Da questa vecchia casa
per le aperte finestre, come da un'antica fiala,
l'odor d'un tempo ora scomparso esala
acutamente nel silenzio inerte
[I sonetti della casa, Carlo Vallini]
Era un maggio di tanti anni fa. Una tarda primavera che sapeva di pioggia.
Svogliata, qualcosa di simile ad un vaso rotto di gerani che infischiandosene dei proverbi strizzava l'occhio ai giorni lunghi dell'estate ma senza alcuna promessa di sole.
Come un bimbo capriccioso gli umori di un cielo cinto di voli ballonzolavano qua e la fra le nubi gonfie, gonfie chiudendo l'orizzonte al suono di un flauto crepuscolare.
Risalivo quell'ultimo lembo di Piemonte assorto tra la Val Sisola e la Val Borbera, dove si parla un piemontese sporco, annacquato dall'inflessione già marcatamente ligure; ero alla ricerca di un formaggio piuttosto raro detto Montebore. Perché è lungo la via del sale che ha origine questa prelibatezza di antichissima origine, risollevata dall'oblio, e dalla bizzarra forma che ricorda una torre.
E in questo medesimo spicchio di appennino, dove spira un'ostinata solitudine, m'imbattei casualmente nella Cima, piatto di antica origine che molte volte avevo pregustato nelle parole di un poeta con la passione per le note.
Fabrizio De André.
Sì, perché Fabrizio l'amava così tanto che decise di farne una canzone: 'A Çimma.
La Cima alla genovese, nota anche come “éuggio” (occhio), non prevede l'utilizzo di carne di prima scelta, nasce come piatto povero o per meglio dire di “recupero” e si presenta come una tasca di carne di vitello farcita con i più svariati e sfiziosi ingredienti. Viene poi cucita a mano e messa a bollire per ore.
La preparazione è lunga e laboriosa e necessita conoscenze arcaiche come i segreti nascosti nella luna e nei boschi.
Cose oneste ed inviolate.
L'alchimia del gusto esige mani esperte e nodose e la riuscita non è sempre garantita, così entra in gioco la ritualità dove sacro e profano si fondono indossando il costume antico della superstizione.
Raccontava Ivano Fossati (coautore) che Fabrizio amava scrivere in cucina forse per questo i versi sembrano sprigionarsi tra gli odori ed i vapori di quelle trattorie sperse tra i vicoli bui di Genova. Ecco che ad un certo punto così recitano:
“carne ténia nu fâte néigra
nu turnâ dûa”
(carne tenera non diventare nera non ritornare dura)
Il ritornello assume le sembianze di un filastrocca, una metrica popolare affinché l'incantesimo non si spezzi, una cantilena che anche i bambini gironzolanti attorno alla stufa a legna ed ai lavandini di marmo recitavano a memoria.
Ed ancora:
“e ‘nt’ou núme de Maria
tûtti diài da sta pûgnatta
anène via”
(e nel nome di Maria tutti i diavoli da questa pentola andate via)
Ricorda De André che la Cima veniva poi punta con due aghi prima di essere “immersa” fra le erbe aromatiche ed a mo di protezione, per evitare che scoppiasse durante la cottura, era posta una scopa di saggina rovesciata in un angolo della cucina. L'agreste “amuleto” avrebbe contrastato l'eventuale maleficio che una strega, intrufolatasi in cucina attraverso il camino, avrebbe potuto recare alla pietanza in cottura. La “stria” in questo modo non avrebbe arrecato alcun danno impiegando il suo tempo stregóso a contare ogni singola pagliuzza presente nella scopa...
Sono passato da Genova qualche anno dopo, ero diretto in Francia, l'ho guardata emergere dalla bruma di un alba estiva mentre il tepore tenero del sole sbocciava come una donna spersa tra le pieghe del sonno.
Tutto ciò assumeva il gusto di un pudore violato per antico istinto.
Sostai in un bar dove un allampanato barista con due baffi simili a virgole d'inchiostro mi servì un pessimo caffè arrugginito.
Appesa ad una mensola, oltre la nuvola dei suoi capelli, una vecchia radio color aragosta trasmetteva la parte finale di 'A çimma.
Sentir cantare una ricetta e commuoversi è qualcosa di magico, di assolutamente insolito, ha un che di religioso. È la sublimazione dei sapori in poesia che fa traboccare il cuore e pone radici nel petto.
Qualche battito più in la, oltre i vetri macchiati di sale e il verde di un edera spessa, malinconia mi colse nell'eco di un tempo così lontano nel tempo.
Filippo Spadoni
FILIPPO SPADONI
Nato nel 1980. Appassionato di cinema d'autore, poesia e letteratura italiana, con un'inclinazione naturale per il crepuscolarismo. Cultore e collezionista di musica con predilezione di sonorità di confine e sperimentali. Insaziabile curioso verso le tradizioni, la cucina, gli idiomi e gli angoli più remoti del Piemonte; perché come affermava Cesare Pavese: " Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti". Da Gennaio 2014 cura e gestisce l'archivio di "Verbania Antiche Immagini".