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Il cerchio sacro e la spiritualità dei nativi americani

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Nella lingua del mio popolo, c’è una parola per indicare il suolo: Eloheh. Questa parola significa anche storia, cultura e religione. … quando dunque parliamo di suolo, non parliamo di una proprietà terriera, di un luogo e neppure di un pezzo di terra su cui sorgono le nostre case e dove crescono i nostri raccolti. Parliamo invece di qualcosa di veramente sacro” 
(J.Durbam, indiano Cherokee)

Percorrendo la Highway 14 che da Sheridan in Wyoming si snoda in direzione ovest tra immense distese di pini ponderosa, nel cuore delle Big Horn Mountains, raggiungo un’altitudine di circa 3.000 metri (9.642 piedi). La mattina è gelida e splendida, la temperatura vicina allo zero in un inizio di giugno terso e ventoso. La ragazza con l’uniforme da ranger mi accoglie con un sorriso infreddolito dalla casetta in legno sul cui tetto sventola maestosa la bandiera americana e mi indica il sentiero che, proseguendo tra la neve ghiacciata, mi condurrà ad una delle più grandi Ruote della Medicina esistenti, costruita circa 800 anni fa dagli indiani delle pianure su resti molto più antichi e inserita in un più ampio complesso archeologico cerimoniale costituito da circa 150 ruote sparse tra il Nord-Ovest degli Stati Uniti ed il Sud-Ovest del Canada. Il sito da oltre 7.000 anni è sacro ai nativi d’America per i quali rappresenta ancora oggi tutta la conoscenza dell’Universo.”
I due secoli di vergogna che hanno costituito lo scontro tra gli europei stanziatisi nel Nord America e le oltre 400 nazioni di nativi che già popolavano il territorio, conclusosi con il quasi totale sterminio di questi ultimi e con l’annullamento dei valori culturali che li caratterizzavano, sono stati raccontati per lungo tempo, in molti modi e da diversi punti di vista spesso in antitesi tra loro e viziati, a seconda del periodo storico e politico, ora da sentimenti patriottici, ora da visioni politicizzate e anti-americaniste, ora con finalità commerciali da new age. Le lotte del “cattivo contro il buono”, protagonisti intercambiabili a seconda di chi li descrive, devo dire, non mi hanno mai convinto del tutto, così come non ho trovato neppure appaganti le motivazioni, che pur talvolta sono riscontrabili nei fatti, riconducibili esclusivamente all’ingordigia irrefrenabile di chi fuggiva dalla civile Europa. Anche perché, insieme alla spietata volontà di annientare, spesso voluta dalle sfere militari per indifendibili ragioni di ordine pubblico, si sono anche levate tra le menti più illuminate degli Stati Uniti voci a sostegno dei diritti dei pellerossa, denunce di truffe e raggiri perpetrate ai loro danni, offerte di aiuto da parte di associazioni civili e religiose. Molti più coloni di quanto si pensi, cacciatori, avventurieri, esploratori, non solo sono riusciti a convivere pacificamente ma hanno addirittura preferito mischiarsi con i nativi, vivere la loro vita, sposare le loro donne. E allora? Come è stato possibile che negli sconfinati spazi aperti dell’Ovest americano, nei quali ancora oggi è possibile vagare giorni interi senza vedere tracce di antropizzazione, non si sia giunti ad un compromesso, ad una soluzione che consentisse la pacifica convivenza tra culture diverse?
Il pensiero occidentale, sia filosofico che religioso, ha sempre sostenuto una visione dualistica del mondo, esaltando da una parte la centralità dell’uomo e dall’altra le mille contrapposizioni dell’Universo in cui egli si muove: la mente contrapposta al corpo, il mondo spirituale al mondo materiale, l’aldilà e l’al di qua, il bene ed il male, le tenebre e la luce, l’uomo e la natura … e via dicendo in un’infinità di esempi che hanno caratterizzato la storia degli ultimi duemila anni. Il tutto inserito in una dimensione temporale che, secondo una linea retta, viene dal passato, attraversa il presente e si perde nel futuro, nella continua ricerca dell’evoluzione. In questa progressione dualistica il Vecchio Mondo è, pertanto, stato sempre diviso in raggruppamenti umani contrapposti tra loro in modo ostile, costretti ad escludersi, demonizzarsi e distruggersi a vicenda: cristiani contro eretici, fedeli contro infedeli, imperatore contro papa, cattolici contro protestanti, capitalisti contro comunisti. In verità questa concezione ha anche consentito il superamento di continue barriere, con enormi conquiste in campo scientifico, medico o tecnologico, sempre però in quel moto irrefrenabile ed illimitato che tutto può produrre, distruggere o manipolare perché, in fondo, l’uomo si è sempre visto come estraneo e superiore a tutto ciò che lo circonda, collocato in una natura da dominare e sottomettere. Per i nativi americani invece – estremamente sensibili al creato che li circondava - la concezione del tempo non partiva dall’idea di un progresso finalizzato e lineare (dalla Creazione fino alla fine dei tempi) ma dall’eterno alternarsi del giorno e della notte, dall’andamento ciclico delle stagioni, ben sapendo che in natura tutto è ciclico.
La ruota appare all’improvviso su un pianoro roccioso, al termine di una faticosa salita. La prima impressione è di incredibile bellezza, la vista sulle grandi pianure del Wyoming un tuffo mozzafiato. Il cerchio di pietre dal diametro di 80 metri è delimitato da una recinzione sulla quale i nativi, seguendo un percorso orario circolare, appendono ancora oggi oggetti cari, anche appartenenti a familiari, con finalità votive e religiose. All’interno della grande ruota sono disposte 28 linee di pietre a raggiera che confluiscono in un tumulo centrale. La particolare composizione è tutta rivolta all’universo ed alle sue fasi, al sorgere ed al tramontare del Sole ed alla posizione di stelle come Aldebaran nel Toro, Rigel in Orione e Sirio nel Cane Maggiore. I 28 raggi rappresentano le fasi lunari. Il tutto associato al solstizio d’estate, unico periodo dell’anno in cui l’area è libera dalla neve. Per gli indiani Cheyenne e Lakota la ruota incarna simbolicamente le quattro direzioni che rappresentano, oltre alle 4 stagioni anche le fasi vitali dell’essere vivente (infanzia, gioventù, maturità e vecchaia) ed i suoi quattro aspetti (spirituale, emotivo, intellettuale, fisico) ma anche gli elementi della natura (fuoco, aria, acqua e terra) e quelli animali (aquila, orso, lupo e bufalo). Il sito in realtà è di per sé un simbolo ancestrale e misterioso, nessuna traccia sulla sua nascita né sui suoi riti e significati primigeni. Eppure per la spiritualità degli indiani delle pianure, eredi degli antichi popoli che la crearono, essa continua ad avere un significato netto e preciso: rappresenta l’armonia, il simbolo dell’interazione pacifica tra tutti gli esseri viventi sulla Terra. Nel suo interno si svolgono danze sacre, si ricercano le visioni spirituali; nel tumulo centrale a volte viene posta una penna d’aquila a simboleggiare il Grande Spirito, il Wakan Tanka. Le quattro direzioni vengono associate ad altrettanti spiriti guida : l’aquila reale per l’Est (colore giallo), il Sole che infonde luce, la stella del mattino che porta saggezza; la gru per il Nord (rosso) è sede dell’inverno, simbolo di salute e crescita; l’aquila nera per l’Ovest (nero) porta la pioggia e con essa gioia e sapienza; l’aquila calva (bianco) verso Sud è associata a calore, felicità e generosità. Tutto nelle quattro direzioni si chiude e si unisce simbolicamente nel grande cerchio. Nel silenzio più assoluto mi fermo a pensare, poi comincio anche io a percorrere lentamente il perimetro in senso orario.”
Il cerchio della vita. L’indiano nordamericano coltivava un’idea circolare della vita e dell’universo nella quale l’uomo non era mai alla ricerca della crescita esponenziale bensì dell’equilibrio, dell’armonia tra le cose. In questa visione egli non si sentiva superiore o estraneo alla natura ma parte di essa, non contrapposto all’universo ma inserito nell’ordine delle cose. E le contrapposizioni, anche quando esistevano in rapporto alle dualità presenti nel mondo, non divergevano in modo centrifugo escludendosi e delimitandosi a vicenda, ma tendevano (e appartenevano) piuttosto ad un moto centripeto, che le rendeva complementari e non antagoniste. Anche l’indiano interveniva ovviamente sulla natura per assicurarsi la propria sussistenza, ma sempre con rispetto e riverenza, non si sentiva un dominatore impaurito che deve affrontare l’avversario, sempre costretto a sopraffarlo quando non sia possibile condurlo dalla propria parte. Il nativo americano era convinto di abitare in un mondo in cui ogni cosa è vivente, tutto ciò che i suoi sensi gli dicevano essere reale era animato dalla vita. Egli non si giudicava superiore né alle rocce (gli indiani Sioux e Cheyenne hanno sempre attribuito sacralità alle montagne ed alle formazioni rocciose in genere) né agli alberi o agli animali. Le piante avevano un proprio percorso di vita e sviluppo, di pari dignità con l’essere umano. All’animale ucciso per sfamare la vita umana bisognava chiedere perdono senza mai offenderne lo spirito. Le donne Sioux, per esempio, erano solite raccogliere una specie molto apprezzata di fagiolo, sottraendolo all’alimentazione invernale di topi ed altri animali. Ebbene, l’azione era compiuta lasciando agli animali, come compenso, la stessa quantità in grani di mais. Essendo quindi la vita sacra in ogni sua forma, ogni attività dell’indiano, sia personale che sociale, si svolgeva seguendo riti precisi e dedicati. Addirittura la guerra era concepita in maniera rituale: era connessa con l’aggressività, comportamento naturale e accettato, oltre che utile a suddividere la società indiana in gruppi e fazioni rivali, meccanismo che ha sempre evitato la costituzione di uno Stato dominante. Per tale motivo lo stato di guerra era dunque permanente tra le tribù, non per volontà di sopraffazione ma per il compimento di riti significativi finalizzati al mantenimento delclan e delle sue alleanze. Per provare la sua bravura il guerriero indiano non aveva bisogno di uccidere il suo avversario, gli bastava vincere una prova assegnatagli dalla tribù come rubare un cavallo, oppure colpire il nemico con la mano, questo ovviamente prima che l’arrivo dei bianchi stravolgesse completamente tale concezione.
Ecco perché anche l’assenza di uno Stato organizzato in America del Nord fu subito ritenuto per gli europei inconcepibile, chiaro segno di una società ridotta ad uno stato selvaggio molto basso, dove nessun membro della tribù era sottoposto a obblighi di lavoro o di tributo verso un altro ed il senso di proprietà era tribale, collettivo e non personale. Esistevano associazioni con funzioni di sorveglianza, i clan legati da vincoli familiari, ma il capo rappresentava solo il portavoce, colui deputato a parlare agli altri capi clan a nome del gruppo, con un unico mezzo di pressione sulla propria gente: la parola, la capacità di dissuasione. Le decisioni importanti erano sempre collegiali, prese da un “consiglio” normalmente composto dagli anziani, entro il quale ogni decisione richiedeva l’approvazione unanime dei partecipanti, in cui le minoranze contrarie abbandonavano il cerchio decisionale per rispetto dei membri maggioritari della tribù. Accampamento circolare, riunioni in cerchio attorno al fuoco, tepee di forma tonda: se ci pensiamo la sfera presuppone una concezione in cui tutti i punti costitutivi sono ugualmente importanti nella loro identità e funzione, mentre il modello lineare parte dal principio che alcuni punti sono più importanti di altri. Gli europei, fedeli ad una società dualistica composta da dominati e dominanti, anche con tutta la buona volontà, non avrebbero mai potuto capire tale concezione, convinti che un’organizzazione politico/sociale del genere non potesse mai funzionare e quindi andasse civilizzata, nel suo stesso interesse, oppure fatta scomparire se avesse resistito. Nei primi contatti tra i due popoli, due secoli prima dell’annientamento culturale, l’indiano percepì subito l’uomo bianco come un dio infelice, cacciato dalla propria terra e prigioniero dei propri dogmi, più da aiutare che da sconfiggere. E fu per questa estrema differenza di pensiero che gli stessi pellerossa, alle prime ostilità, non pensarono di trarre profitto dalla situazione sul campo, ritenendo che dopo aver sperimentato la loro bravura i bianchi vinti si sarebbero quindi ritirati. In realtà, come accadde, le tregue permettevano ai bianchi di riorganizzarsi e contrattaccare con violenza ancora maggiore. In un’ottica del genere una contrapposizione totale era inevitabile e ha vinto, come spesso accade nella storia, la civiltà materialmente e tecnicamente più sviluppata, più rigidamente organizzata e, per lo meno in seguito, numericamente più potente; quella infine programmata per l’espansione sulla terra e che aveva attribuito al progresso una legittimazione religiosa. E’ emblematico il motto: “Uccidi l’indiano e salva l’uomo” in voga tra le Autorità negli anni ’20 del ‘900 durante la campagna di scolarizzazione dei bambini indiani. Prima dei bianchi i nativi Americani erano sicuri del loro mondo, non sentivano la necessità di acquisire il consenso altrui, né di convincere gli altri della giustezza della propria via, oggi i discendenti di quel popolo appaiono confusi, faticano a ritrovare la loro identità, non sanno più quale sia il loro rapporto con la terra e con le stelle. Possiamo solo immaginare quale tremenda sciagura fu venire assimilati da una civiltà che aveva un rapporto così diverso con lo spazio, con il tempo e con il mondo.
Per l’uomo del terzo millennio, così immerso in una società tecnologica, complessa e intrecciata, può far sorridere il solo pensiero di poter tornare ad una concezione forse ingenua del mondo, come era quella di alcuni popoli indigeni. E tuttavia molte voci autorevoli sostengono che non sia più possibile proseguire all’infinito in questa linea retta che tutto travolge senza rischiare l’estinzione, che forse alcuni concetti delle culture native andrebbero almeno legittimati e, in qualche modo, valorizzati, riconoscendo che probabilmente esse conservavano una parte di verità che all’uomo occidentale per qualche motivo è sfuggita. La domanda è scontata: dopo un’intera storia vissuta nella continua necessità di portare gli altri sulla bontà del suo modello di vita, dopo le colonizzazioni, le europeizzazioni e le cristianizzazioni delle culture indigene, sempre accompagnate da processi di profanazione della natura, di fronte a foreste e mari che muoiono, a fiumi avvelenati, di fronte cioè al turbamento profondo dell’equilibrio tra uomo e ambiente, riuscirà l’uomo del terzo millennio a ritrovare la propria patria su questa Terra e con essa le sue quattro relazioni fondamentali? Riuscirà a ripristinare il cerchio della vita?
Mi guardo attorno mentre cammino in tondo: piccoli oggetti, stoffe, monili, frammenti di vita e speranze sono appesi alle corde che delimitano la grande ruota. So di essere un estraneo, so che questa cultura non mi appartiene, ma voglio lasciare ugualmente un mio oggetto caro, tra gli altri. Voglio far parte per un momento di questa grande ruota della medicina. In cielo un’aquila volteggia lenta formando un grande cerchio, è lontana e non riesco a distinguerne le fattezze. Decido di legare la mia offerta sul lato orientale della grande ruota sacra: in fondo sono un uomo bianco e ho tanto bisogno di saggezza”.

Sergio Amendolia


Bibliografia: 

Philippe Jacquin: Storia degli indiani d’America

Rudolf Kaiser: Dio dorme nella pietra

Sitografia: wyohistory.org ; wyld.sdp.sirsi.net ; nlm.nih.gov .

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