Alla fine del Quattrocento l'arrivo sulle coste del Nuovo Continente, secondo la visione dell'uomo bianco, rivelò agli europei l'esistenza di popoli le cui manifestazioni artistiche e intellettuali apparivano diverse dalle loro.
In particolare, nella vasta area compresa tra il Messico ed il Nicaragua, un mosaico di etnie diverse aveva dato vita alle civiltà mesoamericane, comunemente noto come civiltà dell'Antico Messico. A quell'epoca i conquistatori, armati di spada e croce, non seppero e non vollero apprezzare il patrimonio culturale, accecati dalla bramosia dell'oro.La storia di queste popolazioni è divisa cronologicamente in periodi: il periodo preclassico che va dal 2500 a.C. sino al 200 d.C., il periodo classico che va dal 200 d.C. al 900 d.C. e il periodo postclassico che si spinge sino alla fine delle popolazioni mesoamericane.
Al tardo periodo preclassico risalgono le prime tracce di quella che divenne la più spettacolare e affascinante civiltà mesoamericana precolombiana, la civiltà Maya.
Gli antichi Maya furono una popolazione insediatasi in Mesoamerica dove svilupparono una civiltà nota per l'arte, l'architettura, per i sistemi matematici e astronomici e per la scrittura. I maya si svilupparono in una zona che comprende l'odierno sudest messicano, il Guatemala e il Belize, oltre a porzioni occidentali dell'Honduras e di El Salvador.
L'invasione delle popolazioni europee iniziò una notte d'ottobre del 1492. Rodrigo de Triana, a bordo della Pinta, distinse nitidamente la costa. Era il 12 ottobre. La mattina seguente le tre caravelle trovarono un varco nella barriera corallina e gli equipaggi sbarcarono su un'isola, che Colombo decise di battezzare Isola di San Salvador. La sera del 27 d'ottobre le tre caravelle riuscirono a sbarcare nell'odierna Cuba.
Il contatto era avvenuto.
Nel 1511, una caravella spagnola naufragò nei Caraibi e circa una dozzina di sopravvissuti approdarono sulla costa dello Yucatan, dove vennero fatti prigionieri da un signore Maya. Quasi tutti i prigionieri furono sacrificati, ma due furono risparmiati.
Uno dei due si chiamava Gonzalo Guerrero.
Gonzalo nacque a Palos de la Frontera, in Spagna, nella seconda metà del XV secolo. Poco è conosciuto della sua infanzia, non sapendo neppure l'anno di nascita. Fu più soldato che marinaio. Nei resoconti dell'epoca appare come fuciliere nella conquista di Granada, in una campagna che culminò il 2 gennaio del 1492, quando le truppe dei re cattolici riuscirono a sconfiggere il re Boabdil. Successivamente seguì il Gran Capitano a Napoli, dove la Spagna iniziava la sua influenza.
Scomparve dalla storia per quasi vent'anni.
Gonzalo Guerrero riapparve nel 1510 in America, dove si era immerso nella lotta fratricida per il potere tra i capitani spagnoli. Insieme ad un gruppo di compagni partì, il 15 agosto del 1511, alla ricerca di nuovi schiavi da catturare. All'alba del terzo giorno di navigazione un temporale fece schiantare l'imbarcazione in una secca di fronte all'odierna Giamaica.
Solo venti tra i componenti dell'equipaggio riuscirono a salvarsi.
Tra loro annoto la presenza di due donne.
I venti superstiti s'imbarcarono, velocemente, sopra una piccola scialuppa.
Rimasero senz'acqua ed alimenti.
Inizialmente bevvero le proprie urine.
In seguito bevvero le urine dei compagni morenti.
La disperazione sappiamo conduce a conoscere l'abisso.
Iniziarono a spolpare i defunti e mangiarne la carne.
Bevvero il loro sangue.
Si nutrirono dei loro simili.
Questo comportamento mi ricorda l'espressione di Henry David Thoreau: “non ho dubbio che sia parte del destino della razza umana, nel suo graduale miglioramento, smettere di mangiare gli animali, nello stesso modo che le tribù selvagge hanno smesso di mangiarsi l'un l'altra quando vennero a contatto con le più civili”.
Purtroppo Thoreau è morto da oltre un secolo, per cui non posso ricordare al noto scrittore, e filosofo, che avrebbe fatto bene a mitigare la solita supremazia dell'uomo bianco americano.
Alcuni comportamenti dell'essere umano non sono rintracciabili con il semplice ragionamento.
Torniamo all'agosto del 1511.
Della ventina di persone salite sulla scialuppa, solo otto di loro giunsero sullo coste dello Yucatan.
Non sapevano quale sorte si celava nella terra appena conosciuta.
Ebbero un primo contatto con la popolazione dei Cocomes, che si mostrarono ostili ed aggressivi. Di fronte a questo comportamento, il capitano Valdivia, sguainò la spada per difendersi e ferì un guerriero Cocomes.
Il ferimento di un combattente indigeno scatenò la violenza.
I Cocomes li catturano.
Quattro furono sacrificati, tra cui il capitano Valdivia.
Finito il sacrificio, la popolazione locale si cibò dei resti dei quattro spagnoli.
Quanto comprendiamo ora la legge del contrappasso, per analogia. Secondo questo antico comportamento,si colpiscono i rei mediante il contrario della loro colpa o per analogia a essa.
Pensando ai nativi che si nutrono di esseri umani che a loro volta si erano nutriti dei loro simili, non posso scordare una simpatica frase di Emil Cioran: “talvolta si vorrebbe essere cannibali, non tanto per il piacere di divorare il tale o il talaltro, quanto per quello di vomitarlo”.
Non è scontato che i nativi si nutrirono degli spagnoli per sopravvivenza alimentare, non è assolutamente scontato.
In venti si erano salvati a bordo di una scialuppa.
Il cannibalismo e le condizioni atmosferiche portarono il numero a quattro sopravvissuti.
La storia, riportata da Geronimo de Aguilar, uno dei sopravvissuti, ricorda che i superstiti furono rinchiusi in piccole gabbie a forma di cubo, ed ingrassati per degustarli successivamente.
La disperazione permise ai quattro di trovare forze inaspettate.
Riuscirono a fuggire.
Per brevissimo tempo poiché caddero nelle mani dei Xiues Tutul, popolazione locale nemica dei Cocomes.
Portati nella città-stato di Mani, il capo, Taxmar, li offrì al sacerdote Teohom come schiavi.
I quattro spagnoli furono maltrattati ripetutamente, tanto da condurre alla morte due di loro.
Sopravvissero Gonzalo Guerrero e Geronimo de Aguilar.
Si salvarono grazie al capo villaggio Taxmar, che decise di liberarli dalla schiavitù del sacerdote e donargli una piccola libertà. Il capo era consapevole del fatto che avevano combattuto con una tribù nemica, distinguendosi per astuzia e strategia, doti sconosciute alle popolazioni indigene. I due spagnoli furono eletti consiglieri di guerra.
Gonzalo addestrò le popolazioni locali alle diverse forme di attacco e difesa. Si spinse a formare una rudimentale falange macedone nella battaglia decisiva contro i Cocomes.
La vittoria portò in dote un grande prestigio a Gonzalo presso gli abitanti dei villaggi della civiltà degli Xiues Tutul.
Lo spagnolo decide d'abbandonare l'idea di vita europea per abbracciare quella dei nativi mesoamericani.
Si lasciò mutilare e tatuare, eventi necessari per una persona del suo rango all'interno della tribù.
Tra una battaglia e l'altra, sempre vittoriose, s'innamora della principessa Zazil Ha, chiamata anche Ix Chel Can, figlia di Nachan Can, grande comandante militare delle popolazioni native.
La vita dello spagnolo divenuto Maya si tinge di leggenda. La sua integrazione con la religiosità delle popolazioni che lo adottarono fu tanto grande da condurlo a sacrificare la sua primogenita sull'altare, a Chichén Itza.
Trascorsero molti anni prima di un contatto con la cultura che gli aveva dato la vita. Nel 1519 sbarcò sull'isola di Cozumel una spedizione di Cortes. Il comandante spagnolo fu informato della presenza di due compatrioti nella vita delle tribù locali. Cortes valutò come un grande vantaggio avere questi due naufraghi dalla sua parte, per la conoscenza della lingua, del territorio e delle tradizioni locali. Decise di mandare due messaggeri per riscattarli.
Geronimo de Aguilar lesse e Gonzalo Guerrero ascoltò.
Dopo una breve riflessione disse: “fratello Aguilar, io sono ormai sposato ed ho tre figli. I Maya mi hanno elevato a capo e capitano, mi sono forato le orecchie e ho i tatuaggi del mio rango sulla faccia. Cosa direbbero di me gli spagnoli se mi vedessero con questo mio nuovo aspetto? Va tu con Dio, questo è ormai il mio posto, fra questa gente”.
De Aguilar si presentò al cospetto di Cortes comunicando la decisione di Guerrero. Dopo una breve riflessione sull'importanza strategica di quella perdita, il comandante spagnolo disse:“vorrei mettere le mie mani su di lui, perché non è bene lasciargliele”.
La Spagna non perdonava.
Guerrero fu bollato come traditore.
Un rinnegato.
Un eretico, che abbandonò la fede cristiana per dedicarsi ai sacrifici umani.
La ripartenza di Aguilar dalla vita delle popolazione Maya non ci permette di sapere come Guerrero trascorse gli anni all'interno di quella tribù.
La storia ci conduce al 1531.
Il capitano Davila partì alla volta di Chetumal, dove si supponeva vivesse ancora Guerrero e, soprattutto, vi erano miniere d'oro. Il capitano, giunto sul luogo delle meraviglie, trovò un sito in stato d'abbandono. Riuscì a catturare alcuni Maya che l'ingannarono dicendo che Guerrero era morto per cause naturali.
Le autorità spagnole furono informate della, presunta, morte del traditore.
La storia si concluse nel 1536 quando le truppe del capitano Lorenzo di Godoy affrontarono i nativi di Ticamaya, guidati dal capo di guerra Cicumba. Guerrero arrivò in soccorso del capo con cinquanta canoe.
La battaglia imperversava quando una freccia di balestra colpì all'ombelico lo spagnolo divenuto un Maya.
Guerrero fu attraversato da fianco a fianco.
Morì in brevissimo tempo, tatuato e con le orecchie forate, caratteristiche necessarie per un capo del suo rango.
Fabio Casalini
Bibliografia
Maria Longhena – Antico Messico. I Maya, gli osservatori delle stelle – Gruppo editoriale l'Espresso
Robert Cowley – La storia fatta con i se – Rizzoli, 2002
Stefano Menna – Gonzalo Guerrero e la frontiera dell'identità – Jouvence, 2017
Bernai e Simoni – Il Messico. Dalle origini agli Aztechi – Milano, 1992
Le fotografie utilizzate sono estrapolate dai vari siti di Wikipedia.
Le fotografie utilizzate sono estrapolate dai vari siti di Wikipedia.