa un cenno a Margherita, all’epoca 25enne e al compagno Alberto Franceschini, 23 anni: “è lì che le brigate partigiane hanno appeso a testa in giù Mussolini e la Petacci”. Si guardano in silenzio. Ma certo, brigata è il nome giusto. Brigata e poi? Rossa, propone Margherita. Gli altri annuiscono. E’ fatta. Così nascono le Brigate Rosse. Come simbolo la stella a cinque punte iscritta in un cerchio, la stessa utilizzata dai Tupamaros uruguaiani. Margherita sceglie il suo nome di battaglia: Mara. E’ il 17 settembre 1970 quando iniziano le prime azioni: Franceschini e la Cagol danno fuoco all’auto del capo del personale della SIT-Siemens, Giuseppe Leoni, colpevole di aver fatto fotografare i partecipanti ai picchetti e di averli poi licenziati. Comincia la propaganda: Curcio, il teorico del gruppo, scrive il volantino di rivendicazione. A novembre viene diffuso alla Pirelli un comunicato con la stella a 5 punte in cui compaiono i nomi dei capi e dei crumiri da punire. Qualche giorno dopo bruciano anche le macchine del capo della vigilanza, Ermanno Pellegrini e del dirigente Enrico Loriga. Gli atti di “punizione” sulle auto dei dirigenti proseguono per tutto il 1971, seguiti da volantini di rivendicazione ma stigmatizzati dai giornali come puro e insignificante teppismo. Mara in quell’anno rimane incinta, è felice, lei e Renato fanno progetti, pensano a come conciliare la cura di un bambino con gli impegni politici. Sarà difficile ma in fondo non c’è stata fino ad ora alcuna scelta irrevocabile, questo figlio può rimettere in discussione tutto. Invece al sesto mese Mara cade dal motorino e perde il bambino. Da lì in poi la sua vita comincia a correre, già l’anno seguente, il 2 maggio, i Carabinieri scoprono il covo di via Boiardo a Milano ed entrano in possesso di tutti i nomi dei capi storici. Mara e Renato passano alla clandestinità. 
Ne parlano a lungo ma l’ipotesi di fare un altro figlio è definitivamente tramontata. Non ci sono più margini, la lotta armata è ormai definitiva. In una delle molte lettere ai genitori Mara scrive: “ … Cari genitori non pensate per favore che io sia incosciente. Grazie a voi sono cresciuta istruita, intelligente e soprattutto forte. E questa forza in questo momento me la sento tutta. È giusto e sacrosanto quello che sto facendo, la storia mi da ragione come l’ha data alla Resistenza del ’45. Ma voi direte, sono questi i mezzi da usare? Credetemi, non ce ne sono altri …” 
In Italia proseguono gli atti di contestazione e di violenza per tutto il 1972, le sigle di gruppi armati di destra e sinistra nascono come funghi: Giangiacomo Feltrinelli viene trovato ucciso a Segrate, esploso mentre prepara un attentato ad un traliccio; a Milano viene ucciso il commissario Calabresi. Le neonate brigate di Curcio e Mara proseguono però con atti dimostrativi, senza macchiarsi di sangue. Ormai ricercati, Curcio e la Cagol si trasferiscono a Torino, lei diventa capo della colonna torinese mentre a Milano restano Franceschini e Moretti. Comincia la penetrazione informativa negli stabilimenti Fiat di Mirafiori e Lingotto. Mara, nelle sue costanti lettere, continua a rassicurare i genitori, dice che vorrebbe passare un po’ di tempo a casa, ma loro leggono i giornali e temono il peggio, non sanno come comportarsi con questi due ragazzi che si sono messi in testa di cambiare il mondo e adesso hanno il mondo contro. Nell’autunno 1973 l’economia mondiale attraversa la sua crisi più grave dal 1929. La guerra arabo-israeliana fa lievitare i prezzi del petrolio. L’inflazione è fuori controllo, l’anno seguente toccherà il 23%. A novembre il Governo vara il decreto “Austerity”: niente auto la domenica, insegne spente a partire dalle 22.00, strade a illuminazione ridotta, chiusura serale di radio e televisione. Ma sono i lavoratori a pagare il prezzo più caro dei sacrifici, la Fiat è pronta a licenziare, Agnelli ventila la cassa integrazione, il rinnovo del contratto non arriva ed i turni in fabbrica sono massacranti, il sindacato è in difficoltà. Mirafiori viene occupata per tre giorni con bandiere rosse sui tetti e operai padroni dei reparti. Cortei. Assemblee. La Cagol e Curcio organizzano il sequestro di Ettore Amerio, capo del personale della Fiat Mirafiori. L’interrogatorio sul fascismo nella Fiat, sui licenziamenti e sulla cassa integrazione, la condanna del sistema oppressivo dei padroni e infine il rilascio dell’ostaggio dopo 8 giorni. Segue il volantino di rivendicazione. Il metodo funziona, dà visibilità, la gente inizia a parlarne. Il 18 aprile 1974 le BR sequestrano a Genova il giudice Mario Sossi, membro del MSI e pubblico ministero in processi contro gruppi terroristici di sinistra. E’ l’operazione Girasole, condotta con l’obiettivo di “colpire al cuore lo Stato”. E a questo punto lo Stato comincia a prendere coscienza del problema, il Generale Dalla Chiesa costituisce il primo nucleo Carabinieri antiterrorismo. E’ il vero salto di qualità. Si cerca di contrattare il rilascio di alcuni terroristi detenuti, minacciando di uccidere l’ostaggio nel caso in cui le istituzioni non scendano a patti. Lo stesso giudice scrive lettere e appelli dalla prigionia perché le istituzioni si prendano le loro responsabilità. Lo Stato finge di cedere ma in realtà all’ultimo momento non libera i detenuti. Per Mara Cagol questo può bastare, perché comunque le istituzioni hanno dimostrato di voler trattare. In disaccordo con Mario Moretti che vuole ancora uccidere l’ostaggio, il 23 maggio Sossi viene liberato. La settimana dopo esplode a Brescia una bomba in piazza della Loggia, provocando otto morti e un centinaio di feriti. Nel giugno ’74 il primo passo falso delle Brigate Rosse avviene a Padova, quando il gruppo armato di Susanna Ronconi e Roberto Ognibene assalta, senza alcuna autorizzazione da parte dei capi milanesi e torinesi, la sede del Msi uccidendo due militanti. Il gruppo storico è contrario, l’imbarazzo è totale ma Curcio decide comunque di non rendere pubbliche le fratture interne e rivendica l’atto con un comunicato (il gesto gli costerà 28 anni di carcere per concorso morale in omicidio non premeditato). Il 4 agosto un altro ordigno squassa il treno Italicus lasciando dodici morti e quarantotto feriti. Il nucleo antiterrorismo di Dalla Chiesa nel frattempo muove le prime pedine: l’8 settembre 1974 Renato Curcio e Alberto Franceschini vengono arrestati dai Carabinieri a Pinerolo. Si fanno fregare dal più improbabile degli infiltrati: Silvano Girotto, alias padre Leone, alias frate Mitra e chissà cos’altro. Proprio quel tipo che a Mara non piaceva, quello che con le sue spacconerie aveva incantato tutti ma non lei. Troppo convinto, troppo autoreferenziale, si dichiarava ex rapinatore, ex legionario, ex guerrigliero, grande esperto di armi e tuttavia Renato voleva metterlo alla prova. Fatto sta che tra i suoi tanti incarichi, Girotto aveva omesso di dire che era anche un collaboratore dell’Arma. I due vengono bloccati sulla loro 128 blu, mentre chiacchierano tranquilli ad un passaggio a livello chiuso, nelle campagne appena fuori dalla cittadina torinese. Senza essersi accorti di nulla, senza nemmeno il tempo di reagire, vengono agguantati dai militari in borghese: un paio di pugni a Franceschini mentre Curcio rimane incredulo e immobile al volante. Mario Moretti sfugge al’arresto, probabilmente perché avvertito da una telefonata di uno sconosciuto. Nonostante lui dichiarerà di aver cercato senza riuscirvi di avvertire Curcio, l’ambiguità sulla figura del futuro capo delle BR non l’abbandonerà mai più, negli anni a venire. 
L’arresto dei due capi storici si somma ad altri arresti importanti in varie parti d’Italia. Ora le BR sono davvero in difficoltà. Il loro futuro è nelle mani di Mara. Da sola ha la responsabilità della colonna torinese e deve riannodare le fila di un’organizzazione allo sbando. Inoltre cosa penseranno i suoi genitori di lei ora che suo marito è in carcere e tutti i giornali li dipingono come pericolosi sovversivi? Mara prende la decisione: ha bisogno di Renato al suo fianco, bisogna assaltare il carcere di Casale Monferrato e liberarlo; la struttura è vulnerabile, poco sorvegliata. Moretti è perplesso, la definisce un’azione emotiva, alla Bonnie & Clyde, troppo rischiosa e troppo personalistica. E se va male le BR sono finite. Tre mesi di discussioni ma alla fine Mara la spunta, l’azione si farà e sarà lei ad organizzarla. E’ il 18 febbraio 1975, una ragazza bionda si avvicina al portone del carcere. Suona, è giorno di visite, ha con sé un involucro: “per favore mi apra. Devo consegnare questo pacco a mio marito”. Nulla di strano, la donna è carina e sorridente. Pochi secondi ed il piantone fa scattare la serratura. Si ritrova con un mitra puntato al petto “stai buono o sei morto” dice la ragazza. Due uomini vestiti con le tute blu della SIP appoggiano una scala sul muro e tagliano i fili del telefono. Margherita e un altro compagno entrano, si fanno aprire un secondo cancello. Ora sono nel corridoio dove si affacciano alcune celle. Fanno mettere tutti al muro, ma Curcio non si vede. “Renato dove sei?” grida. E’ al piano superiore, scende con un balzo. Ora sono fuori, diretti ad Alassio. Tutto si è svolto in pochi minuti. Un’azione perfetta. Senza sparare un colpo. Il blitz ha una grande risonanza sui giornali. Dopo tante sconfitte le Brigate Rosse si rifanno un po’ d’immagine, grazie anche al corollario romantico di una donna che, armi in pugno, libera il suo uomo. Persino il giudice di sorveglianza mentre interroga Franceschini ha parole di ammirazione per la “magnifica donna” che ha guidato il commando. Ora però le Brigate Rosse sono a corto di denaro e decidono di finanziarsi con un rapimento. Si pensa a Vittorio Vallarino Gancia, l’industriale dello spumante. Chiederanno un riscatto di un miliardo di lire. Il sequestro è deciso per il 4 giugno 1975, Gancia viene bloccato sulla sua Alfetta in una strada di campagna con la scusa di lavori in corso. Uno dei finti operai agita una bandierina rossa mentre con l’altra mano gli fa cenno di rallentare. L’industriale ferma l’auto, un uomo esce da un furgone che lo precedeva, rompe il suo finestrino e gli punta una pistola alla tempia. Gancia viene caricato su una Fiat 124 verde oliva, manette ai polsi e coperta in faccia. Viene portato in una vecchia casa colonica da ristrutturare vicino a Canelli, che tre anni prima Mara aveva comprato per 6 milioni di lire, sotto il falso nome di Marta Caruso. E’ la Cascina Spiotta. I vicini descriveranno la proprietaria come una bella ragazza, gentile e sempre disponibile, che quando arrivava si metteva subito a lavorare i campi sorridendo, facendosi aiutare a curare la vigna ed a coltivare qualche verdura. Gancia viene chiuso in una stanzetta, un materasso e una coperta, un catino all’angolo. A custodirlo rimangono Mara ed un altro brigatista, mai identificato. Ma quella mattina qualcosa va storto: la Fiat 124 che sta tornando dopo aver scaricato l’ostaggio tampona una Fiat 500, tra Canelli e Cassinasco. Sono le 13.00. I due a bordo della 124 hanno fretta di andarsene, firmano una dichiarazione di responsabilità su un foglietto e rassicurano il guidatore della 500, Cesarino Tarditi professione idraulico. Questi però non si fida e, appena i due si allontanano, chiama lo stesso i Carabinieri. La Fiat 124 con il cofano ammaccato viene rintracciata, c’è un uomo solo a bordo. E’ un normale controllo ma l’individuo si spaventa e scappa. La fuga però dura poco, l’auto si schianta e appena viene preso Massimo Maraschi, 22enne di Lodi, si dichiara prigioniero politico. 
I due carabinieri, sbigottiti, avvertono immediatamente la centrale. Ci vuole poco a collegare il sequestro Gancia: l’area viene subito raggiunta dagli uomini del Generale Dalla Chiesa. La caccia comincia: le colline vengono suddivise in settori, le località isolate, le cascine, le abitazioni sospette vengono controllate a tappeto. Il giorno dopo, 5 giugno 1975, il Tenente Umberto Rocca comandante della Compagnia CC di Acqui Terme, dopo aver celebrato la Festa dell’Arma, esce di pattuglia con la Fiat 127 di servizio, a bordo anche il Maresciallo Rosario Cattafi e gli Appuntati Giovanni d’Alfonso e Pietro Barberis. Alle 11.30 arrivano alla cascina Spiotta, uno degli obiettivi di sua competenza da controllare. Mara sta riposando, ha fatto il turno di guardia di notte, il suo compagno che avrebbe dovuto darle il cambio, si è appisolato e non vede avvicinarsi i carabinieri. Il Maresciallo bussa alla porta e Mara si affaccia per un istante rimanendo sgomenta. All’interno il trambusto è indescrivibile. L’uomo prende la pistola mitragliatrice M1 e 4 bombe a mano SRCM, Mara borsetta e mitra a tracolla, in mano pistola e valigetta. Lui propone di ammazzare l’ostaggio, la Cagol si rifiuta: “Gancia non si tocca, non c’entra niente e la sua vita non deve essere messa a repentaglio”. Aprono la porta e l’uomo lancia la prima bomba a mano che esplode sui militari: tra le urla il braccio sinistro del tenente si stacca di netto e l’occhio sinistro – che perderà - gli si riempie di sangue. Il Maresciallo è colpito da diverse schegge in tutto il corpo ma da terra reagisce al fuoco. I due brigatisti corrono verso le auto parcheggiate, l’Appuntato d’Alfonso si para loro davanti e spara, ma viene colpito da una raffica alla testa, al torace e all’addome. Morirà poco dopo lasciando una moglie e tre figli. Mara ed il compagno raggiungono la Fiat 128, partono ma finiscono contro la 127 dell’Arma con cui l’Appuntato Barberis sta sbarrando la strada. L’uomo esce dall’auto e grida “siamo feriti, ci arrendiamo”. Barberis cessa il fuoco e intima di alzare le mani. Dopo pochi passi l’individuo, facendosi scudo della donna, estrae un’altra bomba e la lancia verso il carabiniere, il quale, scartando di lato, evita l’impatto e ricomincia a sparare. Mara Cagol viene colpita in torsione, sotto l’ascella, il colpo perfora il torace ed esce orizzontalmente dalla parte del dorso. Muore praticamente sul colpo. 
Il secondo brigatista invece si dilegua nei boschi. Il sedicente fuggitivo scriverà poi un rapporto a Curcio, in seguito ritrovato in un covo e reso pubblico, nel quale dichiarerà che mentre stava scappando si accorgeva che Mara non era con lui, voltandosi la vedeva seduta sull’erba con le mani in alto. Riprendendo la fuga avrebbe immediatamente sentito uno, forse due colpi secchi. Secondo lui Mara era stata giustiziata. Tale versione, per quanto dubbiosa vista la traiettoria dei proiettili e la posizione del cadavere, viene subito rivendicata in un comunicato delle BR. Per il giudice Caselli il brigatista fuggitivo aveva la necessità di fornire all’organizzazione una valida scusa per aver lasciato da sola la ragazza, dopo essersene addirittura fatto scudo. Tuttavia l’opinione pubblica rimane talmente scossa che vivrà per molti anni con il sospetto che quel giorno lo Stato abbia voluto giustiziare freddamente la pasionaria delle Brigate Rosse. Da quel momento la direzione strategica del movimento passa nelle mani dell’ala militarista, capeggiata da Mario Moretti. Sei mesi dopo Curcio viene arrestato a Milano insieme alla sua nuova compagna, Nadia Mantovani. Inizia la lunga fase degli omicidi e del sangue, la strada del non ritorno. 
La figura di Mara Cagol resta ancora oggi ben impressa nell’immaginario collettivo, tanto che perfino lo scrittore Umberto Eco ha affermato che, una volta scoperto che la moglie di Frà Dolcino (Margherita Boninsegna), anch’essa trentina, aveva lo stesso nome di Margherita Cagol ed era morta in condizioni analoghe, l’ha espressamente citata nel suo romanzo “Il nome della rosa”. Per molti anni la stampa nazionale la dipingerà come la donna che per amore è stata disposta a tutto, perfino a sparare, negandole quell’autonomia di pensiero e di iniziativa che ha invece caratterizzato tutte le sue scelte. 
Un mazzo di rose rosse verrà ritrovato davanti alla cascina Spiotta l’indomani della sparatoria e così il 5 giugno di ogni anno, per molti anni. 

Sergio Amendolia 

Bibliografia
Stefania Podda, Nome di battaglia Mara, Sperling & Kupfer; 

Piero Agostini, Mara Cagol. Una donna nelle prime Brigate Rosse, Marsilio - temi; 

Gian Carlo Caselli, Le due guerre, Melampo; 

Giorgio Bocca, Noi terroristi, Garzanti. 

SERGIO AMENDOLIA
Nato 55 anni fa a Genova, sposato con 2 figli, 2 gatti e un cane, ho sempre guardato con stupore l'orizzonte e tutto ciò che quella linea rappresenta e contiene, convinto che dove il cielo finisce si celano sempre spazi e tempi lontani, spesso inesplorati o conosciuti poco e male. Forse per questo mi attira l'impostazione di questo blog ed i veli della Storia che gli articolisti provano spesso a sollevare, perché conoscere è importante e aiuta a capire ciò che siamo e come lo siamo diventati. Oltre alla nostra bella Italia ed alla sua impareggiabile ricchezza di arte e storia, mi affascinano molto gli scenari mozzafiato dell'Ovest Americano. In questi ultimi anni ne ho percorsi alcuni, ancora una volta cercando di varcare orizzonti i cui contorni sfuggono in continuazione, dimensioni che ho provato a malapena ad intuire nei volti dei nativi che ancora oggi si incontrano nelle riserve: a volte duri, scolpiti e aridi come i monoliti di arenaria rossa, probabilmente gli unici in grado di metabolizzare la sensazione di infinito che pervade quelle terre lontane. Per questo mi piace, quando il tempo libero me lo permette, collaborare con riviste e pagine web, tentando di approfondire le vicende che hanno caratterizzato la storia di quei popoli d'oltreoceano, in particolare l'epopea del West, con un occhio particolare agli uomini e alle donne che la vissero davvero, fuori dai luoghi comuni e dai grandi miti costruiti da Hollywood.


Santa Vilgefortis, la donna barbuta crocifissa

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C’era una volta, fino al 1969, una donna divenuta santa dal nome Vilgefortis, o Wilgefortis, che veniva rappresentata come una donna barbuta e crocifissa. Qualcuno la conosce? Io ne ignoravo l’esistenza, ero rimasta agli insegnamenti di mia nonna che mi parlava delle ben più classiche santa Barbara e santa Lucia. Poi, da lettrice dei Viaggiatori Ignoranti, ho scoperto l’esistenza del santo Cane, San Guinefort, e già mi sembrava una stranezza, ma nulla a confronto della santa che mangiava il vomito e le feci umane, Margherita Maria Alacoque, di cui ho raccontato io stessa la vita qualche settimana fa. 

Nel mio peregrinare fra i libri ho scoperto l’esistenza di questa santa molto particolare, che oggi, visti i tempi moderni, farebbe parlare molto di sé, non per i suoi presunti miracoli, ma per il suo aspetto androgino. 
Sulle origini del culto di santa Vilgefortis ci sono varie teorie. Sembra che comunque la sua storia sia il risultato del connubio di varie leggende. La santa veniva venerata come protettrice delle donne con problemi di carattere sessuale e con problemi legati al parto, ma anche per altri motivi. 
Ma veniamo alla sua storia…. 
In un tempo molto lontano, fra il 700 e il 1000 d.c., visse una giovane donna, ricca e bellissima, dalle sinuose movenze e dall’eloquio affascinante, di nome Kümmernis. La giovane era la settima figlia di un re pagano del Portogallo. L’uomo, a differenza della ragazza, i cui principi morali e la generosità erano noti a tutti, era rozzo e prepotente, crudele con i sudditi e con la famiglia. A lui poco importavano le aspirazioni della figlia; pensava solo al proprio interesse e a stringere alleanze che gli potessero garantire sicurezza e prosperità. 
Fu così che il re, un giorno, decise di prometterla in moglie a un giovane principe pagano suo alleato. Secondo alcuni poteva essere il re di Sicilia o addirittura un moro venuto da lontano. 
Il re no sapeva che la figlia, di nascosto, si era convertita al cristianesimo e aveva donato la sua verginità e il suo cuore a Dio. Quando Kümmernis venne a sapere le intenzioni del padre si disperò e decise di affrontarlo, ma l’uomo fu irremovibile. Alcune versioni della storia vedono lo spietato sovrano rivolgere attenzioni incestuose verso la figlia, forse per piegarla al suo volere. A nulla valse l’imposizione dell’uomo, che decise alla fine di farla incarcerare, nella speranza che cedesse. 
Nella solitudine della sua cella fredda e buia la principessa pregò con tutte le sue forze Dio affinché la privasse di ogni bellezza, in modo che nessun uomo potesse più posare su di lei i propri occhi e desiderasse sposarla. 
I giorni passavano e Kümmernis rimaneva rinchiusa. Decise allora di digiunare, per avvicinarsi ulteriormente a Dio. Finalmente, dopo tanti sacrifici, qualche tempo dopo, le sue invocazioni furono ascoltate. Quando vennero a prenderla per portarla davanti al padre, le guardie stentarono a riconoscerla: il suo corpo era ricoperto di lunghi peli e il suo viso era deturpato da una folta ed ispida barba scura. La sua appariscente, seppur delicata bellezza, era svanita. 
Il padre infuriato alla vista della figlia così trasformata, pretese spiegazioni, ma la risposta che ottenne non contribuì a placare la sua ira. La principessa rispose che quel Dio che lei amava tanto, aveva ascoltato le sue invocazioni, facendola diventare un essere ripugnate per chiunque, così ella sarebbe stata salvata da quel matrimonio con un pagano che la faceva inorridire. 
Il re, livido in volto, si alzò dal suo scranno e tuonò: «Allora morirai come colui che adori!» 
Il giorno successivo, davanti al padre e alle sorelle, la bella Kümmernis venne crocifissa, mentre pregava Dio perché il ricordo della sua morte servisse per liberare chi l’avrebbe invocata dai dolori e dai problemi della vita terrena. 
Il culto di questa donna divenne molto popolare in Europa fra i secoli XV e XVI. La santa assunse diversi nomi, fra cui quello di Wilgefortis, cioè Virgo Fortis, ovvero vergine ferma e forte. In Italia era conosciuta come santa Liberata, in Francia come santa Livrade e in Spagna come santa Librada, cioè liberatrice dalle tribolazioni. In Inghilterra venne ricordata come la Fuggitiva, cioè colei che riuscì con la preghiera a sfuggire all’obbligo di un matrimonio che non voleva, impostole da un padre prepotente e prevaricatore. Durante la sua invocazione, i fedeli erano soliti offrirle una ciotola di avena, affinché potesse mandare in aiuto di mogli e figlie oppresse, un cavallo che conducesse l’oppressore direttamente al diavolo. 
In Germania era ricordata come santa Kümmernis, la santa del dolore e della tristezza, che aveva rinunciato alla bellezza femminile, trasformandosi in uomo, pur di rimanere fedele al suo credo. 
Nel Martirologio Romano, libro liturgico che costituisce la base dei calendari liturgici che ogni anno determinano le celebrazioni religiose, le venne dedicato un giorno di festa, il 20 luglio. Fu ricordata come vergine e martire, col nome di santa Liberta, fino al 1969, anno in cui il Concilio Vaticano II ne soppresse il culto e rimosse il suo nome dal libro dei santi. 
Per chi volesse vedere una rappresentazione di questa santa, ancora oggi, può visitare la chiesa di Wissages, a Pas de Calais, in Francia.

Rosella Reali

ROSELLA REALI
Sono nata nel marzo del 1971 a Domodossola, attualmente provincia del VCO. Mi piace viaggiare, adoro la natura e gli animali. L'Ossola è il solo posto che posso chiamare casa. Mi piace cucinare e leggere gialli. Solo solare, sorrido sempre e guardo il mondo con gli occhi curiosi tipici dei bambini. Adoro i vecchi film anni '50 e la bicicletta è parte di me, non me ne separo mai. Da grande aprirò un agriturismo dove coltiverò l'orto e alleverò animali. 
Chi mi aiuterà? Ovviamente gli altri viaggiatori.
Questa avventura con i viaggiatori ignoranti? Un viaggio che spero non finisca mai...

La quotidianità di un genio, la lista della spesa di Michelangelo

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"Pani dua
Un bocal di vino
Un ariga

Tortegli
Una salama
Quattro pani
Unh bochal di zodo
Un quartuccio di bruschino
un piattello di spinaci
Quattro alici
Tortelli
Sei pani
Due minestre di finocchio
Un aringa
Un boccal di zondo"


La traduzione


"Due pezzi di pane
Un quarto di vino
Un'aringa
Tortellini
Un salame
Quattro pezzi di pane
Un quarto di ???
Un quarto di Bruschino (vino?)
Un piattino di spinaci
Quattro alici
Tortellini
Sei pezzi di pane
Due minestre di finocchio
Un'aringa
Un boccale di Zondo (vino?)"

La lista della spesa di Michelangelo è un manoscritto redatto da Michelangelo Buonarroti conservato nell’archivio di Casa Buonarroti, che detiene tuttora la documentazione più ricca su Michelangelo, costituita da ben 169 volumi, che partono dagli antenati di Buonarroti per giungere alla prima metà dell’Ottocento, e che contengono il fondo più importante di carte autografe dell’artista.
Il documento è datato 18 marzo 1518 ed è stato redatto sul retro di una lettera, in cui Michelangelo elenca tutti i prodotti di sua necessità per il suo servitore, realizzando a fianco di ogni nome un piccolo schizzo del prodotto. Ciò fa presumere che il servo fosse analfabeta.
Nel manoscritto redatto dal celebre artista non compare la carne, con molta probabilità perché fu scritto durante il periodo di Quaresima.


Fabio Casalini

Sunday bloody sunday, nascita di una canzone di ribellione

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Sunday bloody sunday è una famosa canzone del gruppo musicale irlandese U2. La canzone fu, originariamente, inserita nell'album War e, successivamente, fu ripresa in Under a Blood Red Sky, Sunday bloody sunday è stata inserita nella lista delle 500 migliori canzoni di ogni tempo dalla rivista specializzata Rolling Stone.
Il testo della canzone, scritto da Bono, ha un riferimento preciso: la domenica del 30 gennaio 1972. Cosa accadde quel giorno? Il 30 gennaio del 1972 nella città nord irlandese di Derry (Londonderry) l'esercito del Regno Unito sparò sui partecipanti a una manifestazione. Persero la vita quattordici persone. Tutte civili e tutte disarmate. Quella giornata passò alla storia come Bloody Sunday e scatenò la rivolta nazionalista contro il governo del Regno Unito. Quel 30 gennaio del 1972, Paul Hewson, in arte Bono, aveva 11 anni. Era figlio di una famiglia interconfessionale, la madre protestante e il padre cattolico. La visione di quel massacro restò impressa nella memoria, tanto che dieci anni dopo, nel 1982, scrisse e cantò questa magnifica canzone. Bono ha sempre sostenuto che non si tratta di una “canzone di ribellione” tradizionale del repertorio irlandese, ma, semplicemente, è la reazione scandalizzata e incredula di un ragazzino di fronte al massacro dei manifestanti.
Con il trascorrere del tempo, la canzone ha assunto l'universale significato di rifiuto contro la violenza e la guerra. Questa argomentazione è sostenibile grazie alla versione del film Rattle and Hum nel quale Bono dedica la canzone all'attentato dell'IRA a Enniskillen nel novembre del 1987. Si trattò di un atto d'accusa verso i membri dell'IRA responsabili dell'azione che causò 11 morti, tutti civili, e protestanti, del Regno Unito.


Fabio Casalini

Se gli altri vanno in giro con i cani, perché io non posso andare a spasso con una gallina?

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Luigi "Gigi" Meroni nacque a Como il 24 febbraio del 1943 e proprio a Como iniziò la sua carriera calcistica nel campetto dell'oratorio di San Bartolomeo dove giocava la squadra Libertas.
Crebbe nel vivaio del Calcio Como insieme all'amato fratello Celestino, ma la sua carriera nella formazione lariana fu breve.
Nell'estate del '62, a soli 19 anni, passò al Genoa dopo 2 brillanti stagioni in maglia lariana. Gigi non credeva a ciò che gli stava succedendo: ora giocava nel club più vecchio d'Italia, in quegli anni secondo solo alla Juventus per numero di scudetti vinti. La città marittima di Genova fece emergere in Gigi il suo carattere estroverso e controcorrente che si manifesterà poi nella sua interezza dopo il trasferimento a Torino nel '64.
Con i granata allenati da Nereo Rocco l'ala numero 7 si fece immediatamente apprezzare per le sue giocate, i suoi dribbling e i suoi goal che, anche se pochi (24), sono ricordati nelle migliori cineteche del calcio.
Meroni era una persona fuori dall'ordinario.
Ascoltava i Beatles e la musica jazz, dipingeva quadri, leggeva libri e scriveva poesie. Conviveva nella mansarda di Piazza Vittorio insieme a Cristiana, la "bella tra le belle" dei Luna Park della quale si innamorò follemente tanto da presentarsi al matrimonio imposto dai genitori di lei per cercare di fermare la cerimonia.
"Mister mezzo miliardo". Così lo chiamavano i giornalisti quando il giovane Agnelli cercò di portare l'ennesimo campione alla Juventus sborsando una cifra per quei tempi era impensabile. Ma una vera e propria rivolta dei tifosi del Toro impedì il suo trasferimento. I giovani tifosi si identificavano in Meroni, il loro "calimero", per via dei capelli lunghi e dei basettoni, un esempio da seguire in campo e nella vita in quegli anni che precedono il '68.
Quando Edmondo Fabbri lo chiamò in nazionale gli impose la di tagliarsi i capelli. Lui che disegnava i vestiti che indossava sui modelli di quelli dei Beatles, che passeggiava per Como portando al guinzaglio una gallina, che si travestiva da giornalista e chiedeva alla gente cosa pensasse di Meroni, non avrebbe potuto rinnegare il suo ego e rifiutò la convocazione.
Ogni favola ha un inizio e un epilogo.
La sera del 15 ottobre 1967, dopo l'incontro contro la Sampdoria, vinto dai granata per 4-2, Meroni non poté rientrare in casa, poiché non aveva le chiavi. Insieme a Poletti andò al bar Zambon e telefonò a degli amici presso i quali si trovava la sua compagna; riattraversò, sempre con Poletti, corso Re Umberto nei pressi del civico 46; percorsero la prima metà della carreggiata e si fermarono in mezzo alla strada, aspettando il momento buono per completare l'attraversamento. Vedendo sopraggiungere un'automobile, fecero un passo indietro e furono investiti da una Fiat 124 Coupé proveniente dalla direzione opposta; Poletti fu colpito di striscio; Meroni, investito alla gamba sinistra, fu sbalzato in aria dall'impatto, cadde a terra nell'altra corsia e fu travolto da una Lancia Appia, che lo centrò in pieno e ne trascinò il corpo per 50 metri. Fu portato all'ospedale Mauriziano da un passante; vi arrivò con gambe e bacino fratturati e con un grave trauma cranico.
Morì poche ore dopo, alle 22.40.
La Fiat 124 Coupé era guidata da Attilio Romero, un diciannovenne di buona famiglia e grande tifoso del Torino. Dopo l'incidente, il giovane si presentò spontaneamente alla Polizia, che lo interrogò fino a tarda notte. Fu rilasciato e tornò a casa: abitava proprio in corso Re Umberto, a soli 13 numeri civici di distanza dall'abitazione di Meroni.
Più di 20.000 persone parteciparono ai funerali di Meroni e il lutto scosse la città. Dal carcere Le Nuovedi Torino alcuni detenuti fecero una colletta per mandare fiori.
La stampa sembrò perdonargli le bizzarrie che gli aveva contestato in vita (capelli lunghi, barba incolta, calze abbassate), ma la Diocesi di Torino si oppose al funerale religioso di un "peccatore pubblico" e criticò aspramente don Francesco Ferraudo, cappellano del Torino calcio, che lo celebrò comunque.

Fabio Casalini

Bibliografia


Peroni-Cecchetti, Gigi Meroni, il ribelle Granata, Padova, Beccogiallo, 2011

Nando dalla Chiesa, La farfalla granata. La meravigliosa e malinconica storia di Gigi Meroni il calciatore artista, Limina, 1995

Lo ius primae noctis

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Lo ius primae noctis o "diritto della prima notte", è una locuzione latina che indica un preteso diritto da parte di un signore feudale il quale, in occasione del matrimonio di un proprio servo della gleba, avrebbe potuto pretendere di sostituirsi al marito nella prima notte di nozze. In realtà non esistono fonti che dimostrino la reale esistenza di un simile diritto.
Talvolta è indicato, in modo improprio, con l'espressione francese droit du seigneur, cioè "diritto del signore", la quale, in realtà, fa riferimento a un'ampia gamma di diritti riconducibili al signore feudatario, inerenti quindi anche alla caccia, la riscossione di tasse e tributi, l'agricoltura.
Non vi sono testimonianze della reale esistenza e diffusione di tale diritto nell'Europa medievale. In particolare, nelle fonti storiche di epoca medievale non ne è rintracciabile alcuna menzione, né da parte delle autorità laiche (re, imperatori), né da parte di quelle ecclesiastiche. Ogni riferimento conosciuto risale, infatti, ad epoche successive. Questo ha portato parte della moderna critica storiografica a derubricare lo ius primae noctis a una sorta di mitomoderno relativo all'epoca medievale, la cui fondatezza non si basa su alcuna fonte documentata.
Si ritiene che l'origine di questa credenza risalga al XVI secolo. Il filosofo scozzese Hector Boece riporta il decreto del mitico re scozzese Evenio III secondo cui "il signore delle terre può disporre della verginità di tutte le ragazze che vi abitano"; la leggenda vuole che Santa Margherita di Scozia abbia fatto rimpiazzare lo ius primae noctis con una tassa di matrimonio chiamata merchet. Tuttavia Evenio III non è mai esistito e tutto il racconto di Hector Boeceattinge largamente dal mito. Nella letteratura del XIII e XIV secolo e nei codici di legge fondati sul diritto consuetudinario lo ius primae noctis è strettamente correlato alle specifiche tasse di matrimonio dei servi o ex servi.
Secondo alcuni antropologi lo ius primae noctis può essere considerato la degenerazione di un rituale arcaico. La verginità era collegata a un tabù molto forte, che poteva essere rimosso solamente da un re/sciamano/personaggio potente. Ogni altro uomo ne sarebbe rimasto danneggiato. Studi recenti vedono nel mito dello ius primae noctis e nei riti carnevaleschi di eliminazione del tiranno ad esso spesso collegati (per es. Ivrea o Castel Tesino), una funzione apotropaica, tipica dei riti di eliminazione del male, e in ultima istanza propiziatoria della fertilità.
E come ebbe a dire il professor Barbero: «Lo ius primae noctis è una straordinaria fantasia che il medioevo ha creato, che è nata alla fine del medioevo, ed a cui hanno creduto così tanto, che c'era quasi il rischio che qualcuno volesse metterlo in pratica davvero, anche se non risulta che sia mai successo davvero. In realtà è una fantasia: non è mai esistito.»


Fabio Casalini

La visita di papa Giovanni Paolo II al sanguinario dittatore Pinochet

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Augusto José Ramón Pinochet Ugarte (Valparaíso, 25 novembre 1915– Santiago del Cile, 10 dicembre 2006) è stato un generale e politico cileno, che, a seguito del colpo di Stato in Cile del 1973, governò il suo paese come dittatore dall'11 settembre 1973 all'11 marzo 1990, rendendosi responsabile di crimini contro l'umanità.
Con un colpo di Stato militare si autonominò presidente e, durante la sua dittatura militare, venne attuata una forte repressione dell'opposizione, ritenuta da alcuni un vero sterminio di massa, con l'uccisione di un numero tra 1.200 e 3.200 oppositori, tra 80.000 e 600.000 internati, esiliati o arrestati in maniera arbitraria e tra 30.000 e 130.000 torturati e vittime di violenza.
Papa Giovanni Paolo II (Wadowice, 18 maggio1920 – Città del Vaticano, 2 aprile 2005) è stato il 264º papa della Chiesa cattolica e vescovo di Roma, 6º sovrano dello Stato della Città del Vaticano.
Fu eletto papa il 16 ottobre 1978. In seguito alla causa di beatificazione, il 1º maggio 2011 è stato proclamato beato dal suo immediato successore Benedetto XVI e viene festeggiato annualmente nel giorno del suo insediamento, il 22 ottobre; nella storia della Chiesa, non accadeva da circa un millennio che un papa proclamasse beato il proprio immediato predecessore. Il 27 aprile 2014, insieme a papa Giovanni XXIII, è stato proclamato santo da papa Francesco.
Dopo la breve presentazione dei personaggi, iniziamo ad entrare nel merito dei rapporti tra Giovanni Paolo II e le dittature sanguinarie, nel caso specifico con Pinochet.
Tra le critiche rivolte a Giovanni Paolo II, vi è l'accusa di aver sostenuto, col fine di opporsi al comunismo, sistemi politici o vere e proprie dittature di destra. In particolare sono stati criticati i suoi rapporti col dittatore cileno Augusto Pinochet, anche se va comunque ricordato come, nella sua visita pastorale in Cile nel 1987, il papa abbia esplicitamente invitato i cattolici cileni a "muoversi verso la democrazia"; egli ha pubblicamente abbracciato il dittatore (così come, del resto, alcuni oppositori del regime). Tuttavia, alcune fonti vaticane sostengono che in occasione del viaggio in Cile il papa avrebbe anche sollecitato il tiranno al ripristino della democrazia; inoltre, altre fonti della Santa Sede affermano che Giovanni Paolo II sarebbe stato fatto affacciare sul balcone insieme al dittatore con un espediente contro la sua volontà. Gian Franco Svidercoschi, solo nel 2015, citando padre Roberto Tucci, organizzatore dei viaggi papali ha affermato che si è trattato di un "inganno" messo in piedi dal governo cileno spiegandone la dinamica.
Lo stesso Tucci aveva, già nel 2011, espresso direttamente questa opinione senza citare alcun elemento di conferma. Tuttavia, tale ricostruzione verrebbe messa in dubbio da un filmato girato all'interno del palazzo della Moneda, durante il quale è possibile vedere la tenda nera della porta del balcone, chiusa secondo padre Tucci, completamente aperta, permettendo quindi a Giovanni Paolo II di vedere la folla al di là dei vetri.
In varie occasioni Giovanni Paolo II ha comunque dimostrato solidarietà con il dittatore: in particolare un telegramma di auguri del 1993 e una successiva lettera di solidarietà quando venne arrestato in Gran Bretagna per essere estradato in Spagna, effettuando pressioni sulle autorità inglesi per bloccarne il processo di estradizione.
Il testo del telegramma recitava: "Al generale Augusto Pinochet Ugarte e alla sua distinta sposa, Signora Lucia Hiriarde Pinochet, in occasione delle loro nozze d'oro matrimoniali e come pegno di abbondanti grazie divine, con grande piacere impartisco, così come ai loro figli e nipoti, una benedizione apostolica speciale".
Quindi il Papa mandò un telegramma di auguri, nel 1993, ad un personaggio incredibilmente malvagio che governò il suo paese come dittatore dall'11 settembre 1973 all'11 marzo 1990, rendendosi responsabile di crimini contro l'umanità.

Fabio Casalini

Bibliografia

R. Suro. John Paul Calls for Chileans to Move Toward Democracy. New York Times, 3 aprile 1987

W. Svoboda. Chile Bearer of Unwelcome Tidings. Time, 13 aprile 1987

La Storia Siamo Noi, in RAI, 17 febbraio 1980

Rémy Bellon et Dominique Rizet, Le Dossier Pinochet, tortures, enlèvements, disparitions, implications internationales, Michel Lafon, 2002

Herta Oberheuser

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Herta Oberheuser nacque a Colonia il 15 maggio 1911.
Era una donna minuta, dalle movenze leggere ed eleganti; il suo viso era rassicurante e i suoi occhi sembravano quelli di una qualsiasi ragazza di origine tedesca.
Proveniente da una famiglia modesta, trascorse un’infanzia normale a Düsseldorf. Nel 1931 si iscrisse alla facoltà di medicina a Bonn, per poi specializzarsi nella sua città. Le sue limitate possibilità economiche la costrinsero a lavorare e studiare contemporaneamente.
Il suo percorso di vita cambiò nel 1935, quando si iscrisse alla Lega delle Giovani Tedesche, vicino al Partito Nazista. Condivideva con loro idee e aspirazioni, tanto da decidere, nel 1937 di aderire direttamente al partito. Nello stesso anno conseguì il dottorato in medicina. Il suo primo impiego fu come assistente in medicina generica sempre a Düsseldorf. Nel 1940 si specializzò in dermatologia.
Dopo pochi mesi rispose ad un annuncio pubblicato su una rivista specializzata di medicina: si ricercava un’assistente nel campo di concentramento di Ravensbrück.
Fu presa. Iniziò a lavorare come medico al campo agli inizi del 1941; inizialmente collaborò con il dottor Walter Sonntag e il dottor Gerhard Schiedlausky. Con loro rimase fino al 1943; successivamente ricoprì l'incarico di assistente chirurgica del dottor Karl Gebhardt nella clinica ortopedica di Hohenlychen, che divenne, durante la Seconda guerra mondiale, un ospedale per i soldati delle Waffen-SS.
L’incontro con Gebhardt segnò per lei l’inizio di una nuova fase della sua carriera medica. Il medico era a capo di una equipe che condusse a Ravensbrück esperimenti sulle infezioni e sulla fratturazione delle ossa, con lo scopo di testare l’effetto dei sulfamidici e la capacità di ripresa dei soggetti sottoposti a sperimentazione. Ovviamente in tutto questo non vi era nulla di scientifico.
Herta partecipò attivamente al programma, occupandosi di un gruppo di prigioniere: 86 donne, 74 delle quali, di origine polacca, erano detenute per ragioni politiche. Furono scelte come cavie umane per studiare gli effetti di iniezioni di sulfamidici e benzina. Sulle stesse pazienti condussero esperimenti sulla rigenerazione delle ossa, dei muscoli e dei nervi: senza anestesia venivano asportate parte di tessuto o frammenti ossei. Per simulare le ferite riportate dai soldati tedeschi in guerra, la Oberheuser e il dottor Karl Gebhardt infliggevano volutamente ferite alle detenute, nelle quali introducevano corpi estranei come legno, chiodi arrugginiti, pezzi di vetro, fango o segatura; questa procedura provocava la cancrena gassosa, estremamente dolorosa.
Anche i bambini furono fra le sue vittime: ne uccise un numero imprecisato con iniezioni di barbiturici, al fine di asportarne membra e organi vitali. Nella maggior parte dei casi, non attendeva la morte dei piccoli, ma eseguiva direttamente le asportazioni, provocando loro una morte straziante.
Dopo la fine della guerra, Herta Oberheuser fu arrestata e condotta a Norimberga.
Il processo ebbe inizio il 9 dicembre 1946 e si chiuse il 20 agosto 1947. Furono ascoltati 85 testimoni ed esaminati 1471 documenti.
I capi d’accusa erano 4:
- Cospirazione a commettere crimini di guerra e crimini verso l'umanità come descritto nei capi d'accusa 2 e 3.
- Crimini di guerra: Gli imputati illegalmente, volontariamente e intenzionalmente, commisero crimini di guerra come definito dall'Art. II del Control Council Law n. 10, precisamente esperimenti medici senza il consenso del paziente, su prigionieri di guerra e civili nelle zone occupate, e partecipazione allo sterminio di massa nei campi di concentramento.
- Crimini contro l'umanità: tutti gli imputati volontariamente, deliberatamente e illegalmente parteciparono, consentirono e collaborarono ai piani e agli esperimenti senza il consenso dei soggetti, civili tedeschi e di altre nazionalità, dando morte e commettendo brutalità, crudeltà, torture, atrocità e atti inumani in riferimento al capo d'accusa 2.
- Membro di un'organizzazione criminale.
Al termine del procedimento fu condannata a 20 anni di carcere. Fu l’unica donna imputata al processo dei medici nazisti.
Dopo soli 5 anni, fu rilasciata per buona condotta. Trasferitasi a Stocksee, in Germania, esercitò come pediatra fino al 1956, quando alcuni sopravvissuti a Ravensbrück la riconobbero e la denunciarono all’ordine dei medici per quello che aveva fatto. Nel 1958 perse l’abilitazione all’esercizio della professione e la laurea conseguita.
Nonostante fosse colpevole, senza un barlume di pentimento, fece ricorso più volte. Il 28 aprile 1961 ottenne il ripristino del proprio titolo di studio, ma non riuscì più ad esercitare. Trovò lavoro come addetta alla cucina all'istituto Bodelschwingh, nel distretto governativo di Bad Honnef.
Continuò la sua vita come se nulla fosse accaduto, fino al giorno della sua morte, il 24 gennaio 1978.
Spirò in una casa di riposo per anziani a Linz am Rhein, in un comodo e confortevole letto, quello che probabilmente sognavano le detenute e i bambini sottoposti ai suoi trattamenti, mente morivano fra atroci dolori in una baracca del lager di Ravensbrück.

Rosella Reali

Hermine Braunsteiner

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Molti criminali nazisti fuggirono dopo la fine della guerra e si dispersero in vari paesi del mondo. Smisero con semplicità la veste degli aguzzini e indossarono quella dei comuni cittadini, ricoprendo i più svariati ruoli. Seppellirono in un angolo del loro cuore le brutalità commesse, vivendo con nostalgia i giorni in cui potevano sfogare le loro frustrazioni su vittime innocenti.
Hermine Braunsteiner era una di loro. Durante il secondo conflitto mondiale aveva prestato servizio come guardia al campo di concentramento di Majdanek e di Ravensbrück.
Hermine era cattiva, soprattutto con le prigioniere più giovani e belle: le prendeva a calci e le frustava a sangue, spesso sul viso o sugli occhi.
Era spietata anche coi bambini. Un giorno arrivò al campo dove prestava servizio un prigioniero con nascosto il figlio in uno zaino, che portava in spalla. La donna capì che c'era qualcosa che non andava e colpì il fagotto con una frustata così forte che il bambino si mise a piangere, per lo spavento e per il dolore. L'uomo fu costretto ad aprire lo zaino ed in quel momento il bambino scappò fuori e si mise a correre. In un attimo la donna gli fu addosso, lo strattonò con forza e gli sparò in testa.
Dopo l'arrivo degli alleati e la liberazione dei campi, rimase libera e invisibile fino al 1948. Andò a vivere in Carinzia, dove fu riconosciuta ed arrestata. Venne processata a Vienna e condannata a 3 anni di reclusione per i soli crimini commessi a Ravensbrück. Scontata la sua pena spari nuovamente.
Ma qualcuno era sulle sue tracce. Di chi si trattava? Simon Wiesenthal aveva deciso di ritrovarla perché nel 1964 era stato contattato da qualcuno che voleva sapere che fine avesse fatto Hermine Braunsteiner, soprannominata la Kobyla, cioè giumenta, e se fosse stata punita per i crimini commessi.
Erano 2 testimoni della sua brutalità, sopravvissute alle sue frustate. Il “cacciatore” ascoltò la loro storia e decise di occuparsene. La rintracciò ad Halifax, in Canada, sposata con un uomo americano, un certo Mr. Ryan.
Grazie ad una segnalazione egli scoprì che poi erano andati a vivere a Maspeth, nel Queens. A questo punto dovette decidere cosa fare per portare a galla la vera storia di questa cittadina americana insospettabile. Come poteva smascherarla e farle pagare il suo debito con l'umanità? Wiesenthal decise di affidarsi alla stampa.
Contattò un giornalista del “The New York Times”, che aveva scritto un articolo poco tempo prima raccontando le sue gesta da “cacciatore di nazisti”. Gli trasmise tutte le informazioni in suo possesso e attese.
Il giornale incaricò del servizio Joseph Lelyveld, un giovane alle prime armi che desiderava farsi conoscere. Il caso della Kobyla era interessante ma non a tal punto da scomodare i pezzi grossi del Times. Non si poteva, però, ignorare la segnalazione del “cacciatore”.
Così il giovane Lelyveld cominciò la sua ricerca. Andò a Maspeth e cercò nell'elenco telefonico tutti i Ryan presenti in città. La fortuna gli arrise immediatamente.
Il primo nominativo interpellato fu quello di una donna che gli raccontò che poco distante da lì viveva una signora con un forte accento tedesco che aveva sposato un certo Russell Ryan. Abitavano nella 72 ͣ strada, al numero 52-11.
Il giornalista bussò a casa Ryan il giorno dopo. Gli aprì una donna robusta con l'espressione severa e i capelli biondi che stavano diventando bianchi, la quale gli confermò senza problemi di essere Hermine Braunsteiner.
Lelyveld le disse che voleva farle qualche domanda circa la sua esperienza nel campo di concentramento di Majdanek. Hermine abbassò gli occhi e scoppiò a piangere. Singhiozzando ammise che si aspettava che prima o poi sarebbe successo, che qualcuno avrebbe bussato alla sua porta per chiederle di rendere conto di quegli anni passati come guardia nei lager. Lo fece accomodare in soggiorno e tra le mura della sua confortevole casa rilasciò una breve ed accorata intervista, in cui non risparmiò fiumi di lacrime, autocommiserazione e pretese di innocenza.
L’uomo, sbigottito, prese nota di tutto e dopo averla salutata scrisse per il suo giornale un pezzo in cui riportava le dichiarazioni della guardia. Trascrisse fedelmente anche una frase della donna: “Alla radio non fanno altro che parlare di pace e di libertà, perché allora date fastidio alla gente 15 o 16 anni dopo?”
La Braunsteiner si sentiva una vittima perseguitata, una donna innocente che aveva pagato il suo debito con la giustizia.
E il marito di lei? Russell Ryan era all'oscuro di tutto; la moglie non gli aveva raccontato il suo scomodo passato; quando scoprì che cosa aveva fatto si limitò a dire:” Non c'è una persona più gentile di lei su tutta la faccia della terra. Mi ha detto che eseguiva solo gli ordini.”
La Kobyla aveva mentito a tutti, nascondendo la sua vera natura di aguzzina sadica ed assassina. L'ufficio immigrazione e naturalizzazione non poté ignorare quanto era emerso. Dopo 7 anni di una dura battaglia legale, nel 1971 la perse la cittadinanza americana. Polonia e Repubblica Federale Tedesca chiesero la sua estradizione. Potendo scegliere, ella preferì rientrare in Germania nel 1973.
Nel 1975 fu imputata nel processo che si tenne a Düsseldorf contro il personale in servizio a Majdanek. Le udienze andarono avanti fino al 1981: alla fine venne condanna all'ergastolo. Rimase in carcere fino al 1996 quando, per motivi di salute, fu rilasciata ed internata in una casa di cura. Nella stessa struttura era ricoverato il marito Russell, che nel frattempo le era sempre rimasto accanto.
Hermine Braunsteiner morì nel 1999.
Tolti gli abiti da guardia, scontati 3 anni, Hermine aveva vissuto una vita normale, accanto ad un uomo che l'aveva amata per tutta la sua vita. Aveva fatto finta di non aver mai frustato nessuno, di non aver mai sparato a bambini indifesi, di non aver mai preso a calci nessun essere umano fino ad ucciderlo. Se qualcuno non si fosse ricordato di lei, della sua brutalità, questa donna avrebbe vissuto una vita serena ed anonima, pensando solo a cambiare i centrini impolverati nel suo perfetto salotto in stile tedesco.
Lei come molti altri hanno pagato, seppur in minima parte, il loro debito con l'umanità grazie a chi non ha mai dimenticato cosa avvenne all'interno dei lager, lontano da occhi indiscreti, per mano di uomini e donne vestiti da mostri sanguinari.
Ora tocca a noi, raccontando queste storie, ricordare questi fatti per dare all'umanità la possibilità di avere un futuro privo di una nuova Shoah.

Rosella Reali


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