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La spedizione Donner, una storia di pionieri

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Il 5 aprile 1846 era una domenica e tutta la piazza principale di Springfield, capitale dell’Illinois, era in fermento quando la fila di 10 carri, sui quali insieme a donne e bambini era stato caricato ogni genere di provviste e di suppellettili, partì prendendo la via del Mississipi.
I 31 inconsapevoli pionieri andavano verso l’ignoto, verso la più drammatica e straordinaria avventura della storia del West. Tutto era cominciato qualche mese prima, quando le famiglie dei fratelli George e Jacob Donner insieme a quella di James Frazier Reed, ancora memori della crisi economica che fino a pochi anni prima aveva colpito tutta la vallata del Mississipi mettendo gli agricoltori del Middle West in gravi difficoltà, decisero di tentare il tutto per tutto: giungevano sempre più frequenti le notizie dalle favolose terre della California e dell’Oregon, che assicuravano anche due o tre raccolti l’anno; chi c’era stato giurava che si trattava della Terra Promessa, del Paradiso Terrestre. E poi i tre agricoltori avevano preso contatti a Cincinnati con l’autore di un nuovo libro, Lansword W. Hastings, ex avvocato dell’Ohio, uomo colto e pieno di ardimento che giurava di aver scoperto e percorso più volte una fantastica scorciatoia per la California che, dai normali 5 mesi riduceva il viaggio a meno di 120 giorni di cammino, poco più di 1500 miglia (2500 km). Hastings in realtà aveva trovato il modo per fare soldi pubblicizzando la nuova pista, pur tra le più diffuse contrarietà di esploratori esperti che lo accusavano di essere un imbroglione, ma si sa, ogni nuova idea viene sempre osteggiata e quei bravi cristiani dei Donner erano fiduciosi perchè, in fondo, si trattava solo di abbandonare la pista normale a Fort Bridger, girare a Sud-Ovest fino al Gran Lago Salato e proseguire dritti fino alla baia di San Francisco. Una cosa possibile dunque. La fiducia coinvolse anche diverse altre famiglie in difficoltà economiche, che si riunirono ai Donner strada facendo: Patrick Breen con la moglie Margareth ed i sette figli dallo Iowa, William Eddy con la moglie Eleanor e due figli da Belleville, la vedova Lavinia Murphy addirittura dal Tennesee con 5 figli minori e ancora i Graves, i McCutcheons, i Kesebergs, i Wolfingers e molti altri. 
Prima di raggiungere Independence le persone erano già 88, nella marcia verso nord ovest almeno 70 carri solcavano le sconfinate pianure del Nebraska verso le verdeggianti colline del Wyoming. Man mano che la carovana proseguiva, altri carri si aggiungevano: la paura degli indiani era diffusa sebbene Sioux, Cheyenne e Snake all’epoca non fossero ancora in guerra con l’uomo bianco e le loro razzie di bestiame difficilmente riguardavano carovane così numerose. In realtà in tutto il viaggio soltanto un emigrante fu ucciso dai Pawnee, nella prateria lungo il Platte, 50 miglia a est di Scott’s Bluff: William Trimble, che viaggiava insieme alla famiglia Graves ma si era momentaneamente attardato con il bestiame, rubato dagli indiani nella razzia. Morì invece di morte naturale Sarah Keyes, suocera di James Reed che aveva viaggiato fino allora col tradizionale coraggio delle virginiane, malata e distesa su un carro; era il 30 maggio e la signora fu sepolta all’ombra di una quercia mentre dai carri i giovani della carovana gettavano fiori sulla sua tomba.
In luglio, le grandi praterie erano ormai alle spalle e innanzi a sé i pionieri, superati gli imponenti bastioni dei monti Laramie, intravedevano già le aspre catene delle montagne rocciose. Tutto sommato il viaggio procedeva, la signora Tamsen Donner in una lettera ad un amico di famiglia di Springfield, il 23 luglio 1846 scriveva: “ci troviamo a 450 miglia da Independence (700 km) e fino ad ora l’unico rischio l’abbiamo passato nel traversare i fiumi ... tutto è nuovo e piacevole .. gli indiani spesso ci vengono a trovare e stamattina i capi di una tribù hanno fatto colazione nella nostra tenda .. George Donner è sempre uguale, ogni mattina dà la sveglia a tutti a suon di urla ...”. Ma pochi giorni dopo arrivò il primo grave segnale negativo: il 28 luglio, attraversato il fangoso Muddy Creek, la carovana entrò a Fort Bridger, una piccola stazione di posta circondata da uno steccato, sede dell’appuntamento con la guida Hastings, il fantomatico personaggio che aveva assicurato ai Donner la famosa scorciatoia. Ma a Fort Bridger Hastings non c’era, al posto suo un untuoso messicano, un certo Vazquez, il quale spiegò che Hastings era impegnato più ad Ovest con la spedizione Harlan-Young. La delusione fu generale, molti abbandonarono i Donner unendosi da altri convogli che proseguivano per la California Trail verso nord, attraverso la pista dell’Idaho. George Donner invece annunciò la sua intenzione di proseguire sulla pista tracciata da Hastings: 87 persone lo seguirono, distribuiti in 23 carri: 27 uomini, 17 donne e 43 fra ragazzi e bambini. La decisione più nefasta era stata presa. Il 31 luglio la carovana fedele ai Donner si avviò verso il fiume Weber, che correva incassato nel cuore dei monti Wasatch, al di là dei quali c’era il Gran Lago Salato. Il 6 agosto, con un messaggio scritto in un albero cavo, Hastings avvertiva che la strada attraverso il Weber Canyon era impraticabile e che lui consigliava di seguire un’altra via attraverso le montagne. Era ormai tardi per cambiare idea, se pur furenti i Donner dovettero far buon viso a cattivo gioco e, seguendo il consiglio del biglietto, portarono i 23 carri sulla ripida cresta dei monti. Fu un tratto allucinante che durò 20 giorni. Bisognava rimuovere le rocce, spaccarle a colpi di pala e piccone, lottare metro per metro con i burroni. Tutti erano impegnati allo stremo: uomini, donne e bambini. Davanti alle pareti di granito le ruote venivano bloccate con paletti, i carri imbragati con lunghe funi e issati a mano oltre l’ostacolo, così come i buoi ed i cavalli venivano issati con cinghie e paranchi mentre ondeggiavano pericolosamente nel vuoto.

Il 28 agosto il convoglio, non senza perdite di bestiame e provviste, arrivò al Gran Lago salato, di fronte alla striscia accecante di un deserto bianco come la neve con all’orizzonte una nebbiolina azzurrognola che ne nascondeva gli evanescenti confini. Dopo le maledette montagne a tutti però si apriva il cuore alla speranza: nessuno poteva immaginare che il deserto fosse lungo ben 470 miglia (750 km) e non 200 come sosteneva Hastings. Il peggio doveva ancora venire. L’obiettivo da raggiungere era il Pilot Peak, una solitaria montagna tra Utah e Nevada, alta 3500 metri, visibile dal Gran Lago salato. Ma più la carovana si addentrava nel deserto infuocato più la montagna sembrava allontanarsi, i carri cominciavano a sgranarsi, allontanandosi gli uni agli altri, alcuni sbagliarono direzione, altri dovettero essere alleggeriti di tutti gli oggetti cari ma pesanti e intrasportabili: candelieri in rame, cassapanche, sgabelli, sedie, tutto ciò che non era indispensabile doveva essere abbandonato sotto il sole cocente, anche i ricordi più cari. I bambini sembravano mummie fasciate di garza, per proteggerli dal sale che si incrostava sulla pelle provocando gravi ustioni. Molti cominciavano ad avere allucinazioni, i carri sprofondavano con le ruote di ferro nella sottile crosta di sale sciolta dal calore, gli animali ululavano dalla sete. Il terzo giorno James Reed, vedendo moglie e figli contorcersi sotto l’implacabile calura, si offrì di andare avanti in cerca di acqua con un cavallo. Ma ormai ognuno pensava per sé. Tutto sembrava perduto quando il Pilot Peak venne finalmente raggiunto in avanscoperta prima da Reed e poi dagli altri. Era il 9 settembre: il pauroso regno degli spettri era superato, ma a caro prezzo. George Donner, recuperato per giorni il recuperabile dal deserto, riunì la sua gente ed espose realisticamente la situazione: erano in terribile ritardo e ancora a settimane di distanza dalla California, avevano perso un terzo del bestiame e dei carri nel deserto di sale, farina e carne secca erano quasi finite e non c’era traccia di pascoli per il bestiame. Serviva assolutamente che qualcuno andasse avanti a chiedere aiuto verso Fort Sutter, nella valle del Sacramento. Due coloni, Mc Cutchen e Stanton tentarono l’impresa il 12 settembre. I nervi erano a fior di pelle, qualche giorno dopo lo stesso Reed venne alle mani con un altro colono che nella zuffa rimase ucciso. A Reed, al termine di una riunione convulsa e nonostante i pianti di moglie e figli, fu vietato di proseguire con la carovana e, vista la situazione, accettò di andare avanti da solo giurando a Margareth che sarebbe tornato con i rinforzi. La malconcia spedizione, intanto, provava a salire lentamente sulla Sierra Nevada, ormai in preda alla confusione, all’ansia ed alla discordia. Dopo il caso Reed, George Donner non era più il capo e il suo prestigio si dileguava di giorno in giorno, mentre cresceva nei singoli il più chiuso egoismo.
Ma la situazione poteva ancora peggiorare: il 12 ottobre un gruppo di indiani si avvicinò ai carri riuscendo a rubare 21 capi di bestiame, una perdita gravissima per il gruppo, già depauperato di buoi e cavalli; dell’imponente corteo partito da Independence restavano 14 carri trainati da coppie di buoi mezzi morti di fame e di impressionante magrezza. Molti emigranti non possedevano più nulla all’infuori dei vestiti che, in grossi fagotti, portavano sulla schiena. Il 20 ottobre si aggiunse l’ultimo degli errori, quello fatale: i pionieri, stremati, decisero di fermarsi per qualche giorno in alcuni prati alpini allo scopo di raccogliere le energie per lo sforzo finale verso i passi dell’alta Sierra. Le nuvole minacciavano neve ma d’altronde tutti erano esausti. Quattro giorni dopo ripresero stancamente il cammino per l’ardua salita: il Trucker Pass era a 2.200 mt di altezza, in una conca tra due alte vette, ma per arrivarci era necessario superare una dura salita al termine di un lago (oggi chiamato lago Donner) sulle cui sponde li sorprese, il 28 ottobre, la prima forte nevicata. La spedizione adesso era davvero in trappola. I primi carri vennero sepolti da metri di neve, ogni tentativo di proseguire era inutile così gli uomini decisero di costruire delle capanne in attesa di un miglioramento; solo Tamsen Donner insieme ad alcune donne continuava ad affannarsi a spingere i carri, supplicando tutti di proseguire prima che la neve si alzasse troppo, ma una sorta di apatico fatalismo sembrava essersi impossessato degli uomini. Continuò a nevicare ininterrottamente fino all’11 novembre, i buoi accecati e frastornati finirono per allontanarsi nella neve restandone seppelliti, il freddo era intensissimo, la coltre bianca superava i sei metri. Impossibile muoversi. Quattordici giovani del gruppo, riunendo le poche forze rimaste, decisero di provare quello che fu chiamato il “tentativo disperato” per raggiungere e superare il passo, munendosi di racchette improvvisate con rami di abete: fu uno sforzo sovrumano che raggiunse l’unico effetto di bloccarli più avanti nel bel mezzo di una bufera, fuori dalla vista della carovana, senza speranza di ricongiungersi con essa. Resistettero in qualche modo con le provviste e con la scarsa cacciagione per circa un mese, poi i primi uomini cominciarono a morire di stenti (in seguito ci furono appositi studi sul perché le donne resistevano con maggiore forza alle privazioni più estreme) ed infine venne il giorno in cui i più coraggiosi vinsero l’orrore cominciando ad avvicinarsi ai morti con un unico intento, fino ad allora ostinatamente escluso. Era l’ultimo tabù da superare per rimanere vivi. Iniziarono da Dolan, morto la notte precedente, poi passarono al giovane Lemuel Murphy, con le mani dapprima tremanti, poi sempre più sicure, tagliarono dai corpi privi di vita pezzi di carne e li misero ad arrostire sui carboni: non tutti mangiarono ma chi lo fece sopravvisse. Chi si rifiutò morì divenendo a sua volta cibo per gli altri.
Fino al 29 dicembre i sette sopravvissuti del “tentativo disperato” rimasero in quel “campo della morte” sotto rifugi di fortuna e cibandosi di carne umana. Ciò che non veniva consumato era fatto essiccare per portarselo dietro. Nessuno si cibò della carne dei parenti, anzi fu messo con cura un cartello su ogni pezzo perché ciascuno potesse distinguere quelli appartenenti alla propria famiglia. Poi ripartirono e, finalmente, la sera del 17 gennaio avvistarono la capanna del Johnson’s Ranch, il primo avamposto giù verso valle; la ragazza Harriet Richie che aprì la porta stentò a riconoscere davanti a sé gli esseri umani. L’allarme era stato dato, ora bisognava recuperare gli altri. Nei due mesi successivi diverse spedizioni cercarono di raggiungere il “Lago Donner”, soprattutto grazie al prezioso contributo di Mc Cutchen, Stanton ma soprattutto James Reed che, nel frattempo, era riuscito anch’egli a salvarsi ed a convincere alcune squadre di soccorsi dai villaggi sulla costa della California ad avventurarsi fin sulla Sierra. Quando il 20 febbraio 1847 Reed con la prima delle quattro squadre di soccorso raggiunse in mezzo alla neve alta ciò che restava dei carri dei Donner, rimase sgomento nel vedere lo stato dei pionieri dopo mesi di isolamento nel gelo della Sierra; scorsero Elizabeth, la moglie di Jacob Donner ancora viva. Lei con un pianto isterico alla vista degli aiuti sussurrò stralunata: “ che cosa credete che abbia cucinato oggi? Ho cucinato il braccio del signor Shoemaker, che avevo tenuto di scorta”. Shoemaker era morto il 20 dicembre. Non c’era tempo per inorridire né per commuoversi di fronte al quadro spaventoso apparso ai soccorritori nauseati. James Reed trovò in condizioni strazianti ma ancora vivi la moglie e due figli. Tra gli altri restavano sulla Sierra i cadaveri di George e Jacob Donner, di entrambe le loro mogli e di quattro dei loro figli. Degli 88 pionieri della carovana sparsi in rifugi di fortuna attorno al lago ghiacciato, solo metà furono salvati, in gran parte donne e bambini; gli uomini furono quelli che pagarono il prezzo più alto. Il Governatore della California, tempo dopo, citando le leggendarie donne della Spedizione Donner, proclamò che la resistenza fisica delle femmine del West era molto superiore a quella degli uomini. L’ultimo ad essere salvato fu Lewis Keseberg, un emigrante di origini prussiane che fu trovato nell’aprile 1847, impazzito e circondato da organi umani cannibalizzati dei suoi ex compagni. Il 22 giugno 1847 il Generale Kearney visitò le capanne del lago: furono trovati cadaveri sventrati, dall’aspetto di mummia, teschi spezzati, scheletri umani mutilati. Tutti i resti ebbero cristiana sepoltura in un unico pozzo vicino al lago. Nessuno volle accertare se tutti quei resti fossero esclusivamente di persone morte di stenti, oppure qualcuno fu ucciso dai sopravvissuti. Nessuno indagò oltre.
James Reed, l’eroe di questa storia, si stabilì con la moglie ed i tre figli sopravvissuti a San Josè, adottando anche la piccola Mary, figlioletta sopravvissuta di Jacob Donner. L’indiretto responsabile del dramma, Lansford Hatings, fu accolto come un lebbroso quando rimise piede in California nell’autunno del 1847. Nessuno si fidò più di lui né della sua “scorciatoia”, ed egli morì quasi dimenticato qualche anno dopo. Oggi molti turisti che, uscendo dall’Interstate 80, si trovano a passare dalla Squaw Valley e dal lago Tahoe, visitano il museo Donner soffermandosi all’omonimo passo e al lago dalle limpide acque azzurre, in un suggestivo scenario selvoso. Vicino all’albergo e al ristorante sorge il monumento al pioniere, che sembra gelosamente serbare i propri segreti, stendere un velo di silenzio sugli orrori che insanguinarono quei luoghi, difendere i pensieri di speranza, di pietà, di disperazione, di morte dei suoi protagonisti, nasconderne l’eroismo e la viltà, i sacrifici e la ferocia, per abbracciare tutti in un unico omaggio a coloro che ebbero fede nel destino dell’America e, nel bene e nel male, sfidarono l’ignoto e osarono l’impossibile.



Sergio Amendolia
BIBLIOGRAFIA

Angelo Solmi: Il diavolo sulla Sierra – Rizzoli.


SITOGRAFIA


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