“La mia casa è nel mio cuore, migra con me ... tu lo sai fratello, tu lo capisci sorella. Ma come faccio a dirlo agli stranieri che si sono diffusi ovunque, come posso rispondere alle loro domande che provengono da un mondo diverso”.
(Trekways of the Wind, Nils-Aslak Valkeapää)
I Sami, comunemente conosciuti come Lapponi, rappresentano gli ultimi popoli indigeni europei, stanziati già diversi millenni prima di Cristo nell’area artica e subartica di Norvegia, Svezia, Finlandia e Russia. Per molti anni si è creduto che le loro origini fossero asiatiche, ma oggi giorno si può affermare con una certa sicurezza che i Lapponi appartengono ad uno dei più antichi ceppi europoidi. Già l’illustre ricercatore svedese, Carl Von Linné (Linneo) nel suo “Iter lapponicum” (siamo nella metà del ‘700) dichiarò che nonostante numerosi viaggi e studi, non era riuscito a scoprire, nei tratti dei suoi conterranei del nord, alcun carattere comune a qualsiasi altro gruppo umano. Secondo alcune teorie successive, come quelle degli antropologi francesi ottocenteschi Topinard e De Quatrefages, l’unione dei dati della statura e del colore della pelle con gli indici cefalici e nasali, lasciava ipotizzare che i Lapponi appartenessero ad un’unica popolazione paleo europea - cui forse facevano parte anche sardi e liguri - che al sopraggiungere delle genti di lingua indoeuropea si sarebbe rifugiata verso zone più inospitali e meno battute (come le montagne pirenaiche e alpine oppure, nel caso dei Sami, a nord del Mar Baltico verso la tundra polare).
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I sirges durante il Calf marking [fotografia di Andrea Barghi] |
Oggi giorno il maggior numero di Lapponi si trova in Norvegia, stanziati principalmente lungo le coste ed i fiumi (Sami del mare) dediti a caccia, pesca e ad un piccolo artigianato per turisti. In Svezia invece bisogna distinguere i Lapponi di montagna da quelli di foresta, i primi hanno conservato in gran parte l’antica cultura con l’allevamento delle renne attraverso forti transumanze stagionali, per due volte l’anno, dalla pianura ai pascoli e viceversa, mentre i secondi abitano con le loro mandrie nei recessi delle fitte foreste di conifere, effettuando solo brevi migrazioni di carattere locale. I lapponi finnici e russi sono in gran parte allevatori di foresta. I circa 75.000 abitanti della terra che loro chiamano “Sapmi” mantengono oggi una forte identità culturale e possono vantare un proprio Parlamento transnazionale, il Sámediggi, che, pur dovendo rispondere giuridicamente ai suddetti Stati “ospiti”, possiede una propria bandiera ed un giorno di festa “nazionale”, il 6 Febbraio, data del primo Congresso Sami nel 1917. Come tutti gli altri popoli nativi del mondo, tuttavia, anche queste genti hanno alle spalle una storia di colonizzazione, soprusi e repressioni.
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Il vento sibila sullo Jertàsuoloj [fotografia di Andrea Barghi] |
La prima documentazione letteraria sulle genti del nord è quella dello storico Romano Publio Cornelio Tacito, che narra dei barbari “Fenni”, descrivendoli “… straordinariamente selvaggi e orribilmente poveri; non hanno armi né cavalli, né dimora fissa … la caccia alimenta tanto gli uomini che le donne … ma essi credono che in questo modo si sia più felici di quelli che sudano nei campi, s’affaticano nelle case, trafficano le loro fortune e quelle altrui fra la speranza e il timore; senza curarsi di uomini e dèi hanno conseguito la cosa più difficile: cioè non sentono più l’affanno del desiderio…”. Lo storico dei Goti, Procopio, ci parla di un popolo nordico di razza non germanica, che chiama “Scritifinni”, nomadi dediti alla caccia e alla pesca che egli giudica orrendamente selvaggi perché non coltivano la terra, non conoscono l’amabile ebbrezza data dal vino, tutti rivolti ad una continua e spietata caccia per sopravvivere nelle immense e gelide foreste. Anche un narratore longobardo, Paolo Diacono, cita un “popolo di sciatori” che, intravisto muoversi tra i ghiacci perenni, nell’alternanza di lunghi periodi astronomici di luce e buio, riusciva a convivere con animali molto simili ai cervi. Al di là dei primi avvistamenti per lo più casuali e sporadici, anche grazie all’indole pacifica e riservata dei Sami, le bellissime ed inospitali terre dell’aurora boreale, restarono per secoli completamente avvolte dal mistero, così come i loro abitanti che venivano descritti dagli esploratori norreni come esseri dalle apparenze semi umane. Ma la terra dei Sami era ricchissima di risorse naturali e, già tra il X ed il XIII secolo, essi dovettero arretrare verso nord, oltre il circolo polare artico o nelle zone montuose dell’entroterra, sospinti da vichinghi e finnici ai quali facevano gola le molteplici risorse offerte dall’ambiente artico e subartico. Gli indigeni che provavano ad assimilarsi a questi nuovi invasori, venivano sottoposti a tributi, per cui per salvaguardare la propria indipendenza e le proprie tradizioni culturali non c’era altro modo che spostarsi in zone difficilmente accessibili. Dal 1200 in poi iniziarono le spedizioni dei missionari per convertire i Lapponi al cristianesimo, raggiungendo l’apice con la diffusione del luteranesimo in scandinavia (sec. XVI).
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La mandria di renne [fotografia di Andrea Barghi] |
L’antica religione sciamanica era mal vista dai nuovi venuti ed il cristianesimo cominciava a minare alle basi la sopravvivenza della cultura nativa, così come avveniva in altre parti del mondo, in particolare nel continente americano. Come gli indiani d’America i Sami ritenevano che la natura, gli animali, le foreste, i fiumi e le montagne, fossero dotati di un’anima. Tutto il creato aveva la stessa importanza dell’uomo. Credenza ovviamente inconcepibile per i missionari cristiani. Per i nativi artici ogni essere vivente è dotato di almeno due anime, una corporale ed una libera; quest’ultima può esistere anche al di fuori del corpo, sul quale esercita una forma di protezione. I fenomeni naturali come la nascita, il tuono, il vento, il sole, erano di cruciale importanza e formavano oggetto di culto. Particolarmente inviso ai portatori del vangelo era il culto di una “dea madre” (Madder Akka) quale divinità principale portatrice della vita. Tra i cacciatori di renne, infatti, il Dio celeste supremo (Jubmel) era stato trascurato in favore di Madder Akka e di altre divinità inferiori, ritenute più vicine agli eventi naturali e all’uomo. Ecco quindi la presenza di dei come Atjek “il padre”, un uccello padrone del tuono. Divinità simili si riscontrano anche tra alcune tribù nordamericane come i Pawnee che adoravano un essere supremo di nome Tirawa Atius (che in quella lingua significa appunto “padre”) così come presso i Cheyenne, gli Arapaho ed i Winnebago il dio del tuono era raffigurato sotto forma di uccello. Come in America settentrionale anche gli sciamani Sami erano in grado di “comunicare a distanza”, cadendo in trance al suono dei propri tamburi avvertivano il verificarsi di eventi straordinari molto distanti dal villaggio. (Fenomeni del genere accaddero ancora nella primavera del 1986 quando gli ultimi sciamani narrarono che una nuvola tossica stava dirigendosi verso il Finmark: era la nube di Chernobyl e il danno per gli allevatori di renne fu enorme).
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Delta del Ràhpaàdno [fotografia di Andrea Barghi] |
Tale potere di relazionarsi con spiriti e divinità mediante l’uso dei tamburi sacri, agli occhi dei luterani apparve subito opera del diavolo. Sappiamo che già dal 1500 tali oggetti di culto cominciarono ad essere ricercati dai missionari per essere bruciati come veicoli di peccato e di perdizione. La situazione raggiunse aspetti fortemente critici con la scoperta di giacimenti minerari nel nord della Svezia. Sulle colline di Kiirunavaara e di Luossavaara arrivarono da sud carovane di coloni che espropriavano le terre ai lapponi, riducendo spesso intere comunità indigene in schiavitù. I diversi motivi che portarono alla perdita dei territori ancestrali, alla conseguente diminuzione della fauna cacciata in grande quantità dai coloni nonché alle difficoltà di continuare le antiche pratiche religiose e tradizionali, resero sempre più difficile il sostentamento e la sopravvivenza stessa delle comunità. I Sami tuttavia, contrariamente ad altre popolazioni aborigene sparse nel mondo, potevano contare su un notevole spirito di adattamento: assorbirono l’impatto con la “civiltà” estranea affiancando i nuovi dogmi a quelli tradizionali, in modo da mantenere vivi, almeno in parte, i tratti distintivi della loro cultura. Questo modo di fare accondiscendente, tuttavia, non bastava agli ecclesiastici norvegesi che, nel 1700, completarono la politica di distruzione sistematica di ogni simbolo pagano, già avviata 200 anni prima. Ogni oggetto sciamanico che si rifacesse alle antiche credenze, in particolare i tamburi rituali, i pugnali sacri ed i “vejtte” (gli idoli di legno) dovevano essere consegnati alle autorità cristiane. Coloro che si erano presentati davanti ai pastori luterani videro i loro tamburi sacri accatastarsi in un mucchio e prendere fuoco: nelle fiamme avrebbero dovuto scomparire anche tutte le antichissime credenze e le memorie millenarie di un popolo.
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Aurora boreale [fotografia di Andrea Barghi] |
Gli antichi canti furono vietati, le feste tradizionali durante le quali si svolgevano giochi e gare e gli abituali raduni in occasione di festività antichissime in onore dei “passe-olmak” (semidei non bene identificati la cui origine si perdeva nel tempo) tutto venne proibito come fonte del male. Ma i tamburi, qua e là, rullarono ancora nascostamente tra i fitti boschi per invocare dagli dèi della tundra, delle acque e delle montagne le grazie concesse nei tempi trascorsi. Gli sciamani affermavano che gli dèi non li avrebbero mai abbandonati, anche se alcuni di loro vennero sorpresi e bruciati vivi coi loro tamburi ad Arjeplog nel 1692. Nel 1723 veniva emesso un regolamento, per il quale presso ogni chiesa doveva funzionare una scuola di istruzione religiosa, la cui direzione veniva affidata al “segretariato lappone del culto”. La religione animistica scomparve nelle foreste e sulle montagne dove clandestinamente gli sciamani continuavano a compiere gli antichi riti. Grazie a questi rifugi climaticamente inespugnabili, una conversione quasi totale della gente lappone avvenne molto tardi, verso la fine dell’800. Le autorità norvegesi imposero al popolo Sami una rigida politica di norvegesizzazione che prevedeva tra l’altro, la rinuncia della propria lingua e cultura e l’obbligo all’apprendimento e all’uso del norvegese.
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Bambini Sami in fila per la scuola |
Nel 1922 la Svezia, anticipando la Germania nazista, fu il primo Paese ad aprire un centro statale per lo studio della razza, l’eugenetica. L’obiettivo era migliorare la razza nordica, una categoria rispetto alla quale i Sami erano considerati l’antitesi (come anche altre minoranze e i disabili fisici e psichici). Negli archivi dell’Università di Uppsala, si trovano 12.000 scatti di individui di cosiddetta razza inferiore, spesso nudi, contrapposti a soggetti più atletici definiti nordici. I Sami furono studiati come oggetti per provarne l’inferiorità e lo Stato si imbarcò in una campagna di sterilizzazione forzata. (Al filmfestival di Venezia 2016, una giovane svedese di origine Sami, Amanda Kernell, ha vinto il premio di regista emergente con il film «Sami Blood», Sangue sami, rievocando, come una doccia gelata, le tristi vicende del secolo scorso attraverso gli occhi di una ragazza di 14 anni).
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Scena tratta dal film "Sami Blood" |
Un importante contributo per far conoscere e, finalmente, rispettare la cultura di questi popoli lo diede il libro di Johan Turi “Vita del Lappone”, pubblicato a Copenaghen in doppia lingua danese / Sami nel 1910 e tradotto successivamente in molte lingue. L’opera è considerata la più grande testimonianza linguistica e letteraria Sami. Le prime parole del libro sono emblematiche: “… il lappone non riesce a dire come stanno le cose veramente. E il motivo è che non capisce molto quando sta dentro una stanza chiusa, quando il vento non gli soffia nel naso. Se ci sono pareti ed è chiuso sopra la testa, i suoi pensieri non riescono a scorrere, né si trova bene nei boschi folti, dove l’aria è calda; ma quando è in alta montagna, allora sì che il suo cervello è davvero limpido …”. La giovane antropologa e artista danese Emilie Demant Hatt incontrò Johan Turi nel 1904, divenendo sua amica. Turi aiutò la studiosa a portare a termine il suo progetto di vivere per un anno insieme agli allevatori di renne. La donna, nel raccontare il suo rapporto con Johan dichiara: “scivolava da un argomento all’altro, il suo linguaggio ricco di immagini scorreva sul racconto con grandi tratti, aprendomi le porte di un mondo straniero, misterioso … raccontando di destini umani, di magia e di strani avvenimenti. La saga delle lande deserte risuonava nelle mie orecchie, immagini meravigliose scorrevano davanti ai miei occhi.” Attraverso quelle parole, forse per la prima volta, il mondo conosceva la bellezza di una cultura antica strettamente legata alla natura del grande nord europeo, agli animali e alla loro stretta simbiosi con l’uomo. Sentiva per la prima volta parlare dei mitici “Ulda”, specie di folletti che vivono sotto terra in possesso di particolari facoltà magiche, oppure del “Noaide”, il guaritore che grazie al suo tamburo magico cadeva in trance compiendo ogni tipo di divinazione. Per la prima volta il mondo conosceva lo “Joik” il canto spirituale basato su millenni di senso di appartenenza ad un posto, ad una famiglia e ad un popolo. Un assolo fortemente ritmico con cui il lappone celebra persone care, animali, luoghi e aspetti della sua vita, connettendosi con i sentimenti più profondi espressi dal tema cantato e permettendo la comunicazione mistica tra epoche, esseri umani e paesaggi inimitabili.
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Halo sul lago Saggat [fotografia di Andrea Barghi] |
“Il libro di Turi rappresenta una supplica, un’ardente implorazione che viene dal cuore della Lapponia, un’accorata invocazione di giustizia verso i nomadi della Scandinavia. Non una richiesta di assistenza per i poveri, bensì un’esortazione alla comprensione e al diritto di vivere”
(Emilie Demant)
Sergio Amendolia
Ringraziamenti
Nella Pasqua 2018 ho avuto modo di percorrere i sentieri innevati della Lapponia Svedese; di questo ringrazio il mio amico, fotografo, scrittore ed editore Andrea Barghi il quale, con la sua scelta di vivere e lavorare sul tetto d’Europa, mi ha guidato con competenza e passione attraverso luoghi magici e incantati, facendomi conoscere la magnifica cultura dei Sami.
Bibliografia
Roberto Bosi, Lapponi – sulle tracce di un popolo nomade, Nardini;
Johan Turi, Vita del Lappone, Adelphi;
AA.VV., Laponia - nature and natives, Varda
Salvatore Patané, I Sami. Ultimi primitivi d’Europa, Bonanno
SERGIO AMENDOLIA
Nato 55 anni fa a Genova, sposato con 2 figli, 2 gatti e un cane, ho sempre guardato con stupore l'orizzonte e tutto ciò che quella linea rappresenta e contiene, convinto che dove il cielo finisce si celano sempre spazi e tempi lontani, spesso inesplorati o conosciuti poco e male. Forse per questo mi attira l'impostazione di questo blog ed i veli della Storia che gli articolisti provano spesso a sollevare, perché conoscere è importante e aiuta a capire ciò che siamo e come lo siamo diventati. Oltre alla nostra bella Italia ed alla sua impareggiabile ricchezza di arte e storia, mi affascinano molto gli scenari mozzafiato dell'Ovest Americano. In questi ultimi anni ne ho percorsi alcuni, ancora una volta cercando di varcare orizzonti i cui contorni sfuggono in continuazione, dimensioni che ho provato a malapena ad intuire nei volti dei nativi che ancora oggi si incontrano nelle riserve: a volte duri, scolpiti e aridi come i monoliti di arenaria rossa, probabilmente gli unici in grado di metabolizzare la sensazione di infinito che pervade quelle terre lontane. Per questo mi piace, quando il tempo libero me lo permette, collaborare con riviste e pagine web, tentando di approfondire le vicende che hanno caratterizzato la storia di quei popoli d'oltreoceano, in particolare l'epopea del West, con un occhio particolare agli uomini e alle donne che la vissero davvero, fuori dai luoghi comuni e dai grandi miti costruiti da Hollywood.