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Channel: I Viaggiatori Ignoranti
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Rina Fort, la belva dalla sciarpa color canarino

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Mi chiamo Caterina, ho 31 anni, sono nata in un piccolo paese in provincia di Pordenone, Santa Lucia di Budoia,  il 28 giugno 1915. La mia esistenza è sempre stata  segnata dal dolore.  Il mio bene più grande, mio padre,  è morto in montagna davanti a me, mentre mi aiutava a superare un passaggio difficile. 
E’ precipitato nel vuoto e il mio cuore con lui.  Non sono mai stata più quella di prima. Le sue urla mentre precipitava mi hanno accompagnata per tutta la vita. Il senso di colpa ha divorato la mia anima adolescente. Nessuno ha capito. Nessuno ha infranto quella barriera di dolore che mi sono costruita attorno.
Poi  è  arrivato l'amore, il primo, quello che ti fa tremare le gambe, travolgente, ristoratore.
Ma potevo essere davvero felice?  La tubercolosi lo ha portato via da me, lasciandomi sola di nuovo. È morto a pochi mesi dal matrimonio e io sono ripiombata nello sconforto. Povera Caterina, dicono tutti, che ragazza sfortunata. Forse non merito la felicità. Dopo poco tempo un malessere mi colpisce. Il medico di famiglia mi fa visitare e mi prescrive degli accertamenti. Scopro di essere sterile. Non sarò mai mamma.
Il tempo mitiga il dolore, lo rende più sopportabile o forse crea solo rassegnazione. Conosco un altro uomo, Giuseppe Benedet,  mio compaesano. Ci sposiamo,  ho solo 22 anni e alle spalle una vita di dolore.  La prima notte è un trauma:  mi aspetto amore e tenerezza, invece  mi lega al letto.  Ho pensato che volesse tagliarmi con i suoi coltelli unti di burro.  Sono lucidi e  puzzano molto.  Non mi fa niente,  mi lascia lì tutta la notte al freddo a pensare. Il giorno dopo  avrei voluto scappare, ma rimango perché mi vergogno.  Ormai sono sposata e,  a poco a poco, mi abituo alle sue stranezze. Qualche anno dopo mio marito viene internato in manicomio e così ottengo la separazione. Sono di nuovo libera di ricominciare.
Mi trasferisco a Milano, a casa di mia sorella. Cerco un lavoro perché voglio farcela da sola, voglio diventare indipendente. È il 1945, la guerra è finita da poco,  ma ancora i segni del suo devastante passaggio sono sotto gli occhi di tutti. In via Tenca c'è un negozio di tessuti. Cercano una commessa come aiuto perché il lavoro sta aumentando. Il proprietario è un uomo siciliano, distinto, elegante, occhi scuri e profondi.  Poche parole e mi assume. Il suo nome è Giuseppe Ricciardi e io sono Rina Fort,  la belva di via San Gregorio.
Giuseppe è un uomo taciturno. non so molto di lui. Ha fiducia in me,  a tal punto che mi affida  il negozio durante la  sue  assenze per viaggi di lavoro.  Cerco di fare del mio meglio, di non deluderlo. È un uomo affascinante, sempre ben vestito, con abito scuro e camicia bianca. Osserva silenzioso il mio “fare”,  mi fa complimenti sottovoce, mi sfiora una mano, un gomito.  I suoi sguardi si fanno più intimi,  le sue parole più audaci.  Da commessa ad amante il passo è breve. La prima volta che abbiamo fatto l'amore me la ricordo bene. Siamo stati in una stanza d'albergo con le tende bianche.  Mi ha fatta sentire importante.  Dopo quell'incontro ce ne sono stati molti altri. Ma posso essere solo la sua amante, nulla di più perché Giuseppe è sposato con una donna di nome Franca Pappalardo,  di 40 anni.  Lui dice che la lascerà per me, ma io fatico a credergli.  Hanno tre figli, quelli che io non potrò mai avere, Giovannino di 7 anni, Giuseppina di 5 anni e Antonuccio di soli 10 mesi.  Abitano a Catania. Sono lontani. Forse è vero quello che dice Giuseppe, tra loro è tutto finito,  è solo questione di tempo perché lasci la sua famiglia per me.
Con me Giuseppe è molto gentile.  Quando siamo nell'intimità mi paragona al profumo Violetta di Parma. Mi piace questo suo modo di dire,  ma non è sempre così. A volte diventa scontroso, addirittura prepotente, ma non posso rinunciare a lui. La gente comincia a  parlare di noi, della nostra relazione.  A volte Giuseppe,  o Pippo come lo chiamo io, mi presenta come sua moglie.  Le voci fanno presto ad arrivare a Catania all'orecchio di Franca  che,  nell’ottobre del 1946, decide di venire a vivere a Milano.  Tutto cambia.
Appena arrivata mi fa licenziare.  Non posso fare altro che andarmene. Così trovo impiego  nella pasticceria di un amico, non lontano dal negozio di stoffe. La nostra relazione va avanti, anche se ormai le cose peggiorano  sempre di più.  Una mattina Franca si presenta da sola in pasticceria,  mentre sto servendo dei clienti. Quando la vedo entrare mi si gela il sangue. Compra dei dolcetti, beve un caffè e mi viene vicino. Mi guarda dritto negli occhi e mi dice solo poche parole: «Lascialo in pace, esci dalla sua vita, ha scelto me e i suoi figli. E poi sono incinta.»   Il mondo si ferma.  Milano stessa si ferma fuori dalla porta.
È il 29 novembre, un giorno come gli altri. Per me no. Ho deciso cosa farò. Ci ho pensato. È oggi che devo andare da lei. Apro la finestra e guardo il cielo:  è cupo, sembra triste.  Non so come mi sento. Forse non sento niente, ho solo deciso. Pippo mi ha mentito. È un “porco”, io credevo  alle promesse che mi ha fatto. Diceva che mi avrebbe sposata,   che avrebbe lasciato Franca e i bambini per me e che insieme saremmo stati felici.  Sono tutte bugie perché Franca è incinta. Prima viene nel mio letto, poi torna dalla moglie.
Mi vesto come per andare al lavoro, metto le scarpe con i tacchi, il cappotto, ma non prendo la borsa. Esco  di casa. Il mondo sembra di nuovo aver preso a girare,  ma lentamente, come quel giorno in pasticceria.  Cammino per strada, attraverso due o tre vie, non vedo i semafori, non vedo la gente che mi passa a fianco, non sento i rumori. È come se fossi sorda e cieca. Qualcosa dentro di me guida i miei passi. Giro in via San Gregorio. Al numero 40 abitano i Riccardi. Sono arrivata.
Il portone è accostato perché la maniglia è rotta. Non c'è nessuno nell'atrio. Si sente solo un fresco odore di candeggina. Qualcuno ha fatto le pulizie. Salgo le scale di marmo, lentamente, un gradino alla volta, fino al primo piano. Busso alla porta, aspetto pochi istanti, poi una voce di donna, quella di Franca, chiede chi è. Non rispondo, non serve, mi apre senza troppi problemi. Indossa una vestaglia nera.  Quasi non mi guarda, si volta e mi fa entrare.  Salendo ho raccolto una sbarra di ferro lasciata nell'atrio incustodita. La porto in casa, Franca non se ne accorge, in braccio ha Antonuccio a cui badare.  Lo mette nel seggiolone, è l'ora della pappa.
Mi sento male. Non sono a mio agio o forse mi rendo conto che ho preso la decisione sbagliata ma ormai non posso più tornare indietro.  I bambini più grandi giocano tra loro, prendo  un respiro profondo e sento quell'odore che mi porta indietro alla mia infanzia:  famiglia, figli, casa, quello che io non potrò mai avere. Mi offre da bere del Liquore mentre mi dice che devo lasciare  perdere Pippo, che quella  che vedo è la sua vita. Ascolto le sue parole senza dire nulle. Ho la testa annebbiata: rabbia, gelosia, dolore, tutto si confonde in me. Mi alzo con la sbarra in mano e la colpisco forte Franca alla testa, sento  quel rumore come di qualcosa che si rompe. Sangue e materia grigia escono dalla ferita.  La colpisco ancora, il sangue schizza ovunque anche su di me. Giovannino vede tutto e cerca di fermarmi, mi afferra per le gambe ma è solo un bambino e io una donna accecata dall'odio. lo spingo via, come una bambola di pezza. Ora tocca a lui. Di nuovo quel rumore. Cos'è?  È la sua testa di bambino di 7 anni che si spacca. Sangue e materia grigia di nuovo finiscono sul pavimento. Giuseppina scappa in cucina, urla spaventata, piange. La raggiungo alle spalle, non provo nulla, e di nuovo quel rumore. La bimba cade a terra supina, gorgoglia, mentre il sangue esce dalla sua testa inondando il pavimento. Antonuccio mi guarda, il  cucchiaino della pappa in mano, la bocca semiaperta, gli occhi increduli, quelli tipici dei bambini piccoli, quelli che chiedono sempre cosa sta succedendo.  Un colpo solo e il suo sguardo cambia. Si accascia e non si muove più. Il rumore della sua testa spaccata è diverso da quello degli altri, più sordo. Mi giro e mi accorgo che Giovannino non è morto, si alza, striscia sanguinante verso la porta, piange e vomita. lo colpisco ancora e ancora, sembra un sacco informe.  Smette di muoversi.
Aria. devo prendere aria, uscire da lì. L'odore del sangue mi toglie il fiato, non riesco più a respirare.  Apro la porta e scendo le scale, mi siedo su un gradino e respiro a fondo. Il profumo di candeggina è sparito, nel naso ho solo l'odore dolciastro del sangue.  Risalgo in casa, voglio vedere che cosa ho fatto,  voglio vedere se è tutto vero o se è solo un sogno, voglio vedere se è tutto finito.
Entro nell'appartamento e di nuovo quell'odore mi assale. È forte. Persistente. Sento dei lamenti,  è Franca: «Aiutami….»  mi dice guardandomi con gli occhi pieni di sangue, «… ti prego i bambini….»  
Nessuno vuole morire, respirano ancora. Prima di uscire metto loro in bocca dei pannolini intrisi di qualcosa, un liquido, ma non so cosa sia.  Magari smetteranno di respirare e tutto sarà finito.
Così come sono venuta me ne vado, accosto la porta e torno a casa percorrendo lo stesso tragitto. Ho fame.  Di colpo tutti i rumori della città si fanno più vividi. Quando entro nel mio appartamento cucino due uova fritte con dei grissini. Mangio e mi stendo, sono stanca come se avessi fatto un doppio turno in pasticceria. Mi sdraio, immobile, non so quante ore resto così, non sento nulla, non sono pentita della mia decisione.  Resto sveglia tutta la notte e penso a cosa farò ora che tutto è cambiato. Intanto in via San Gregorio al 40 la luce in casa Ricciardi-Pappalardo resta accesa per tutta la notte,  ma nessuno ci fa caso . E Pippo?  Non lo so. Non lo sento da giorni.
È mattina, vado al lavoro. Quel giorno, uno come tanti all’apparenza, la nuova commessa del negozio di tessuti va dalla Franca per prendere le chiavi e aprire. Trovando la porta di casa socchiusa, entra e si trova davanti una scena che mai avrebbe  potuto immaginare. La moglie e i figli del Ricciardi sono massacrati a terra.  Sangue, materia grigia, vomito, l'odore è insopportabile. La polizia arriva dopo i reporter. La scena che si presenta è indescrivibile. La ferocia di quelle esecuzione è senza un perché.  Gli inquirenti chiedono immediatamente del Ricciardi,  che sembra sia a Prato per un viaggio di lavoro.  lo hanno avvisato che deve tornare. I bicchieri in cucina fanno pensare alla polizia  che la persona entrata in casa fosse una conoscenza di Franca. L'ipotesi della rapina andata male è scartata quasi subito, anche se la casa è a soqquadro, dato che ormai il negozio di tessuti non va bene e Ricciardi ha molte cambiali in protesto. Dopo il mio licenziamento gli affari sono andati male. Ero brava nelle vendite,  anche se Pippo non lo ha mai ammesso davanti a me.
Tra le mani di Franca la polizia trova dei capelli.  Sono i miei, me li ha strappati mentre la colpivo, ma io non me ne sono neppure accorta. Non sentivo nulla.  Per terra,  tra il sangue, trovano una foto di famiglia strappata. Questo fa pensare al delitto passionale.
Arrivato da Prato il Ricciardi viene interrogato e subito fa il mio nome. Mi cercano a casa in via Macchi all'89. Poi in pasticceria in via Settala al 43.  Sono lì a servire i clienti, serena e sorridente come sempre. La polizia entra e mi arresta davanti a tutti. È il 30 novembre. In questura mi interrogano.  Ammetto di avere lavorato per Giuseppe, di conoscerlo, ma non di essere stata la sua amante. Del delitto poi non so assolutamente nulla. Il 2 dicembre mi portano in via San Gregorio. Entro, sento ancora quell'odore forte, ma non faccio nulla, non ho cedimenti. E poi perché dovrei averne? Tornata in questura, dopo 17 ore di interrogatorio, condotte dal commissario Serafino,  comincio a cedere. Sì, sono stata l'amante del Ricciardi per un anno. Mi ha anche regalato una fede, promettendomi che mi avrebbe sposata. Poi è arrivata Franca  con i bambini e tutto è finito. È lui che li voleva morti, lui che mi ha chiesto di farlo;  con l'aiuto di Carmelo, un complice che non verrà mai identificato, ho commesso il delitto.  Ricciardi viene portato in questura, lo vogliono interrogare, mettere a confronto con me. Ci incontriamo per la prima volta dal giorno del delitto. Mi guarda, mi viene incontro, mi abbraccia, per l’ultima volta, e sussurra: «...  Rina mia….» Interrogato Pippo nega tutto, ogni coinvolgimento. Urla, inveisce contro di me, dice che mi sono inventata tutto.
Il 10 gennaio 1950 inizia il processo. In aula ci sono sempre, da me non trapela nessuna emozione. Durante tutto il dibattimento indosso un abito scuro e una sciarpa gialla, dono di Pippo quando le cose tra noi andavano bene. Per l'opinione pubblica divento la “belva con la sciarpa color canarino”. Indosso anche dei guanti neri,  che secondo l'accusa servono per coprire le mie mani sporche di sangue. Giuseppe, alla sbarra, urla la sua innocenza, anche se la sua figura non appare molto limpida, soprattutto dopo l'abbraccio in questura. Per salvare la faccia si costituisce come parte civile contro di me. Ma il fratello di Franca non gli crede, lo accusa di essere stato un cattivo marito, di aver maltrattato sua sorella per anni. Il processo è in corso quando decidono il mio trasferimento da San Vittore al carcere di Perugia. Non ho mai avuto un attimo di cedimento, l'orrore di quella casa  non ha intaccato le mie giornate, almeno fino ad ora.
Il 9 Aprile 1952 sono condannata all'ergastolo. Per tutti l'unica colpevole sono io, Rina Fort, la belva di via San Gregorio. Giuseppe, nonostante i sospetti, è prosciolto completamente. L'anno dopo con il mio avvocato faccio domanda di ricorso. Il 25 novembre 1953 l'ergastolo è confermato. Sono rimasta nel carcere di Perugia fino al 1960 quando il mio stato di salute si è aggravato e sono stata trasferita  a  Trani e da lì a Firenze.  
Il tempo passa, il peso delle mie azioni si fa sentire. Nei miei sogni salgo le scale di via San Gregorio ogni notte per molti anni, chiedo perdono alla famiglia Pappalardo ma non a Giuseppe. Lui è stato mio complice non mi stancherò mai di dirlo, lui ha armato la mia mano. Il 12 settembre 1975 ottengo la grazia dal Presidente Giovanni Leone. In quell'anno Giuseppe muore. Nel frattempo si era sposato ed ha avuto un figlio.
Muoio il 2 marzo 1988, a Firenze, presso una famiglia che mi ha accolta fin dal giorno della mia scarcerazione. Oggi pochi in via San Gregorio 40 ricordano l'orrore di quel 29 novembre. Porto con me la verità di quel giorno, la follia di quei minuti in cui ho ucciso senza pietà una donna incinta e i suoi tre figli.  Amore, gelosia, odio, dolore, la mia vita è stato questo. I fantasmi di quella casa non mi hanno più lasciato. Resterò per sempre la belva di via San Gregorio,  la donna che in una fredda giornata di novembre ha sterminato a sprangate  un'intera famiglia.

Ho scritto in prima persona questa storia per cercare di capire cosa abbia spinto Caterina Fort a commettere un omicidio così efferato. Ho letto tutto il materiale a mia disposizione ma non sono riuscita a giungere ad una conclusione, almeno non una che mi soddisfacesse. Nel cuore di ogni donna esiste quella cosa che si chiama istinto materno. Caterina ne era priva. Non aveva neppure umanità. Ha guardato i piccoli Ricciardi con freddezza ed ha agito, non ha avuto nessuna pietà. Lascio ora a voi l’interpretazione di questa agghiacciante vicenda che ha scosso il mio animo.

Rosella Reali


ROSELLA REALI
Sono nata nel marzo del 1971 a Domodossola, attualmente provincia del VCO.  Mi piace viaggiare, adoro la natura e gli animali. L'Ossola è il solo posto che posso chiamare casa. Mi piace cucinare e leggere gialli. Solo solare, sorrido sempre e guardo il mondo con gli occhi curiosi tipici dei bambini. Adoro i vecchi film anni '50 e la bicicletta è parte di me, non me ne separo mai.  Da grande aprirò un agriturismo dove coltiverò l'orto e alleverò animali. 
Chi mi aiuterà?Ovviamente gli altri viaggiatori.
Questa avventura con i viaggiatori ignoranti? Un viaggio che spero non finisca mai...

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