Come ci è piaciuto iniziare, visto il favore riscontrato da parte di diversi lettori, ci piace continuare il viaggio fra le fonti di ispirazione e i principali riferimenti utilizzati da Umberto Eco per la costruzione del suo capolavoro, “Il Nome della Rosa” (qui la prima puntata). Dopo il luogo (le diverse abbazie ispiratrici), e i due principali protagonisti (Guglielmo da Baskerville e Adso da Melk), proviamo a proseguire con alcuni degli altri importanti personaggi del racconto, tutti estremamente interessanti per la mescolanza di citazioni, omaggi, fantasia e, per molti di essi, concreta verità storica.
“Felice notte, venerabile Jorge”
Con queste parole, nella scena madre del libro, Guglielmo saluta il vecchio monaco cieco, ex bibliotecario dell’abbazia, al momento di entrare nella camera segreta (se qualcuno ancora non conosce la storia, peggio per lui).
Per uno dei personaggi più importanti del romanzo, vero deus ex machina e al tempo stesso profeta dei terribili avvenimenti che si susseguono nei sette giorni del racconto, Eco ha messo insieme le sue consuete molteplici conoscenze storiche e anche il suo personale omaggio ad uno dei giganti della letteratura, da lui sempre stimato e ammirato.
Anzitutto il vecchio Jorge viene da Burgos, città spagnola della Castilla y Leon, da sempre crocevia di molte culture, fin dal medioevo, essendo posizionata strategicamente al centro di molti percorsi cruciali della penisola iberica. Fra questi, anche religiosamente significativi, il celeberrimo cammino di Santiago, che ha Burgos come tappa fondamentale. Ospita una sublime cattedrale gotica, incastrata nel centro cittadino come un gigantesco ragno al centro della sua ragnatela, e nell’ambito delle tematiche del romanzo, è un ottimo simbolo per gli aspetti più reazionari e inquisitori del cattolicesimo medievale. Inoltre Eco fa risalire alla provenienza castillana del personaggio anche l'essere venuto in possesso del famoso libro al centro di tutto l'intrigo, con una delle sue consuete ricostruzioni storiche sempre in bilico fra la realtà e l'ipotesi.
Ma il personaggio, con la complicità di una delle giocose assonanze tanto care allo scrittore piemontese, richiama anche in modo esplicito (poi ufficializzato anche dallo stesso autore) un grande letterato, una delle più grandi figure della letteratura del novecento. Jorge da Burgos infatti altri non è che Jorge Luis Borges. Non a caso un bibliofilo, non a caso autore de “La biblioteca di babele”, ancor meno a caso costretto alla cecità nell’ultima parte della sua vita, esattamente come il diabolico personaggio del romanzo. Anche in alcuni meccanismi della storia Eco si rifà chiaramente all’opera del grande scrittore argentino. Ad esempio quando inserisce nel procedere degli avvenimenti elementi esoterici, cabalistici, numerologici e di richiamo a supremi disegni (fra tutti l’Apocalisse di Giovanni) che finiscono per guidare anche le azioni degli stessi personaggi, a volte per suggestione, a volte per calcolo e a volte inconsciamente fino a farle aderire ad un disegno fittizio mai veramente pianificato da qualcuno. Idea senza dubbio proveniente dal racconto “La morte e la bussola”, che è appunto di Borges, dal quale Eco prenderà le mosse anche per l’idea stessa del labirinto, centro fisico e filosofico dell’intero romanzo.
Bernardo Gui
Il grande inquisitore domenicano che giunge all’abbazia con la delegazione pontificia è invece un personaggio storico al cento per cento (ne abbiamo già parlato anche qui). Celebre persecutore di eretici, perfino autore di un famoso “manuale dell’inquisitore” e, in accordo con la tematica ricorrente del romanzo, scrittore fra i più prolifici dell’intero medioevo (autore di testi storici, trattati teologici, sermoni e altre decine di scritti). Nato in terra francese nel 1261 e fin da ragazzo vissuto fra le mura del convento di Limoges, per poi diventarne priore e inquisitore, così come a Carcassone (ancora oggi la città francese medievale per eccellenza) e a Tolosa. Feroce persecutore degli eretici, sono attribuite a lui centinaia di sentenze delle quali almeno 42 concluse con esecuzioni capitali. Sua la firma sulla condanna a morte di Pierre e Guillaume Authier, i fratelli che furono fra i principali fondatori del movimento cataro, la cosiddetta “eresia catara”.
E soprattutto, per ciò che più direttamente riguarda le storie raccontate nel romanzo di Eco, responsabile della condanna degli Apostolici di Fra Dolcino da Novara, movimento eretico le cui propaggini giungono fino all’interno dell’abbazia svolgendo un ruolo fondamentale negli avvenimenti narrati.
E’ invenzione naturalmente che Bernardo Gui si sia mai recato in qualità di delegato pontificio presso qualche abbazia sulle alpi per partecipare ad una disputa teologica, ma come sempre negli scritti di Eco, è una cosa che potrebbe essere accaduta senza che questo intacchi la fedeltà storica del racconto.
Fra Dolcino
Frate Dolcino da Novara, fondamentale personaggio evocato e ricordato di frequente anche se al tempo del romanzo è già morto sul rogo, è anch’esso reale e storicamente esistito. Dalle fila del suo movimento, gli Apostolici, che per alcuni anni imperversò nel nord Italia, soprattutto nel biellese, provengono infatti Frate Remigio e Salvatore, due scampati alla crociata contro i dolciniani scatenata dal papa nel 1306 e rifugiatisi nella abbazia dove Gugliemo e Adso li incontrano, e dove il primo acutamente li identifica subito come ex dolciniani. In particolare Guglielmo li riconosce per la famosa espressione ripetuta spesso dal grottesco Salvatore: “Penitenziagite!”, frase apparentemente innocente che altro non significa che “fate penitenza!”, ma che oltre a contenere un doppio senso, potendo essere interpretata anche come “pentitevi e agite!”, era comunque una sorta di motto tipico dei dolciniani, al seguito del quale essi si spogliavano dei beni materiali ed entravano a far parte della “banda” di Dolcino, banda non sempre pacifica. La strana compagnia godette per i primi tempi il favore delle popolazioni, promettendo spesso riscatto dalle angherie e privazioni cui erano sottoposte dai potenti, ma perse poi via via la simpatia quando gli stessi popolani cominciarono a subire le scorribande dei dolciniani, sempre alla ricerca di viveri e generi di sussistenza per la loro vita errabonda.
Per sgominare gli Apostolici di Dolcino fu indetta una vera e propria “crociata”, bandita dal Vescovo di Vercelli con il benestare di Papa Clemente V. Ci fu un autentico assedio sul Monte Rubello, dove si erano asserragliati gli eretici, che si concluse nel 1307, durante la settimana santa, con la vittoria delle truppe del Vescovo Raniero, l’immediata esecuzione sommaria di tutti i dolciniani ancora sopravvissuti agli stenti del lungo isolamento forzato, e l’arresto di Dolcino, del suo luogotenente Longino e della sua compagna Margherita. La drammatica vicenda si concluse a Vercelli, davanti al duomo, dove per dare dimostrazione esemplare a tutta la popolazione Dolcino dovette assistette al rogo di Longino e Margherita, per poi essere orribilmente torturato in pubblico e infine terminare le sue sofferenze anch’esso fra le fiamme purificatrici.
Remigio da Varagine
Coi suoi oscuri trascorsi dolciniani, il frate Remigio è uno dei personaggi più interessanti e potremo dire “realistici” del romanzo. In questo caso, pur essendo la figura di pura fantasia, la probabile fonte di ispirazione per il suo nome è comunque una figura storica realmente esistita, Jacopo de Fazio detto anche Jacopo (o Giacomo) da Varagine (nome antico di Varazze, in Liguria), frate domenicano nato nel 1228 e diventato anche arcivescovo di Genova. Il riferimento è probabilmente dovuto, anche qui, al ricorrente richiamo alla scrittura e ai libri. Jacopo da Varagine infatti è noto come letterato, autore di molti testi fra cui una importantissima “Vita dei santi” (la celeberrima “Legenda Aurea”). Si distinse anche per i suoi tentativi di mettere pace fra le fazioni dei Guelfi e dei Ghibellini nella famosa contesa. L’ulteriore collegamento sotteso alla scelta del nome si può trovare nella circostanza che vide il vero domenicano di Varagine per molti anni delegato provinciale dell’ordine monastico in Lombardia, proprio nelle zone di Vercelli che videro le scorribande della banda di Dolcino.
Bertrando del Poggetto
Meno noto, ma collocato da Eco come cardinale a capo della delegazione pontifica che giunge all’abbazia per la disputa teologica, è il vero vescovo francese Bertrand du Pouget (1280-1352), personaggio storico chiave della “cattività avignonese”, esatto periodo nel quale cadono le vicende narrate nel romanzo. Condottiero abile e determinato, oltre che prelato, Bertrando fu nominato legato papale per Lombardia, Emilia e Toscana. Contrapposto quindi anche intellettualmente alle figure come quella di Jacopo da Varagine, scese in Italia armato di un forte esercito di mercenari per mettere ordine nelle dispute Guelfi-Ghibellini, ma con la forza. Lo stesso personaggio storico è anche protagonista di un brano teatrale di Dario Fo, laddove col suo tipico stile il premio Nobel racconta la cosiddetta “guerra della merda”, quando i bolognesi assediati proprio dalle truppe del battagliero cardinale si difesero con tutti i mezzi a loro disposizione, compreso il lancio con le catapulte dei loro stessi escrementi al di là delle mura contro le truppe di occupazione francesi.
Ubertino da Casale
Altro personaggio storico totalmente autentico collocato da Eco nei giorni fatali, Ubertino da Casale è stato un predicatore francescano di grande importanza storica e teologica, incappato più volte nella scomunica papale per via delle sue posizioni spirituali “integraliste”. Si trovò ad Avignone proprio al momento di una delle scomuniche e fuggì proprio insieme a Guglielmo di Occkam per rifugiarsi alla corte di Lodovico di Baviera che era in viaggio verso Roma. Eco infatti lo presenta come grande amico di Guglielmo da Baskerville, e al momento in cui si viene a sapere che è in arrivo all’abbazia la delegazione avignonese con il terribile Bernardo Gui, fugge anzitempo anche dal luogo della disputa (e dalle pagine del romanzo) per mettersi in salvo dalle possibili ire dell’inquisizione. La sua fine non è ben documentata, ma una delle versioni più accreditate è perfettamente in tono con il romanzo di Eco, dato che risulterebbe rimasto in Italia a predicare per finire assassinato nel 1330.
Michele da Cesena
Anche Michele da Cesena è un personaggio reale e ben conosciuto dagli storici medievali. Anche lui schierato con l’Imperatore Lodovico il bavaro (di Baviera) nella parte ghibellina, insieme a Guglielmo di Ockham e Ubertino da Casale. Nel romanzo è infatti il francescano a capo della delegazione imperiale, amico di Guglielmo e deciso sostenitore della necessità della chiesa di recuperare la povertà originaria dettata da Gesù Cristo. Essendo stato ministro generale dell’Ordine Francescano la sua figura storica è di primaria importanza. Regolarmente scomunicato dal papa nel corso delle dispute continue che dominavano il periodo interessato dal racconto di Eco, terminò la sua esistenza in Baviera e, a completare i collegamenti con gli altri protagonisti reali e fittizi del romanzo, pare che in punto di morte, ancora in possesso del sigilli dell’Ordine, nominò suo vicario e successore proprio Guglielmo di Ockham (o da Baskerville, se preferiamo affidarci alla sottile e rigorosa fantasia del grande scrittore piemontese).
Il Labirinto
Due ultime righe sulla biblioteca-labirinto, luogo fisico e mentale posto come fondamenta, causa ed effetto dell’intera narrazione. Abbiamo già detto nel precedente articolo dell’ispirazione proveniente dalla biblioteca dell’abbazia svizzera del San Gallo, per il ruolo cardine nella cultura medievale e per la sconfinata quantità di testi in essa custoditi. Abbiamo anche accennato ai molto omaggi a Borges, e fra questi alla sua “biblioteca di Babele”, ma conseguentemente anche alle molte elucubrazioni dello scrittore argentino proprio riguardo ai labirinti. Lo stesso Eco, ricercatore instancabile e appassionato della materia, dedicherà uno dei suoi saggi proprio all’argomento, sviscerato rigorosamente come nel suo stile in tutti i suoi aspetti storici e culturali (“Dall’albero al labirinto” – 2007). Il tema del labirinto è ricorrente nel medioevo, e se ne possono vedere diverse versioni in varie cattedrali europee, il più famoso dei quali ancora intatto è sul pavimento della cattedrale-prototipo del gotico francese, quella di Chartres, ancora oggi percorso tutti giorni da fedeli in preghiera. Ma ancor più Eco si ispirò a quello, andato perduto, che ornava il pavimento della cattedrale di Reims. Il riferimento è descritto dallo stesso autore, poiché l’immagine era presente sulla copertina dell’edizione Bompiani del romanzo, e ancora una volta nei suoi doppi e tripli significati la scelta richiama una delle tematiche del racconto, che ricordiamo essere incentrato sul timore che la dottrina religiosa attribuisce al riso e al divertimento.
Chiudiamo quindi proprio con le parole di Eco che in quarta di copertina ne illustravano la scelta :
«In copertina lo schema del labirinto che appariva sul pavimento della cattedrale di Reims. A pianta ottagonale, recava ai quattro ottagoni laterali l'immagine dei maestri muratori, coi loro simboli, e al centro - si dice - la figura dell'arcivescovo Aubri de Humbert che pose la prima pietra della costruzione. Il labirinto fu distrutto nel XVIII secolo dal canonico Jacquemart perché gli dava fastidio l'uso giocoso che ne facevano i bambini i quali, durante le funzioni sacre, cercavano di seguirne gli intrichi, per fini evidentemente perversi.»
Postilla: torno un attimo al primo personaggio di questo articolo per autocitarmi, stavolta scherzosamente e sempre in omaggio al senso dell’umorismo di Eco. Dopo aver letto tutto questo, se avete avuto la pazienza, potete forse immaginare il mio sorriso sarcastico quando, la sera del 14 marzo 2013, dopo l’elezione di Papa Francesco, venuto a conoscenza del suo nome completo (Jorge Maria Bergoglio) l’ho salutato sui social network con la frase (che chissà in quanti avranno capito):
“Felice notte, venerabile Jorge”
Alessandro Borgogno
Il nome della rosa (prima edizione 1980, Bompiani)
ALESSANDRO BORGOGNO
Vivo e lavoro a Roma, dove sono nato il 5 dicembre del 1965. Il mio percorso formativo è alquanto tortuoso: ho frequentato il liceo artistico e poi la facoltà di scienze biologiche, ho conseguito poi attestati professionali come programmatore e come fotoreporter. Lavoro in un’azienda di informatica e consulenza come Project Manager. Dal padre veneto ho ereditato la riservatezza e la sincerità delle genti dolomitiche e dalla madre lo spirito partigiano della resistenza e la cultura millenaria e il cosmopolitismo della città eterna. Ho molte passioni: l’arte, la natura, i viaggi, la storia, la musica, il cinema, la fotografia, la scrittura. Ho pubblicato molti racconti e alcuni libri, fra i quali “Il Genio e L’Architetto” (dedicato a Bernini e Borromini) e “Mi fai Specie” (dialoghi evoluzionistici su quanto gli uomini avrebbero da imparare dagli animali) con L’Erudita Editrice e Manifesto Libri. Collaboro con diversi blog di viaggi, fotografia e argomenti vari. Le mie foto hanno vinto più di un concorso e sono state pubblicate su testate e network nazionali ed anche esposte al MACRO di Roma. Anche alcuni miei cortometraggi sono stati selezionati e proiettati in festival cinematografici e concorsi. Cerco spesso di mettere tutte queste cose insieme, e magari qualche volta esagero.