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Channel: I Viaggiatori Ignoranti
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Il luogo in cui si raccoglieva il sangue dei martiri.

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Roma, stazione Termini.
Una moltitudine, silenziosa, si muove nelle diverse direzioni.
A poche centinaia di metri, da questo veloce correre della vita quotidiana, un gioiello rimane celato agli occhi di chi non esce dai binari della consuetudine.
In pochi minuti si giunge alla Basilica di Santa Maria Maggiore.
Ancora folla.
Ancora consuetudine.
Basterebbe dare le spalle all'insigne costruzione, e percorrere un centinaio di metri, per trovare il gioiello celato agli occhi della folla silenziosa.
La Basilica dedicata a Santa Prassede.
La chiesa ha origini molto antiche.
Nei pressi della basilica di Santa Maria Maggiore nacquero molti edifici destinati al cristianesimo, tra cui un titulus Praxedis.
Titulus era un termine generico attraverso il quale, i Romani, definivano qualsiasi forma di iscrizione. In senso materiale il termine indicava una lastra di marmo su cui era segnato il nome del proprietario di un immobile. Con l’avvento del Cristianesimo, il termine titulus, passò ad identificare una struttura architettonica in cui si svolgeva i riti della nuova religione. Possiamo affermare che titulus è il più antico termine con il quale s’identificava un luogo di culto cristiano. Un sinonimo di chiesa, termine che fu utilizzato solo più tardi per identificare i luoghi in cui si svolgevano i riti della nuova religione.
Titulus Praxedis.
Questo luogo si riferisce alla famiglia del senatore Pudente, che la tradizione ricorda come una delle prime persone convertite, da Paolo, nella città di Roma. Con il padre si convertirono anche le due figlie, Prassede e Pudenziana.
Siamo a conoscenza delle gesta delle sorelle grazie ai Leggendari, o Passionari, romani.
Il contenuto di questi libri ha un pregio inestimabile, quello di permetterci di ritrovare l’immagine di Roma città dei santi.
I Passionari furono composti tra il V ed il VI secolo. Servivano ai monaci per fornire loro le preghiere per lo svolgimento degli uffici religiosi.
In questi libri si narra che Pastore, prete di Roma, scrive una lettera a Timoteo, discepolo di Paolo, nella quale afferma che Pudente, senatore, ma allo stesso tempo, amico degli apostoli, dopo la morte dei genitori e della moglie, Savinella, aveva trasformato la propria abitazione in un luogo di culto cristiano.
Qualche tempo dopo Pudente muore, lasciando due figli maschi e due femmine, Prassede e Pudenziana. Le sorelle, in accordo con Pastore e con il papa, Pio I, costruiscono un battistero nei pressi del titulus fondato dal padre.
All’interno di questo luogo furono battezzati i numerosi domestici della famiglia.
Il papa, sempre Pio I, visita spesso la chiesa, dove celebra riti religiosi.
Pudenziana muore, all’età di sedici anni, forse martire, e viene sepolta vicino al padre Pudente.
Prassede chiede a Pio I di costruire una chiesa all’interno delle terme di Novato. Il Papa acconsente e la intitola alla beata vergine Pudenziana. Pio I, in quello stesso periodo, fece erigere una seconda chiesa, in vico Lateranus, dedicandola alla beata vergine Prassede. Essendo ancora il vita la Prassede, figlia di Pudente, possiamo supporre che si tratti di una santa, martire, omonima della ragazza. Qualche anno dopo scoppia una violenta persecuzione nei confronti dei cristiani, attuata dall’imperatore Antonino Pio.
Prassede nasconde molti cristiani all’interno del suo titulus.
L’imperatore, informato di questi accadimenti, decide per l’arresto e la condanna a morte di molti di loro.
Prassede si occupa della sepoltura dei cristiani all’interno del cimitero di Priscilla.
Qualche giorno dopo Prassede muore martire.
La vicenda delle sorelle, già leggendaria di suo, si arricchisce di un tassello interessante.
Nelle vicinanze del titulus Praxedis esisteva un pozzo.
In questo luogo, Prassede, raccoglieva il sangue dei martiri, con una spugna, per versarlo nel pozzo.
Sangue versato a causa della repressione di Antonino Pio.
La Basilica è un gioiello!
Il ciclo di mosaici, risalenti al IX secolo, ci permette un ritorno al passato.
Il rifacimento del nono secolo,voluto da papa Pasquale I, copre il catino absidale, l’arco absidale e l’arco trionfante.
Nel catino absidale troviamo Cristo in piedi, tra le nuvole. La mano destra alzata e la sinistra chiusa. Sopra il Cristo la mano di Dio padre che impone la corona al figlio. Alla sinistra del Cristo troviamo San Pietro, Santa Pudenziana ed un diacono. Alla destra San Paolo, Santa Prassede e Papa Pasquale I.  Sotto questa scena troviamo 13 agnelli. Al centro è il Cristo, posto sopra un’altura dalla quale sgorgano i quattro fiumi del paradiso, identificabili nelle quattro fonti, ossia nei quattro vangeli.
I sei agnelli per lato, quindi dodici in tutto, rappresentato gli apostoli.
Nell’arco absidale ritroviamo una raffigurazione che conduce al libro dell’apocalisse. Al centro dell’arco campeggia il Cristo seduto in trono, ai lati vi sono quattro angeli e quatto uomini, identificabili con i quattro evangelisti. Completano la scena 24 vegliardi che portano in dono a Cristo una corona d’oro.
La rappresentazione nell’arco trionfale è riferibile, anch’essa, al libro dell’apocalisse.
Vi sono Cristo, due angeli, Maria e Giovanni Battista e santa Prassede. Completano la scena Mosè, Elia ed i dodici apostoli.
La vista, data dall’insieme di queste tre rappresentazioni, lascia senza parole.
Un susseguirsi di scene che permettono un ritorno alle origini della religione cristiana.
La Basilica di Santa Prassede custodisce un secondo tesoro.
Dalla navata di destra si accede al Sacello di San Zenone.
Questo piccolo oratorio appartiene all’epoca di Pasquale I, che decise la costruzione come luogo funerario della madre Teodora. La dedicazione al martire romano Zenone lascia aperte molte domande, poiché della vita dell’uomo non si hanno notizie. Sappiamo che le spoglie riposano in questo piccolo luogo di culto.
Entrando il tempo si ferma.
Bisanzio.
Oro alle pareti.
Il mosaico della volta rappresenta il Cristo sorretto da quattro angeli.
Alle pareti possiamo ritrovare santa Prassede e Pudenziana, in compagnia di sant’Agnese, che presentano la corona del martirio.
Proseguendo troviamo la scena della liberazione dagli inferi d’Adamo ed Eva e, in una nicchia, Cristo, su un monte, affiancato da due cervi che si dissetano ai quattro fiumi.
La parete dell’altare presenta le figure di Maria e Giovanni Battista, in adorazione del Cristo.
Infine l’altare del sacello.
E’ composta da una edicola lignea, recente, al cui interno vi una piccola abside mosaicata: al centro Maria, con in braccio il bambino che regge un cartiglio, tra le figure delle sante Prassede e Pudenziana.
Tutto questo a pochi passi dalla Basilica di Santa Maria Maggiore.
Quei pochi passi, se deciderete di percorrerli, vi riempiranno il cuore.

Fabio Casalini

Illustrazioni:
1- Mosaico della volta del sacello di San Zenone
2- Arco trionfale, arco absidale e catino absidale
3- Cristo che presenta la mano con le ferite dei chiodi
4- Simboli degli evangelisti
5- Mosaici del catino absidale
6- Gli agnelli nel catino absidale
7- Santa Prassede e Santa Pudenziana all'interno del sacello di san Zenone
8- Sacello di san Zenone
9- absidiola mosaicata

Bibliografia:
- Roma antica nel Medioevo: mito, rappresentazioni, sopravvivenze nella 'Respublica Christiana' dei secoli IX-XIII, atti della quattordicesima Settimana internazionale di studio, Mendola, 24-28 agosto 1998
- La Basilica di Santa Prassede. P. Gallo. Edizioni d'arte Marconi. 2000


Castelseprio: remota fortezza a cavallo tra due mondi.

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Le nobili vestigia di Castelseprio, con la loro storia millenaria, costituiscono un luogo di irripetibile rilievo storico e artistico. Rasa al suolo da numerose e terribili vicende storiche che ci appresteremo a narrarvi, l’antica “Castrum Sibrium” non va visitata come un qualsiasi castello, bensì come un fantastico parco archeologico all’aria aperta.
Nel IV e V secolo, sotto l’impero Romano e poi Bizantino, Castelseprio era un accampamento militare situato tra Lario e Verbano, lungo la direttrice Como - Novara, posto a difesa delle scorrerie dei barbari provenienti da nord. Nel 493 una grande calata di Ostrogoti (ossia Goti dell’est), uniti in confederazioni sotto l’autorevole guida di re Teodorico, portò quest’ultimo ad assumere il controllo della Penisola per mezzo secolo. Divenuta una grande fortezza gotica, l’Italia si trovò inaspettatamente a vivere un breve e quasi utopico periodo di prosperità e pace tra rudi barbari e raffinati latini: ai primi spettavano le attività legate alla guerra, ai secondi l’amministrazione del regno. Tutto ciò accadde prima della riconquista dell’imperatore Giustiniano: la Guerra Greco-Gotica, che produsse un vero e proprio conflitto “mondiale” di durata quasi ventennale (535 – 553) che coinvolse le terre dell’attuale Italia, Francia, Spagna e dell’Africa settentrionale, portandosi dietro carestia e pestilenza.

Con l’avvento dell’aquila doppia di Costantinopoli, decaduta Roma la storia diede corso a un impero orientale e cristiano dove la lingua greca costituiva la principale parlata internazionale. 
Nelle foreste del medio Varesotto si edificò un primo “castrum” forse cinto di palizzate lignee, sul quale incombeva un paio di alte torri d’avvistamento: le fondamenta delle due torri di nord-est e di nord-ovest, non facenti parte della cortina muraria bensì interne all’accampamento. Queste, insieme alla grande cisterna e alla torre-dimora, fanno parte dei resti sopravvissuti della struttura tardoantica, originaria della fase iniziale di sfruttamento della collina come presidio armato. Le ipotesi sarebbero state avvalorate dai preziosi ritrovamenti monetali ritrovati in corso di scavo: il “follis” di Massenzio (306-12) emesso ad Aquileia e un soldo bronzeo dei Costantinidi (339), rinvenuti nell’area davanti alla Basilica di San Giovanni. Le due monete costituiscono le prove della presenza di un presidio già attivo nella prima metà del IV secolo, testimoniano l’importanza militare dell’area. Ad essi si aggiunge un “tremissis” aureo di Giustiniano, a simbolo della la presa di potere dei bizantini nell’area.


La consuetudine bizantina di costituire armate miste ci porta con l'immaginazione all’occupazione del castrum da parte di soldati delle nazionalità più disparate: lancieri siriani, feroci mercenari isaurici provenienti dall’Anatolia con gli archi stretti tra le mani ruvide e astuti armeni dagli occhi truccati di nerofumo. L’imperatore pagava le sue eterogenee milizie, e pure profumatamente. Quando ciò non accadeva scoppiavano violente e sanguinose sommosse: cosa che nella storia dell'impero Bizantino accadde assai spesso...

Oggi le fonti concordano nel ritenere i cosiddetti “secoli bui” del Medioevo come un prodotto di questi eventi: l’effimera deposizione di Romolo Augustolo (476), sovrano fantoccio di un regno già morto, costituì un evento tuttalpiù simbolico.


Le mute pietre di Castelseprio, con la loro storia, testimoniano di riflesso i disordini di quell’epoca: ottenuta una cruda vittoria; i bizantini riadattarono il castrum a vero e proprio sbarramento, al fine di arginare le incursioni dei Franchi: popolo germanico che, occupata Curia Raetorum (l’attuale Coira, in Canton Grigioni) iniziava a puntare all’Italia attraverso il valico svizzero del Lucomagno. 

Poi, inaspettatamente, il più feroce popolo germanico del tempo entrò a forza nella storia col ruolo di protagonista: tribù inquiete di Longobardi (le “Lunghe Barbe”) agli albori del Medioevo tracciarono per la prima volta i confini geopolitici della Lombardia e del resto d’Italia, costituendo un primo e parziale abbozzo di “unità nazionale”. Forti di 150.000 spade ai comandi del leggendario capoclan Alboino e del sostegno di numerosi altri popoli sconfitti e inglobati nell’orda, i nuovi arrivati calarono con carri e famiglie nel cuore economico dell’Italia bizantina: la pianura Padana. I “romani d’Oriente”, confinati nelle zone costiere, da allora in poi si affidarono quasi esclusivamente alle vie di comunicazione marittime. 

Contraddistinti da eroismo e valori militari, i Longobardi nel 588 espugnarono Castelseprio e la mantennero per due secoli. Da Autari in poi, re di fede ariana e ostile alla Chiesa di Roma, sotto la supervisione della capitale Pavia, l’area subalpina divenne un ampio distretto militare e amministrativo diretto da Castelseprio, che si estendeva dal lago Maggiore fino a quello di Como.


La via che attraversa Castelseprio in età altomedievale era importantissima poiché percorrendo la Valcuvia e la Valganna immetteva, attraverso un fitto sistema di forti minori, nelle valli dell’odierno Canton Ticino, dalle quali si raggiungevano i passi del San Bernardino e del Lucomagno: situato nella catena delle Alpi Lepontine e già prediletto dai romani per via della moderata altitudine (m 1919 s.l.m.) il valico, che collegava agevolmente la pianura Padana con la valle del Reno e favoriva il proliferare dei commerci e l’edificazione di santuari e conventi, diventò uno dei passi più praticati e battuti d'Europa. Castelseprio fu snodo cruciale di transito e collegamento a capo di un esteso sistema di fortificazioni collegate tra loro: Bellinzona, Isola Comacina, Rodero, Velate, Cuasso, Angera, Castelnovate. Proprio la viabilità antica costituisce il filo conduttore per individuare la distribuzione degli insediamenti fortificati altomedievali, molti dei quali quasi spariti. Impossessatisi dell’antico avamposto, i Longobardi entrarono in contatto con vestigia notevoli, anche religiose, risalenti al tramonto del dominio romano: eppure non le distrussero. 
Fu così che Castelseprio, da chiusa costruita per fermare i barbari, ben presto divenne un ponte di passaggio tra due mondi: quello del nord e quello del sud.
Sebbene i decenni successivi alla conquista avessero segnato l’oblio del cristianesimo a favore di salde credenze pagane legate al pantheon germanico, i “barbari” conquistatori ereditarono il cuore politico e religioso del castrum in modo rispettoso: non a caso i monumenti d’età giustinianea, ancora imponenti, furono trasformati in ruderi solo nel XIX secolo, dalla gente del luogo in cerca di materiale da costruzione.

La mole della basilica di San Giovanni Evangelista (VI-VII sec.), edificio a tre navate absidate con muri segnati da lesene piatte, era stata costruita, prima dell’arrivo dei longobardi, con sassi e pietre del vicino fiume Olona disposti con apprezzabile regolarità. Sul lato sinistro vi si addossa il battistero, più antico di un secolo, ottagonale e provvisto di absidiola; al suo interno si notano i resti di un pavimento a piastrelle bianche e nere, in marmo di bianco di Musso e nero di Varenna: è il cosiddetto ”opus listatum”, tipico degli spazi battesimali d’area lombarda prealpina tra IV e V secolo, riscontrabile anche nel celebre battistero svizzero di Riva San Vitale e sull’isola Comacina. Sul fianco destro la grande cisterna per l’acqua piovana, realizzata in “opus signinum”, ossia calcestruzzo impermeabile, riflette tecniche edilizie molto evolute, tipiche del tardo Impero Romano. Le fondamenta quadrate e massicce del campanile, strettamente imparentate col vicino torrione del complesso di Torba, svelano un precedente uso a scopo militare. 
Eccezion fatta per la piccola abside, aggiunta nella prima età romanica (XI sec.) il complesso richiama in tutto e per tutto gli stilemi paleocristiani d’area Alto Adriatica, assimilabili alle chiese di Ravenna, Aquileia, Grado e Torcello; di conseguenza i risultati degli scavi archeologici effettuati più volte nel corso del ‘900 hanno dimostrato l’infondatezza della suggestiva quanto fantasiosa diceria, alimentata dallo storico rinascimentale Bonaventura Castiglioni, secondo cui la genesi del complesso religioso si sarebbe dovuta attribuire a una “langobardorum regiam liberalitatem”.
Solo in seguito, per opera dei Longobardi sarebbe giunta la recinzione, mediante una cortina continua di mura, dove torri nuove inglobarono le due isolate e preesistenti all’interno della cinta. I nuovi conquistatori si limitarono, nella prima fase, a sfruttare la natura del luogo, cintando il nucleo preesistente con una robusta cortina muraria lunga quasi un chilometro, costruita con ciottoli fluviali e frammenti di spoglio lungo i margini irregolari dell’altopiano; il tracciato murario ingloba l’alzato di torri perimetrali quadrate a intervalli di media 30-35 metri. Trascurati ma ancora imponenti sono i resti di mura lungo il declivio che dal pianoro scende verso il torrione del monastero di Torba, in valle Olona.

Come riconoscere i resti delle opere difensive lasciate da goto-bizantini da quelle dei rudi e gagliardi Longobardi? Sveliamo “i segreti” dell’archeologo: oltre ai ritrovamenti monetali scoperti in corso di scavo, bisogna guardare le pietre: pietre che parlano.
Le due torri prima citate sono chiaramente preesistenti all’arrivo dei barbari, poiché le fondamenta presentano bocce di fiume appositamente recuperate dal fiume Olona, messe in opera con una certa abilità e legate con malta fine; la basilica di San Giovanni e il battistero poi, presentano finiture di una qualità tale da farci subito pensare a Ravenna. 
L’opera difensiva dei Longobardi si riscontra invece nell’uso di elementi di reimpiego, utilizzati nell’edificazione delle nuove mura e nelle torri della cortina: la pratica del “reimpiego” di lastre, frammenti e massi del periodo più antico, qui inaugurata, verrà portata avanti per tutto il Medioevo.

L’accesso al fortilizio è ancora oggi preceduto da un fossato difensivo, nel quale giacciono quattro “pilae”: pilastri d’appoggio, utili a reggere una passerella lignea che portava sulla soglia di una torre d’accesso, semicircolare, di cui risaltano ancora massicce fondamenta. Aumentata d’importanza, forse diventata sede di un duca o di un gastaldo, Castelseprio sarebbe stata trasformata in un vero e proprio borgo fortificato: sede di mercato, luogo di adunanze e amministrazione, zecca e centro pievano di sfruttamento di un ricco contado.

Furono davvero secoli bui? E’ erroneo parlare di decadenza, bensì di mutamento di civiltà e adeguamento alle nuove condizioni di vita. I ritrovamenti effettuati nel corso degli scavi dell’area absidale e del cimitero retrostante, usato più volte e in età diverse, testimoniano il progresso di una civiltà ingegnosa e propositiva: una borchia d’argento filigranata, assai simile per tecnica al “pettine della regina Teodolinda” (589-626) è servito a datare la prima presenza longobarda nell’abside alla seconda metà del VI secolo. Dal retro dell’abside si diparte la scalinata per l’antico camposanto: in quest’area, sotto a una lapide funeraria recante scolpita una tipica croce a forma di spada i resti di un fodero, una punta di lancia, una spada e speroni con guarnizioni di ferro in agemina d’argento hanno permesso di identificare un corredo degno di un personaggio di rango altolocato, appartenente all’élite longobarda: un cavaliere "arimanno". Un uomo libero, autorizzato a portare armi indosso .
Nell' VIII secolo la cristianizzazione dei Longobardi era ormai prossima. La fase più matura della loro occupazione è evidente nella ristrutturazione degli edifici di culto, che tornarono a funzionare dopo la conversione definitiva dal paganesimo e dall'eresia ariana al nuovo culto nella sua versione nicena, di confessione oggi detta "cattolica". Entro le mura, il cambiamento è testimoniato dalla preziosa scoperta di arredi liturgici: un pluteo d’altare del VII secolo, (Museo della Società di Studi Patri di Gallarate) e un capitello, forse di ciborio. A questi ritrovamenti va aggiunto un apparato d’illuminazione a più braccia costituito da lampade di vetro, numerosi calici e un peso monetale in bronzo, a confermare la presenza di una zecca che batteva moneta e di un’autorità che la controllava.
Furono indagati anche i ruderi di una massiccia casa-forte o torre-dimora: struttura rettangolare eretta sul limite orientale del pianoro che presenta una spessa muratura di un metro e ottanta di spessore, in bocce di fiume e pietrame di reimpiego gettato a sacco in buona malta. Essa era cinta alle spalle dalle mura periferiche, e forse anche da torri. Le murature della casa-forte sono conservate per un’altezza che ha permesso di risalire all’antica presenza di ampie finestre strombate. La costruzione si sviluppava su due piani; al superiore si accedeva da una scala di cui si conserva l’imposta: questa imponente struttura era la dimora dell’autorità che governava il castrum.
Un’ulteriore abitazione, ritenuta per estensione e qualità spaziale una sala nobiliare longobarda, sorgeva presso le mura sud-occidentali: forse si trattava della “halle”: lunga sala dal tetto di paglia, retta da pali lignei e adibita ai periodici raduni dei guerrieri longobardi, era il luogo in cui brindare e concludere accordi.

Soprattutto eventi come matrimoni, funerali e vittorie in battaglia, portavano intere “farae” o clan parentali armati a trascorrere notti di baldoria e gagliardia in questa grande sala di legno, in onore degli dei pagani: l’ebbrezza era considerata un dono soprannaturale. Dividere il pasto con gli ospiti e i membri del clan qui costituiva un vero e proprio rituale: conferiva immunità, rafforzando il gruppo e mettendolo in comunicazione con gli dei. A tali convivi birra, idromele e, in seguito, vino erano considerati una panacea irrinunciabile: i popoli nordici ritennero sempre che il loro utilizzo, anche abbondante, nutrisse il corpo e la mente rafforzando il calore, restituendo salute, prevenendo le infermità e favorendo la procreazione. Soprattutto, scacciava via la tristezza. 
Infine, col favore del buio e del freddo, sotto le pellicce sparse per certo si verificarono episodi di promiscuità: quante volte, nelle saghe medievali, il guerriero si trovò a giacere insieme alla dama sbagliata?

La presenza dei due ambiziosi edifici di potere, situati nello spazio aperto del vasto prato isolato, rinnovano le vecchie e suggestive storie locali per cui tale area fosse l’antico "feld": il campo d’armi del castello.


Nel centro del castrum sorgono i ruderi del San Paolo (XI secolo), una rara struttura a pianta esagonale con sei basi di colonne all’interno, a reggere uno stretto ma praticabile deambulatorio superiore: probabilmente fu rifondata su una struttura d’origini molto più antiche.

Fuori le mura, a ovest del castello si estendeva poi un vasto borgo, i cui confini culminavano con la celebre chiesa di Santa Maria Foris Portas. Qui gli scavi hanno rivelato una serie di abitazioni costruite con tecniche miste e sovrapposte su più fasi costruttive, a documentare la stratificazione insediativa di Castelseprio; la sequenza degli strati ha evidenziato le differenze tecniche utilizzate per la costruzione delle case: murature in pietra legate con malta, con pali angolari in legno, confitti a terra e poggianti su muretti a secco. Seppellire i defunti presso le abitazioni era un’abitudine diffusa. Queste case erano servite da una strada lastricata e divise da tramezzi e dotate di pozzo. Tra le case romane e bassomedievali spiccano i resti di quelle di tipologia barbarica: costruite nel cosiddetto “opus gallicum”, cioè in legno con fondamenta in pietra non lavorate né congiunte con malta, erano rinforzate con ciottoli e argilla. Costruzioni così descritte costituiscono le prime testimonianze archeologiche dell’esistenza di case di questo tipo nell’Italia settentrionale durante l’occupazione longobarda. Il borgo era adibito agli abitanti del luogo: i "romanici", a cui i Longobardi affidavano il lavoro dei campi.


La scoperta più incredibile è simboleggiata dall’eccezionale chiesa fuori le mura, dove un tempo si estendeva il borgo: Santa Maria Foris Portas, struttura a pianta trilobata preceduta da atrio, edificata in pietrisco e malta, doveva essere un’importante chiesa privata. La sopravvivenza nei secoli di questa chiesa di tipologia mediorientale ne conferma l’unicità, anche all’interno. La sua lunghissima vita, iniziata nel VI secolo, continuò con l’interessamento dei vescovi milanesi d’età carolingia e ottoniana; la fama dei suoi cicli apocrifi, affrescati tra VI e VIII secolo e riscoperti dal Bognetti nel 1948, rappresentano la più antica testimonianza pittorica dell’Alto Medioevo Europeo. Non per nulla, il complesso archeologico di Castelseprio, caso pregevole e rappresentativo di castrum e insediamento altomedievale, nel 2011 è entrato a far parte della lista dei “Beni Culturali – Patrimonio dell’Umanità – UNESCO” con una prestigiosa candidatura seriale dedicata a “Italia Langobardorum – centri di potere e di culto”.



Marc Pevèn (Marco Corrias)

Un ringraziamento agli amici del gruppo di rievocazione storica “Fortebraccio Veregrense” per la foto di scontro corpo a corpo e per il permesso di divulgare le fattezze di un elmo e di un’armatura longobarda della loro compagnia.


BIBLIOGRAFIA


M. Dabrowska, L. Lieciejewicz, E. Tabaczynska, S. Tabaczinsky; Scavi diagnostici, in “Sibrium, XIV”, 1978-9, pp. 1-31.

A. Deiana, Gli scavi a Castelseprio nel 1965-‘66-‘67, in “Rassegna Gallaratese di Storia e Arte”, 1968, pp. 93-102.

S. Kurnatowski, E. Tabaczinska, S. Tabaczinski, Gli scavi a Castelseprio nel 1963, in “Rassegna Gallaratese di Storia e Arte”, 1968, pp. 61-79.

S. Lusardi Siena. Castelseprio (Varese): Lo scavo di una casa medievale all’interno del castrum, in “Archeologia in Lombardia”, 1982, p. 203.

M. C. Magni, Appunti su S. Paolo a Castelseprio, in “Atti della II giornata di studi su Castelseprio”, 1976, pp. 161 - 166.

M. Mirabella Roberti, L’abside della basilica di S. Giovanni in Castelseprio, in “Atti della II giornata di studi su Castelseprio”, 1976, pp.155-160.

P. M. De Marchi, E. Percivaldi, Castelseprio: il castrum. Lo stato delle conoscenze tra Tardo Antico e Alto Medioevo, in “il Seprio nel Medioevo (sec. VI-XIII)” Soprintendenza per i Beni Archeologici della Lombardia, 2011, pp. 45-60.

P. G. Sironi, Castelseprio 1963-5, Fatti e commenti, in “Rassegna Gallaratese di Storia e Arte, 1968”, pp. 105-128.

P. G  Sironi, Castel Seprio, Storia e monumenti, 1997, pp. 101-113.

P. G. Sironi, I longobardi nel Seprio, pp. 6-21.

P. G Sironi, Il San Giovanni Evangelista di Castelseprio: storia, aspetti e quesiti vecchi e nuovi, 2006, pp. 34-69.

A. Surace, 2005, Santa Maria Foris Portas ed il suo borgo, soprintendenza per i beni archeologici della Lombardia, 2005 pp 4-21.


Il senso del viaggio. [seconda puntata]

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La tentazione di Adamo ed Eva - Michelangelo Buonarroti
Abbiamo visto nel precedente post come l'homo sapiens abbia, nel corso di molti millenni, colonizzato l'intero pianeta con lo scopo precipuo di trovare sempre nuovi terreni di caccia. Si spostava e viaggiava unicamente per necessità e per sopravvivenza,fino a quando cominciò a diventare stanziale con la domesticazione di alcuni animali e l'inizio dell' agricoltura ,circa 10.000 anni fa. Si sviluppano le prime civiltà e il senso del viaggio cambia."L'epopea di Gilgamesh"è il primo racconto di un viaggio che troviamo nella letteratura occidentale. Scritto su tavolette in carattere cuneiforme, risale a circa 5.000 anni fa ed è il più antico poema epico-eroico che si conosca, anteriore anche ai poemi indiani. Narra le vicende del mitico eroe che cerca, invano, l'immortalità spingendosi fino all'estremo limite del mondo. Il suo viaggio ci viene presentato come fatica, patimento che riduce e consuma il viaggiatore:è il modo per smorzare il suo appetito per il lavoro, la guerra e le donne. 
"Fece un lungo viaggio, fu esausto, consueto dalla fatica; quando ritornò si riposò, su una pietra l'intera storia incise". 
(Gilgamesh,ed.1960,pag.85).
Ma il viaggio che spoglia e consuma il viaggiatore raggiunge anche l'effetto desiderato: riporta l'eroe nei limiti della situazione in cui è nato e dunque lo rende saggio. È questo il senso del viaggio: sofferenza e dolore che danno saggezza all' eroe. Come dice il testo buddista Aiatareya Brahamana:
"Non c'è felicità per colui che non viaggia; vivendo nella società umana, spesso l'uomo migliore diventa un peccatore...dunque andate errando".
Non a caso in inglese travel è il viaggio, mentre in francese travail è lavoro e fatica. Gli antichi vedevano il viaggio come sofferenza necessaria per raggiungere la saggezza, mentre per noi il viaggio ha quasi sempre un significato ludico.
Questa concezione del viaggio come penitenza la ritroviamo anche nel libro più conosciuto del mondo: la Bibbia. Adamo ed Eva, dopo il peccato, devono lasciare il giardino dell' Eden, viaggiare e faticare per espiare la colpa. Il loro viaggiare è una punizione, ma anche una cura,un castigo ma anche una purificazione. Questo senso del viaggio è rimasto anche nel nostro pellegrinaggio religioso: chi è una stato a Fatima avrà certo visto i fedeli avvicinarsi al santuario avanzando in ginocchio e pregando,faticando e soffrendo per ottenere l'espiazione della colpa. 
Il viaggiare pulisce, purifica e rinnova.
Statua di Gilgalmesh ritrovata a Khorsabad
C'è un altro concetto che possiamo trarre da questi antichi testi ed è un attuale anche oggi: l'angoscia del distacco, il partire che è un un po' morire. La partenza è sempre una rottura, una fine per ricominciare. Gli psicoanalisti l'hanno definita appunto "angoscia del distacco" e si ha quando si taglia il legame con altre persone per noi importanti. Come scrisse Goethe"in ogni distacco c'è un germe latente di follia". La partenza degli eroi crea discontinuità (la partenza diventa una morte civile e la morte fisica è vista come una dipartita) ma dà anche significato al viaggio, che è una maniera per l'eroe di farsi conoscere al mondo e acquistare potere. I viaggi mitici di Osiride, Ercole, Ulisse, Teseo erano viaggi di uomini che volevano diventare potenti e re, con fatica e sofferenza.
Quelli che abbiamo fin qui esaminato erano dunque i viaggi degli eroi, che partivano volontariamente per cercare fama,onore, ricchezze ed avevano la caratteristica di essere circolari, cioè si concludevano dove erano iniziati. Ma i viaggi senza fine, cioè quelli che per migliaia di anni i nostri antenati cacciatori avevano compiuto in tutto il globo per sopravvivere, non erano certo scomparsi. La cacciata di Adamo ed Eva dal paradiso terrestre propone un' altra specie di mobilità umana: partenza imposta,senza ritorno,inizio di uno stato di esilio permanente. 
Tutti questi aspetti lì ritroveremo nel corso dei millenni,modificati ed adattati a condizioni sociali diverse, ma perfino oggi potremmo parlare di " viaggi di eroi " e di " viaggi di non eroi".
Come praticamente si spostavano i nostri antenati, con quali mezzi, per quali vie, per andare dove e perché, lo vedremo nel prossimo post.

Pietro Giuseppe Teruggi

Diabolik non è un... pirla!

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Intervista  ad  Andrea  Carlo  Cappi  
Andrea  Carlo  Cappi  è  l’unico  scrittore  al  mondo  che  parli  di  Diabolik. Non  solo! È l’esperto  in  assoluto  su  Diabolik. Lo  incontriamo nella  sua  casa  di  Milano.
Be’, esperto in assoluto non direi: molto spesso per i miei libri mi sono rivolto per informazioni e consulenze alla redazione di Diabolik e al Diabolik Club. Sono loro i veri esperti. Io ho avuto il permesso e il piacere di... entrare nella mente di Diabolik come romanziere.
-Andrea , chi è Diabolik?
È un inconsapevole superuomo nietzschano. Non ha superpoteri, a differenza di molti suoi colleghi «in costume» dei fumetti. Non lotta per il Bene perché a causa delle sue origini è aldilà del Bene e del Male. Per questo, pur essendo un personaggio che dovremmo vedere come negativo, lo amiamo come lettori.
–Diabolik cosa rappresenta e perché è stato creato dalle sorelle Giussani?
Al momento della sua nascita, ha rappresentato una forte rottura con iil fumetto tradizionale: ladro e assassino dichiarato, che usciva vivo e vincitore, contrariamente alle regole valide fino a quel momento nei media più popolari. Le sorelle Giussani lo hanno creato come un Fantomâs moderno: era passato meno di mezzo secolo dalla nascita del personaggio di Allain e Souvestre, ma il mondo era cambiato radicalmentein pochi decennni. Era un Uomo Mascherato in negativo: tuta nera, maschera che lascia scoperti gli occhi anziché nasconderli. Un criminale pervaso dall’ottimismo tecnologico degli anni Sessanta e che, curiosamente, anticipò con le sue trovate certi espedienti degli agenti segreti del cinema e della televisione di quell’epooca. Ma soprattutto, oggi come allora, rappresenta la disobbedienza alle regole che tutti noi in qualche momento possiamo sognare ma che, si spera, non mettiamo in atto nella realtà.
–Lo sai che un certo latitante, di cui non ricordo nemmeno il nome, si è fatto soprannominare DiaboliK? Cosa ne pensi?
Diabolik è un personaggio nato per i fumetti e, come tale «larger than life» come si dice in inglese. Illudersi di emularlo sarebbe come pensare di guidare come in Fast and Furious e non schiantarsi. Anche perché Diabolik, pur nella sua perfettta amoralità, mantiene un rigido codice etico che difficilmente potrebbe avere un criminale della realtà.
– Diabolik, il fumetto, avrebbe mai progettato ed effettuato stragi?
Se si tratta di disseminare trappole sulla via della fuga, Diabolik non si preoccupa di quanti poliziotti moriranno cercando di catturarlo. A suo tempo ci fu un momento di drammatica tensione tra lui ed Eva Kant, quando per portare a termine un colpo aveva previsto di eliminare l’intero equipaggio di una nave. Eva lo ha reso meno spietato. Ma, anche nei periodi più crudeli della sua carriera, Diabolik non avrebbe mai messo una bomba in cui potessero morire persone innocenti. Non a caso nel mio secondo romanzo, Alba di sangue, lui e l’ispettore Ginko si trovano alleati nella lotta contro una «strategia della tensioni» programmata dai servizi segreti deviati di Clerville.
–Allora mi stai dicendo che Diabolik in definitiva combatte contro il male! Non solo per danaro?
Non combatte contro il Male, a meno che i malfattori non si mettano sullla sua strada... o a meno che Eva, che spesso rappresenta una coscienza di cui lui sarebbe sprovvisto, non lo coinvolga in una battaglia in cui è lei a credere. Ma di sicuro Diabolik non agisce solo per denaro. È cresciuto in un mondo fuori dal mondo, un’isola che fungeva da base per un’organizzazione criminale globale, popolata da delinquenti e da esperti che fornivano loro un sofisticato supporto tecnico-scientifico. Ha imparato tutto da loro e quindi ha avuto, diciamo, un’educazione lievemente distorta. Non ha mai avuto un nome, fino a quando non si è scelto quello di battaglia: appunto, Diabolik. Non ha mai avuto un’identità convenzionale, fino al giorno in cui ha assunto quella fittizia di Walter Dorian e le mille altre che gli servono di volta in volta per i suoi colpi. L’unica vita che conosce è quella dei suoi crimini, una sfida continua che dà senso alla sua esistenza. Non ruba per diventare ricco, altrimenti si sarebbe già messo a riposo. Al contrario, investe tutti i suoi proventi nella preparazione di nuovi colpi. Lo vedo come certi toreri hemingwayani, come Juan Belmonte che, quando si ritirò a vita privata ricco e famoso, si suicidò perché non trovava più senso nella propria vita se non affrontava la morte ogni domenica pomeriggio.
–Allora il latitante non ha capito nulla di Diabolik!
Temo proprio di no.
– Sai come li chiamiamo noi a Milano quelli che non hanno capito niente? Lo so! Sei troppo educato! Io un po’ meno! Li chiamiamo …PIRLA!
Diabolik sicuramente non lo è. È un personaggio epico e drammatico, a un livello di cui forse nemmeno le sorelle Giussani si erano rese conto quando lo hanno creato. Non a caso si dimostra, dopo Tex Willer, l’eroe più longevo dei fumetti italiani e rimane impresso nella cultura popolare da oltre mezzo secolo.
–Andrea, non ti sembra che un uomo che viva credendo di essere Diabolik sia quantomeno megalomane?
Be’, quando io scrivo Diabolik, «sono» Diabolik... e anche Ginko e persino Eva Kant. Devo entrare nella loro mente, per sentire ciò che provano e trasmetterlo ai lettori. Certo, quando smetto di scrivere lascio Clerville e torno nel mondo reale... e sono ancora in grado di distinguere la differenza tra l’una e l’altro!
–Secondo te,che fine gli farebbe fare il vero Diabolik?
Al latitante? Non perderebbe molto tempo. Il sibilo di una lama nel buio: swiiiss!
-Grazie Andrea, a nome di tutti i nostri lettori.
Grazie a tutti voi... ma chi vi dice che io sia davvero Andrea Carlo Cappi?

Diabolik-La lunga notte in ebook: 
Diabolik-Alba di sangue in ebook: 


Ci hanno rubato anche l'inno di Francia?

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La " Marsigliese "è certamente uno dei più famosi e conosciuti inni nazionali.
I Francesi, che la cantano con passione in ogni occasione, ne raccontano la storia in questo modo.
Correva l'anno 1792. La Francia, nel pieno della sua Rivoluzione, aveva dichiarato guerra alla Prussia e all'Austria. 
Al poeta e compositore Rouget de Lisle, che faceva parte dell' Armata del Reno, fu chiesto dal sindaco di Strasburgo di comporre una marcia per l'esercito che sarebbe rientrato a Parigi. 
L'ispirazione, come raccontò il de Lisle, venne la sera del 25 aprile e in quella notte compose "Inno di guerra dedicato al maresciallo Luckner" comandante dell' Armata (ironia della sorte Luckner fu ghigliottinato due anni più tardi). 
Il giorno seguente Rouget lo cantò per la prima volta a casa del sindaco, e la scena fu immortalata nel celebre dipinto di Isidore Pils, esposto al museo di Belle Arti di Strasburgo. Curiosamente, quando l'inno venne affisso poche ore dopo davanti al municipio della città, lo spartito non portava in calce la firma del compositore, e questo ben presto fece sorgere dubbi sulla sua effettiva attribuzione. Comunque questo canto fu accolto con entusiasmo dai soldati e cantato dai volontari di Marsiglia che entrarono in Parigi nel luglio 1792, quando contribuirono alla caduta della monarchia. Da questo episodio il canto prese il nome di "Marsigliese" e divenne inno nazionale con decreto del compositore 14 luglio 1795.
Questa è la storia che raccontano i Francesi, ma sembra proprio che le cose non stiano in questi termini. Come detto sopra, dubbi sulla paternità dell' inno erano sorti subito per la mancanza di firma sullo spartito e perché de Lisle raccontò di aver composto l'inno in una sola notte; c'è inoltre da notare che a quel'epoca non esisteva il diritto d'autore e le scopiazzature erano molto frequenti. 
In passato qualche storico attribuì la composizione a Mozart per alcune somiglianze con un famoso tema del primo tempo del Concerto per pianoforte e orchestra K503, ma l'ipotesi non trovò molto credito.
Il vero scoop musicale e storico lo ha fatto il maestro Guido Rimonda.
Il maestro Rimonda, piemontese di Saluzzo, direttore dell' orchestra Camerata Ducale di Vercelli, docente di violino al Conservatorio Cantelli di Novara, ha iniziato nel luglio 2012 un imponente progetto discografico per la Decca: 15 CD con l'integrale delle composizioni per violino e orchestra del grande ma poco conosciuto (in Italia...) compositore piemontese Giovan Battista Viotti. 
Nato a Fontanetto Po (VC) nel 1755, violinista, compositore, Viotti ebbe una vita molto avventurosa e suonò presso le più grandi corti d'Europa, divenendo a Parigi anche amico della regina Maria Antonietta. 
Il maestro Rimonda lo definisce " Il padre dei violinisti moderni ".
Nel 1781 ( ben undici anni prima della presunta nascita della Marsigliese del de Lisle ), Viotti composte il Tema e Variazione per violino e orchestra. Il manoscritto, autografo e inedito, che porta la data del 3 marzo 1781, è di proprietà dello stesso Rimonda, cultore di Viotti fin da ragazzo e padre anche del Viotti festival. 
Il brano in oggetto è stato inserito dal maestro nel secondo CD Decca dedicato al compositore vercellese e contenente anche le prime registrazioni mondiali dei concerti 12 e 25. Due anni fa, quando fu pubblicato questo CD, finalmente si poté affermare che Rimonda aveva trovato il vero autore della Marsigliese: la musica non era di Rouget de Lisle, ma del vercellese G.B.Viotti, che l'aveva composta 11 anni prima; e siccome Viotti e de Lisle avevano lo stesso editore, fu probabilmente proprio costui che passò al francese la composizione del nostro conterraneo .
In definitiva, sembra proprio che i cugini francesi ci abbiano scippato il loro inno nazionale. Ma allora quando conteranno la Vercellese invece della Marsigliese?

Pietro Giuseppe Teruggi

Fotografie
1- Quadro di Pils: Rouget de Lisle intona la Marsigliese a casa del sindaco di Straburgo.
2- Maestro Guido Rimonda.

La mula.

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Le gocce di sudore colano dalla fronte. E dopo una sosta sul naso stalattite finiscono sull'asfalto rugoso. Ho lasciato all'alba la costa, le ombre lunghe della luce mediterranea. Sono sfilato davanti agli aspiranti bagnanti in coda sull'Aurelia.
Da Spotorno a Noli, e poi camper, centauri e quattro ruote davanti alle rocce di Varigotti. Sino a Finale, sino al bivio per il Melogno. E ho svoltato verso gli Appennini. Pedalo da 10 chilometri in salita. Una pendenza costante, una strada che pare uno scivolo infinito verso chissà quale Paradiso. Ma ora è solo un monte Purgatorio di cui non scorgo la cima. Sono solo pene da scontare perché gli agili rapporti della Mula son finiti. Resta solo di affidarsi alle gambe. 
La Mula è la mia bicicletta. L'ho chiamata cosi perché sulle forcelle c'è scritto Triestina e mi piace immaginare, nonostante abbia la sua età, che sia sempre una ragazza impertinente dalla bellezza spettinata. Forse dopo questa curva la strada spianerà. O si vedranno ancora e solo boschi di castagni? Salendo la macchia di riviera ha lasciato posto agli alberi familiari a noi abitanti della Alpi.
Forse avrei dovuto studiare l'altimetria. Eppure non ho sbagliato strada. Ci fosse qualcuno per chiedere quanto manca! Ma è da almeno 5 chilometri che non incontro un'auto. L'unico mammifero avvistato è stato un gatto che si faceva toeletta ai bordi della strada sotto un sempreverde. 
Tutte le case hanno le persiane chiuse. Dormono? Sono via? Massì, niente di strano. In fondo è domenica e sono sì e no le 8. E allora pedalo. Provo ad aumentare la velocità alzandomi sui pedali. Ma è uno sforzo ripagato dal tachimetro solo per pochi metri.
Cento metri dopo cento metri e si arriva in cima. Vale sui sentieri, vale sulle strade. Per chi sogna il tutto e niente, il colpo da fuoriclasse, pedalare è la migliore lezione. Non si può saltare da una valle all'altra. Occorre salire e scendere. Pedalata dopo pedalata. Avere anche il tempo di annoiarsi, di scoprire che esistono dei chilometri, dei momenti inutili, insignificanti, ma che vanno percorsi anche quelli.
Me lo ripeto ma alla fine nella tasca, anche sui tornanti, tengo sempre il mio taccuino, confidando nell'illuminazione, nell'intuizione improvvisa che non va persa. Come quando ho scorto sotto la provinciale un gioiello gotico dal tetto sfondato, la chiesa di San Bartolomeo, a Gorra. Da oltre mezzo secolo sconsacrata, scrivono le cronache, assieme al fatto che era pericolante. E mi viene in mente che ho appena letto che in Inghilterra c'è un movimento che trasforma gli edifici religiosi abbandonati in luoghi per il campeggio, per mostre, ne trasforma l'uso, ma trasformandole le salva dal lavorio demolitorio di Crono. Da noi esiste solo qualche caso isolato. Perché in Italia salvare qualcosa vuol dire prima subire un processo. Perché lo vuoi fare? Ed è di certo più comodo che portare in tribunale quel potere che non ha fatto.
Ma ora basta filosofie. Pensiamo a finire la salita.
E la salita finisce. Anzi no. C'è un bivio. Un cartello. Il passo del Melogno è un chilometro a sinistra. Io invece svolto a destra. Mancano dieci chilometri alla mia meta: Osiglia. Non so perché ci sto andando. Ho guardato la mappa. Ho visto che c'era un lago. Un lago in mezzo agli Appennini. Richiamo irresistibile per chi è cresciuto su sponde lacustri ai piedi delle Alpi. Un lago con una storia simile a quella dei bacini delle mie valli ossolane. Creato sommergendo un paese, come Agaro, in valle Antigorio, per produrre energia elettrica.
Ora la strada sale ancora con pendenze più dolci. E in lontananza, oltre la dorsale di pale eoliche, si torna a intravvedere il mare.
Inizierà il piano? No, c'è una ripida discesa. E penso che al ritorno sarà salita. La prossima volta guardo l'altimetria.
La discesa finisce con un'imponente chiesa che mi guarda dall'alto. Supero il ponticello ai suoi piedi e mi trovo in uno spiazzo col pavé. Alla mia destra un edificio ricoperto di lastre di marmo con incisi nomi e date. Al piano terra l'insegna del bar Combattenti. Alla sinistra una vedovella. Mi riempio la bocca d'acqua. Mi sciacquo la faccia. Poi entro al bar. Il locale è poco illuminato. Dentro scorgo una decina di sagome. Sono tutte in piedi davanti al bancone. Dall'altra parte vi è una donna coi capelli di mogano raccolti dietro la nuca e una canottiera smeralda. Ascoltano la radio. Parla in francese. 
- Cosa dice, cosa dice? Chiede un uomo con la camicia scozzese, i radi capelli bianchi e la pelle abbronzata.
La banconiera traduce.
- Un colpo di Stato. Ministeri e tv occupati all'alba. Ma c'è stata anche un'invasione di truppe sbarcate all'alba sulle coste. Bloccati treni e autostrade per la Francia.
- Ma insomma chi sono? - Interviene un cinquantenne con gli occhiali e i capelli raccolti in una coda - E' il nostro esercito o sono degli invasori?
- Non si capisce – risponde stizzita la banconiera -. Dice che le notizie che arrivano dall'Italia sono frammentarie. Anche le sedi dei principali giornali sono state occupate.
- Ma ci sono dei morti? Chiede una donna che tiene in mano una sigaretta.
- Sembra di no – risponde la banconiera che poi alza lo sguardo verso di me. Tutti si voltano a fissarmi nella mia tenuta da ciclista.
Con voce incerta balbetto: Cos'é successo?
- E chi lo sa. Dicono un colpo di stato -, interviene l'uomo con la camicia a scacchi.
- Io vado a prendere i fucili che aveva nascosto mio padre -, dice un uomo sulla sessantina con un cappello da baseball.
- Ah, allora è vero che era il Din, il custode dell'arsenale dei partigiani -, interviene l'uomo con la coda

Approfitto della conversazione tra i due per voltarmi e dirigermi verso l'uscita.

- Dove va? Mi chiede la banconiera.
- Devo tornare giù al campeggio.
- Ha famiglia?
- Sì, ma ora sono in vacanza in Svizzera.
- Allora meglio che stia qui finché non si capisce cos'è successo.
Estraggo il telefonino dalla tasca posteriore. Voglio avvisare i miei.
- E' inutile, mi dice la donna con la sigaretta. Qui non c'è campo. E i telefoni fissi sono muti. Linee saltate.
- L'uomo col cappello da baseball mi guarda: Sa sparare?
- Posso imparare. 
- Allora mi segua.
- Posso portare la mula? - E mentre lo dico mi sento un'idiota.
- Guardi che non ce l'hanno neanche più gli alpini.
- Mi scusi intendevo la bicicletta.
- Ci mancava il bersagliere.
Chiudo la pagina del diario scritto sul mio taccuino un anno fa quando scoppiò la guerra. C'è anche uno schizzo che avevo fatto della neonata brigata partigiana. Mi sembrava uno scherzo assurdo nel quale ero capitato. Un gioco di ruolo buono per un paio di giorni. Per poi svegliarmi e scoprire che era una candid camera. Scrivevo ironizzando. Ma dopo dodici mesi a nascondermi nei boschi per sfuggire ai loro droni. Dopo aver visto Ruggero, Biz, Nico, Amanda, Silver e Rachele scendere a valle per i rifornimenti e non tornare più. Dopo che ho raccolto i pezzi di Alfredo, smembrato da una bomba. Ora c'è solo voglia di smettere di scappare e di sparare. Di rivedere le persone cui voglio bene. Ho solo voglia di tornare a pedalare sulla mia Mula. E invece occorre resistere. Giorno dopo giorno. Metro dopo metro.
Mi sveglio. Sono appoggiato a un mulino a vento, pardòn, al pilone di una pala eolica. La Mula è al mio fianco. E' stato solo un sogno. O una visione da don Chisciotte con il body da ciclista. O il paio di bicchieri di Vermentino Sancio (vatti a fidare degli scudieri) che mi sono bevuto al bar prima di rimettermi in sella. 
E allora scendo, piano, pianissimo, non solo per evitare le buche, ma perché so che dovrò passare davanti alle mura di Finalborgo, ai cartelli delle cene medievali per turisti, e poi immettermi nel traffico di motorini e infradito dell'Aurelia. Perché oggi mi basterebbe resistere alla barbarie del “cotto e mangiato” per sentirmi “garibaldino”.

Andrea Dallapina

Andrea G. Pinketts: genio o mistero?

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Abbiamo incontrato Andrea G. Pinketts nel suo covo. Abbiamo dovuto stanarlo. Sapevamo fosse in procinto di ricevere l’ennesimo premio letterario. Questo scrittore, eclettico quanto versatile, dice di scrivere “sotto influssi alla bohemien”.
Non lo neghiamo ma pensiamo vi siano anche estro, preparazione e soprattutto una buona componente di genio. 
I suoi romanzi sono sempre stati caratterizzati dal crisma e dal carisma della genialità.
Il “covo” è a Le Trottoir, in quel di Milano.
Le Trottoir è un bistrot più unico che raro, dove l’arte è di casa!
-Hai appena vinto un premio indetto per i 65 anni di Eva 3000 e Radio Kiss Kiss. Confermi?
-Certo! Il premio mi viene dato come miglior scrittore per aver saputo raccontare, attraverso il genere noir, le “Divine Muse”, ovvero le arti. Un incontro felice che trova la propria apoteosi nel mio ultimo libro: Ho una tresca con la tipa nella vasca, edito da Mondadori. La tesi del libro non è “losca” ma un qualcosa che non si limita alla letteratura in senso tragico ma la travalica e si proietta all’assoluto dell’Amore complice. Non è una fiaba! La tresca è un qualcosa di sulfureo. La tresca è empatia; la tresca è simpatia. A differenza dell’amore che possiede, che è e vuole essere dominante, la tresca è, invece, condivisione.

-Ancora una volta cogli nel segno…
- Non dovrei dirlo ma ho fatto centro! Pensa che ho fatto centro sparando a bersagli multipli con una carabina! Centrandoli li ho resi indimenticabili, si potrebbe dire immortali, sempre restando nei loro limiti.

-La prossima opera in cantiere?
-Ho appena ultimato un libro, frutto del lavoro di quattro anni, che uscirà soltanto nel 2016. Sarà sempre edito da Mondadori ma altro non posso dirti. Posso solo confidarti che sarà, probabilmente, il mio addio al romanzo. Mi concentrerò su altre forme di narrativa. Per me il romanzo è come un enorme frullatore di storie diverse in cui c’è spazio sia per la tragedia che per la farsa, per l’angoscia come per il divertimento.
-Qual è il tuo rapporto con Milano?
-Viscerale. Sono di sangue irlandese da parte di padre e trentino da parte di madre. Milano, però, è la mia città. E’ anche il luogo in cui un irlandese e una trentina si sono incontrati, generandomi. Perchè sorridi?

-Sorrido perché mi è tornata in mente una bellissima canzone di Memo Remigi, se non sbaglio! Te la ricordi: Innamorati a Milano?
-Come no! Poi lo conosco…

-Chi?
-Memo Remigi.
Si riaccende il toscano sorridendo con una sorta di smorfia che ha il gusto dei ricordi e che non posso non condividere. Certe canzoni sono indimenticabili nel loro genuino racconto di vita quotidiana. Andrea fuma quel che resta del toscano a pieni polmoni mentre gli domando:

-Che ne pensi della poesia?

Espira il fumo. E’ visibilmente pensieroso. 
Diviene molto serio, come sempre quando parla di letteratura. 
Quindi risponde pacatamente:

- La poesia non ha mercato ma è parola e musica. Nei miei libri, poi, sono frequentissime le ballate. Sono una forma di poesia! Credo si possa scrivere poesia in prosa almeno come si possa scrivere prosaicamente. Non sono la stessa cosa. La poesia è aria, acqua e fuoco… Il romanzo è la terra.
-Grazie Andrea! Ti ringrazio a nome di tutti i lettori.

Sorride…mentre gli comunico che a Milano pare che il suo nuovo libro sia esaurito! Rimane un mistero il sapere come faccia a incontrare l’animo della gente. Credo abbia il dente del giudizio e non del pregiudizio. 
Il giudizio non guasta mai! 
Incontra le culture di tutto il mondo e diviene conoscenza, scienza.
Diventa il nostro sapere.

-Ah…Però! Grazie ! Un grazie a te e ai Vostri lettori con tutto il cuore da Andrea G. Pinketts.



Fabio Viganò 





Perché la Sindone si trova a Torino?

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Alla fine dell’inverno scorso un’amica mi dona un libro sulla magia a Torino.
Sono piemontese ed il nostro capoluogo da sempre mi affascina.
Provoca molta curiosità.
Le prime pagine sono introduttive sul perché Torino sia Torino.
Arriva il capitolo sulla Sindone.
Sorpreso per la presenza, approfondisco la lettura.
Sul finire del capitolo la frase che mi spinge a scrivere quest’articolo:
Nel 1578 si seppe che il Santo Arcivescovo di Milano, Carlo Borromeo, si preparava a partire a piedi per venerare la sacra reliquia a Chambery. In omaggio alla sua venerabile età, per abbreviargli il cammino, Emanuele Filiberto la fece trasportare a Torino nel castello di Lucento”. 
Le domande che mi sorgono spontanee sono le seguenti:
Qual è il motivo per il quale Carlo Borromeo voleva recarsi a rendere omaggio alla Sindone?
Perché la sindone nel XVI secolo si trovava a Chambery?
Prima di Torino era mai stata in Italia?
Inizio una ricerca nel tempo per trovare le risposte.
Altre domande sorgeranno.
La Sindone a Torino

Nel 1578 Carlo Borromeo, per adempiere ad un voto fatto quando la sua città, e tutta la diocesi, era colpita da una grave epidemia di peste, volle recarsi a piedi a Chambery per rendere omaggio al sacro lino.
Il Borromeo nacque ad Arona, in Piemonte, nel 1538.
Aveva 40 anni quando decise di percorrere a piedi il tragitto da Milano a Chambery.
Nel XVI secolo arrivare a 40 anni era complesso?
La sua età era tale da potersi considerare venerabile?
No.
Probabilmente, in seguito all'ennesima battaglia contro l'epidemia, le condizioni fisiche potevano sembrare precarie.
Il carattere dell'uomo era indomabile.
Il sant'uomo ha percorso migliaia di chilometri a piedi o a dorso della mula.
Non avrebbe battuto ciglio per compiere il tragitto che separava Milano da Chambery.
Era caparbio.
Testardo.
Instancabile viaggiatore della fede.
Dalle città agli alpeggi sperduti nelle valli a nord del Lago Maggiore.
Non si fermava mai.
Per portare la parola del Signore o per controllare l’avanzare dell’eresia?
Una coincide con l’altra.
Decido che questa non può essere la verità.
Esiste una seconda, meno nota, motivazione che conduce la Sindone a Torino?
Emanuele Filiberto decise di abbreviare il percorso che il Cardinale doveva effettuare.
Volle risparmiare quell'estenuante viaggio, attraverso le Alpi, per giungere a Chambery.
Lodevole il pensiero.
Emanuele Filiberto decise di portare la sindone a Torino.
La sacra reliquia, attraverso il piccolo San Bernardo, giunse al castello ducale di Lucento. Il 15 settembre arrivò, in processione, presso la chiesa di San Lorenzo, in Piazza Castello a Torino.
Il Ducato Sabaudo sfruttò l’occasione della visita del Cardinale per portare la Sindone nella città piemontese.
La Sindone è la sacra reliquia.
Chi la possiede legittima la propria importanza.
La famiglia Savoia riuscì, in questo modo, a legittimare se stessa ed il proprio Stato.
Un magistrato, di Chambery, si spinse a dire che era da considerarsi una testimonianza di particolare predilezione da parte della Divina Provvidenza il fatto che la dinastia dei Savoia e la città di Torino siano stati scelti per custodire l’immagine di Cristo.
La Sindone è a Torino per motivi politici.
Serviva alla famiglia Savoia per legittimare la propria, nascente, potenza.

Una ricerca nella storia

Le informazioni che riguardano la Sindone, prima del XIV secolo, sono lacunose e non permettono di ricostruire, con esattezza, la sua storia.
Dal 1353 inizia la permanenza della Reliquia in Occidente.
Quell’anno Goffredo di Charny consegna la sindone ai canonici di Lirey.
Goffredo fece costruire una cappella per contenere il sacro lino.
A Lirey viene esposta ripetutamente, facendo accorrere pellegrini da ogni angolo d’Europa.
Insieme ai pellegrini giungono, a Lirey, maldicenza ed invidia.
Il vescovo di Troyes ne proibisce il culto.
Si creano dissapori tra i canonici e Goffredo di Charny.
La Sindone torna nelle mani della famiglia.
Il culto non si arresta.
La reliquia genera venerazione.
Il vescovo Pietro d’Arcis ricorre al Re.
I soldati bussano a Goffredo che, naturalmente,non cede alle pressioni.
Il nobile, di casata e d’animo, non consegna il sacro lino.
Il vescovo, inviperito, accende una disputa sull'autenticità della reliquia.
1418. La Sindone giunge nelle mani della famiglia De la Roche.
Umberto aveva sposato Margherita di Charny, ultima discendente di Goffredo.
30 anni sono lunghi.
Margherita resiste alle pressioni sino al 1453, quando la cede a Ludovico I di Savoia ed Anna Lusignano di Cipro.
Ludovico decide di collocare la reliquia all’interno della cattedrale di Chambery, dedicata a San Francesco.
1456. Viene fatta erigere una cappella presso il Palazzo Ducale, ridando slancio al culto ed alle peregrinazioni di fedeli.
Tra il 1456 ed il 1502 il lino dovette compiere molti viaggi tra l’Italia ed il Piemonte.
Nel 1502 Filiberto II di Savoia la riportò in Francia.
Nello stesso anno avvenne un’ostensione a Bourg en Bresse.
Di quest’accadimento abbiamo memoria grazie ad un racconto d’Antonio de Lalaing, nel quale riferisce la procedura per provare l’autenticità della Sindone: narra che il lino fu ripetutamente immerso nell'olio bollente per provare, agli scettici e non solo, che l’immagine non poteva essere cancellata.
La particolarità del racconto risiede nel fatto che furono tre vescovi, ospiti dei Savoia, a decidere di far bollire la Sindone in un intruglio di cenere, calce, soda ed olio.
Nel 1506 Papa Giulio II autorizza il culto della Sacra Reliquia.
Da quel momento, e sino al 1578, la Sindone non trova pace.
E’ lambita, ripetutamente, dal fuoco.
Si salva.
Conosce le Alpi.
Versante francese.
Versante italiano.
Torna sempre in quella che era la sua casa, laSainte-Chapelle di Chambery.
Sino al giorno in cui il Cardinale decide di venerarla.

Fabio Casalini

Bibliografia
- Giuditta Dembech, Torino città Magica.
- Treccani, il sacro lino una storia controversa.
- Giulio Ricci, l'uomo della Sindone è Gesù.


Carlo Bonatto Minella.

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Il pittore Carlo Bonatto Minella, nacque a Frassinetto (TO) il 10 agosto 1855. Ragazzo di umilissime origini (il padre faceva il boscaiolo), mostrò viva propensione per l'arte, ma, i suoi genitori essendo poveri, avevano difficoltà a farlo studiare. Infatti si può immaginare il disappunto e lo stupore di genitori di metà ottocento di fronte ad un figlio poco portato per i lavori agricoli ma con sorprendenti doti di artista.
Dopo un periodo di incredulità decidono di dar fondo a tutti loro beni pur di mantenere il figlio nei costosi studi presso il capoluogo piemontese. Per pagarsi gli studi, il giovane partiva da Frassinetto a piedi e per non spendere i soldi per la diligenza, portava con sé un cestino di formaggi che vendeva a Torino per comprarsi pennelli, tele e colori.
Infatti egli riuscì a frequentare a 14 anni, con volontà tenace e a prezzo di grandi sacrifici, l’Accademia Albertina di Torino e venne accolto dai severi maestri Gamba e Gastaldi, che intuirono il suo prodigioso talento e l’aiutarono nella sua formazione pittorica. Tra realtà e leggenda, ci piace ancora immaginarlo fuori dalla Accademia Albertina con un foglio di carta sulla cartella appoggiata alle ginocchia, intento a disegnare, incurante del freddo, per impadronirsi dell'arte con i suoi poveri mezzi che gli erano permessi. 
A soli 15 anni riproduce con la perfezione del vero artista una copia a carbone della famosa Madonna della seggiola di Raffaello, riproponendola però in modo speculare.
La sua vita fu una continua lotta contro la miseria, L’estrema indigenza minò il suo fisico e il mal sottile intaccò il suo corpo e stimolò la sua sensibilità che si rivela nei pochi lavori rimasti, tutti di alta qualità pittorica.
Infatti grazie alla sua intelligenza creativa, vinse il premio triennale all'Accademia Albertina con un'opera su Andrea Vesalio che studia anatomia, dei 1876, ritenuta uno dei saggi migliori tra gli allievi di questa scuola; la tela è conservata nell'istituto medesimo. 
A 19 anni porta a termine per la parrocchiale del suo paese natale una fra le più importanti opere, da alcuni ritenuta il suo capolavoro è La deposizione di Gesù dalla Croce, datato 1874 ed esposto nella chiesa parrocchiale di San Bartolomeo apostolo, in Frassinetto.
Si asserisce che per essa l'artista ritrasse nella Madonna il volto di sua madre, e nel Cristo le sembianze paterne.
Nella chiesetta della borgata Berchiotto, dedicata a San Rocco e alla Madonna della Consolata, sì conserva una tela dell'artista raffigurante appunto San Rocco (ora sistemata nella sacrestia della parrocchia).
Il quadro della Deposizione e quello di San Rocco furono restaurati nei 1960, per interessamento dei vicario, don Rastello, e del canonico don Bongera, all'Accademia delle Belle Arti di Torino. 
Altre opere si trovano nella Galleria Cìvica d'Arte Moderna di Torino: Giuditta (1877) per la, Donna ebrea (1877), La regione dei Trapassati (1878) firmato sempre per la Società Promotrice delle Belle Arti ultima opera prima della morte, La Pensierosa (1878) e due autoritratti di cui non si conosce la data.
Vi è ancora da segnalare,il quadro di San Giacomo, che sì può ammirare nell'absìde della parrocchia di Salto frazione di (Cuorgnè). 
Pochi colori smorzati, armonie raffinate di grigi caldi e freddi, luci soffuse: l’insegnamento accademico viene superato dalla sua originale personalità che può liberamente manifestarsi grazie alla padronanza della tecnica. Si è di fronte ad una produzione di statura europea che supera il provincialismo della pittura piemontese dell’Ottocento.
È stupefacente che un ragazzo senta nel profondo tematiche che saranno tipiche di movimenti che raggiungeranno la piena maturità alla fine del secolo e nel primo Novecento, come il Simbolismo e il Liberty. La Giuditta che dalle mura di Betulia si presenta al popolo, e la Religione dei trapassati, sono opere sentite dove Carlo Minella raggiunge la poesia e trascende ogni scolastica esercitazione e ogni decorativismo epidermico, compiaciuto e fine a se stesso del Liberty. Sono espressione di una sincera sensibilità che soltanto chi è stato colpito da un male che consuma il corpo può comprendere e rivivere nella propria anima. Dietro a tutto c’è la morte e il nulla a cui il pittore non si ribella ma contro cui reagisce con forze che a poco a poco si spengono tentando di creare sotto forme classicheggianti la sospirata illusione dell’esistenza di un mondo ultraterreno. 
Di qui nasce la pietà che fa porre un fiore sulla tomba e accende la speranza che si possa comunicare con gli spiriti dei trapassati. Sogno o parvenza di vita eterna. La Pensierosa, tutta giocata su colori smorzati e armonizzati in modo raffinatissimo al di fuori di ogni accademia, ci guarda triste e ci parla di un sentimento melanconico e dolce, di un amore che non si potrà mai realizzare perché la morte si avvicina poichè ci sarà l’amore ma solo il sogno di un amore sperato e non raggiunto.
Bonatto non urla come Munch: smette di lottare perché non ha più le forze e segue l’angelo che, come nel monumento funerario di Canova per Maria Cristina, ci porta nel regno dei trapassati.
Il destino riservò a Bonatto Minella un animo geniale, una mano da artista e un occhio attento alle più svariate sfumature cromatiche, ma una breve, seppur intensa, esistenza.
Si spense nella casa natia il 6 giugno 1878, a soli 22 anni 
Al suo paese ed agli amanti dell'arte ha lasciato un eredità artistica di tutto prestigio ed un insegnamento non da meno: la tenacia con la quale riuscì a raggiungere obiettivi tanto ambiziosi a dispetto dei tempi e dei mezzi a disposizione

Luciano Querio

Bigliografia : Testi di Eugenio Gabanino e di Angelo Paviolo

Fotografie:
1- Nudo maschile
2- Ragazza orientale.
3- La Madonna della seggiola.
4- Deposizione dalla croce.
5- Donna ebrea.
6- Veduta di Frassinetto.
7- Interno della Parrocchiale di San Bartolomeo.
8- San Rocco.
9- La religione dei trapassati.


Tra le montagne del Canton Ticino.

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Vallemaggia 
Gigantesche montagne d’incommensurabile altezza
Innalzate sulle valli, circondate tutt’intorno
Da possenti lastre di roccia ardite,
In un balzo enorme e insormontabile.
Tale valle era tanto remota e chiusa
Che la ricerca di età passate già era conclusa.
[John Hookham Frere]
VALLEMAGGIA-BIGNASCO-VAL LAVIZZARA-BASODINO-VAL BAVONA-PIZZO CAMPO TENCIA-VAL DI PRATO. 
Il tipico socio di un club alpino è stato descritto da Anthony Trollope come una persona che, nei dieci mesi all'anno in cui la vita di tutti i giorni lo distoglie dalle sue passioni, coltiva in cuor suo un desiderio sempre più ardente per le amate montagne. Quanto a me, ogni volta, come spesso faccio, il mio sfogo:
un gemito interiore 
di sedermi su un'Alpe come su un trono[1]
è accompagnato, come nel sonetto di Keats, da «un languore per i cieli italiani». Il ricordo luminoso che mi consola e mi tormenta tra le nebbie e le nevi del nostro inverno di Cimmeria deve la sua esistenza tanto alle valli quanto alle vette innevate dell'Italia. Dopo una settimana di dure arrampicate a Zermatt o nell'Oberland, l'aria incolore e pungente di Riffelalp o Belalp inizia a opprimere i miei sensi, mentre le pinete e gli chalet mi ricordano, ahimè, una scatola piena di quei giocattoli tedeschi. Sospiro mentre ripenso a queste pendici alpine in terra italica, con le ondate di atmosfera d’opale a colpire i fianchi delle montagne, le sottili e variegate sfumature del fogliame, le pareti affrescate e i campanili che svettano ammiccanti. In un tale stato d'animo, dopo una mattinata passata sulle nevi del Monte Rosa o dell'Adamello, non vedo l’ora di scendere per immergermi tra le vigne della Valsesia o della Val Camonica. 
Non ho intenzione di presentare scuse o giustificazioni per questa tendenza che alcuni dei miei amici più razionali definiscono morbosa. Tantomeno desidero diventare un benefattore pubblico suggerendo alle folle di riversarsi su queste amate terre, perché c'è lo spazio sufficiente per poche anime che nutrono un sentire comune al mio: mi rivolgo a loro, alle quali non intendo nascondere le mie passioni in un moto di egoismo. 
In verità, l'inequivocabile calura agostana delle vallate delle Alpi meridionali serve ad arginare l'invasione dei viaggiatori inglesi, figli del mare: infatti, il moderno viaggiatore britannico si professa incapace di godersi la vita, e men che meno di fare esercizio fisico, anche in condizioni di moderata calura. Tutti sanno come quei quattro giorni di tepore che concede l'estate inglese siano accolti più con fastidio che con gratitudine, mentre i temporali che li seguono sono benvenuti con un coro di ringraziamento consono alla liberazione da qualche piaga d'Egitto. Anche in terra straniera evitiamo quel sole, che tanto temiamo alle nostre latitudini: così, abbandoniamo l'Italia e il Levante proprio quando le condizioni diventano più piacevoli. Una valle italiana non suggerisce all'inamovibile inglese una profusione «di uva purpurea, di verdi fichi, e more di gelso »[2], ma febbri, malattie e ogni sorta di decadenza. Il nome lago Maggiore è ben noto a migliaia di persone, ma dubito che, persino all’interno del club alpino, ci siano anche solo dieci persone che sappiano indicare nei suoi immediati dintorni la Vallemaggia. Eppure la valle offre quel tipo di bellezza raro, che merita di essere conosciuto, al pari di quel lago in cui si getta il suo principale corso d'acqua.[3]
Dietro Locarno, all'estremità settentrionale del lago Maggiore, esiste lo sbocco di una rete di valli, nervature di un grande sistema montuoso, italiane nell'animo, ma svizzere per circostanza, che divide il Gries dal San Gottardo. La più lunga e più profonda di queste valli è quella del fiume Maggia. Tuttavia, sebbene si estenda per diversi chilometri, non porta a nessun passo sulla catena alpina principale. L'estremità della valle si apre solo agli alti pascoli della Val Bedretto: quindi, per sua natura, è stata tagliata fuori dal traffico che scorreva nelle zone confinanti. 
Ora devo chiedere al lettore di immaginarsi di essere seduto accanto a me a bordo della diligenza che ogni giorno percorre le strade di questa valle. A circa cinque chilometri da Locarno, nella pittoresca successione delle falesie di Ponte Brolla, i nostri occhi, abituati al grigiore che contraddistingue quasi tutti i torrenti che scendono dai ghiacciai, sono deliziati dalle magnifiche acque del Maggia, che risplendono di un verde intenso, tra grotte e pozze che si aprono sulle superfici lisce di granito candido. Ma, per alcuni chilometri, lo scenario della Vallemaggia rimane confinato a un ambiente caratterizzato dalla solidità del granito, qua impreziosito da un'agile cascata, là deturpato da uno smottamento. 
A circa 25 chilometri, o tre ore, da Locarno, per la prima volta la strada passa sulla riva destra del fiume e attraversa Cevio, il centro politico delle locali vicinie, divenuto tale grazie alla sua posizione alla confluenza delle tre valli: Maggia, Lavizzara e Rovana. Passiamo in uno spazio aperto, come tra i campi di un villaggio inglese, e poi tra case un po' più pretenziose di quanto siamo abituati a vedere in montagna. Fu in questo luogo che Horace Bénédict De Saussure, durante un'osservazione per calcolare l'altezza sul livello del mare della località, fu accolto dal balivo della valle e invitato a entrare nella sua casa. Non posso fare a meno di citare il divertente resoconto del colloquio che ne è seguito. 
«Dato che da un po' di tempo – scrive De Saussure – non ricevevo notizie dal mondo civilizzato, accettai l'invito, nella speranza di averne qualcuna. Con mio grande stupore, il balivo mi disse che, sebbene da tempo non ricevesse lettere dall'altro versante delle Alpi, sarebbe stato lieto di rispondere a qualsiasi mia domanda. Nel frattempo, mi mostrava un vecchio pendolino nero: un oracolo che era in grado di rispondere a tutte le sue domande. Tra le mani reggeva una corda alla cui estremità era legato il pendolino, che faceva oscillare al centro di un boccale. A poco a poco, il tremito della mano trasmetteva il movimento alla corda e al pendolino, che andava a colpire le pareti del boccale. Il numero dei colpi indicava la risposta alla domanda che aveva in mente la persona che reggeva la corda. Mi garantì la serietà delle profonde intuizioni avute con questo sistema: non solo riguardo a ciò che accadeva nei dintorni, ma anche riguardo all'elezione del consiglio di Basilea e al numero dei voti ottenuti da ciascun candidato. Mi interrogò sullo scopo dei miei viaggi e, dopo averlo saputo, mi mostrò sul suo almanacco l'età che la cronologia tradizionale attribuiva al mondo, e mi chiese che cosa ne pensassi. Gli risposi che le mie osservazioni delle montagne mi avevano portato a considerare il mondo come più antico. “Ah,” rispose con aria trionfante, “l'aveva già detto il mio pendolino, quando, l'altro giorno, ho avuto la pazienza di contare i colpi mentre riflettevo sull'età del mondo, che ho scoperto essere di quattro anni più vecchio di quanto indica l'almanacco.”»
Negli immediati dintorni di Cevio, il paesaggio assume un carattere più suggestivo. Le pareti della valle si stringono e si curvano in numerose rientranze, e fanno la loro comparsa sul fondovalle enormi massi di granito rosa-grigiastro. Il fiume, confinato in un letto ristretto, a tratti scorre placido in pozze di un colore blu intenso senza pari, a tratti corre rapido sui massi candidi in una briosa danza. I castagni crescono sulla sommità delle rocce sporgenti; più in alto, ogni terrazzamento è una striscia di verde contornata dalle delicate forme della betulla e del larice. Più lontano, un picco innevato della catena leventinese risplende dietro lo scenario di anfratti delle montagne vicine. Ma, fino all'ultimo, nulla lascia presagire la magnifica sorpresa che questa valle ci riserva. Mentre ci avviciniamo alle prime case isolate di Bignasco, lo scenario si apre, regalandoci una vista tra le più deliziose e di una bellezza armoniosa, uno di quei capolavori della natura in grado di sminuire anche la più vivida ed efficace delle descrizioni e che, paradossalmente, sarebbe meglio lasciare solamente alle parole fredde e meccaniche del topografo. Eppure non posso fare a meno, per quanto lo sforzo possa rivelarsi inutile, di indicare alcuni dei dettagli che partecipano di questo pregevole paesaggio. Le acque ai nostri piedi mostrano, nella loro trasparenza, un'intensità indescrivibile di zaffiro e smeraldo, tanto che, quando si volge altrove lo sguardo, sembra inconcepibile l'esistenza di un tale spettacolo, perciò, ogni volta, la sorpresa è sempre nuova. In primo piano, su entrambe le sponde del fiume, sorgono casette dalle pareti dipinte e dai tetti muscosi; più in là, una casa di villeggiatura adorna di colonne e un frutteto, dagli alberi di pesco carichi di frutti, acceso da una fiammata di girasoli. 
All'ingresso della Val Bavona, un villaggio bianco ammicca tra i vigneti. Due audaci pareti granitiche si innalzano a picco dalla vegetazione e danno inizio a una lunga successione di cime straordinarie. Oltre questi imponenti massicci, le pendici digradano verso il fondovalle, con le loro linee nobili e assolutamente armoniose. Nella sua discesa verso il fondovalle, ogni picco si trasforma gradualmente in un pendio roccioso, dai contorni addolciti dalla chioma dai castagni, in uno scenario di classica bellezza replicato più in basso dall'intrico dei tralci dei filari di vite. In lontananza, le nevi del Basodino, velate da un'assolata foschia, risplendono come un'aura dorata sulla vetta della montagna. 
Manca forse l'intervento dell'uomo per dare compiutezza e dinamicità a questo quadretto? Al calare della sera, ho intravisto la luce tremolante delle torce e ascoltato il canto sommesso di un corteo che portava l'Ostia a un'anima prossima alla dipartita. Nel bagliore del mattino ho visto una processione di genti avvolte in vesti candide che, tra vessilli e tintinnare di campanacci, sfilava lentamente nel villaggio ancora in ombra, per poi raggiungere la luce del sole, salire, come una baluginante onda viva, sul profilo ardito del ponte. 
Bignasco vive nella mia memoria come una delle più graziose località delle Alpi italiane. Grazie alla sua posizione alla confluenza di tre valli, regala magnifici scorci e la vista verso la Val Bavona è solo uno tra i più belli. Ovunque, i sentieri si diramano verso i boschi. Sulla sponda opposta del fiume sorge un'audace parete rocciosa; oltre, il profilo delle pendici dei monti forma un'ampia rientranza rigogliosa di castagni; qua e là, piccoli appezzamenti assolati sono stati sottratti alla vegetazione selvatica e trasformati in vigneti, mentre il terreno incolto è ricoperto da una fitta macchia di rododendri, che qui si spingono fino al limite di altitudine più basso[4]. Alcuni brevi tracciati, dall'andamento serpeggiante, collegano i diversi fienili, per poi giungere a una cappellina bianca, su un poggio panoramico. A lato, sorge un edificio più antico e più modesto. I cancelli di entrambe le cappelle sono chiusi, ma il lucchetto altro non è che una fascetta di erbe appassite, perciò non ci vuole molto a entrare nella cappella più piccola per esaminare gli affreschi, sciaguratamente coperti da uno strato di calce; tuttavia, i motivi ornamentali sulla veste del Bambino, nell'immagine centrale, e una certa forza nelle figure e nei volti, sulle pareti laterali, sono ancora testimoni di un tempo in cui l'ondata artistica italianeggiante aveva raggiunto anche la Vallemaggia. Sopra l'altare, è possibile leggere una data riferita ai primi venti anni del XVI secolo. 
Ci troviamo al limitare delle selve castanili che, un centinaio di metri più su, cedono il passo a boschi di frassini e faggi; e poi, ancora più in alto, betulle e larici rivestono, come delicate piume, i contrafforti dei monti. Proprio sotto i nostri piedi confluiscono le valli. A sinistra, le pendici prative precipitano bruscamente in un profondo solco eroso dal fiume; ancora più in là, si intravedono le bianche case di Cevio. Di fronte si apre la Val Bavona, con le sue montagne dalle forme tondeggianti e le vette innevate. 

Sedendoci sui gradini della cappella, ci chiediamo perché questo connubio di rocce e vegetazione stimola i nostri sensi con un piacere così impalpabile e sottile? Sui laghi abbiamo lasciato paesaggi più «dolcemente sublimi, sereni a profusione». Ma questi riguardavano lo scenario collinare; persino le creste irregolari delle alture erano rivestite di verde e l'intero paesaggio ci allietava e ci appagava con il suo aspetto di ininterrotta quiete domestica e agiatezza. Qui, i profili oscuri e audaci dei precipizi di granito, che dominano la grazia lussureggiante e indomita del fondovalle, toccano le nostre emozioni con il vigoroso potere del contrasto. La maestosità delle catene centrali, unita alla bellezza italiana, risveglia in noi quell'entusiasmo che va al di là della serena ammirazione, che è il nostro tributo alla più alta espressione del Romantico, sia esso in Arte o in Natura. Possiamo contemplare serenamente un'intensa scena lacustre o una Madonna umbra; vorremmo sussultare di gioia davanti a una figura di Michelangelo o a questa vista della Vallemaggia.
Perché in questa valle la forza del granito è ingentilita dalla grazia mediterranea del fitto fogliame, un sontuoso mantello di castagni e faggi, orlato di piantagioni di mais e vigne, dalle falde ricamate con delicati motivi di felci e ciclamini. Per dirla in modo semplice e diretto, la Natura, nel tentativo di portare a compimento alcune delle sue più imponenti opere, raramente centra l'obiettivo. Invece, qui i risultati sono ben diversi: è riuscita a evitare quell’aspetto monocorde che caratterizza, rendendola insopportabile, buona parte dell'Alta Engadina e sminuisce persino le bellezze di Chamonix, così come lo spoglio rigore di Mattmark o del Grimsel, i rozzi e confusi detriti morenici e le rovine alluvionali che presentano le stesse pendici del Monte Rosa quando scendono verso Macugnaga e il versante italiano. 

Claudia Migliari.

[1] John Keats, sonetto XVII, N.d.T. 
[2] William Shakespeare, A Midsummer Night’s Dream (Atto III, Scena 1): N.d.T. 
[3] Nonostante l’analogia fonetica, finora non è emerso alcun collegamento tra le parole Maggia e Maggiore. 
[4] Bignasco sorge a soli 440 metri sul livello del mare.

Bibliografia

- D.W. Freshfield, Italian Alps, Sketches in the Mountains of Ticino, Lombardy, the Trentino, and Venetia. London Longamns, Green, and Co. 1875. Ebook gratuito su http://www.gutenberg.org/files/45972/45972-h/45972-h.htm
- G. Brenna, Un mondo di bellezza e di cultura. 50 escursioni in Ticino e nelle alpi limitrofe, Salvioni Edizioni
- AA.VV., Guida d’arte della Svizzera italiana, Edizioni Casagrande

Fotografie
-Le acque ai nostri piedi mostrano, nella loro trasparenza, un'intensità indescrivibile di zaffiro e smeraldo. Il fiume Maggia a Bignasco.
-Distretto di Locarno e bacino idrografico del fiume Maggia, tratto da W.D. Freshfield, Italian Alps. Sketches in the Mountains of Ticino, Lombardy, the Trentino, and Venetia. London Longamns, Green, and Co. 1875.
- Sospiro mentre ripenso a queste pendici alpine in terra italica, con le ondate di atmosfera d’opale a colpire i fianchi delle montagne, le sottili e variegate sfumature del fogliame, le pareti affrescate e i campanili che svettano ammiccanti. Panorama su Foroglio (valle Bavona).
-Per alcuni chilometri, lo scenario della Vallemaggia rimane confinato a un ambiente caratterizzato dalla solidità del granito, qua impreziosito da un'agile cascata, là deturpato da uno smottamento. Cascata della valle del Salto nei pressi di Maggia.
-Passiamo in uno spazio aperto, come tra i campi di un villaggio inglese, e poi tra case un po' più pretenziose di quanto siamo abituati a vedere in montagna.Piazza di Cevio e casa dei Landfogti.
-Il villaggio di Bignasco, in cui vive gran parte delle popolazione, è un gruppo di case a ridosso del fianco della montagna, attraversato da un'ombrosa strada di paese, delimitata da due file di muri a secco; lungo la via principale si aprono qua un cortiletto, là una piazzetta. Scorcio del centro storico di Bignasco.
- I detriti rovinati a valle non sono più riconoscibili, perché a ridosso di questi sorgono fabbricati rustici e le piante di vite ne dissimulano le forme aspre. Abitato tra valle Maggia e valle Lavizzara.
-Il fiume scorre in una stretta fenditura, in fondo alla quale si scorgono qua e là pozze di colore blu intenso o cascatelle spumeggianti. Il fiume Lavizzara nei pressi di Mogno.


Carlo Borromeo. Il santo di ferro. Rigore. Sacrificio, Abnegazione.

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Personaggio scomodo e discusso quello di San Carlo Borromeo: certamente perché fu il primo santo dell’età moderna, forse perché uomo del suo tempo, con le sue convinzioni e superstizioni. Pochi ricordano la sua attività d’inquisitore, molti rammentano il bene che fece: soprattutto alla città di Milano, che nei suoi confronti è ancora debitrice ed è orgogliosa di aver ospitato non uno, ma ben due santi in carne ed ossa e per davvero “militanti” a tutela del proprio popolo.
Il futuro grande vescovo di Milano, secondo solo a Sant'Ambrogio, vide la luce nel 1538 ad Arona, nell'antico maniero di famiglia: Carlo era il terzogenito del conte Giberto Borromeo e niente meno che di Margherita de’ Medici. Figlio cadetto di nobile famiglia, agevolato dal blasone e dalle ricchezze, (non scordiamo che i Borromeo già dal Medioevo furono dapprima banchieri, poi nobili con un ruolo di spicco nella Milano d’età Visconteo-Sforzesca) il giovane ebbe da subito una fulminante carriera religiosa: a soli sette anni fu tonsurato e a ventidue ricevette il cappello cardinalizio. A quei tempi i figli cadetti di nobile famiglia, se poco propensi all'uso delle armi, volenti o nolenti erano destinati alla carriera liturgica.
La morte della madre nel 1547 e quella del padre nel 1558, oltre a turbarlo profondamente, lo costrinsero a farsi carico della gestione del patrimonio famigliare e a prendersi cura delle numerose sorelle. Iscrittosi al celeberrimo Ateneo di Pavia, il giovane Borromeo cercò sempre di evitare l’ambiente studentesco e la sua vita goliardica: quando una notte i compagni di corso introdussero nel suo letto una giovane prostituta, Carlo, in escandescenze, la cacciò via. 
Da questo episodio già si comprende come Carlo fosse inadatto non solo all’uso delle armi, ma anche a confidenze con il genere femminile, ergo a dare figli al casato. Molto più tardi, in una lettera al cardinale Bathory, nipote del re di Polonia, egli avrebbe scritto “non avrete mai la castità se non eviterete la compagnia delle donne”. L’unica donna in cui diceva di avere stima era la Madonna…”su tutte le altre donne gravano due maledizioni da cui non si può sfuggire: la maledizione della sterilità e il dolore del parto”.


Eppure, nonostante la presunta misoginia Carlo ebbe sempre gran rispetto donne: a Milano aiutò fanciulle povere a farsi una dote e in particolare trattò le sue sorelle con estrema dolcezza, peraltro accasandole presso i miglior partiti del tempo: i Colonna a Roma, i della Rovere di Urbino, i de’ Medici di Firenze e i Gonzaga di Mantova. Esse stesse ebbero sempre un grande, forse eccessivo attaccamento nei confronti del fratello: più si mostravano morbose nei suoi confronti, più Carlo le evitava, barricandosi dietro il rapporto epistolare.
L’indole del religioso, chiaramente chiusa, lo portò a disdegnare i suoi compagni di corso, che avevano intrapreso la carriera ecclesiastica solo per opportunismo, dedicando tutto se stesso agli esercizi di pietà e allo studio: sotto la guida di Francesco Alciato, il più importante uomo di Legge del tempo, entro il 1559 Carlo Borromeo si laureò “utroque iure” in diritto civile e canonico. Al termine degli studi suo zio, il cardinale Giovanni Angelo De Medici del ramo di Marignano (Melegnano), eletto papa con il nome di Pio IV, approfittò della sua fede e della sua intransigenza per convocarlo a Roma e fare di lui un fedele segretario di Stato, membro della Commissione per la ripresa del Concilio di Trento, concedendogli la commenda di molte abbazie in Italia e all’estero.
La “grande bellezza” della vita romana del tempo, corrotta e lussuosa, non riuscì però mai a sedurre l’animo del brillante giovane neo-cardinale il quale, disdegnando i frequenti ricevimenti, i giochi di società e le battute di caccia preferì circondarsi di ecclesiastici e laici sapienti per fondare un’accademia, che prese il nome di “Notti Vaticane”: un salotto privato, inizialmente a carattere umanistico, che presto si tramutò in luogo di fervidi dibattiti teologici. A conferma della tendenza di Carlo all’ascetismo, Annibal Caro, segretario del cardinal Farnese, accennando alle riforme che il lombardo stava portando nella Capitale, aveva esclamato con stizza: “ora si viene a Roma per pregare, non per far fortuna!”


Nel 1562 un messo annunciò al Borromeo che suo fratello maggiore Federico, capitano delle truppe dello Stato Vaticano, era morto in una partita di caccia. Mentre il posto di suo fratello restava vacante, Carlo rifiutò la potenziale nomina a conte di Arona, e con esso le immense ricchezze che gli si prospettavano. Questo nuovo grande shock, sommato all’assassinio del suo miglior amico Giovanni de’ Medici, accese qualcosa nell’animo apparentemente imperturbabile dell’allora ventiquattrenne. Le vicissitudini della vita stavano forgiando la personalità del Carlo Borromeo che poi passò ai posteri: una figura di uomo talvolta duro e intransigente, fino al fanatismo, ma sempre coerente con se stesso e con la sua missione. Dio aveva dato un compito da compiere al suo umile soldato: il suo lottatore migliore.
Taluni lo giudicarono malato di mente, altri “malato di teatinerie”, dal nome del nuovo ordine religioso dei Teatini, noto per le sue tendenze religiose e mistiche”. Carlo non poteva accettare i costumi mondani del manierato Rinascimento più attardato e decadente, con il suo culto del bello e del corpo ormai enfatizzato e reso ambiguo dall’affettazione del Barocco ovunque nascente: Carlo era nemico del bello e nemico del corpo! Perciò teneva nascosti in casa strumenti di penitenza come flagelli aculeati e catene, con cui martoriare le sue stesse carni nelle notti di maggior turbamento interiore. Ma ormai, scontate le sue pene, era giunto il momento di farla pagare anche ai peccatori; Roma, nuova Babilonia, era una città marcia e corrotta, colma di donne disoneste e frequentatrici d’alti prelati. In Vaticano le cappe rosse dei cardinali più giovani, ballerini rinomati, volteggiavano come le vesti pregiate delle concubine degli harem turchi…e i monasteri, rifiutati i loro aiuti alla gente comune, traboccavano d’oro.
Colpo di mano: Carlo mise Roma sotto scacco richiamando a sé l’ordine dei Gesuiti, malvisti dal clero proprio a causa della loro inflessibilità, per indagare a tappeto su monasteri e parrocchie e setacciarvi un gran numero di monaci gaudenti e venditori di cariche religiose. 
Nemmeno Pio IV potè soffocare la sua vocazione: nel 1564, di comune intesa, zio e nipote, in applicazione al concilio di Trento ordinarono a tutti i vescovi di risiedere nelle proprie diocesi: il decreto gettò grave scompiglio tra i presbiteri che fino ad allora avevano preferito godere degli agi della curia romana, invece di gestire la propria città e il proprio gregge di fedeli. Quando la loro protesta raggiunse il culmine, il papa sbottò. “Per Dio! Quelli che non vorranno osservar il Concilio li faremo impiccare!”
L’ascetismo trascendentale di Carlo era ormai conclamato: coloro che a Roma avevano qualche scheletro nell’armadio lo temevano come la peste. Per quanto ricco, decise di condurre a una vita improntata all’ascetismo e al rifiuto di qualsiasi concessione al proprio corpo in termini di cibo, riposo e abbigliamento. Pane e acqua, vesti indossate fino al logorio, un letto di tavole e quando sarebbe giunto a Milano pochissime ore concesse al sonno in una tettoia del palazzo arcivescovile, torrida d’estate e gelida in inverno: quello stesso stile di vita, lui avrebbe voluto vederlo nel resto del clero, troppo spesso attratto dal lusso dei costumi del tempo. Ormai il cardinale non poteva più restare in un ambiente così particolare come romano, dove in aria di barocco si stavano sviluppando sempre più l’apparenza, l’enfasi retorica, il servilismo adulatorio e il sistema delle raccomandazioni: Carlo, sì nobile, ma pur sempre uomo di campagna tagliato con l’accetta, solo raramente accondiscese a richieste, raccomandazioni e spintarelle.

Nel 1566 il Borromeo si preparava alla sua nuova e più difficile missione, quella di diventare vescovo di una grande e importante metropoli di frontiera: cosa ancor più complessa, profeta in patria. La “Lombardia”, sua madre terra, lo reclamava.
Allora lo Stato di Milano era retto dai re di Spagna tramite un governatore assistito da un senato composto da 15 membri, di cui 3 spagnoli e 12 milanesi, tutti fedeli più al re che al vescovo: essi erano ricchi e provvisti di servitù, palazzi, carrozze…Gli operosi e geniali artigiani milanesi del tempo, descritti dal pittore e critico d’arte Giovan Paolo Lomazzo, approfittando delle richieste del mercato spagnolo producevano ed esportavano armi ed armature della più alta qualità, gioielli e abiti alla moda in tutto il mondo civile: all’alba della sua decadenza Milano restava, nonostante tutto, ovunque famosa in per il commercio e la sua proverbiale ricchezza.
Eppure la verità era un’altra: storditi dal riflesso aureo e ingannatore di un impero che rubava immense risorse nel Nuovo Mondo, ogni giorno i cittadini erano falcidiati dal pesante fisco spagnolo. Il governo straniero, dietro la continua mascherata di feste, balli e spettacoli, non faceva altro che prelevare risorse dal Ducato sottratto con le armi agli Sforza, senza restituire nulla alla città e al suo contado. Gli spagnoli, con il loro ideale cavalleresco feudale, obsoleto e sfrontato, spadroneggiavano in casa d’altri. Ben presto, quando “l’oro maledetto” rubato con la violenza ai nativi d’America si sarebbe esaurito, la Spagna asburgica, indebolita dalla carestie dall’inflazione dilagante, l’avrebbe pagata molto cara.
I primi anni Milanesi di Carlo furono tormentati e burrascosi, sia sul versante civile sia su quello ecclesiastico: il governatore spagnolo e il Senato non volevano rinunciare a nessuna delle loro prerogative e mal sopportavano che l’arcivescovo riprendesse le sue, ormai cadute in disuso.
Nella sua lotta l’arcivescovo aveva contro nobiltà e clero ma non il popolo, che percepì in lui un proverbiale protettore nel momento del bisogno. La coscienza pubblica andava svegliata, una nuova battaglia era alle porte!

La diocesi ambrosiana, comprendente parte dei territori di Venezia, del Piemonte e le valli del Ticino, superava per estensione i confini del Ducato stesso. Carlo, formalmente, aveva ereditato un patrimonio che, lungi dal limitarsi alla città di Milano, si estendeva alle terre limitrofe, fino ad abbracciare tutta l’area del lago Maggiore. Essere nobile, però, per Carlo, non significava soltanto avere sangue blu e oro nei forzieri: cresciuto pur sempre nell’ambito della piccola nobiltà, con il ricordo rimasto indelebile delle imprese del suo antenato Giovanni I, che nel 1487, in val d’Ossola, aveva fermato 2000 feroci invasori svizzeri in una battaglia che tinse di rosso le acque del Toce, per Carlo si presentò il serio problema di innalzarsi allo status dei grandi casati. Inoltre tutti questi titoli formali, con le buone o con le cattive andavano riconquistati. 
Carlo Borromeo, infatti, trovò una città gravemente decadente dal punto di vista ecclesiastico: da oltre un secolo i suoi predecessori non avevano mai vissuto in città. Fu così che il neo-vescovo avviò un immenso e pericoloso lavoro di riforma e riorganizzazione della diocesi contro l’abusivismo, la corruzione e l’arbitrio dei forti, con un’operosità che entrò nella leggenda. Uno dei suoi motti, non per nulla, era “la vita è un giorno lavorativo e la festa comincia dopo la morte”. 
A proposito di morte, col decesso di Pio IV (1565) i Borromeo pensarono che il loro successo fosse giunto al capolinea: non avevano più uno zio protettore in Vaticano. Carlo stesso però, presentandosi a Roma, mostrò un tale impegno nel gestire il consesso che, nonostante l’ironico soprannome di “duce del conclave” appioppatogli dai detrattori, segnò positivamente l’opinione del nuovo papa eletto: Michele Ghisleri da Pavia, detto Pio V.
La situazione per i Borromeo rimase immutata: morto un papa se ne fa un altro!
Con la morte dello zio, nel 1566, all’età di ventott’anni Carlo Borromeo si trasferì da Roma a Milano, capitale del suo paese d’origine, per attuare i dettami della riforma tridentina anche in patria. Diventato arcivescovo di un’inquieta metropoli di frontiera minacciata dal Protestantesimo, Carlo sentì il dovere di stagliarsi come un vero “difensor fidei”. 
Nel 1572 Carlo istituì un sistema di sorveglianza sui forestieri provenienti da nord, decretando: “si denuncino eretici, sospetti d’eresia, et quelli anchora che leggono o hanno presso di loro libri d’heretici, scritti o compositioni altre prohibite”. 
Ed ecco che Carlo iniziò a esercitare un forte controllo sulla stampa: non poteva accettare che accanto ai classici e sacri circolassero poemi cavallereschi, stampe pornografiche e racconti erotici, testi esoterici e di magia nera! 
Quando il governatore gli rammentò che doveva essere grato al re per i benefici ottenuti, Carlo rispose in terza persona “se sua Maestà crede che per esser grato a lui Carlo debba recare danno ai suoi obblighi spirituali, sappia che non lo farà mai”. 
Carlo aveva puntato troppo in alto: ormai la sua vita era in pericolo. Prima si scontrò con i canonici della Scala, rei di crimini comuni. Alla sua scomunica per il loro comportamento irriguardoso, questi risposero con striscioni che dichiaravano il vescovo decaduto. Carlo li sconfisse, imponendo loro la penitenza di inginocchiarsi ai suoi piedi per dieci anni di fila. Poi fu il turno dei corrottissimi Umiliati: un ordine che includeva anche concubine e non aiutava i poveri, ma la cui indiscussa abilità imprenditoriale era stimata da secoli in tutta Europa per la produzione di panni lana: e pensare che alle origini proprio loro avevano propugnato l’ideale di una vita più austera e dedita all’umiltà!


Alla visita di controllo di Carlo in santa Maria di Brera, gli umiliati opposero il loro secco rifiuto con il sostegno di una scorta armata: la loro malafede era conclamata! Presto Borromeo li punì requisendo i beni a cui erano tanto attaccati per elargirli ad opere pie, assistenziali, edili e culturali e donando il resto ai nuovi ordini militanti e ancora incorrotti dei Barnabiti e dei Gesuiti, che lui stesso aveva introdotto in città: la sua attività, in un certo senso, inconsapevolmente, in certi frangenti aveva già un che di illuministico… 
Decretata la morte di Carlo, gli Umiliati assoldarono il “Farina”; un monaco ladro, frequentatore di bettole ed esperto nel manovrare l’archibugio: un vero uomo di fede, che Carlo lasciò a piede libero nonostante i numerosi attentati falliti. Quando il Farina, introdottosi nell’arcivescovado, riuscì seriamente a esplodergli un colpo alla schiena, prima si gridò di terrore, poi al miracolo: Carlo, che non sembrava sentire alcun dolore, continuò la liturgia come nulla fosse.
Invero Carlo era stato gravemente ferito, ma la sua ferrea forza di volontà gli permise di nascondere la grave ferita fino alla morte e al riordino del suo cadavere. Il Farina, contumace per breve tempo, fu catturato, amputato della mano che aveva sparato e impiccato nel 1570 con altri due cospiratori. L’anno seguente l’ordine degli Umiliati fu sciolto. Nello stesso anno a Milano scoppiò una grave carestia: l’arcivescovo, a sue spese e con quanto raccolto dagli Umiliati cercò di far fronte al bisogno raccogliendo collette e distribuendo viveri; aveva dato ordine di tenere caldaie di riso mezzo cotto sotto i portici del suo palazzo per sfamare chi era nel bisogno.
Per le sue dure repressioni il terzo nuovo papa, Gregorio XIII, amico suo dai tempi delle Notti “Vaticane”, invitò spesso Carlo alla moderazione, e ritenendolo troppo “spinoso” gli rammentò che “nel governo degli huomini bisogna ricordarsi che sono huomini et non angeli”. 
D’altronde Carlo, per parte sua, ardeva di sdegno per una società in cui la Chiesa era attaccata dallo Scisma d’Occidente, dal Barocco nascente, dal Protestantesimo, dai Turchi, dal Re di Spagna e dalla decadenza interna del Clero stesso: l’esperienza dell’attentato fu la goccia che fece traboccare il vaso. Se i tempi erano davvero così violenti, allora Carlo doveva adeguarsi: visti i precedenti e i pericoli a quel punto l’arcivescovo non esitò a ricorrere all’uso delle armi per la difesa del suo popolo e della religione. Nelle città europee tra ‘500 e ‘600 non esisteva una polizia efficiente e i cittadini, che giravano armati contro aggressioni e rapine, spesso ne approfittavano anche loro: si viveva in modo “spagnolesco”, avrebbero detto nel XIX secolo. In questo clima Carlo incoraggiò suo genero Annibale Colonna a combattere gli Ugonotti in Fiandra; espresse la sua simpatia per il principe di Parma quando questi espugnò la protestante Maastricht; caldeggiò col papa la guerra contrò i turchi che portò alla storica vittoria navale di Lepanto; volle che la propria guardia del corpo fosse armata e attrezzò l’arcivescovado di prigioni. In nome della giustizia lottò contro i potenti e i prevaricatori: Carlo era un uomo di Legge e d’azione, tutt’altro che un demagogo pacifista dei nostri giorni!
Nel 1571 i sovrani di Spagna gli inviarono di proposito un osso duro per tenergli testa: don Luis de Zuniga y Requesens, un uomo permaloso e geloso del suo potere. Quando Carlo, che si era temporaneamente assentato, rientrò in città, la trovò in subbuglio. Il nuovo arrivato aveva organizzato di proposito un carnevale improvvisato per privarlo dell’appoggio del popolo: il “carnevale dei caragnoni”, o dei piagnucolanti, ossia una parodia d’uomini vestiti di sacco, scalzi e cosparsi di rosso per simulare le ferite del flagello della peste. Il fato l’avrebbe punito per quella trovata di cattivo gusto. In seguito a minaccia di scomunica, il governatore rispose con nuovi oltraggi: nel 1573 fece occupare e requisire l’avita rocca di Arona per estromettervi il conte Renato, con la scusa “che non divenisse un covo di ribelli eretici”… 
Mera e scorretta manovra politica, alla quale ne seguì un’altra: le mura delle case di Milano furono coperte di manifesti satirici a stampa contro Carlo stesso. Presto lo spagnolo, richiamato in guerra, fu allontanato da Milano.
Nel 1576 a Milano esplose la peste che don Luis de Zuniga aveva tanto stoltamente invocato. Carlo dettò il suo testamento, devolvendo tutti i suoi beni ai poveri. Il nuovo governatore, don Antonio de Guzman, marchese di Ayamonte, vietò a quanti avevano cariche pubbliche di allontanarsi da Milano, ma molti trasgredirono: egli per primo si rifugiò nel castello di Vigevano. Carlo invece non si mosse dalla sua città e assistette gli appestati personalmente, ordinando alle sue schiere di barnabiti, teatini e gesuiti di costruire capanne e centri di assistenza anche fuori città, perché il lazzaretto non bastava più. Due terzi dei milanesi scapparono, i restanti si sbarrarono nelle case. Con l’intensificarsi del morbo Carlo sfidò il contagio organizzando tre grandi processioni penitenziali con il popolo e le autorità. Non fu certo una scelta saggia, che probabilmente agevolò la propagazione del morbo. 
Egli stesso vi partecipò: con una corda al collo in segno di sottomissione a Dio e procedendo a piedi nudi, reggeva un pesante crocifisso. Il popolo lo vide calpestare un chiodo e continuare a procedere, lasciando una scia di sangue. Quest’immagine forte di “alter Christus”, che sacrificava simbolicamente se stesso per la comunità ambrosiana, rimase cristallizzata per sempre nel ricordo dei milanesi. 
A quel punto Carlo stabilì la quarantena e fece erigere colonne a diciannove crocicchi, di modo che egli stesso potesse confessare e comunicare i fedeli lasciando al popolo la possibilità di seguire dalle finestre senza uscire di casa. Per lui la peste era un castigo di Dio, necessario perché la città si liberasse dal peccato. L’epidemia durò un anno e sei mesi, mietendo 17.000 morti: quasi 300 persone al giorno. Al bisogno ludico del popolo per feste e carnevali, Carlo rispose organizzando processioni religiose e traslazioni di reliquie, la cui più solenne, quella di San Simpliciano del 1582, ebbe l’effetto di convogliare a Milano 400.000 persone venute da ogni dove: quasi una sorta di giubileo. Carlo era diventato una leggenda vivente.
In luglio l’arcivescovo partì alla volta di Torino per venerare la Sindone, recandovisi per l’ennesima volta a piedi nudi: quivi fu accolto con fasto dal duca Emanuele Filiberto di Savoia. 
A peste terminata, con l’aiuto di Pellegrino Tibaldi Carlo innalzò il tempio circolare dedicato a San Sebastiano e fece concludere i lavori alla basilica di San Fedele: modello di edificio religioso gesuitico, volutamente contrapposto alla chiesa del Gesù di Roma.


La personalità di Carlo, troppo forte e autonomista, accese nuovi scontri contro l’Ayamonte, che aveva ripreso lo stesso andazzo di don Luis de Zuniga y Requesens. Ripreso il Carnevale come pretesto per boicottare l’antichissimo rito ambrosiano, che sottolineava la realtà storica di Milano come sede ecclesiastica a parte e quasi indipendente, lo spagnolo si spinse al punto di disturbare un’importante predica in Duomo con un torneo improvvisato d’armi e musicanti. A quel punto il Borromeo scomunicò il governatore: quest’ultimo stava per organizzare nuove vendette quando cadde ammalato gravemente. Nel 1580 Carlo accorse al suo capezzale per assisterlo nell’agonia e assolverlo. Giustizia era fatta. Il successore, don Sancio de Guevara, sarebbe stato assai più conciliante.
Ma c’erano anche le streghe ad agitare i sonni del Borromeo…
La sua credulità nelle fattucchiere, sconcertante, era condivisa da parecchi altri uomini del suo tempo. Fu così che nel 1583 Carlo si spinse in ispezione della Mesolcina, “valle sospetta” della Svizzera al confine con popoli germanofoni e luterani: vi ritrovò sacerdoti concubinari alla maniera dei Protestanti e tramite il braccio secolare processò 161 streghe delle quali solo 11 irriducibili, chissà come mai, si rifiutarono di abiurare e morirono sul rogo. Anche se non è facile da accettarsi, la morte di queste undici paesane non destò scalpore presso l’opinione pubblica del tempo: a parte il numero irrisorio di vittime, gli inquisitori erano convinti non di averle uccise, ma di averle purificate. Inoltre Carlo non poteva rendersi conto d’essere intollerante, in un’epoca in cui anche i cosiddetti “eretici”, altrettanto fondamentalisti, percorrevano le valli grigionesi portando violenza e bruciando antiche e preziose immagini sacre, (perfino quelle scolpite da maestri tedeschi, loro prossimi!) con altrettanti roghi furiosamente iconoclasti: chi voleva sopravvivere e restare cattolico doveva darsi a una disperata fuga verso la Valtellina… 
L’esperienza non fu priva di conseguenze per l’arcivescovo; da allora Carlo cercò di mitigare la crudezza dell’inquisizione spagnola, opponendosi perfino all’idea di Pio V di accogliere le denunce anonime: mero strumento politico per eliminare gli avversari. Gli spagnoli giunsero perfino ad accusarlo di condurre indagini troppo superficiali contro gli ebrei!
Nel 1584 la fine era prossima: benché ammalato, Carlo non interruppe mai la sua attività pastorale. Era troppo impegnato in affari importanti come il problema degli eretici in Canton Ticino, una vera e propria ossessione per lui. In estate girò la diocesi, visitò la Sindone per l’ennesima volta e si ritirò nel suo Sacro Monte prediletto, a Varallo: qui, colto da febbre, pur dinnanzi alla visione della propria morte non volle in nessun modo rinunciare ai suoi impegni pastorali. La sua ultima tappa doveva essere Ascona, dove fondare un seminario: nuovo baluardo contro il protestantesimo filtrante; ma il corpo esausto di Carlo non ce la faceva più. Il primo novembre del 1584, giorno di Ognissanti Carlo era allo stremo. Sorretto dai suoi, celebrò ad Arona la sua ultima messa. Poi fu portato a Milano, nel suo giaciglio del palazzo Arcivescovile. “Verso l’ora terza della notte di sabato 3 novembre l’ottimo padre ci abbandona” scrisse il Bascapè. “Ecco che la corona nostra è caduta…ecco che il nostro lume si è spento.”


Carlo morì giovane, all’età di quarantasei anni compiuti da poco. La rigida disciplina che l’arcivescovo seguiva ormai da troppo tempo ne aveva irreparabilmente minato la salute, consumandolo. Carlo aveva disposto di essere sepolto sotto il pavimento del Duomo di Milano, che egli stesso aveva contribuito a completare coi servigi dell’architetto Pellegrino Tibaldi. I funerali registrarono un incredibile concorso del popolo…appena tre, invece, i vescovi presenti…
Il più grande santo moderno fu elevato a simbolo della Controriforma trionfante: Carlo aveva portato in città ordini religiosi di recente formazione (Gesuiti, Barnabiti, Oratoriani e Teatini, più i Francescani più spiritualisti) allora non ancora toccati dall’antica corruzione. Aveva fondato istituzioni e collegi come il Collegio Elvetico (attuale palazzo del Senato) sviluppando la rete di scuole della dottrina cristiana per laici. Arricchì la città di cupole e nuovi colonnati, laddove gli spagnoli non avevano speso nemmeno un ducato. Il suo modello di “vescovo – legislatore” e di edificatore fu d’esempio per molti vescovi, non solo italiani. Raggiunta la santità con una vita dedicata alla causa di Dio e della Chiesa, alla sua morte si cominciò a sostituire lo stemma gentilizio del casato con armi e unicorno con la parola “humilitas”: in segno di preghiera meditazione, penitenza e rigoroso controllo di sé: qualità che avevano segnato il suo agire pastorale.
La santità di Carlo Borromeo fu sancita dal giudizio della Chiesa nel 1610. La sua canonizzazione, volente o nolente, rappresentò un evento eccezionale; l’attività della Controriforma, volta a “sfornare” nuovi santi per sensibilizzare le necessità spirituali turbolente degli uomini del tempo (S. Francesco Saverio, S. Filippo Neri, S. Teresa d’Avila) ebbe il suo maggior successo nella persona di colui si era maggiormente distinto, innalzandolo allo stesso livello dei santi dell’antichità: Carlo Borromeo fu proclamato e collettivamente percepito come primo e unico “santo moderno”. Non fu papa solo perché non lo volle: un vero pastore non può abbandonare il suo gregge.
Il culto di Carlo Borromeo, infatti, non limitandosi a Milano e alla sua già ampia diocesi, prese piede anche altrove: la frequente presenza di templi che fanno riferimento a Carlo ne segnalano la presenza a Roma, ma anche fuori dall’Italia: soprattutto a Vienna, a Cracovia, insomma, nell’Impero Asburgico. 
Da allora tutte le chiese della Diocesi e dei territori che l’avevano visto attivo cominciarono a mettere a parete o a collocare in ogni sacrestia un quadro che ricordasse a tutti le sue note sembianze: la statura notevole e il naso aquilino e prominente. A partire dai primi grandi pittori lombardi del Seicento (Cerano, Morazzone, Procaccini), si dipinsero quadri, quadroni e pale d’altare volti a tramandare gli eventi che videro Carlo come protagonista. Bisogna però precisare che, sebbene la vasta iconografia seicentesca lo raffiguri rasato, durante la sua vita il Borromeo portò sempre la barba: cominciò a radersi solo nel 1576, al tempo della peste, e mantenne il volto rasato in segno di penitenza durante gli ultimi otto anni di vita. Nel suo nome sorse un’infinità di chiese, santuari, non solo in Lombardia e in Italia, ma anche nel resto d’Europa. Attualmente la diocesi di Milano venera San Carlo Borromeo come suo patrono, accanto a Sant’Ambrogio. Tipico santo protettore dalle epidemie, il giorno a lui dedicato è il 4 novembre.

Marco Corrias (alias Marc Peven).

Bibliografia:

- F. Abbiati. L'irruzione di Carlo in piazza duomo ben simboleggia il suo attivismo
- M. Gregori, Pittura a Milano dal seicento al Neoclassicismo, 1999
- P. Biscottini, Carlo e Federico. La luce dei Borromeo nella Milano spagnola, 2005
- P. Pagliughi, Carlo Borromeo. I destini di una famiglia nelle lettere del grande santo lombardo,2006
- D. Zardin, La vita e i miracoli di san Carlo Borromeo tra arte e devozione, 2010

Didascalie:
1- San Carlo Borromeo magistralmente dipinto dal Cerano, Procaccini, Morazzone (inizi ‘600).
2- Pavia, Collegio Borromeo: capolavoro manierista di Pellegrino Tibaldi (fine ‘500).
3- Il concilio di Trento, durato 19 anni (1545 - 1563).
4- Milano d'epoca. piazza del Verziere con colonna stazionale eretta dal Borromeo.
5- Cerano. Carlo dona ai poveri i proventi del principato d'Oria.
6- Morazzone. Battesimo di Cristo con sgherri o "bravi" in posa sulla destra.
7- L'elegante arroganza di Carlo III ben esemplifica l'attitudine degli Asburgo di Spagna.
8- San Carlo interviene in soccorso degli appestati all’apice della virulenza.
9- Cerano. Carlo in contemplazione di Cristo presagisce la propria morte.

Innocenzo Ratti: Fra Ratt.

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Innocenzo Ratti nasce a Milano l’11 febbraio 1806, figlio di Felice e Galletti Angiolina.
I Ratti appartengono ad una famiglia benestante residente a Massiola in Valstrona già da diverse generazioni, proprietari di miniere nella stessa valle, una sulla montagna sopra Massiola e una all’alpe Penninetto,sopra Campello Monti.
Felice e Angiolina mettono al mondo dieci figli, cinque maschi e cinque femmine; tra i fratelli maschi ben quattro prendono i voti. Parenti stretti di Achille Ratti conosciuto poi con il nome di Papa Pio XI, Don Giulio Ratti fu il più celebre, prevosto di S.Felice a Milano, cav.ufficiale dei S.S. Maurizio e Lazzaro, celebre autore e predicatore, amico del Torti, del Grossi, del D’Azzeglio e del Manzoni, il quale proprio nella casa milanese dell’amico prelato, la vigilia di Natale del 1848 per una grande abbuffata fece un’ indigestione di cui all’epoca parlò tutta Milano.
Altro fratello che vestì l’abito talare fu don Alberto canonico di S.Babila a Milano; don Battistino a Moncalieri e lo stesso Innocenzo che fu ordinato frate l’11 marzo 1827 presso i Fatebenefratelli di Milano.
A Massiola si ricorda ancora l’unica messa celebrata un giorno da tutti e quattro i fratelli, ritrovatisi per l’occasione e passata alla memoria come la messa “di quatar ratt”.
Tra questi sicuramente il personaggio più interessante resta Innocenzo, figura eclettica, uomo di aperto ingegno, d’animo ardente e attivo; prima frate e allievo prediletto del famoso padre Appiani, poi medico valente e popolarissimo, botanico e agronomo e geologo di spicco,si diceva fosse anche dotato di poteri parapsichici.
Socio di diverse accademie produsse molti scritti tra i quali si evidenzia una monografia sulle Regie Terme d’Acqui. Nelle sue “Memorie” pare ci fossero anche le confessioni della madre di Alessandro Manzoni, fatte dalla stessa al confessore e confidente don Giulio Ratti, che proverebbero l’insolita genealogia del romanziere il quale non sarebbe nipote di Cesare Beccaria ma di Pietro Verri e, addirittura, che non fosse nemmeno figlio di Pietro Manzoni ma di Giovanni Verri, fratello minore del Pietro!
Il “Frà Ràtt”,come viene ricordato oggi in Valstrona, unitosi a Garibaldi, fece la campagna del 1848-49, fu luogotenente medico nell’armata meridionale nel battaglione Cattabeni. Nel 1859-60 fu ancora medico di battaglione al 2° reggimento dei Cacciatori delle Alpi. Si trovò poi a combattere come guerrigliero il potere temporale del papa e venne ferito a Mentana.
In pieno Risorgimento bisogna però ricordare che Innocenzo aveva già abbandonato l’abito talare, uscito dall’Ordine per amore di una donna.
Andando ancora più indietro nel tempo, a quando Innocenzo era ancora un giovane ma per niente sprovveduto frate, si sa che da Roma dovette partire alla volta di Parigi su ordine preciso, probabilmente del papa stesso, per consegnare una missiva segreta. Questi affari diplomatici lo riportarono di passaggio vicino alla sua terra per valicare il passo del Sempione ed arrivare in terra francese. Lungo il viaggio il destino volle che si fermasse ad Anzola d’Ossola, piccolo paese all’imbocco della Val d’Ossola per riposare almeno una notte. Quella notte però non vi trovò riposo ma un oste disperato perché non riusciva a trovare una levatrice per la moglie presa da doglie. Il frate, che aveva già fama di medico ed erborista, offrì il suo aiuto per un parto che si era presentato difficile fin da subito ma che ottenne un felice risultato.
Presto si levarono le prime luci dell’alba che già frate Innocenzo era pronto a ripartire, l’oste traboccante di gioia in segno di ringraziamento, mandò ad aiutare il viaggiatore a caricare la carrozza una giovane servetta originaria della Val Anzasca.
Lui, giovane e d’animo ardente, capace di cogliere e godere delle bellezze del creato e quindi attento anche alla bellezza di una giovane e prosperosa ragazza. Lei dai lineamenti raffinati nonostante i suoi umili natali. Come poteva lui non rimanere colpito da due grandi occhi celesti come i laghi alpini, da labbra rosse piene di vita, contornate da gote rosee che rivelavano la giovane età della ragazza che le porgeva un fagotto?
L’abito che i frate portava non bastò per sopire il tumulto di sentimenti e sensazioni che lo invasero in quel momento e senza esitare si fece strappare la promessa di aspettarlo, le giurò che sarebbe tornato per portarla via con sé, le baciò la mano che stringeva nelle sue,guardò ancora per un lungo attimo quel dolce viso per imprimerlo bene nella mente e partì.
Come da promessa fatta il frate tornò e portò via dalla valle la ragazza.Lei divenne “la Teresa dal Frà” e cominciarono a vivere insieme quell’unione illegittima senza una fissa dimora, frequentando i salotti della Milano bene, caffè letterari nelle varie città italiane, a seconda di dove le imprese dell’uomo lo portarono. Il Frà, chiamato ancora con questo nome nonostante avesse lasciato l’ordine, decise poi di sposare la donna tanto amata e per regolarizzare tutti quegli anni di libera convivenza fu aiutato dal fratello don Giulio, che pare abbia ottenuto dispense speciali per poter celebrare l’atteso matrimonio.
Mi piace pensare che il detto tanto noto tra Ossola e Cusio “Par la cùmpagnìa a sa marià anca un frà”(Per la compagnia –intesa come le amicizie che si trovano in osteria-si è sposato anche un frate) possa risalire proprio all’episodio che ha fatto incontrare il Frà Ratt con la bella Teresa.
Da questa unione nacquero due figli, Bernardino e Angiolina. Il primo lavorò per alcuni anni ai restauri dei grandi quadri di Palazzo Reale a Torino e ottenne da Carlo Alberto la prima licenza per vendere Sali e tabacchi a Massiola. Angiolina diventò un’ottima insegnante e si prodigò per il bene del suo paese natale.
La bella figura di Teresa si può riconoscere in alcune opere dell’Hayez, grande pittore neoclassico, per il quale posò diverse volte. Una bellezza che viene addirittura definita afrodisiaca da un cronista dell’epoca e ci sono anche diversi episodi che raccontano della morbosa gelosia del frate; nessuno poteva avvicinare e tantomeno toccare l’avvenente moglie e ne fu ben consapevole, suo malgrado, un uomo che un giorno a Milano passando davanti al caffè Biffi notò la coppia seduta ad un tavolo. Cominciò a guardare la donna e non sapendo poi resistere all’impulso scavalcò le sedie che si ponevano davanti e si lanciò tra le sue braccia per rubarle un bacio. Riuscì a toccare le labbra di Teresa ma subito dopo assaggiò anche il pugno di ferro ben assestato del frate che lo stese a terra esanime.
Solo Garibaldi potè avvicinarsi a lei. Amico di Innocenzo l’eroe dei due mondi conobbe Teresa in occasione di una sua visita sulle sponde piemontesi del Lago Maggiore esattamente a Intra dove sbarcò acclamato dalla folla festante e dove primi fra tutti a riceverlo c’erano proprio l’amico con la moglie. Garibaldi li raggiunse per i saluti, anche lui non potè resistere all’avvenenza della donna di cui aveva già sentito parlare e la baciò ancora prima di salutare l’amico. In questo caso il nostro frate dovette soffocare la gelosia, tenendosi in tasca i pugni stretti e abbozzando un amaro sorriso, Garibaldi poteva questo e altro!
Il Frà Ratt tentò anche la carriera politica candidandosi al collegio di Biandrate nel 1865, convinto da un vecchio amico d’armi, Benedetto Cairoli, ma l’impresa non ebbe buon esito.
Partecipò attivamente ai congressi scientifici di Genova, Napoli e Venezia e fu per diciassette anni consigliere provinciale, difendendo con coscienza gli interessi della Valstrona.
Fece anche fortuna, a Massiola si diceva che un giorno lo videro entrare in valle con un asino che portava due sacchi pieni di marenghi e che servirono per ristrutturare una sua vecchia casa in paese.
Certo è che si adoperò moltissimo per il paese e la valle stessa, dove era conosciuto col nome di Sciùr Padar, operò come valente medico, fu sindaco di Massiola e cooperò, anche di tasca propria, alla costruzione della strada che avrebbe allacciato Omegna a Forno e Campello Monti, ultimi paesi in cima alla valle. Portò abbellimenti al suo paese per esempio con la sua particolare casa vista come un palazzo dai massiolesi, la stessa casa dove ospitò più volte Massimo D’Azzeglio in quanto all’epoca il politico e scrittore viveva parte dell’anno a Cannobbio, sul Lago Maggiore, ed era solito salire in Valstrona per consultare il frate mosso dall’interesse per esperimenti di spiritismo, fatti che rivelano l’inclinazione verso la magia bianca da parte del padrone di casa.
Il Frà fece costruire anche dei terrazzamenti sul versante della montagna che da Massiola va verso Inuggio. In inverno quando gli alberi del bosco, che ora si è impossessato di quelle coltivazioni, sono spogli e la neve marca i lineamenti del terreno si possono ancora scorgere e immaginare per un momento gran parte del versante coltivato a vigne e alberi da frutto e forse qualche specie di pianta inconsueta ma che l’abile botanico avrebbe coltivato.
Intanto gli anni passarono, sia per il frate che per la moglie che vedendo sfiorire la sua bellezza si rifugiava sempre più spesso nell’unica ebbrezza rimastale, quella del bicchier di vino.
Arrivarono gli anni tristi della vecchiaia, lui deperiva sempre più e la moglie ormai alcolizzata non sapeva darle il sostegno dovuto. In più la figlia Angiolina con l’arcivescovo di Torino, il vescovo di Novara e il parroco di Massiola fecero di tutto per riportarlo in seno alla Chiesa, riuscendoci quando una mattina di ottobre del 1883 Innocenzo Ratti bussò alla porta del Convento dei Fatebenefratelli di Milano, proprio dove era partita la sua avventura, una vita piena di eventi e di passioni come l’animo romantico dell’epoca richiedeva. Morì dopo qualche giorno, come si dice, in grazia di Dio. La moglie gli sopravvisse ancora per nove anni rimanendo preda dei deliri dell’alcool nella sua casa di Massiola. Casa che purtroppo ne 1922 fu colta da un incendio che fece perdere irrimediabilmente la biblioteca lasciata dal frate con i suoi cimeli, documenti e le opere che aveva scritto, andate perse con chissà quali segreti. Quel poco che si era salvato venne bruciato da chi vedendo in quei fogli e carte solo vecchiume annerito, incomprensibili agli occhi troppo semplici di chi aveva solo la necessità di liberare uno spazio per far posto alle capre.
Ora per la Valstrona resta solo il ricordo di una figura tanto intrigante quanto curiosa e a Massiola chissà se qualcuno ancora legge l’epitaffio che lo ricorda:

QUI’

DOVE VOLLE GIACE
IL CAV.DOTT.INNOCENZO RATTI
MEDICO,SINDACO,CONSIGLIERE DI PROVINCIA E COMUNE
MASSIOLA E VALLE STRONA A LUI DILETTE
TUTELO’ IN VITA,BENEFICO’ MORENDO
FU DELLA SCHIERA DI QUELLI
CHE L’ITALICA REDENZIONE DIVINANDO
FURONO GRANDI,MA DIMENTICATI,
FAMIGLIA E PATRIA AL CUORE LA’ STRETTI
COME VUOLE IL GRAN DIO

NEL SUO BACIO MORENDO.

Barbara Piana.

Per le fotografie si ringrazia Alberto Scalabrini.

Un'abbazia occultata tra i boschi lariani. San Benedetto in Val Perlana.

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L’antichissimo monastero silvestre di San Benedetto in Val Perlana fu citato per la prima volta nel diploma del 1031 con cui Litigerio, vescovo di Como, istituì sul sacro suolo della storica Isola Comacina la chiesa di Sant’Eufemia, di cui ancora oggi sopravvivono i pregevolissimi ruderi.
Secondo l’uomo di chiesa in questi luoghi selvaggi, dove la religione cristiana sarebbe caduta nell’oblio in favore di “un ritorno ai riti pagani”, era necessario intraprendere al più presto la costruzione di più edifici di culto: consueto pretesto, a quei tempi, per rivendicare le decime spettanti alla diocesi comasca di Sant’Abbondio, ivi dominante fin dal lontanissimo V secolo. Non per nulla, Litigerio minacciò di sanzioni morali e pecuniarie quanti avessero continuato a usurpare dei beni a lui spettanti.
Il complesso monastico di San Benedetto, immerso nel paesaggio selvaggio e tutto da scoprire della poco nota val Perlana, si raggiunge attraverso due vie: lasciato il pregevole paese rivierasco di Lenno, la prima strada si diparte dai posteggi dell’abbazia dell’Acquafredda; la seconda è uno stretto sentiero che ha inizio dal pregevole Sacro Monte d’Ossuccio (espressione cinque-seicentesca di una religiosità popolare, tutta lombarda, unica al mondo e perciò insignito con Varese, Orta e Varallo della dignità di bene UNESCO) e che impegnerà il viaggiatore in una lunga e impegnativa ascensione di due ore nella pace dei boschi della Val Perlana. Le due vie si collegano in un percorso “ad anello”.
La struttura, oggi isolata, fu fondata dai monaci dell’ordine benedettino verso la metà dell’XI secolo, in prossimità di una sorgente che permetteva di coltivare i terreni terrazzati sui fianchi dei monti. Dall’alto poteva controllare i paesaggi sulle vie lungo la costa, garantendo ai cenobiti la tanto agognata solitudine.
Pregevole esempio di romanico maturo, fu edificata con uso di conci squadrati in roccia calcarea locale, detta “pietra di Moltrasio”, secondo le tecniche che per tradizione sono state attribuite alla nota cerchia dei “maestri comacini”. La facciata, piuttosto semplice, è decorata da pietre sporgenti e da una fila d’archetti detti “ a dente di lupo”, al cui centro s’intravede la sagoma di un rosone più tardi murato. Un secondo filare di archetti pensili accompagna tutto il saliente della facciata a capanna, secondo gli stilemi riscontrabili ovunque in ambito lombardo e “lombardesco”. 
I fianchi della chiesa presentano strette monofore di fattura grezza; nella parete laterale nord è ancora visibile, murata, la “porta dei morti”: la soglia attraverso cui si usava condurre le salme verso il cimitero attiguo, oggi scomparso. Come spesso si verifica nell’architettura romanica, particolare rilievo merita la decorazione raffinata delle absidi: quella maggiore è decorata in sotto gronda da una fascia d’archetti pensili a doppia ghiera (con lunette e peduccio lapideo) scanditi da elegantissime paraste doppie, sopra le finestre finemente strombate. Quanta maestria fu messa in campo per una monastero campestre! Anche i conci in pietra di Moltrasio furono tagliati e apparecchiati con maggior maestria che altrove: misteri del medioevo. La decorazione delle due absidi minori, semicilindriche, è invece un poco più semplificata.
Il campanile si imposta sulla campata e le sue bifore sono parzialmente, sfortunatamente, tamponate: le sue dimensioni, massicce, fanno ipotizzare a un ruolo di torre d’avvistamento e controllo del territorio di pertinenza, ma anche di magazzino per la difesa delle provviste.
L’interno, ampio e severo, si distingue per tre ampie navate, scandite da massicci pilastri e copertura a capriate lignee, come si usava in area lacustre, prealpina e alpina; solo le ultime campate prima delle absidi sono fornite di copertura voltata a crociera, retta da pilastri cruciformi, secondo un uso misto di criteri edilizi già riscontrato in aree allora di confine come Piemonte e Canton Ticino. 
I dati emersi da una serie di rilievi grafici hanno sottolineato irregolarità costruttive in fase di edificazione, anch’esse tipiche di queste zone: asimmetrie strutturali che non vanno affatto interpretate come segno d’incapacità e rozzezza delle maestranze: gli abili artefici qui, come in molte altre zone dei laghi d’area storicamente “insubrica” (di Como, Maggiore, d’Orta, di Lugano) seppero adattare le fondamenta e la pianta della chiesa alla morfologia del terreno, con irregolarità “studiate” lungo alcuni pilastri, campate, absidi e perfino variazioni di spessore. Questi accorgimenti si integrano alla perfezione col terreno a disposizione, confermando la capacità innata delle maestranze anche minori ma pur sempre d’estrazione comacina, di adattarsi alla natura circostante, come alle avversità di una vita di cantiere dura quale era quella dei lapicidi del XII secolo. 
Non troppo tardi il monastero fu considerato a ragione un luogo scomodo da raggiungere: già nel XIII secolo l’abate di San Benedetto aveva trasferito la sua sede di fatto a Sala Comacina; in seguito il monastero romanico fu annesso alla vicina Abbazia dell’Acquafredda (la quale esiste ancora oggi, ma in forme barocche); i corpi di fabbrica annessi furono abbandonati e in parte distrutti. La sala capitolare, un tempo affrescata, fu riadattata dai contadini a stalla per le capre fino alla metà del ‘900. Alcune interessanti foto d’epoca ritrovate tra gli archivi parrocchiali dell’archivio di Lenno mostrano come il monastero di San Benedetto in Val Perlana non fosse mai stato abbandonato dalla memoria collettiva dei paesani, che qui si recavano in pellegrinaggio fino agli inizi del ‘900.
Diverse campagne di restauro hanno permesso di recuperare chiesa e parte del monastero: oggi san Benedetto si presenta nella sua veste originale. di chiesa monastica:
L’edificio a tre piani annessi alla basilica, cuore della vita comunitaria dei monaci nel medioevo, con la sala Capitolare (in condizioni precarie) e perfino l’essiccatoio per le castagne, fu ristrutturato per usi agricoli nel corso dei secoli; il chiostro è sparito. Attualmente il complesso soffre ingiustamente di un grave stato di degrado.
La chiesa di San Benedetto, invece è integra: normalmente inaccessibile al pubblico (negli anni ’70 fu privata da ladri di un’acquasantiera romanica a spirali vegetali in marmo di Musso), poi visitabile la prima e l’ultima domenica del mese, grazie alla presenza dell’”Associazione san Benedetto in Val Perlana” che sfortunatamente si è sciolta nel 2011, lasciando San Benedetto in stato di chiusura perenne.
Il paese sottostante di Lenno, oltre che per la sua posizione idilliaca sul lago, è famoso per altre sopravvivenze romaniche di gran pregio come il battistero ottagonale del XII secolo, la cripta dell’XI secolo. e la pieve campestre a due navate della frazione Casanova Lanza (XII secolo): molte testimonianze medievali su cui indagare ancora.

Marco Corrias (Marc Peven).

La Pieve di San Pietro a Romena.

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Poco dopo l’alba.
Pratovecchio, provincia di Arezzo.
Disperso nel Casentino.
La valle dove nasce l’Arno.
Luogo di silenzi.
San Francesco lo scelse come luogo di preghiera.
San Romualdo decise di erigere l’eremo di Camaldoli.
Una breve discesa, a cospetto del castello, conduce alla Pieve dedicata a San Pietro.
Il luogo sacro sembra incastonato in un ambiente dimenticato.
Dagli uomini.
Dal tempo.
Ripercorrere la linea del tempo.
Risaliamo al XII secolo, periodo di costruzione dell’attuale edificio.
La Pieve ha subito le ingiurie del tempo e della natura.
I terremoti hanno influito sull'edificio, lo hanno rimaneggiato.
Tempore famis MCLII.
In tempo di carestia 1152.
I primi capitelli della navata di sinistra ci ricordano l’anno d’erezione ed il committente: il pievano Alberico.
Il Romanico si esalta.
Romanico. Termine che, per quanto impreciso, offre elementi per leggere un periodo dai caratteri innovatori. Profondamente innovatori. Il linguaggio romanico caratterizza l’Europa dal secolo XI sino ad oltre la metà del seguente. Lo scampato pericolo dell’anno Mille, la nuova mobilità di persone e la pratica dei pellegrinaggi caratterizza questi secoli. In quest’ambiente, la Chiesa si erge a protagonista indiscussa delle committenze e del panorama artistico.
Il termine Romanicoè stato coniato nel corso del XIX secolo, esattamente nei primi due decenni, da studiosi interessati ad istituire un parallelo tra la nascita delle lingue neolatine o romanze e l’arte contemporanea. E’ interessante notare la contrapposizione tra romanico e gotico: il primo con intento positivo, il riferimento è all’antica Roma, il secondo negativo, riferimento ai barbari.
Interessante la definizione di Giorgio Vasari: “ecci un’altra specie di lavori che si chiamano tedeschi, i quali sono di ornamenti e di proporzioni molto differenti dagli antichi e dai moderni. Né oggi s’usano per gli eccellenti, ma sono fuggiti da loro come mostruosi e barbari, mancando ogni lor cosa di ordine […] e facevano una maledizione di tabernacoli l’un sopra l’altro, con tante piramidi e punte di foglie che pare impossibile ch’elle si possano reggere…”
Compreso che si tratta di un mirabile esempio del Romanico, passiamo oltre.
Entriamo, ammiriamo il complesso architettonico e scultoreo miracolosamente giunto a noi.
Un riferimento immediato è la Pieve dedicata a San Pietro a Gropina.
Una premessa: nel pensiero medievale ogni oggetto materiale era considerato come la raffigurazione di qualcosa che gli corrispondeva su un piano più elevato e diventava così simbolo, Il simbolismo era universale, e il pensare era una continua scoperta di significati nascosti, una costante ierofania.[1] Il mondo nascosto era, infatti, un mondo sacro, e il pensiero simbolico non era che la forma elaborata, decantata, a livello di dotti, del pensiero magico, nel quale si immergeva la mentalità comune. Senza dubbio, amuleti, filtri, formule magiche, il cui uso e commercio era molto diffuso, sono gli aspetti più grossolani di queste credenze e pratiche. Ma reliquie, sacramenti e preghiere ne erano, per la massa, gli equivalenti autorizzati.[2]
I simboli come si possono decifrare?
All'interno della Pieve di Romena vi sono decori naturalistici, animali ed umani.
Tale rappresentazione è il frutto del lavoro, minuzioso, di squadre di lavoratori che lasciarono in questa terra, in quel tempo, un segno preciso del loro pensare.
Del loro sentirsi parte della natura.
Vincent de Beauvais, nel XIII secolo, affermava che esiste una visione religiosa del mondo che unifica la natura, la scienza, la morale e la storia. Si spinse a sostenere che non esiste realtà, sapere, prassi che non debbano essere ricondotte al provvidenziale disegno divino.
A questo disegno l’universo si adegua.[3]
Ammirando le diverse figure che si alternano, la domanda si ripresenta: come si possono decifrare i simboli presenti nell'edificio religioso?
Esistono i bestiari, molto diffusi nel medioevo.[4]
Potremmo ricorrere ai lapidari, ma anche agli erbari.[5]
Siamo certi che tutto si possa catalogare?
L’uomo del medioevo era diverso da noi.
Per forme e per sostanza.
Sapeva leggere quello che oggi ci si sforza di comprendere.
Le immagini, presenti nella chiesa che frequentava, ripetevano i contenuti delle prediche, davano corpo all’immaginario collettivo.
L’uomo, considerato semplice, dei primi secoli del nuovo millennio, aveva le chiavi.
Apriva la serratura dei pensieri senza alcuna difficoltà.
Noi oggi siamo lontani.
Troppo lontani da quel tempo per poterci permettere di decifrare il loro pensare.
Hanno lasciato qualcosa per noi.
Vero.
Non hanno lasciato le chiavi.
Rinuncio.
Mi lascio coccolare dalla splendida musica che accompagna la mia visita.
Solitario essere umano alla presenza dell’ignoto.
I misteri tanto decantati, ricercati e, forse, inventati, dei capitelli, delle sculture e degli edifici sacri in generale, trovano una risposta nella vita quotidiana dei maestri che hanno lasciato tutto questo.
Guardando la luce che penetra dalle fessure dell’abside, mi ricordo una frase della scrittrice Maria Michela Marzano: la scienza dovrebbe rifiutare le teorie e cercare il cigno nero.
La teoria del Cigno Nero è una elaborazione che prende spunto dai versi di Giovenale, secondo il quale: ..uccello raro sulla terra, quasi come un cigno nero. [6]
La teoria è una metafora che esprime il concetto secondo cui un evento coglie di sorpresa l’osservatore. [7]
Dobbiamo convivere con l’imprevedibile.
Il mio cigno nero è la Pieve dedicata a San Pietro a Romena.


Fabio Casalini.



Bibliografia.
- Il Romanico. Visual Encyclopedia of art. Scala Group. 2009.
- La civiltà dell’occidente medievale. Jacques Le Goff. Einaudi. 1981.
- Il simbolismo nelle cattedrali medievali. M. Gout. Edizioni Arkeios. 2004



[1]Ierofania: dal greco antico, sacro e mostrare. Termine proprio della scienza delle religioni. Designa la manifestazione del sacro. Il termine fu introdotto dalla storico delle religioni Mircea Eliade. Il termine si riferisce a qualsiasi manifestazione del sacro nel corso della storia dell’umanità.
[2]Jacques Le Goff, La civiltà dell'Occidente medievale, Einaudi, Torino, 1981.
[3] Lo specchio maggiore di Vincent de Beauvais.
[4]Bestiario: testo che descrive animali o bestie, accompagnato da spiegazioni e riferimenti tratti dalla Bibbia.
[5]Lapidario: testo che descrive le proprietà delle rocce. Erbario: descrive le proprietà delle piante.
[6]Giovenale: rara avis in terris, nigroque simillima cycno.
[7] La teoria del cigno nero è stata sviluppata da Passim Nicholas Taleb.

Piccole voci di una valle.

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Io visito sovente nel mattino
o pure nel crepuscolo rosato
un religioso tabernacolino
nel canto d'un chiassuolo desertato.

Ed al chiuso cancello intrecciato
sempre vi trovo qualche gelsomino,
o un fresco bucaneve immacolato
che vi dispone un gracile bambino.

Su l'altare di legno scolorito,
una Madonna in tunica di raso
piange soletta con rassegnazione,

e un bronzeo lucernino arrugginito,
tra le rose di carta dentro un vaso,
spande la sua rossa orazione

Tabernacolo, di Corrado Govoni (Da "Le fiale", 1903)


Personaggi antichi come il mondo che sopravvivono grazie alla memoria orale dei nostri vecchi, nomi che scivolano di labbra in labbra sciogliendosi in immagini sbiadite e consumate.
Nelle sgangherate osterie, assopite dietro i vetri appannati dei lunghi pomeriggi invernali, scorrono volti e passioni impastati tra un settebello ed il nero del vino raccolto nella gola di gran bevitori dalla lingua viola di barbera che è come la luce che filtra tra i portici la sera, quando infagottati nel paltò si rientra verso casa.
Figure soffocate dalla modernità in nome di un improbabile progresso. Cose dimenticate, odore di vetuste cantine, sentori che non trovano più spazio se non tra le valli più remote dove le leggende sopravvivono ancora, aggrappate con destrezza su acuti speroni di roccia ricamati d'erba, sotto cieli argentei che risplendono come un avvenente donna ingioiellata nelle notti terse del primo autunno.

E laggiù, nelle forre più profonde mormora solenne lo Strona rompendo il silenzio di eterne solitudini e fatiche. Le sue acque limpide che si gettano dalle falde del Capezzone fanno da cornice alla Strà Vegia incutendo un reverenziale timorequando incagliate tra le rocce recitano quell'arcaico e sordo lamento.
Qui dove l'alba tarda ad arrivare e la breve estate cede presto il passo all'inverno che in uno spaventevole ma bellissimo scenario pietrifica la valle lasciando germogliare soltanto leggende.
Qui dove donne dalla pelle coriacea cotta dal sole alla morte di un familiare erano solite portare il costume a lutto per quattro interminabili anni.
In questa natura difficile dove la superficie calpestabile è ridotta a nulla ed anche il camposanto rischia di scivolare a valle (leggenda vuole che a causa dell'estrema pendenza le galline erano solite indossare un sacchetto a mo di pannolino onde evitare che le uova rotolassero per gli erti pendii...)
Qui, ricordando uno scritto di Lino Cerutti, si narra che una sera, dopo l'arrivo della grisa (la scellerata morte) in una casa di Sambughetto, un folto numero di persone radunate per la recita del rosario nella stanza del povero defunto avvertirono anomali scricchiolii provenire dal pavimento. Pochi istanti dopo accompagnati da un beffardo fracasso rovinarono qualche metro più in basso, nella stalla sottostante, uccidendo anche l'unica capra (e fonte di sostentamento) della famiglia. Per le funzioni successive si pensò bene di recarsi in chiesa, luogo certamente più sicuro.
Le usanze funebri della valle ci ricordano che fra i primi ad essere avvisati in caso di decesso figurava il falegname che precipitosamente accorreva a rilevare le misure e spesso lo si poteva vedere in coda al corteo ancora con indosso i panni da lavoro pronto, terminata la cerimonia, a riprendersi il crocifisso e le maniglie.
Anche in queste circostanze lo spreco era mal tollerato, e sovente a sfarzose corone di fiori si preferivano quegli umili fiori campestri che solitari sbocciano sul bordo di orti e anonimi muretti. Forse perché, parafrasando le parole di una compianta poetessa, anche gli amori autunnali hanno la primavera nel petto.
La veglia era compito degli uomini non facenti parte della famiglia ai quali era concesso il riposo. Per le lunghe ore notturne venivano offerti pane, formaggio e vino, per rendere l'attesa dell'alba più lieve. I discorsi prendevano forma, e dal lontano passato emergevano confessioni seguite da riflessioni sulla fragilità umana, sulla caducità dei beni terreni e l'ineffabile destino mortale, la funesta condizione si tramutava così in un esperienza dai toni conviviali e distesi.
Ma attorno alla metà del XVII secolo le veglie conservavano ancora un retrogusto pagano e temendo atti di promiscuità costrinsero il vescovo di Novara ad emettere un atto proibitivo, stabilendo che l'assistenza fosse presenziata unicamente da donne o da uomini.
In caso di morte infantile le donne del paese si recavano dalla madre portando latte, burro e riso e mentre quest'ultime recitavano il rosario gli uomini preparavano la panicia una sorta di risotto cotto nel latte. La veglia notturna era invece affidata alle ragazze le quali si occupavano anche della realizzazione del vestito per il povero corpicino.
La bara, il giorno seguente, veniva posta sulla testa della madrina il cui volto era nascosto dai numerosi festoni apposti sulla cassa. Il dolore e l'amarezza evaporati in un battito d'ali viravano la cerimonia in un momento dai connotati festosi ed anche le campane suonate a gran festa nella chiesa ricoperta di candidi teli esiliavano la mesta atmosfera luttuosa.
Ma il crepuscolo riservava inquietanti sorprese, volgendo lo sguardo verso l'Alpe Cipollina un enigmatica fiammella appariva poco al di sopra di una frana, nei pressi di una croce in ricordo di un pover uomo precipitato qualche anno prima.
Tre ragazzi muniti di ramo d'ulivo, croce e acqua benedetta si inerpicarono lungo il sentiero alla volta della misteriosa presenza che d'un tratto si sdoppiò. Ora due lumicini volteggiavano nell'aria come impazziti, ingrossandosi sempre più fino a generare un immensa palla di fuoco da cui provenivano assordanti tuoni. Il bolo incandescente rotolò con violenza a valle dove si infranse in mille schegge roventi; uno zampillio di lava si stemperava tra le acque gelide abbozzando un inconsueto affresco luciferino.
I ragazzi fuggirono a gambe levate e per tre giorni non si fecero vedere. L'incantesimo forse era stato spezzato e le fiammelle con lui.
Da queste parti era facile incontrare anche il Balèla...
Originario di Quarna il Balèla, all'anagrafe Pietro Nicolao Forni, era un tipo pittoresco e assai bizzarro.
Di statura minuta era solito vestire abiti logori provenienti da scarti di vecchi armadi ammuffiti i quali gli andavano sovente troppo larghi.
La giacca impregnata di odore di chiuso assomigliava più ad uno stravagante cappotto ed i pantaloni per evitare spiacevoli cadute erano risvoltati più e più volte tingendo l'essere di ridicolo.
Le scarpe fuori misura ricordavano quelle dei clown calzate ai suoi minuscoli piedini e per ovviare al problema ricorreva spesso a fogli di giornale arrotolati ed infilati nelle punte.
Unito ai baffi, che era solito portare, assumeva un aspetto sgraziato carico di goffaggine, quasi uno Charlot di provincia che masticava soltanto dialetto e lacrime. Sì lacrime! Perché non era raro nonostante la sua età avanzata vederlo frignare come un vitellino da latte. Una voce acuta e penetrante era l'infallibile segnale, il Balèla era di nuovo nei guai. 
Come quel giorno in cui le campane del paese suonavano con sinistra irruenza chiamando all'adunata la popolazione. Era giunta l'ora di combattere! E certamente i vasi di bronzo squillavano anche per lui che con il volto rigato di sale esclamava: come faccio a sentire le campane? Sono sordo! Sono sordo! Oddio qual terribile cosa mi accadrà adesso?!? E soffiandosi il naso nella sgualcita sciarpa scuoteva sconsolato il capo.
Collaboratore del CAI, con tanto di distintivo guadagnato chissà come, iniziò la sua “carriera” portando a spasso la gente sulle vette della Valle Strona prima di darsi definitivamente al vagabondaggio.
Il lavoro non era certo il suo forte e per racimolare qualche soldo si adattava a portare lo zaino di qualche turista di “buon partito”. Per lui era un'immensa conquista, lo si vedeva allora gozzovigliare tra le osterie pavoneggiandosi per il felice del suo operato.
Una brutta caduta in un dirupo da ragazzo oltre alla sordità (vera o presunta non è mai stato accertato)  gli regalò qualche altro problemino. Ulteriori ingranaggi dovevano essersi inceppati.
Non amava più coricarsi nei fienili la sera, prediligendo la “comodità” di un albero. Nella luce crepuscolare lo si vedeva arrampicarsi come un giovincello tra i rami e fissando il busto mediante una corda si appisolava attendendo il mattino...chissà cosa gli frullava per la testa aggrappato lassù come un aracnide.
Una sera di gennaio del 1941 fu raccolto sofferente sulla strada per Cireggio. Venne portato alla più vicina osteria e di fronte alla sua amata tazza di vino sembrò essersi subito ripreso, ma poco dopo nel frastuono del locale il volto cereo del Balèla tradì i presenti. In punta di piedi era uscito di scena.
Termina qui questo mio capitolo, composto da appunti forse un po confusi, ma figli di un amore sincero per un luogo che ho avvertito “ardente” sin dalla prima volta che ho tentanto di sfidare le sue spietate salite.
Anche nelle mie vene scorre sangue piemontese e i suoi forti contrasti hanno ridestato in me quel fascino arcano che provavo (e tutt'ora provo) calandomi nella profondità della vicina Val Grande. Anche qui è usanza dire che “il pane si cava dai sassi”, una durezza presto dissolta ai miei occhi. Io intruso in un mondo non mio ho trovato anime delicate e ospitali che ormai si rammentano soltanto sfogliando alcuni romanzi di fine 800, come quella sera di settembre durante le festività della Colletta a Luzzogno.
Un vento gelido sferzava prematuramente le punte dei faggi ancora carichi di sole; lo sentii ululare al riparo, nel cuore caldo di una casa, ospite di una cara amica degustando prelibatezze di valle. Ricordo il sapore della carne buona e tenera di Loreglia servita da una donna graziosa dal volto buono di montagna, perché l'autenticità è anche e soprattutto nella terra e nelle sue innumerevoli manifestazioni. Pavese sosteneva “ci sono dentro anch’io a quest’odore, ci sono dentro tante vendemmie e fienagioni e sfogliature, tanti sapori e tante voglie che non sapevo più d’avere addosso”.
Fuori ardevano i falò sulle pendici del Massone e sulla Loccia. Ricordo ancora un bambino, mi confessava con entusiasmo del suo amore per i campanili e provavo tenerezza per la sua innocente genuinità armata di inesauribile curiosità, intanto fuori la Madonna attorniata da fiaccole si apprestava a varcare la galleria riccamente addobbata di teli in canapa custodi di un'arcaica ed eterna sapienza. 

Filippo Spadoni



Bibliografia:

"Le fiale" - Corrado Govoni, 1903
”Il morto, la capra e i cantori”, ovvero costumanze funebri di Sambughetto - Cerutti Lino
, 1983
"Lo Strona", Gennaio - Marzo 1978
"Alla tua salute, amore mio: poesie, pensieri - Alda Merini, 2004
"La valle Strona" di Lino Cerutti, Gerardo Melloni, Enrico Rizzi, 1975
"La luna e i falò" - Cesare Pavese, 1950

Streghe in Valcamonica.

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Nel 1484 Papa Innocenzo VIII promulgò una bolla dal titolo Sumis desiderantes affectibus.[1]
In questa bolla, il Papa, affermava la necessità di sopprimere la stregoneria nella valle del Reno e nominava i frati domenicani, Kramer e Sprenger, inquisitori incaricati di estirpare l’eresia in quella che oggi s’identifica con la Germania. I due frati, autori del Malleus Maleficarum, utilizzarono la bolla come introduzione al loro libro, che fu stampato nel 1486.
Il Malleus Maleficarum divenne il testo fondamentale per giudici, magistrati ed inquisitori. Il libro stabiliva un indissolubile legame tra stregoneria e sesso femminile, autorizzando la soluzione finale.
Utilizzo le parole di Esther Cohen per meglio comprendere cosa abbia rappresentato quel testo: nelle sue pagine la strega fu fissata e racchiusa in una cella dalla quale non riuscirà ad uscire prima degli inizi del XVIII secolo.[2]
Le streghe erano una superstite manifestazione del paganesimo.
E’ forse questo il motivo alla base della persecuzione?
Le donne incutevano timore per le loro conoscenze?
Le valli del nord dell’Italia furono sferzate dalla ferrea volontà di sopprimere ogni rigurgito pagano.
Valcamonica.
Utilizzo le parole d’Agostino Caggioli per intrudurla: “Valcamonica, delle vallate lombarde la più estesa e non meno celebre per guerreschi fatti nelle antiche storie, per famiglie nobili e onoratissime, e per uomini che sono stati illustri per lettere, per armi, e per carichi importanti, per fertilità del suo suolo, per industria e per commerci dei suoi abitanti..”[3]
Le streghe e la Valcamonica.
Difficile dimenticare.
Mi sento obbligato a narrare di quando l’orrore s’impadronì di quest’angolo di mondo.
L’inquisizione si accorse della Valle intorno alla metà del XV secolo. Le prime denunce, al Senato della Serenissima, risalgono al 1485, quando il frate domenicano Antonio da Brescia denuncia la presenza delle streghe ad Edolo.[4]L’inquisitore ottiene il permesso di approfondire le proprie perplessità, appoggiato dal potere politico della città di Brescia.
La politica. La presenza di un doppio tribunale, inquisizione e vescovo, rallenta il lavoro del frate in bianco e nero. Il vescovo rivendica il diritto di sancire le condanne degli eretici. L’anno seguente anche il potere secolare si allontana dall'inquisitore, che deve rinunciare.
1499, inizio della persecuzione.
Inizio della caccia.
Tre preti camuni sono condotti a Brescia con l’accusa di recarsi ai monti del Tonale con olio santo ed ostie consacrate.
Non salivano al Monte per guardare, ci salivano per partecipare al sabba con il demonio.
Diversi studiosi concentrano la loro attenzione sulla degradazione del clero in quella valle, ma tendono ad escludere episodi di depravazione.[5]
Preti che divengono stregoni?
Uomini della nuova religione che non dimenticano il legame con il proprio passato?
Il tempo corre.
Le streghe camune sono assediate, circondate.
La ricerca dell'eresia assume le fattezze della persecuzione.
Dividiamo i fatti in due momenti. Le persecuzioni del periodo 1505-1511 e quelle degli anni 1518-1521.
1505, Cemmo. Sette donne, ed un uomo, incontrato il rogo purificatore.
1510, Edolo. 60 donne sono arse vive, condannate dal vescovo di Brescia Paolo Zane.[6]
Soffermiamoci sulla figura di questo zelante vescovo. 
Paolo Zane era famoso per la sua condotta immorale.[7]
Il vescovo era noto per essere un concubino. [8]
Era anche un corrotto, ma a quell'epoca chi non lo era?
Il personaggio, che decise per il rogo di 60 donne, era dissoluto e lontano dai principi di Sacra Romana Chiesa.
Ricordo che il concubinato descrive quella situazione, familiare, in cui una donna, non legata da vincolo di coniugio, convive ed è, economicamente, mantenuta da un amante coniugato con altra donna.
Una persona di così alto spessore morale era chiamata ad operare per il bene della Chiesa. 
Il vescovo, per concludere questa brevissima biografia, era noto per essere uno dei maggiori sostenitori della Controriforma.
L’accusa, che determinò il rogo delle 60 donne, consisteva nell'aver arrecata siccità e fatto ammalare uomini ed animali con i loro malefici.
Anni difficili.
Anni d’intransigenza.
Anni d’umiliazioni e morte.
Il vescovo non si arresta.
Sul finire della primavera del 1518 il vescovo Paolo Zane, corrotto e dai comportamenti immorali, ed il vice inquisitore domenicano Lorenzo Maggi, arrivano in Valle Camonica ed iniziano l’attività inquisitoriale.
Un giurista descrive, perfettamente, in una lettera inviata a Venezia i capi d’accusa: “queste bestie eretiche hanno eletto un monte, il quale si chiama Monte Tonale, nel quale si radunano a fottere e ballare, qui affermano […] che montano a cavallo, sopra il quale vanni diritte al monte ed incontrano il diavolo, quale adorano per suo Dio e signore, e lui gli da certa polvere, con la quale queste femmine ed uomini fanno morire i bambini, tempestare, seccare arbusti, ed altri mali, e buttando questa polvere sopra un sasso, si spezza [9]”.
L’attività processuale della Santa Inquisizione, in Valle Camonica, è attuata tramite vicari nominati dal vescovo ad Edolo, Bisogne, Darfo, Breno e Cemmo.
Possiamo, tranquillamente, affermare che, a seguito della riconquista della Serenissima, la valle è posta d’assedio dal terrore, dall'odio e dal disprezzo per la vita umana.
Le sere dell’estate 1518 erano rischiarate dai roghi purificatori.
Ritorniamo alla testimonianza di Sanudo: “diceva l’inquisitore di aver fatto bruciare 70 streghe di quella valle di Valcamonica e altrove e tolto i suoi beni e messi alle chiese, per il che il signor Michiel Salomon, signor Jacopo Badoer e signor Alvise Gradenigo, capi del Consiglio dei Dieci scrissero ai rettori di Brescia dolendosi che di tanta cosa non era stato dato nessun avviso[…]”. [10]
Dopo il rogo delle 60 streghe del 1510, la Valcamonica deve assistere alla morte d’altre 70 persone.
Un passaggio importante è quello relativo al fatto che i beni dei condannati vengono sequestrati ed incamerati dall'autorità ecclesiastica.
Nell'estate del 1518 si assiste alla dichiarazione di guerra della Chiesa verso le popolazioni della valle. Alla fine di quella bollente estate si poterono contare non meno di 80 roghi.
Tra gli "abbruciati" anche 20 uomini. 
Fu arso vivo anche il cancelliere del Tonale e la capitana delle fattucchiere.
Il Tonale è una montagna che si trova tra la Val Camonica e la Val di Sole, tra Lombardia e Trentino Alto Adige. Questa montagna era eletta a luogo degli incontri tra le streghe ed il demonio.
In Ossola, durante i processi alle streghe di Baceno, che inizieranno nel 1575 per concludersi solo nel 1611, la montagna dove avveniva il sabba era il Cervandone. 
Sempre montagne per le streghe ed il demonio.
Il luogo prescelto si raggiungeva in sella ad un cavallo, da sempre.
In Valcamonica alcune delle inquisite dissero di utilizzare una capra per recarsi in vetta al Monte Tonale.
Le confessioni sono similari a quelle rinvenute nei processi in Ossola.
Le giovani donne disegnavano croci immaginarie sul pavimento, ci sputavano sopra, urlavano parole disgustose e defecavano in quel preciso punto.
Per quale motivo rinnegavano il Cristianesimo?
Ottenevano la giovinezza eterna!
Nel 1518 Carlo Miani, castellano di Breno, scrive a Marino Zorzi: “A Breno alcune donne tormentate confessarono di aver fatto morire uomini infiniti mediante una polvere avuta dal demonio, la quale sparsa in aria faceva sorgere procelle e con essa una disse di aver ucciso 200 persone”.[11]
Lo stato di terrore voluto dall'inquisizione era al culmine del suo raggelante incedere.
Tutto ha un inizio ed una fine.
Il 31 luglio del 1518 il Consiglio dei Dieci a Venezia impone il blocco dell’inquisizione nella valle. Il 23 agosto dello stesso anno Il Consiglio, come il miglior Ponzio Pilato, decide “di rimettere questa materia al reverendissimo legato del Papa, ed in questa terra, episcopo di Pola [..]”. [12]
Il legato del Papa si presenterà il 9 settembre dinanzi al Consiglio per leggere il breve di Papa Leone X, all'interno del quale è possibile ritrovare che il caso viene affidato al Legato stesso. Il Consiglio dei Dieci, soddisfatto della soluzione, rileva che: “Il vescovo di Brescia ed i suoi collaboratori non hanno fatto debitamente il proprio lavoro ed hanno agito in processo con grande severità”.
Il Legato del Papa decide di nominare suoi delegati ai processi i vescovi di Farmagosta e Capodistria, che si recheranno di rado in Valle.
Non tutto è chiaro.
Il vescovo di Brescia, l’amato Paolo Zane, continua nella sua opera inquisitoriale, quando avrebbe dovuto sospenderla.
Leggendo, e cercando, si scopre che il legato del Papa, il nunzio Averoldi, era da sempre convinto della presenza delle streghe in valle, tanto da presentarsi dinanzi alle autorità veneziane, Doge compreso, il 25 settembre 1518, con un prete reo confesso, il quale testimonia la verità sui sabba al Monte di Tonale.
La caccia non si arresta.
Sono streghe.
Devono perire.
Il 24 febbraio del 1519 le autorità veneziane convocano il Nunzio Averoldi e lo invitano “a mandar cum ogni presteza possibile in bressana, dove tale prava et diabolica heresia va moltiplicando, quelli doi reverendi episcopi per la signoria sua za decti et designati a tal provincia […]”.
La fede deve essere salvata, l’eresia delle streghe si sta moltiplicando!
La caccia non si è mai arrestata.
Si giunge all’estate del 1520. Il vescovo di Capodistria risale la valle alla ricerca delle streghe. Contrariamente a quanto ci potremmo aspettare, poiché era stato nominato dal Legato del Papa, il vescovo impone l’immediato arresto di molte persone. L’accusa: Stregoneria.
E’ una guerra senza soluzione.
La Chiesa attacca.
Il pagano si difende.
A difesa del pagano si erge il vice Doge di Venezia
Schermaglie politiche.
Lotte tra poteri.
Papa Leone X scrive agli inquisitori della Valla Camonica difendendo il loro operato, spiegando le prerogative del Nunzio Averoldi ed attaccando la Serenissima per i soprusi perpetrati dalle autorità veneziane al lavoro della Santa Inquisizione. Difende tenacemente il lavoro dei frati appellandosi al fatto che la Serenissima abbia violato il diritto canonico.
Il Consiglio dei Dieci, dopo diverse riunioni, emana uno scritto nel quale afferma che “debbino essere deputati a quest’inquisizione uno o più reverendi episcopi insieme con un venerabile inquisitore, i quali tutti siano di dottrina, bontà ed integrità prestanti”.
La Serenissima difende l’operato dei vescovi.
Il Papa difende l’operato degli inquisitori.
Sconti verbali.
Scontri epistolari.
Le donne morivano bruciate.
Gli uomini morivano bruciati.
La politica ha usato queste persone.
La conclusione?
Il Nunzio Averoldi approva le richieste della Serenissima che, qualche giorno dopo, nel settembre del 1521, sono ratificate dal Papa.
Le truppe di Carlo V, al comando di Prospero Colonna, scendono rapide il Trentino e le valli bresciane per cacciare oltre le Alpi i francesi.
Milano da liberare.
Milano da conquistare.
La Val Camonica, finalmente, trova pace.

Fabio Casalini
Portfolio personale ed inedito di Minghini Yuri


[1]Desiderando con supremo ardore.
[2]Esther Cohen. Con il diavolo in corpo. Filosofi e streghe nel Rinascimento. Milano. Mondadori 1982.
[3]Agostino Caggioli, Storia della Valcamonica, 1853.
[4]Durante il XV secolo Milano e Venezia si contendono la valle. La Valcamonica passerà sotto il controllo della Serenissima sino alla file del XVIII secolo. Il periodo compreso tra la metà del XV secolo ed il 1797 è conosciuto con il termine di Pax Veneta.
[5]Massimo Prevideprato. Tu hai renegà la fede – stregheria ed inquisizione in Valcamonica e nelle Prealpi lombarde dal XV al XVIII secolo. Brescia. Tannini.
[6] G.F. Gambara. Gesta de Bresciani durante la lega di Cambrai. Brescia 1820.
[7] Lo scontro sulla stregoneria in Valle Camonica tra la Repubblica di Venezia e il Papato nei documenti del 1518-1521. Di Stefano Brambilla ed Attilio Toffolo.
[8] Lo scontro sulla stregoneria in Valle Camonica tra la Repubblica di Venezia e il Papato nei documenti del 1518-1521. Di Stefano Brambilla ed Attilio Toffolo.
[9] I diari di Marino Sanudo, copia della lettera data in Brexa, scritta per domino Alessandro Pompeio doctor al di 28 luglio 1518. Ho cercato di tradurre in italiano la lettura apparsa sul documento di Stefano Brambilla ed Attilio Toffolo.
[10] I diari di Marino Sanudo.
[11] Carlo Miani, 1518. Lettera a Marino Zorzi.
[12] M. Sanudo. I diarii. 

Bibliografia.
- Choen Esther. Con il diavolo in corpo. 1982.
- Caggioli Agostino. Storia della Valcamonica. 1853.
- Brambilla Stefano e Toffolo Attilio. Lo sconto sulla stregoneria in Valle Camonica tra la Repubblica di Venezia e il Papato nei documenti del 1518-1521.

Confesso la geometrica verità.

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La ricerca è azzardo. Ci vuole sfrontatezza, coraggio di osare, di ragionare fuori dagli schemi e dalle costrizioni, a costo di sbagliare e di rimanere eterni incompresi. Tale è il tributo da versare alla conoscenza. Chi davvero cerca, spesso vede con gli occhi della mente quello che ancora gli occhi del corpo non sono stati capaci di scorgere coscientemente.
Ma non è facile riconoscere il vero da ciò che solo immaginiamo.Ho un'idea su un sito archeologico di grande importanza. Quando l'abbiamo esplorato, scoprendo con grande disappunto che, pur essendo “Patrimonio Mondiale dell'Umanità” sotto l'egida dell'Unesco, quasi nessuno sa che esiste, non ho avuto dubbi. È bastata un'occhiata. La segnaletica stradale ridicola che scompare dopo due incroci e l'indolenza istituzionale nel promuovere il luogo non sono state distrazioni sufficienti.
Il “castrum” fu capitale di un territorio enorme, presenta tracce di frequentazione pre-romana, ha tratti bizantini e fu poi inglobato nel regno longobardo che ne fece uno dei suoi più inaccessibili “luoghi di potere”. L'archeologia non osa spingersi oltre. Era un baluardo al confine con le terre barbariche, il cui dominio si spingeva dal Lago di Lugano al Monte Ceneri, a Parabiago, fino a Ponte Chiasso, alla valle d'Intelvi e al Ticino, al lago Maggiore. La sua ricchezza e importanza strategica venivano dalle attività “doganali”, dai dazi e balzelli per il passaggio e dal suo ruolo difensivo. Celti, Bizantini, Romani, Carolingi, Longobardi... ci sono passati tutti, tutti l'hanno voluto.
Del complesso si conservano parte delle mura, alcune torri ed edifici, i resti di una vera e propria cattedrale, anche se di modeste dimensioni, con un curioso battistero annesso, un'altra chiesa più piccola fuori dal perimetro delle mura, un monastero all'estremità opposta, almeno due aree cimiteriali.
Dopo due ore nel sito, già tutto il minuto lavoro ufficiale svolto non mi è più stato sufficiente. Ci vuole prudenza, non si può buttar lì ipotesi senza senso, lo capisco. Ma non mi basta. C'é altro. Non deve per forza essere chissà quale mistero, ma questa volta, davvero “qualcosa sfugge”, come qualcuno amerebbe dire.
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Castelseprio: Santa Maria foris Portas
Castelseprioè “stretto” fra il Monastero di Torba con le sue monache “senza volto” e una chiesa a pianta tipicamente bizantina, Santa Maria Foris Portas, risalente forse al V sec. (un trapezio su tre lati dei quali si aprono absidi) con dipinti murali antichissimi, che potrebbero essere addirittura del VII-VIII secolo. La quantità di tombe farebbe pensare che quest'ultima sia un edificio di culto “cimiteriale”, eppure tutto viene in mente entrando nella struttura, ma non la morte. Il ciclo di affreschi racconto gli episodi salienti della venuta e dell'infanzia di Gesù, con la strana particolarità che tutti vengono ripresi non dai vangeli canonici ma da quelli apocrifi. Tra tutte, una è particolarmente rara: la “Prova delle acque”, giudizio divino cui sarebbe stata sottoposta Maria per dimostrare la propria verginità. Si vede il sacerdote (forse Zaccaria) mentre le porge un contenitore con acqua “benedetta” (acqua sacra del tempio) e intanto pronuncia una maledizione.
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Castelseprio: Santa Maria Foris Portas - "La prova delle acque"

Tutti gli elementi riconducono a una precisa simbologia legata all'acqua maledetta e benedetta insieme, che in tal modo può salvare la Vergine se ha detto la verità o condannarla se ha mentito. La particolarità delle scelte tematiche e stilistiche dell'ignoto “magister” non mi pare un atto di mera opulenza, il risultato della volontà dei potenti del Seprio di mostrare la loro ricchezza. C'é un senso e un significato poco visibile da svelare.
Che dire poi del pavimento a forme esagonali bianche e nere? La forma non fu scelta a caso. Un altro edificio, la chiesa di San Paolo, ha la pianta proprio di quella rara e insolita forma. Dalle visite pastorali pare che sotto di esso scorresse o sgorgasse acqua che poteva in qualche modo essere prelevata. L'altare era dedicato a Santa Margherita, figlia di un sacerdote pagano come pagano doveva essere il primitivo luogo su cui la chiesa sorse e “sauroctona”, dominatrice del “drago” sotterraneo.
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Castelseprio: Santa Maria Foris Portas - tarsie del pavimento

Il complesso della chiesa di San Giovanni Evangelista, altrettanto, è un insieme davvero particolare. Lo è soprattutto il battistero annesso, inequivocabilmente di forma ottagonale, ma con un'absidiola che si estende verso est, che ne modifica simbolicamente l'impianto. È, in realtà, un doppio battistero, sono due le vasche al suo interno. L'ipotesi è che una servisse da serbatoio e l'altra da fonte battesimale vero e proprio. Di nuovo la simbologia dell'acqua è padrona.
Perché tutti questi richiami insistenti all'acqua? Sarebbe troppo facile immaginare una chiesa proto-cristiana, la prima fondata in zona e quindi chiesa “battesimale” attraverso la quale cristianizzare e diffondere la nuova religione. L'acqua a Castelseprio non sembra proprio avere usi “battesimali”, perfino il battistero è “strano” e allo stesso modo se ne può escludere un valore taumaturgico, di cui, appunto non c'é traccia. Compare piuttosto come mezzo di verità e come mezzo di autorità. 
Acqua e forme geometriche si susseguono, si avvicendano, ritmano uno stesso ritmo. L'esagono e l'ottagono sono la “struttura” di cui l'acqua è “funzione”. La funzione è più visibile, come rivelare invece la vera struttura? Esiste una verità “geometrica” a Castelseprio che unifica in un progetto complessivo e chiaro tutto il sito. Come tutti i progetti deve avere un modello di riferimento. Misure, ampiezze, intervalli, proporzioni, una base su cui tutto è stato pianificato.
Al centro di tutto, inevitabilmente c'é il complesso di San Giovanni. Vale la pena partire da lì e per la precisione dall'unica forma geometrica compiuta e regolare dell'insieme: l'ottagono del battistero. La misura del suo diametro è l'unità di base. Eccola!
I due coefficienti sono 8 e 6, ottagono ed esagono. Pur con le necessarie "abbondanze" e imprecisioni, un cerchio che abbia un diametro pari a 12 volte quello del battistero abbraccia pressoché esattamente tutto il complesso basilicale. Ma il suo centro non è più nel battistero, deve corrispondere a quello dell'insieme. A questo punto la geometria “segreta” comincia a svelarsi. Mantenendo quel centro, ogni cerchio di diametro multiplo incrocia non casualmente tutti i movimenti.
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La progressione matematica è quella codificata da Fibonacci. E quando arriviamo a un multiplo pari a 12 volte il complesso basilicale (144 volte il battistero), 12 come i segni zodiacali, a simboleggiare il cielo, ecco che il progetto nel suo complesso si svela. Le tre chiese sono una. Santa Maria Foris Portas e Santa Maria a Torba sono una sorta di enormi bielle che azionano in modo vicendevolmente controrotante quella di San Giovanni Battista, l'una con movimento levogiro, l'altra destrogiro. Non sono solo speculari geometricamente e geograficamente. Esse stesse sono opposte in polarità. Santa Maria Foris Portas è squisitamente femminile e “terrena”; Santa Maria di Torba pare fosse dedicata inizialmente (la chiesa primitiva corrisponderebbe all'attuale cripta, costruita poco dopo la chiesa Foris Portas appunto) all'arcangelo Raffaele, come segnalato nel Liber Notitiae Sanctorum Mediolani del XIII secolo e come indicato nel mappale del catasto teresiano del 1722. Torba è dunque più “maschile” e decisamente celeste.
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Le tre chiese puntano, correttamente e ognuna coerentemente con la propria natura, ai tre fenomeni celesti fondamentali: il solstizio invernale Santa Maria Foris Portas, gli equinozi San Giovanni Evangelista, il solstizio estivo San Raffaele. Particolarità di tutte è quella di non puntare all'esatto fenomeno visibile ma ad una direzione spostata allo stesso modo di qualche grado.
Moti lunari e posizioni planetarie potrebbero essere stati affidati ad altre strutture del sito.
San Paolo (o forse Santa Margherita) è il terzo fulcro, ciò che sta tra cielo e terra e che li unisce... l'acqua appunto. Altri luoghi (Ornavasso, nel VCO ad esempio) presentano impianit simili.
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Inserendo nella geometria complessiva del luogo esagoni immaginari, con un angolo puntato a Nord (celeste) e diametro uguale a quello dei cerchi, la configurazione svela nuovi dettagli. Molti sono gli edifici legati tra loro in base a questa forma.
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Accade altrettanto utilizzando ottagoni con una punta a Nord. Gli orientamenti e le angolazioni apparentemente casuali degli edifici, improvvisamente acquisiscono un senso inatteso.
L'idea che ho quando lascio Castelseprio, solo una scintilla, diventa così, tempo dopo, un'ipotesi visiva, geometricamente veritiera.


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Quanto all'acqua, che, sorgendo nell'esagono (San Paolo) viene poi “utilizzata” nell'ottagono, essa può avere un solo scopo, come l'intero, complicato e potente progetto di Castelseprio. 
Il castrumè sorto intorno a un luogo di incoronazione o, meglio, era una sorta di “tempio dinastico”, di “Tempio delle origini”, presso il quale ogni nuovo “re” riceveva la corona e con essa l'autorità per governare e accanto al quale veniva tumulato, quale preziosa "reliquia" per i re a venire.
Gli affreschi di Santa Maria Foris Portas e in particolare l'ordalia (prova) dell'acqua rappresentano la prova di una “prole divina”, regale (Gesù). L'arcangelo Raffaele è il custode dei “giovani” (gli appena adulti, i neo-eletti, che per la prima volta “escono di casa”, quindi si “mostrano nella loro forma adulta e coniugale (re e regina) e diventano quindi a loro volta portatori di “prole divina”.
Così finalmente si spiega anche la strana scelta di dedicare la “cattedrale” cui è annesso il battistero non a Giovanni Battista ma all'altro San Giovanni, l'Evangelista. Fin dagli albori del Cristianesimo, infatti, il Vangelo a lui attribuito, a differenza dei tre sinottici, viene considerato quello della “regalità” cristica, della “venuta del Regno”, in quanto è quello che meglio spiega senso, significato e scopo della Passione e Resurrezione. 
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Castelseprio: San giovanni Evangelista - interno dei ruderi del battistero "doppio"

Fulcro assoluto di tutto il complesso di Castelseprioè certamente il battistero, inizialmente separato dalla chiesa di San Giovanni. Al suo interno c'é l'inconsueta presenza di un doppio fonte battesimale. Il fonte a immersione è ancora visibile, dell'altro non rimane che un basamento ottagonale, motivo per il quale è stato interpretato come una sorta di serbatoio per l'acqua.
Eppure, se l'ipotesi qui presentata, di Castelseprio come tempio dinastico, è corretta, il dispositivo potrebbe essere davvero spiegato come un “doppio fonte”, necessario proprio per quella particolare forma battesimale riservata ai re. Già i faraoni egizi, infatti venivano incoronati solo dopo un lungo rituale che comprendeva abluzioni (immersioni) in acqua sacra e il versamento di acqua sul loro capo. Identici gesti sono quelli attribuiti alle raffigurazioni bizantine del Battesimo di Gesù, immerso fino alla cintola e sul quale contemporaneamente il Battista fa scendere acqua dall'alto.
Tale è appunto il battesimo dei re. L'incoronazione del merovingio Clodoveo, nelle miniature, è rappresentata proprio così. 
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Battesimo di Clodoveo (fonte: Wikipedia)

Forse per questo i Longobardi, scesi in Italia, trasformarono Castelseprio in un grande monastero, inaccessibile a chiunque fuorché ai monaci, protetto e invisibile ai ficcanaso, stabilendo poi la capitale a Pavia...


-Francesco Teruggi-



BIBLIOGRAFIA:
Adriano Gaspani, Astronomia e geometria nelle antiche chiese alpine, Priuli&Verruca, 2000
Blanche Mertz, I luoghi alti, Sugarco, 1986
R. A. Schwaller De Lubicz, Il tempio dell'Uomo, ed. Mediterranee, 2000
Meyer Shapiro, Notes on Castelseprio, G. Braziller, 1979
P.M. De Marchi (a cura di), Castelseprio e Torba. Sintesi delle ricerche e aggiornamenti, 2013
Manuela Mentasti, Guida alla visita. Parco Archeologico Castel Seprio. Il castrum e il borgo, 2011
Francesco Teruggi, Il Graal e La Dea, Giuliano Ladolfi Editore, 2012


Seppellite il mio cuore a Superga.

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Van Schuppen - Il Principe Eugenio di Savoia
Il cuore non è soltanto un muscolo.
Il cuore non si limita a battere: il cuore ci fa sentire vivi, e non lo fa soltanto pompando sangue. 
Ma il cuore è anche testardo, cocciuto: sa essere inappropriato, sa volere l’assurdo, non riesce a quietarsi finché non è lui stesso a deciderlo.
Non sente ragioni, e, quando stabilisce dove vuole restare, incrocia le braccia, punta i talloni nel terreno come un mulo e non si muove, anche se il corpo deve andare altrove, anche se la mente gli ricorda che non è quella casa sua.
Il Principe Eugenio di Savoia, il Grande Generale, Marte senza Venere che mai si sposò, uno dei più grandi strateghi militari del XVIII secolo, ebbe i natali come rampollo sabaudo, discendente del ramo cadetto della nobile famiglia piemontese incrociato con i conti di Borbone-Souisson - ma visse la maggior parte della sua longeva vita in Austria, combattendo sotto le insegne del Sacro Romano Impero.
Orfano di padre, crebbe nella patria materna, la Francia opulenta e trionfante del Re Sole: una madre assente, persa nel tourbillon istrionico e luccicante della vita mondana di corte, una nonna gelida e severa, un destino già scritto dalla sua famiglia - il destino di tutti i figli cadetti, quello della vita ecclesiastica.
Ma il cuore di Eugenio voleva altro.
Incrociò le braccia e puntò i piedi nei confronti della tonsura che gli imposero da quindicenne - ma non rimase fermo: inseguì quello che voleva, presentandosi alla corte del Re Sole, e chiedendogli un ruolo di comando nel suo esercito.
Luigi XIV lo guardò, sospirando.
La nobiltà francese in quel periodo stava navigando attraverso una tempesta che portava il nome di Affaire des Poisons: un passatempo sotterraneo fatto di veleni, filtri d’amore e messe nere che era appena stato scoperchiato come un vaso di Pandora, e che, fra i nomi coinvolti, riportava anche quello di Olimpia Mancini, madre di Eugenio.
Il Re Sole fu costretto a rifiutare la richiesta di Eugenio. Si dice che lo fece mormorando “Forse che abbia fatto la più grande sciocchezza della mia vita?”.
Forse.
In ogni caso il cuore di Eugenio non era in grado di sentire rifiuti: era il cuore di un comandante.
Eugenio scappò da Parigi, passando per la Germania e giungendo fino a Vienna, alla corte degli Asburgo.
A Leopoldo I porse la stessa domanda che rivolse al Re Sole: l’imperatore austriaco mentre lo ascoltava pensava ad un altro Savoia-Souisson a cui era profondamente legato - Luigi Giulio, che aveva comandato i suoi dragoni contro i Turchi nella battaglia di Petronell pochi giorni prima, e che, in questa battaglia, era morto.
Luigi Giulio era il fratello maggiore di Eugenio, e Leopoldo I accolse immediatamente il giovane Savoia fra le fila del suo esercito.
Kneller - Il giovane Principe Eugenio

La sua carriera militare sotto la bandiera del Sacro Romano Impero è lunga e fulgida, una parabola ascendente fatta di battaglie vinte, di abili strategie, di posizioni chiave conquistate e di una visione che andava al di là della guerra, ma che andava anche ad agire e muovere le leve della politica: tutto questo gli portò fama, onori e ricchezza, ma anche invidie, nemici e veleni. 
Ma non importava: Eugenio aveva seguito il suo cuore - stava facendo la cosa che sapeva fare meglio, la cosa che lo faceva sentire vivo, e il suo cuore lo sapeva. Batteva più forte, ispirato, fiero: aveva trovato il suo senso, la sua appartenenza, il suo ruolo nel mondo.
Batteva, e, un giorno, come a tutti capita prima o poi, si fermò.
Eugenio morì nel sonno, a 73 anni, dopo aver partecipato alla sua ultima battaglia appena l’anno prima.
Il suo corpo fu seppellito a Vienna, e fu onorato con i funerali di stato.
Ma i Savoia vollero che almeno il suo cuore venisse custodito a Superga, nella Basilica mausoleo della famiglia sabauda che domina Torino dall’alto della sua collina: il cuore, in fondo, dovrebbe anche essere votato alla famiglia, alle tradizioni, all’onore, ed ai doveri che questi legami comportano.
Eugenio aveva rispettato questi doveri e questi legami, accorrendo in aiuto del cugino Vittorio Amedeo II durante l’Assedio di Torino del 1706, e liberando definitivamente la capitale sabauda dalle truppe francesi.

Duomo di Santo Stefano, Vienna

Ma il suo cuore? Apparteneva davvero alla sua famiglia? A qualcosa che per lui è sempre stato più un valore astratto che non un sentimento concreto, che fosse fatto di affetto o di prestigio o di dovere?
Al cuore non si può mentire.
Al cuore non si può imporre ciò che si dovrebbe se non lo vuole, ciò che sarebbe giusto se non è ciò che sente: al cuore non si può imporre di tornare a casa, se si sente a casa altrove.
Non al cuore di Eugenio, che ha sempre palpitato, sempre vissuto solo per seguire la propria strada, la propria casa.
La casa di Eugenio, quella che gli ha dato onori e gloria, ma, prima ancora, la chance di essere se stesso, era Vienna.
E, nel 1974, quando fu necessario effettuare lavori di restauro nella cripta del Duomo di Santo Stefano di Vienna e venna aperta la tomba di Eugenio, sopra la bara di legno venne trovato un cofanetto a forma di cuore.
Sopra di esso era incisa la scritta “Cor Serenissimi Eugenii Francisci Sabaudiae Principis qui mortuus est Viennae XXI Apri, Anno Dni MDCXXXVI”...

Serena Chiarle

Dove si innalzano brusche pareti di roccia.

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Da qui, è facile fare ritorno diretto passando per le rocce. In queste valli, le attività umane, nel corso dei secoli, hanno richiesto la costruzione di gradini in pietra per collegare tra loro i terrazzamenti, perciò è possibile trovare dei percorsi anche negli angoli più improbabili. Qui viene sfruttato perfino il più stretto spazio utile tra le sporgenze rocciose.
Dall'altra parte del ponte, dietro la locanda, si innalza brusca una parete di roccia: a questa risulta addossato un muro a secco, dal profilo visibilmente inclinato. Questo muro, a prima vista senza alcuna funzione, è in realtà una scalinata in pietra, con le lastre di gneiss aggettanti a testimonianza di un'intensa attività agropastorale. Tramite queste scalinate di pietra si raggiungono, in tre ore – da queste parti si usa misurare le distanze in questo modo –, alcuni degli alpeggi. Le agili vacche del Canton Ticino ci si abituano rapidamente. E sono diventate talmente esperte in questo, che l'ampia scalinata che porta alla chiesa è stata chiusa con paletti piantati a breve distanza l'uno dall'altro per evitare che le mandrie in partenza verso i pascoli raggiungano in gruppo la messa mattutina, o ancora, che qualche bestia solitaria percorra inconsapevole la navata per andare a brucare tra gli ornamenti floreali dell'altare maggiore. 
Il villaggio di Bignasco, in cui vive gran parte delle popolazione, è un gruppo di case a ridosso del fianco della montagna, attraversato da un'ombrosa strada di paese, delimitata da due file di muri a secco; lungo la via principale si aprono qua un cortiletto, là una piazzetta[1], muniti di sedile in pietra e fontana, all'ombra di una pianta di vite spuntata tra le pietre. Queste case non hanno nulla in comune con il tipico borgo svizzero. L'abbandono dell'uso del legno in favore di un materiale ugualmente pratico, ma più robusto, unito a quel qualcosa all'esterno delle case, in occasione della nostra ultima visita, mi hanno riportato con la mente verso le lontane cittadine di pietra della Siria centrale. Qui a Bignasco, come in quelle terre lontane, ho notato che l'ingresso principale di ogni gruppo di abitazioni è un passaggio alto da 2,5 a 3 metri, ugualmente molto ampio. Ricordo come, quando ero più giovane, ero stato rimproverato da un meritevole missionario per non aver riconosciuto in tali porte l'opera dei giganti, perciò ho indagato febbrilmente alla ricerca di tradizioni su qualche Og locale, magari un collegamento tra il gigante del Mettenberg e gli attuali svizzeri. Ma la gente del posto ignorava l'argomento e non ho ottenuto altre risposte se non che quegli ingressi avevano la larghezza giusta per fare passare un mulo con il carico. 
Le persone benestanti della Vallemaggia sembrano apprezzare molto il fascino di questo luogo, in cui le acque provenienti dalla Val Bavona si gettano nel corso d'acqua della vallata principale. 
Sul promontorio tra i due fiumi, ciascuno attraversato da un ponte dall'ardita arcata, esiste un quartiere che un funzionario d’asta non esiterebbe a descrivere come formato da «villette indipendenti» allegre, dalle persiane colorate, adorne di porticati e verande allietati da grappoli d'uva e fioriture di oleandro. Una di queste, dalle finestre del piano superiore, domina una visuale perfetta sulla Val Bavona: è la «Posta», dimora del signor Patocchi, che intrattiene i pochi stranieri in visita al villaggio. Il nostro ospite è un uomo tra i più noti e facoltosi del Paese, nonché commissario di governo del distretto della Vallemaggia, carica che nella sua famiglia ha ormai raggiunto la terza generazione. Ha rappresentato il Canton Ticino in diverse occasioni pubbliche, è deputato del Gran Consiglio Ticinese e membro del Club Alpino Svizzero. Il carattere energico della sua stirpe è ben visibile anche nell'indole attiva e briosa della sorella, che trabocca di orgoglio familiare per i successi del fratello e soprattutto per la costruzione del ponte della nuova ferrovia del San Gottardo, per il quale il Patocchi aveva accettato il contratto: una «cosa stupenda», una «vera opera romana»[2]. Indubbiamente, gli italiani di oggi hanno ben chiaro l'esempio dei loro predecessori. Non solo nelle grandi opere come il tunnel del Moncenisio o la ferrovia costiera da Nizza a La Spezia, ma anche nelle strade secondarie delle vallate più remote, il viandante trova tracce frequenti della tradizione e dell'ingegneria stradale degli antichi romani. L'abilità e le capacità mostrate nella realizzazione e nel miglioramento dei mezzi di comunicazione anche nelle località più sperdute – spesso, bisogna dirlo, con ben poche indicazioni durante il faticoso lavoro di apertura del tracciato – hanno la meglio se messe a confronto con la lentezza di numerosi «comitati» nordici, solo in grado di vantarsi della loro determinazione. 
Però, a volte, questo zelo, retaggio di un tempo, va al di là del buon senso: ne è testimonianza la seguente storia presa da un notiziario del luogo. Caspoggio è una frazione in posizione elevata, su un verde pendio della Valmalenco, sul versante orientale del Bernina. I nuclei alle quote più basse, nel 1874, avevano appena completato una nuova strada a cui naturalmente voleva collegarsi anche Caspoggio. C'erano due varianti per effettuarlo, una stimata 40.000 lire (£ 1600), l'altra 15.000 (£ 600)[3]; la variante meno costosa, tuttavia, prevedeva un tempo di percorrenza superiore di 22 minuti. Gli audaci funzionari di Caspoggio volevano risparmiare sui tempi a discapito dei costi. In quel frangente, il Corriere Valtellinese presentò una sonora protesta contro questa deliberata spesa eccessiva, sottolineando la mancanza di coerenza con i fatti, dato che le entrate annue del comune non superavano le £ 80 (200 lire) e ci si poteva permettere solo di pagare lo stipendio annuale al direttore scolastico e all'insegnante, pari a £ 6 (150 lire) ciascuno. «Miei cari signori di Caspoggio», disse l'accorto consulente, «vale la pena indebitare il comune per riuscire a portare burro e formaggio qualche minuto prima al mercato?» Ancora non sono riuscito a sapere quale sia stata la decisione finale di Caspoggio. 
Ma torniamo alla Vallemaggia e al suo rappresentante. Il signor[4] Patocchi occupa una certa posizione nel paese e la sua casa lo dimostra. Ma è anche un uomo del Sud, come si nota dalla sua locanda. Questo è il peggio che si può dire di lui; per il resto, gli inglesi abituati a viaggiare non avranno molto di cui lamentarsi. I letti sono puliti, il territorio dà pesce e pollame e, con un preavviso di qualche ora, è possibile raccogliere abbondanti provviste per lo scalatore più vorace. 
È giunto però il momento di lasciare Bignasco e seguire la valle principale, che da questo punto in poi prende il nome di Val Lavizzara. 
Per quattro o cinque miglia risaliamo un burrone suggestivo, in cui le montagne si innalzano in aspre pareti, livello su livello. Eppure ogni recesso trabocca di lucido fogliame e le cenge che si susseguono non hanno quella spaventosa irregolarità, ma sono solo in lieve pendenza, ogni prato è ben tosato e punteggiato da fienili in pietra. Gli squarci che si aprono nelle pareti rocciose sono solo striature colorate più vivide; i detriti rovinati a valle non sono più riconoscibili, perché a ridosso di questi sorgono fabbricati rustici e le piante di vite ne dissimulano le forme aspre. Il fiume, che non è un torbido mostro grigiastro — come lo sono i draghi spaventosi nelle leggende delle Alpi settentrionali — scorre in una stretta fenditura, in fondo alla quale si scorgono qua e là pozze di colore blu intenso o cascatelle spumeggianti. Poco oltre, le pareti si aprono, il fiume scorre più placido: lungo le sue rive possiamo osservare pescatori indaffarati, armati di una lunga canna fissa. Anche se è mattina presto, alcuni sono già di ritorno e tra di loro un curato regge una cesta ben colma delle pietanze per il suo pasto del venerdì. 
Sulle pendici della montagna sorgono diversi gruppi di case, ma il primo villaggio è Broglio, all'ombra di enormi alberi di noce; un miglio più in là, la valle piega e le spalle delle montagne assumono una pendenza tale da lasciare scorgere le aspre vette; sulla destra si apre una radura, sullo sfondo della catena frastagliata e striata di neve del pizzo Campo Tencia. I primi raggi del sole che filtrano tra i varchi di quella imponente catena ci raggiungono e inondano la selva di luce dorata. Un enorme masso simile a un pulpito si innalza a lato della strada e ora funge da palo per i cavi del telegrafo. Poco dopo attraversiamo il torrente e raggiungiamo due villaggi adiacenti. Poco più in là, sorge un piccolo cimitero, decorato con dipinti di un gusto leggermente più pregevole rispetto a quelli che normalmente si possono ammirare nelle località di montagna. Un'altra prova delle presenza di una certa cultura è il distico di Dante che soppianta il consueto motto in latino, al di sotto di un affresco. 
Tra detriti rocciosi, là dove il torrente della Val Peccia si getta nel corso principale, sorge il grigiastro villaggio omonimo. Vedendo questa stretta valle a cui il fiume dà il nome si ha l'impressione di essere giunti in fondo, ma l'ingresso alla ramificazione più lunga si trova presso una ripida salita sul versante a destra. Oltre il primo terrazzamento, in una valletta erbosa occupata da alcune segherie, il fiume si è fatto strada in una barriera rocciosa. In occasione della mia prima visita, nell'aria risuonavano i colpi di martello e il rumore del taglio del legno per la presenza di una grande squadra di operai: alcuni erano aggrappati alle rocce e praticavano dei fori, altri trasportavano via i detriti e, infine, un terzo gruppo costruiva i piloni di un elevato ponte. Ora la strada, perfettamente e audacemente progettata, è stata completata e conduce fino a Fusio. 
Siamo ormai verso la fine di questa romantica valle italiana e lasciamo alle nostre spalle non solo i vigneti e i castagni, ma anche il granito. A mano a mano che ci avviciniamo, le montagne sembrano abbassarsi davanti a noi. I precipizi che caratterizzavano la parte inferiore della valle cedono il passo a dolci pendii erbosi all'ombra dei faggi. I morbidi rilievi che fanno da anfiteatro alle sorgenti del Maggia si innalzano in creste dai contorni tondeggianti: questo scenario sfugge alla monotonia solo grazie alla grande varietà di vegetali dal fogliame diverso. 
Il villaggio più elevato, Fusio, è un gruppo di case strette intorno alla chiesa, abbarbicato a un ripido declivio, ai piedi del quale il torrente scorre in un crepaccio attraversato da un ponte. Una decina di anni fa, la locanda, una tra le più rudimentali nel suo genere, era gestita da una degna coppia i cui volti, scaltri e raggrinziti, ricordavano i ritratti di un qualche primitivo maestro tedesco. Ma tanto erano vecchi quanto pronti e scattanti, e nessuna emergenza, nemmeno l'arrivo di tre inglesi affamati, li aveva trovati impreparati. In quell'occasione, commisero spudoratamente un sacrilegio a nostro favore. Tutti nel villaggio sapevano che il curato avrebbe mangiato un pollo per cena; la buona donna si affrettò verso la canonica e, come nella situazione figurata nei proverbi di re Davide, rubò alla tavola del prete. Ora la vecchia locanda e i suoi proprietari non ci sono più. È stato realizzato un nuovo albergo e, a quanto pare, è frequentato da italiani che cercano riparo dalla calura estiva della pianura lombarda. Finora non abbiamo fatto altro che seguire la valle principale. Tra le sue numerose valli secondarie, la Val Bavona e la Val di Prato sono quelle consigliate principalmente agli alpinisti, poiché conducono alle vette più elevate delle vicine catene montuose: il Basodino e il pizzo Campo Tencia. Ma la loro bellezza dovrebbe attrarre anche altri oltre a coloro che desiderano raggiungerli per un fine più alto, sia dal punto di vista fisico sia metaforico. 

IL BASODINO

La Val Bavona rappresenta l'ingresso più spettacolare alla Vallemaggia. Il viandante che scende dalle fredde cime e dai cupi pascoli del Gries trova un piacevole rifugio dalle intemperie nella piccola locanda aperta, alcuni anni or sono, sul margine della rupe ai piedi della quale il fiume Toce precipita formando una delle più impressionanti cateratte delle Alpi centrali[5]. Vale la pena passare un pomeriggio seduti sulle rocce, nei pressi della cascata roboante e spumeggiante, a osservare l'infinita varietà delle forme del getto d’acqua che si infrange nella sua violenta caduta. Purtroppo, raramente si dedica il tempo necessario allo studio delle cascate. Dal luogo in cui ci troviamo la vista è molto più suggestiva rispetto allo sguardo frettoloso che normalmente si riserva a questa cascata, quando magari la degniamo solo di un’osservazione fugace dal di fronte, così sacrificando i dettagli in nome di un effetto generale, che spesso è tutt'altro che impressionante o pittoresco. Il mattino dopo, il proprietario della locanda è molto lieto di indicarci la strada che in tre-quattro ore porta in vetta al Basodino. L'ascesa è semplice, per nulla pesante: un ripido sentiero lungo un pendio dal terreno umido e ricoperto di fiori, un passaggio sugli alpeggi, con la vista che domina le montagne rossastre del Gries, poi su per ripide rive di neve ghiacciata e infine un entusiasmante tratto sulle rocce più elevate. La montagna è un belvedere naturale sull'Oberland bernese e il Monte Rosa e, dato che la sua cima svetta più in alto rispetto ai rilievi vicini, regala una vista magnifica verso il territorio italiano. Tuttavia, le montagne della Vallemaggia mi sono ostili. Qui, come sul pizzo Campo Tencia, ho visto solo uno un cippo di vetta e un mondo di nebbie che rotolavano lungo le pendici delle montagne. La notte precedente alla nostra ascesa è stata buia e inclemente.
Il vento ruggiva contro la cascata e il tuono scuoteva l'edificio della locanda come se avesse l'intenzione di sradicarlo letteralmente dalla rupe. Ma la triste alba grigiastra aveva lasciato qualche speranza; i nastri di nebbia che ancora drappeggiavano i monti sembravano strascichi di un dolore ormai del tutto logoro; sopra le nostre teste, il cielo, pallido e incerto, più che minacciare l'arrivo imminente di altre avversità, parlava di una tempesta ormai conclusa. Ma la crisi era stata più violenta di quanto ci fossimo immaginati in quel momento: ci vollero ventiquattro ore prima che il cielo potesse mostrare il suo volto sereno dalla cristallina chiarezza estiva.
La perdita di visuale non era l'unico motivo di amarezza. Avevamo deciso di trovare un percorso nuovo e più diretto per scendere a San Carlo attraverso la Val Antabbia. Però, in caso di nebbia impenetrabile, è meglio evitare gli strapiombi e sapevamo che in quella direzione ce n'erano parecchi, perciò ritornammo con calma nella gola tra la nostra cima e la Punta del Castel, poi preparammo le corde per scendere lungo il ghiacciaio del Cavergno. I pendii innevati, interrotti qua e là da profonde spaccature, offrivano un facile passaggio, finché la neve non iniziava a indurirsi in ghiaccio azzurrastro e le pendenze a diventare più ripide. Alcune rocce sporgevano sulla nostra sinistra e alla loro base, a quasi un centinaio di metri più in basso, si aprivano numerosi abissi, ora celati dalla nebbia. Era una difficoltà inaspettata, dovevamo essere perplessi sul da farsi nel caso in cui il vento non avesse sollevato anche di poco la cortina di nubi, fino a rivelarci quanto bastava per capire la nostra posizione esatta. Il ghiacciaio è diviso in due terrazzamenti da una parete rocciosa che, verso la base della Punta del Castel, è ricoperta da una cascata di ghiaccio, superabile agevolmente vicino a quella vetta. Eravamo scesi in modo troppo diretto e ci trovavamo a destra, vale a dire a sud, della cascata. Dovevamo risalire e ridiscendere in corrispondenza della cascata, oppure scendere lungo la parete. Non senza qualche problema trovammo un passaggio e François, sfruttando coraggiosamente uno stretto ponte tra due crepacci, ci portò sani e salvi sulla parte inferiore del ghiacciaio. La sua superficie era rotta solo da brutti crepacci, perciò proseguimmo senza fermarci verso la morena finale. Seduti tra i massi, guardavamo verso il grande pendio lucente, su cui già splendeva il sole. Più su, sotto il Basodino, grandi ombre si allungavano da un gruppo isolato di torrioni di ghiaccio, i cosiddetti seracchi, tra i più formidabili che avessi mai visto sulle Alpi; una Karnak di ghiaccio, un enorme propileo dalle colonne imponenti. L'aspetto spettacolare di questo tempio sulla montagna era esaltato dalla superficie regolare dei ghiacci circostanti, come se si fosse trattato della pianura egiziana. Avremmo voluto perdere la strada per passarci in mezzo. Se avessimo fatto così, avremmo potuto seguire il terrazzamento superiore del ghiacciaio, quello meridionale, e trovare poi la strada nella valletta al di sotto della cascata descritta prima. Nei pressi del ghiacciaio, in una conca riparata, rivestita da un manto di verde e irrigata da un torrentello placido, trovammo le malghe più alte. Grande fu la nostra sorpresa quando alle nostre sollecite richieste di latte ci venne risposto in un inglese stentato. Il pastore aveva lavorato come minatore in Cornovaglia e, in situazioni economiche migliori, aveva fatto ritorno alla sua valle natia. Quel mondo di ristrettezze racchiuso dalle pareti di granito porta gli abitanti della Vallemaggia ad allontanarsi alla ricerca di una vita migliore. Sul ciglio della strada, in Val Bavona, è stata di recente eretta una cappella, come recita l'iscrizione, con la ricchezza proveniente dall'Australia; lì, agli Antipodi, il conducente dell'omnibus di Locarno aveva imparato l'inglese nel 1873[6].

Val Bavona 

Alcuni di questi girovaghi fanno ritorno, alcuni in condizioni economiche nettamente migliori, e costruiscono grandi case bianche — «palazzi»[7] li chiamano i loro amici — tra i familiari boschi di castagni; altri, come il nostro amico, non hanno avuto lo stesso successo, ma sono comunque ritornati, non senza qualche soddisfazione, alla loro vita solitaria di un tempo sulle montagne, ad accudire vacche e capre. Non ci possono essere prove più concrete di queste del reale incanto che esercitano le montagne sulla mente di chi ci è cresciuto: la dedizione di questi paesani che lasciano senza esitazioni una vita frenetica all'altro capo del mondo per tornare alla monotonia dell'alpeggio in estate e del borgo in inverno[8]. Oltre le malghe, il sentiero e il torrente scendono ripidamente in una conca profonda, il punto di raccolta delle acque provenienti da laghetti e nevai in quota, che scendono lungo i precipizi granitici in una successione di piacevoli cascate. La valle, priva d'ombra, è chiusa all'estremità inferiore da un contrafforte sporgente della montagna, a est. Mentre ci trovavamo sullo sperone, vedevamo sotto di noi una valle molto profonda. Montagne ripide circondavano il bacino, sul cui fondo erano disseminati enormi massi staccatisi dalle aspre pareti. In alto, sopra di noi, si innalzavano i baluardi meridionali del Basodino, gigantesche rupi, sul cui margine superiore scintillava una cornice di ghiaccio. Ai nostri piedi San Carlo, il villaggio più alto della Val Bavona, ammiccava tra un fitto fogliame.
Molte donne lavoravano sui prati al taglio e alla raccolta del fieno; non appena ci fummo fermati, giunse un ragazzo che ci disse che per scendere a valle dovevamo tornare indietro e attraversare il torrente. Un percorso accidentato sulla riva destra ci portò attraverso bellissimi boschi cedui, in cui faggi e betulle intrecciavano i loro rami con i pini, mentre alte felci e arbusti dalle bacche di colore acceso formavano un ricco sottobosco. Poi fu il turno dei primi castagni e alberi di noce, che ci accoglievano mentre ci avvicinavamo all'alta arcata del ponte che conduceva a San Carlo. Il sentiero ora diventava una carrareccia selciata che passava tra massi violacei e vecchi castagni nodosi, quindi passava accanto a una cappella dipinta con colori vivaci e due villaggi. Vicino al secondo, un gruppo di povere capanne addossate a un enorme blocco di granito, ci si offriva la vista di una bella cascata che precipitava da una rupe, posta a occidente; successivamente, la valle piegava e le montagne illuminate da sole, dietro Bignasco, chiudevano l'orizzonte. 
Successivamente si attraversava un breve tratto pianeggiante pieno di detriti alluvionali, in cui di recente il fiume ha travolto buona parte di una frazione. La Val Bavona da sempre è soggetta a tali calamità e in passato una legge vietava di viverci in inverno. Da qui in poi, costeggiamo le acque azzurre cristalline, seguiamo il loro corso tramite un intrico di massi bianchi e levigati dall'azione dell'acqua, all'ombra degli imponenti picchi da cui si sono staccati. Uno di questi massi reca questa la semplice annotazione: «qui fu bella campagna» e la data 1594. Tuttavia, nonostante questo tratto di valle fosse stato teatro di rovina e distruzione, persino in epoche recenti, la sua bellezza non è per nulla spoglia o selvaggia. Se dovessimo paragonare la maestosità delle forme delle montagne a quelle del Duomo di Giotto, potremmo dire che le loro pareti sono decorate dalla mano più generosa; e persino laddove il granito è spoglio, il passare del tempo, le nevi, le piogge, il vento e il sole l'hanno dipinto con i colori pastosi di un'antica facciata fiorentina. Di tutti i punti di transito tra le Alpi e l'Italia, forse abbiamo scelto il più caratteristico in assoluto. Poche ore fa ci trovavamo in quella zona gelida tra le nevi perenni, dove non può più crescere nulla, se non le piante più resistenti. Ci eravamo già lasciati alle spalle i verdi pascoli e le pinete, ora era il castagno a farci compagnia sul nostro cammino e le prime piante di vite stendevano i lunghi tralci sopra la muratura di una capanna riparata. Era poi il turno di altre tre o quattro piante di vite, a cui la roccia che le proteggeva donava anche un po’ di calore di quel sole che la inondava si luce, finché, non appena ci avvicinammo a Cavergno, il pendio della montagna era completamente ricoperto da vigne e il sentiero diventava un viale coperto, fiancheggiato da una doppia fila di alti pilastri di granito, con i grappoli maturi che si presentavano incredibilmente allettanti davanti ai nostri occhi.


 Claudia Migliari.



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[1] In italiano nel testo. N.d.T. 
[2] In italiano nel testo. N.d.T. 
[3] Riporto anche la conversione in sterline per fedeltà al testo originale. N.d.T. 
[4] In italiano nel testo. N.d.T. 
[5] Le cascate di Krimml, nel Tirolo, sono probabilmente le cascate che mostrano la maggiore unità di tutto l'arco alpino per altezza del salto, forza idrica e per la suggestività dei dintorni. Esistono numerose cascate nel gruppo dell'Adamello che un pittore potrebbe preferire a quelle del Toce. 
[6] Tra gli anni 1850-56, un ottavo dell'intera popolazione, e un quarto della popolazione maschile, lasciò le sue terre. Tra gli emigranti c'erano 324 uomini sposati, ma solo due portarono con loro le consorti! 
[7] In italiano nel testo. N.d.T. 
[8] I pastori di queste malghe possono accedere alla Val Formazza senza scavalcare il Basodino. La «Bocchetta di Val Maggia», un varco nella cresta rocciosa, sull'angolo nordorientale del ghiacciaio del Cavergno, permette loro di raggiungere i pascoli vicino al passo San Giacomo, poi da lì spostarsi verso Airolo o le cascate del Toce senza più dover risalire.

San Colombano al Lambro: tra le mura rosse, ricordi indelebili di un tempo che fu...

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Il borgo lombardo di San Colombano al Lambro è un nucleo abitato da 7000 "banini", adagiato ai piedi di un colle di origine subappenninica. Lontano 20 km dal resto della Provincia, è un raro caso di exclave milanese stretta fra le province di Pavia e Lodi.

La località fu menzionata per la prima volta in una serie di atti imperiali di età sassone (X secolo), col nome di "Brioni" e "Mombrione". Si dovette attendere il testamento del potente arcivescovo brianzolo Ariberto d'Intimiano (1034) affinché il paese ereditasse il toponimo di San Colombano, il combattivo monaco che, partito dall'Irlanda agli inizi del VII secolo per cristianizzare il continente, dopo un lungo viaggio attraverso Francia e Svizzera giunse in Italia giusto in tempo per lasciare ai posteri il prestigioso monastero piacentino di Bobbio.
Il borgo si raccoglie attorno alla rocca, sorta sulle fondamenta di un castelliere longobardo. Terra contesa tra i Lodigiani, entro i cui confini territoriali andava trovandosi, e i Milanesi, legittimati in virtù di una vecchia donazione imperiale, San Colombano fu ben presto sottratta al dominio di questi ultimi da Federico Barbarossa (1164). Con l'aiuto dei fedeli alleati Pavesi, la distrusse e la ricostruì per poi restituirla ai Lodigiani: non bisogna scordare la fitta trama di alleanze politiche e regalie elargite dal Barbarossa ai Comuni minori, da tempo allarmati dalla politica espansionistica della più grande e popolosa città lombarda.
L'impostazione del grandioso centro storico, di scala urbanistica, si deve allo stesso Federico: il tedesco, riconoscendo la posizione strategica del castello, abbarbicato su un colle a guardia del Po e del Lambro, lo ristrutturò cingendolo con una cittadella riordinata secondo un impianto urbanistico ispirato allo schema romano del cardo e del decumano. A sud fu edificato un fortilizio di forma quadrilatera: la cosiddetta Civitas Imperialis o borgo abitato. A nord sorse invece un secondo recinto: il "ricetto" turrito, separato e allo stesso tempo comunicante con il borgo mediante fossato e ponte levatoio. Conteneva il palazzo, dapprima imperiale e poi visconteo, oltre alla torre castellana: un sistema complesso di fortificazioni che, collegandosi a un'ultima rocca interna di pianta trapezoidale (mastio), in caso d'emergenza consentiva ai difensori di fuggire in aperta campagna.
Con la nota disfatta che il Barbarossa subì presso Legnano (1176) contro i comuni della Lega Lombarda, la pace di Costanza (1183) e i patti tra Lodi e Milano (1198) la piazzaforte tornò nuovamente a far parte dello scacchiere ambrosiano.
In seguito all'ennesima scaramuccia con i Lodigiani per il controllo dei commerci fluviali, nel 1299 i Visconti occuparono il territorio. Nel 1353 Francesco Petrarca accettò l'ospitalità dell'arcivescovo Giovanni Visconti, elogiando le bellezze di quella terra che gli faceva tornare in mente la sua Valchiusa. I nuovi e potenti duchi di Milano infeudarono il borgo dapprima ai Landriani, poi agli Scotti di Piacenza, riprendendone possesso solo nel 1375, quando Bianca di Savoia lo ricevette in dono dal figlio Gian Galeazzo Visconti.
Ben presto Niccolino dè Diversi, tesoriere del "Conte di Virtù", acquistò la rocca a suon di fiorini. Il fortilizio di San Colombano, durante tutto il periodo visconteo, durato circa un secolo, costituì uno dei maggiori punti di forza dello scacchiere visconteo meridionale; ciononostante il suo attuale aspetto coinvolge la castellologia viscontea in maniera marginale: solo in rari casi è possibile dedurre quali parti furono erette dal celebre casato. Sopravvivono per certo la torre d'ingresso e quella ovest, detta "castellana" (XV secolo), mentre una parte estesa del perimetro murario risale ancora ai tempi della ricostruzione tedesca del 1164. Dopo l'effimera parentesi Sforzesca, alla metà del '500 i certosini trasformarono l'assetto bellico del castello, smantellando parte della cortina e interrando i fossati. Nel 1782 il feudo fu concesso al nobile Ludovico di Belgioioso. Attualmente la cinta muraria custodisce anche un parco con villa, un tempo proprietà della famiglia.
Nell'ultimo decennio, al fine di preservare il territorio, è stato istituito il Parco della Collina di San Colombano: visitarlo è assai suggestivo per la bellezza dei vigneti che producono il pregevole San Colombano DOC, l'unico vino di Milano. Proprio la tradizione vuole che San Colombano, di passaggio, convertendo i "banini" al Cristianesimo, insegnasse loro la coltura della vite. In realtà il ritrovamento di anfore vinarie, conservate nel locale Museo Paleontologico, dimostra che già in epoca romana la vite veniva coltivata sui questi colli.


Marco Corrias (alias Marc Pevèn)         
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