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L'uomo misterioso del Montefeltro e la sua Dimora Filosofale

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Un nome, quello di Sassocorvaro, che alle orecchie dei più suonerà del tutto nuovo. Non che la ridente cittadina marchigiana sia totalmente estranea al turismo: anche qui il placido scorrere della vita di paese viene infatti di tanto in tanto ravvivato dalla comparsa di qualche viso sconosciuto. Volti, questi, che appartengono a visitatori accorsi in questo splendido angolo dell’antico ducato urbinate per vedere che effetto fa trovarsi faccia a faccia con il protettore degli innamorati. O con le anime dannate che si dice si vadano a sommare alle altre 3500 che popolano l’abitato. Se non sono pochi coloro che vorrebbero i resti di San Valentino riposare proprio a Sassocorvaro (e tra i sostenitori di questa tesi figurano anche autorevoli esponenti della Chiesa), non di meno sono le persone che giurano di aver udito gemiti e pianti, di natura inspiegabile, nei pressi della locale Porta delle Coste. Lamenti che parrebbero rinnovarsi nella notte di ogni 26 agosto. E questa data è piuttosto curiosa, perché proprio il 26 agosto 1446 il borgo fu teatro di cruenti scontri tra truppe malatestiane e feltresche, scontri che sfociarono nel saccheggio più scellerato e nella devastazione totale del luogo.
Porta delle Coste

Ma non è ancora finita, perché la tradizione colloca entro la rocca cittadina ben due spettri. Il primo sarebbe quello di Corrado Cariati, detto ‘il gobbo’ per via della sua particolare conformazione fisica, vittima di una congiura dei Malatesta; il secondo quello di Elisabetta Valentini, accusata di tradimento e uccisa a colpi di pugnale dal marito. 
Ma queste, signori, non sono che leggende, una sorta di gossip medievale che viene buono tutt’oggi per far una pubblicità efficace, semplice, immediata. Il vero, potente mistero della fortezza sassocorvarese, nella realtà dei fatti, è sconosciuto ai più. E oggi, grazie all’aiuto di alcune rare pubblicazioni (e a quello ancor più prezioso di Silvano Tiberi, Emanuele Fabbri e Adriano Morganti) cercheremo di gettare nuova luce su questi segreti oscuri, capaci di riscrivere - almeno in parte - la storia di un intero Ducato. E non solo di quello. 
Ma per comprendere bene il tutto, e la sua importanza, occorre partire da lontano. Ovvero da quel 7 giugno 1422 che vide riempire il fortilizio di Petroia (Gubbio) degli strilli di un nuovo nato: Federico da Montefeltro. Se, parlando dei natali del futuro Duca, conosciamo con precisione il dove e il quando, meno certezze ci riserva la storia circa il chi ne fossero realmente i genitori. 
I libri dati alle stampe fino qualche decennio fa raccontavano che la venuta al mondo di Federico fosse da attribuire all’unione, avvenuta fuori dal matrimonio, del Conte d’Urbino Guidantonio con una non meglio precisata nobildonna. Più recentemente, tuttavia, ha fatto la sua comparsa una nuova ipotesi, la più accreditata e verosimile, che vorrebbe Federico nipote e non figlio del Signore urbinate. Si pensa, infatti, che siano stati Aura (lei sì, figlia del conte) e il condottiero Bernardino degli Ubaldini della Carda a generare il piccolo, poi fatto riconoscere per garantire ai Montefeltro una discendenza atta a continuare ad esercitare il potere sullo Stato feltresco. 
Bene. Ora spostiamo in avanti le lancette dell’orologio d’una trentina d’anni e trasferiamoci a Urbino, in quella città culla del Rinascimento governata proprio da Federico. Gli appassionati d’arte non avranno difficoltà nel rintracciare il numero 2 in diverse opere del periodo, specie in quelle che raccontano il potere. D’altra parte, anche nel luogo simbolo della città, vale a dire Palazzo Ducale, il due è espresso in modo chiaro e lampante: i due torricini, appunto. 
Rimaniamo per un momento a Palazzo, e concentriamoci sul bassorilievo di Francesco di Giorgio Martini, conservato al suo interno, dove sono ritratte due figure (due, di nuovo). Una, quella con alle spalle elementi tipici della guerra, è sicuramente Federico. Dietro l’altro personaggio, sconosciuto, compaiono due libri. Ora appare lecito e sensato domandarsi chi sia quest’uomo e che ha a che fare con i volumi.
La lunetta attribuita a Francesco di Giorgio

Fino a non molto tempo addietro, affianco del lavoro scolpito dal maestro senese campeggiava la didascalia ‘Federico da Montefeltro e il suo segretario’. La stringata descrizione dell’opera ha tuttavia avuto vita brevissima: gli studiosi non hanno tardato a comparare la lunetta martiniana con altri lavori in cui il Duca veniva immortalato assieme a uno dei suoi sottoposti e a notare come ogni volta il signore d’Urbino venisse ritratto più su, guardando cioè l’altro dall’alto al basso.  E allora chi è il tizio che fissa il grande condottiero e mecenate dritto negli occhi senza il benché minimo timore? E i libri che ha di lato cosa vogliono significare? Presto detto. Aura e Bernardino ebbero un altro figlio: Ottaviano. E’ lui il nostro uomo. Ma chi era Ottaviano degli Ubaldini della Carda? Anzitutto occorre dire che attorno alla sua figura è calato un silenzio assordante, un oblio durato oltre cinque secoli e interrotto soltanto nel 1982, quando lo studioso Luigi Michelini Tocci rinvenne su di lui alcuni preziosi documenti (decisivo per la riscoperta e la divulgazione delle gesta di Ottaviano sarà anche il lavoro di Andrea Aromatico). Senza voler entrare nel dettaglio della curiosissima vita dell’Ubaldini, mi limito a dire che era un uomo – a differenza di Federico - molto schivo e riservato, dalla cultura impressionante. Egli era attratto da ogni forma di sapere e rivolgeva l’attenzione dei suoi studi in modo particolare verso discipline come la filosofia, l’astrologia (nell’accezione antica del termine) e l’alchimia. Fu l’essere gran conoscitore di pratiche esoteriche a valergli la sinistra fama di mago.Sia come sia, queste informazioni sono già sufficienti per comprendere i libri presenti nel bassorilievo: quello aperto starebbe a indicare la cultura destinata ai più, quello chiuso il sapere riservato unicamente agli eletti. Due uomini, dunque, due fratelli, Dioscuri che si guardano negli occhi, entrambi forti di competenze diversissime eppure complementari, indispensabili per il governo di uno Stato. E poi due torricini, bellissimi e di pari altezza. Ed esattamente in mezzo a questi, la fiera e nobile aquila feltresca, simbolo per eccellenza del Ducato.
Siamo sicuri che in tutte le opere in cui c'entra il potere il Duca d’Urbino abbia voluto ricordare il fratello per semplice gratitudine? E ancora, è possibile che Ottaviano fosse solamente Conte di Mercatello sul Metauro e vice di Federico … o c’è di più?
No, la tesi che sto seguendo non vuole spingersi fino ad affermare che a regnare su Urbino fosse una diarchia riconosciuta. Benché personalità di spicco come Leon Battista Alberti e il Cardinal Bessarione indirizzassero le loro missive ‘ai due Principi dell’Umbria’ (il riferimento è a Gubbio, città che conobbe i natali di ambedue), è indubbio che il Governo fosse, almeno ufficialmente, nelle mani del Duca. Di sicuro, però, Ottaviano degli Ubaldini della Carda fu personaggio molto, molto più influente di come siamo abituati a credere.
Per quanto l’argomento si presti a differenti suggestioni, la questione è un’altra, e le domande si moltiplicano: come mai la storia ha letteralmente cancellato un uomo così importante, vera anima della corte urbinate e, conseguentemente, del Rinascimento? Che il suo ricordo fosse più pericoloso di quello di Federico stesso? Che lo studioso e alchimista avesse scoperto un qualcosa di così sconvolgente da dover essere con ogni mezzo occultato? E chi aveva da perdere da tale nuovo sapere qualora esso fosse stato rivelato?
Forse il tornare a posare gli occhi sulla rocca di Sassocorvaro potrà aiutarci nella nostra indagine. 

IN VIAGGIO TRA GLI INDICIBILI SEGRETI DELLA ROCCA ESOTERICA D’ITALIA

Sassocorvaro, posto com’è a metà strada tra le capitali feltresca e malatestiana, è certamente castello strategico. Di più, è la porta di Urbino. Ecco perché Federico non ha pensato di affidarlo ad altri che a Ottaviano. 
Lascia riflettere il fatto che il progettista della rocca - costruita nell’ultimo quarto del XV secolo - fosse Francesco di Giorgio, celebre per essere talento insuperato nell’architettura militare e, assieme, per l’uso ricorrente di forme circolari (il cerchio è un classico esempio di elemento esoterico, il cui significato certo non poteva sfuggire all’Ubaldini). 
Il fortilizio, in effetti, riassume curiosamente nelle sue linee le personalità di ambedue i principi. E’ bombata, massiccia e le superfici aggettanti (ben diverse da quelle piatte, tipiche delle fortezze medievali) sembrano venire incontro, aggredire chi si appresta ad attaccarla. Non solo, la costruzione è la prima pensata per resistere ai colpi delle nuove, devastanti armi: le bombarde. Se Federico fosse stato fatto di pietra, cari miei, probabilmente avrebbe l’aspetto di questa rocca.
Ma, come vedremo, l’edificio ha molto anche di Ottaviano. Anzi, sono state probabilmente le incessanti richieste di modifica da parte del Conte-alchimista a spingere l’architetto senese a disconoscere la magnifica creazione sassocorvarese. L’Ubaldini infatti non si accontentò di aver per le mani un formidabile maniero, era sua ferma intenzione farne una Dimora Filosofale. Un centro di cultura, di ricerca scientifica e spirituale. Di più, egli ha utilizzato la costruzione come carta, imprimendovi un messaggio per contemporanei e posteri. Ovviamente, lo ha fatto alla sua maniera.
Rocca di Sassocorvaro

Giunti a questo punto del discorso, e prima di addentrarci nei simboli che formano le lettere dell’insegnamento lasciatoci da Ottaviano degli Ubaldini della Carda, è bene fare una precisazione. Oggi, in modo quasi automatico, facciamo coincidere le pratiche esoteriche con società segrete, con un qualcosa di molto simile alla stregoneria; le leghiamo a messaggi bisbigliati, a informazioni da celare a tutti i costi. In effetti, il nostro modo di vedere la cosa non è completamente privo di senso: è tuttavia con l’avvento della Controriforma che le idee un tantino più controcorrente sono state costrette ad abbandonare la strada maestra per diffondersi unicamente attraverso sentieri tortuosi e oscuri. L’origine di tanto timore è chiaro: l’inquisizione. Ma i tempi in cui visse Ottaviano erano, seppur di poco, precedenti alla Riforma della Chiesa. Certo, anche allora i pensieri più innovativi non erano compresi da tutti, ma non venivano nascosti. Anzi, i simboli che li rappresentavano e riassumevano venivano messi in luce più che mai, perché comunque solo gli eletti, solamente coloro che disponevano dei giusti occhi per osservare e delle giuste orecchie per udire, ne avrebbero percepito – prima ancora del significato – la presenza. 

A CACCIA DI SIMBOLI, IN CERCA DEL MESSAGGIO 

Nemmeno il Mingucci, uno dei più noti pittori locali, riuscì due secoli più tardi a cogliere l’esistere di un simbolo enorme, e ritrasse la Rocca con fattezze simili – perdonate l’assenza di poesia - a quelle di un pandoro. Ma l’edificio ha poco a che spartire con la famosa leccornia natalizia: la sua forma è quella di una tartaruga, animale che negli ambienti esoterici riassume i concetti di forza e di durevolezza. Argomenti, questi, che a saperli identificativi del fortilizio avranno certo inorgoglito il guerriero Federico da Montefeltro.
Pianta della rocca di Sassocorvaro

La verità, però, è che la tartaruga si presta a una lettura ancora più profonda, e richiama niente meno che la Grande Triade. Abbiamo già detto dell’uno e del due, eccoci allora narrare del numero 3: la corazza ricurva è sinonimo di cielo, la piatta pavimentazione della terra. E in mezzo l’animale, non da intendersi come testuggine, ma come Uomo. Non è ancora tutto. La corazza della tartaruga è dura, resistente, apparentemente impenetrabile. Chi dispone tuttavia di tenacia, intelletto e amore per la fatica riuscirà prima o poi a scalfirla, e a raggiungere ciò di cui va in cerca.  Adesso, se pensiamo che la Rocca, oltre ad assolvere le normali funzioni guerresche, era sede di una scuola (da intendersi non certo ‘di base’, ma orientata a divulgare ‘un sapere superiore’), ne consegue che il premio per l’abnegazione è la conoscenza. Sì, è il momento di dirlo: se è vero che i segreti che ammantano la pietra filosofale sono apparentemente impenetrabili (come il guscio della tartaruga?), che la medesima pietra dei filosofi è sostanza per eccellenza capace di risanare la corruzione della materia (trasformandola in un qualcosa di immateriale come, appunto, la conoscenza?), allora, forse, guardando il fortilizio ubaldinesco non ci troviamo in altro posto che dinnanzi la pietra filosofale di Ottaviano. Qualcuno si starà già domandando che ne è della più straordinaria proprietà tipicamente attribuita alla pietra dei filosofi, l’immortalità. Per arrivarci è però necessario definire meglio il concetto di conoscenza proprio del Conte-alchimista: di sicuro non si fa riferimento alle pratiche tipiche d’un prestigiatore, e nemmeno alle capacità magiche degli stregoni. Conoscenza, per Ottaviano, significava l’aver colto due tipi di sapere: quello scientifico e quello spirituale. L’immagine sottostante propone sezioni della Rocca e del Guggenheim Museum di New York. Confrontando le due strutture risulta evidente come il celebre architetto Frank L. Wright abbia tratto ispirazione, per quella che diverrà una delle architetture più note del XX secolo, dal fortilizio martiniano ideato cinquecento anni prima. Ma le somiglianze tra le due costruzioni non si esauriscono qui: l’interno del museo statunitense è composto da una grande spirale che riproduce, più in grande, la scala a chiocciola che conduce al piano nobile della rocca sassocorvarese.
L’immagine propone sezioni della Rocca e del Guggenheim Museum di New York. Confrontando le due strutture risulta evidente come il celebre architetto Frank L. Wright abbia tratto ispirazione, per quella che diverrà una delle architetture più note del XX secolo, dal fortilizio martiniano ideato cinquecento anni prima. Ma le somiglianze tra le due costruzioni non si esauriscono qui: l’interno del museo statunitense è composto da una grande spirale che riproduce, più in grande, la scala a chiocciola che conduce al piano nobile della rocca sassocorvarese.

Eccoci arrivati al numero 4, il quale rappresenta tanto il corporeo quanto l’incorporeo, esattamente come i quattro elementi: Terra, Acqua, Aria, Fuoco. I primi due sono del mondo terreno e si possono indagare con l’acquisito sapere scientifico; i restanti appartengono a quello celeste o, appunto, spirituale. Ora, è piuttosto curioso che i cordoli marcapiano siano quattro, mentre i piani solamente due. Ci troviamo, in tutta evidenza, al cospetto di un simbolo. I marcapiano non fanno altro che riassumere l’ascesa dell’uomo verso il mondo ultraterreno, passando prima per gli elementi terreni (terra e acqua) per arrivare poi a quelli celesti (aria e fuoco). Un’ascesa dalla Materia allo Spirito, insomma, dove ciò che è materiale si può deteriorare, è oscuro, può morire… Ciò che è spirituale, di contro, è luminoso e immortale. Va da sé, che a quattro cordoli debbano corrispondere cinque fascioni. E il numero 5 nel linguaggio esoterico racconta (ancora una volta) dell’Uomo posto a metà tra cielo e terra. Inoltre, la medesima cifra ribadisce il concetto dell’ascesa. 
Osservando le mura emergono altri elementi interessanti. 
Il livello più basso è in pietra, mentre gli altri in laterizio. In effetti, per vivere una vita ordinaria all’uomo sono sufficienti le doti lui proprie per il semplice fatto d’esistere (la pietra si trova già in natura); il mattone che si incontra salendo dice invece dell’ingegno umano, dell’ascesa verso una più elevata conoscenza. Ancora un appunto: i fascioni non presentano tutti la medesima ampiezza, ma più si sale più questi si restringono. Molti sono i chiamati, pochi gli eletti. 

NEL VENTRE DELLA TESTUGGINE 

Bene, è arrivato il momento di varcare la soglia che conduce all’interno del peculiare edificio e di dare avvio al nostro ‘percorso iniziatico’, all’ascesa che conduce dalle tenebre alla luce. Un viaggio che, signori, è tutto volto alla riscoperta dell’Uomo. Se l’aspetto esteriore della Rocca esprime l’aggressività e l’impenetrabilità proprie di un luogo nato per la guerra, l’interno è tutt’altra cosa. Due passi appena e ci troviamo nel ‘Primo Cortile’. Sorprendentemente, quello che ci si para davanti non è un vasto spazio aperto ricolmo di macchine da guerra e buono per ospitare una qualche adunata… ma la facciata di un nobile palazzo. E’ la Dimora della Conoscenza, nata per essere la Casa dell’Uomo. Se poi alziamo lo sguardo fino a spingerlo dove le circolari mura della fortezza e la piatta facciata della dimora smettono di essere, noteremo uno spicchio di cielo piccolo e lontano: quella è la nostra meta finale, meta ora così distante da sembrare irraggiungibile.
Lo spicchio di cielo che, lontanissimo, si fa largo tra la facciata del Palazzo e le mura esterne di difesa

Imbocchiamo poi la via in salita dell’androne, un tunnel coperto da una volta. A metà del passaggio troviamo gli spogliatoi dove, da bravi iniziati, lasciamo armi, vesti lussuose, titoli nobiliari e addobbi militari in favore di un’umile tunica. Completata la vestizione, eccoci riprendere il percorso fino a raggiungere il ‘Cortile d’Onore’.Qui, per il semplice fatto di aver abbandonato il superfluo (ad esserci avvicinati al nostro essere più semplice e intimo) e di non esserci tirati in dietro di fronte alla fatica della salita, vediamo comparire sopra le nostre teste un cielo molto più ampio e vicino. Tuttavia non ancora abbastanza prossimo per essere afferrato: per acquisire il vero sapere è necessario salire ulteriormente. E in effetti, a margine del cortile c’è una scala a chiocciola. Una scala molto particolare: è un bivio. A sinistra troviamo una discesa buia, dal lato opposto una salita che nelle ore diurne riceve molta luce. Saremmo naturalmente portati a salire, ma nel farlo faremmo la figura degli stolti. D’altra parte, solo le menti più sciocche rifiutano il dubbio.
Un'immagine della peculiare scala
  
La direzione da prendere è quella che fende le tenebre e che conduce a una porticina bassissima, detta ‘Porta dell’Umiltà’ perché per oltrepassarla è necessario inchinarsi. Eccoci arrivati nella ‘Cella dei Passi Perduti’, una stanza semibuia che contribuirà a un’ulteriore purificazione: dopo esserci cambiati di veste negli spogliatoi, ci tocca qui di lasciare l’abito mentale, le convinzioni in noi più radicate, la maschera che appartiene ad ognuno e che ci impedisce di osservare il mondo con occhi vergini. Questo è il luogo in cui sottrarre valore all’avere per prepararci all’essere. Solo quando ci sentiremo pronti, solamente quando penseremo di essere entrati in relazione con il nostro io più vero e profondo, potremo abbandonare la cella e cominciare a seguire la luce che inonda la parte ascendente della scala. A proposito, il modo in cui è stata realizzata la scala racconta di un’importante scelta architettonica: si percorre in senso antiorario e ciò significa che in questo elemento ha prevalso la simbologia esoterica a scapito della difendibilità. Chi attacca ha infatti la mano destra libera di muoversi, mentre le spade dei difensori vengono ostacolate nel colpo dalla presenza della parete. Ma dicevamo di simboli… la spirale antioraria rappresenta la ricerca interiore e (di nuovo) l’ascesa, e percorrerla allontana le energie negative.

Ho chiesto al professore Silvano Tiberi, per dare un’idea migliore circa le dimensioni della Porta dell’Umiltà, di accostarvisi.

IL PIANO NOBILE: DENTRO LA DIMORA FILOSOFALE

Al termine del tragitto circolare ci attende una loggetta pensile: siamo arrivati al piano nobile, la vera Dimora della Conoscenza. La vista che di qui si può godere spinge di nuovo a riflettere: la volta celeste è proprio davanti i nostri occhi, assolutamente prossima, più prossima del cortile e del mondo terreno che ci siamo lasciati dietro.Alle estremità della loggetta pensile due porte. Esse conducono a stanze quasi identiche (chiamate vani solari), quasi l’una fosse l’immagine riflessa della sorella nel lavoro d’uno specchio. Mentre i maestri ascesi prendono a destra, noi iniziati varchiamo la soglia di sinistra. Dove siamo capitati? Nella prima Sala della Conoscenza, quella del sapere accessibile a chiunque (ti ricordi il libro aperto nella lunetta di Francesco di Giorgio?). Qui, subito, una luce molto intensa ci accoglie, una luce che filtra da ben sei finestre. Di nuovo un simbolo? Sì. Il numero 6 evoca la prova iniziatica, la volontà attiva di elevarsi spiritualmente. Oggi troviamo questa stanza piena soltanto del rumore dei nostri passi, ma un tempo doveva contenere una biblioteca zeppa di volumi inerenti discipline umanistiche e scientifiche. Completata con pazienza e dedizione questa fase di apprendimento del ‘sapere umano’, veniamo messi di fronte a due porte e una scelta. Se ci accontentiamo della conoscenza fin qui acquisita apriremo la porta di destra che conduce nella ‘Sede dello Spirito’, altrimenti varcheremo la soglia di sinistra che porta al sapere più profondo, quello del libro chiuso, dell’indagine spirituale e dei pochi eletti: il secondo vano solare. Ma prima di accedervi è necessario percorrere un lungo corridoio circolare. Non lo faremo tuttavia da soli, bensì in compagnia di un maestro che ci metterà in guardia sull’enorme responsabilità che comporta il possedere la conoscenza delle cose dello Spirito.
Il primo Vano Solare con le due porte

I più attenti avranno notato che il nostro percorso all’interno del piano nobile della rocca, percorso teso alla ricerca del sapere, ricalca la forma di un otto, simbolo di infinito, di immenso, come la conoscenza mai del tutto raggiungibile.
Tanto per chi proviene dal primo vano solare, quanto per chi arriva dal secondo, è possibile entrare in contatto con i Maestri Ascesi presso la Sede dello Spirito, i quali si renderanno disponibili nell’aiuto e nell’approfondimento. 
Troviamo, adiacenti alla Sede dello Spirito, cinque piccoli locali. Uno di questi doveva essere lo studiolo di Ottaviano, luogo dove questi si ritirava per studiare. Oggi non c’è più traccia della biblioteca del conte-alchimista, è sparito persino il libro che più di altri era capace di darne una definizione precisa: il Corano. Proprio il testo sacro all’Islam ci dice di un Ottaviano degli Ubaldini della Carda abbastanza potente e ardito da procurarselo in pieno XV secolo, di un uomo sufficientemente libero e indipendente da apprendere l’arabo per poterne godere gli insegnamenti senza sottostare alle censure e ai non richiesti punti di vista espressi dai traduttori.
Ma sappiamo con esattezza quale delle cinque stanze era riservata a Ottaviano? Sì, ce lo racconta – per l’ennesima volta - un simbolo, l’immagine dell’uomo fogliato (meglio conosciuto come Green Man) scolpita su di un camino. Questo personaggio arriva dritto dritto dalla cultura celtica e sue rappresentazioni in Italia sono rarissime. Nella cultura nord europea questo viso circondato da foglie esprime il legame inscindibile tra uomo e natura, rappresenta la primavera e l’arrivo della nuova stagione, il ritorno della vita. La lettura che ne ha dato il conte, probabilmente, è riconducibile alla rinascita dell’Uomo dopo che questi ha oltrepassato le tenebre e raggiunto la Luce dello Spirito.
A quanti si stanno chiedendo che c’azzecca l’Ubaldini con l’uomo fogliato suggerisco di gettare uno sguardo all’incisione voluta da Ottaviano e conservata presso il Palazzo Ducale di Urbania (una copia è presente anche presso la rocca). Qui, al centro della rappresentazione, vediamo lo stemma di famiglia (la testa di cervo) e, attorno una composizione che di nuovo vede apparire il medesimo animale… le cui corna diventano rami e, in mezzo al fogliame, ecco far capolino il Green Man. Sorprendente, no?
L’immagine soprastante si compone dello stemma fatto realizzare da Ottaviano (la foto è riferibile alla copia presente nella rocca) e, in basso, la porzione di camino fregiata del Green Man

CONCLUSIONE

A cosa è dovuta allora questa sorta di Damnatio Memoriae in cui sembra essere incorsa la figura di Ottaviano degli Ubaldini? Pensiamoci bene. La Controriforma è alle porte, gli inquisitori affilano già i loro temibili strumenti. Può il ricordo di un essere umano che solo pochi anni prima affermava la grandezza dell’Uomo, la possibilità di questi di ascendere e avvicinarsi – per mezzo dell’abnegazione - al sapere celeste e a Dio senza l’intermediazione di altri suoi simili, essere in qualche modo tollerato dalla Chiesa del XVI secolo? E, soprattutto, quale ruolo avrebbero avuto vescovi, papi e cardinali in un mondo dove l’Uomo risulta capace di leggere e interpretare autonomamente la parola di Dio?
Per saperne di più sui luoghi e sulle storie della Provincia di Pesaro e Urbino puoi, se ti va, venirmi a trovare su www.ilfederico.com

Marco Toccacieli 

BIBLIOGRAFIA 
S. TIBERI – La Rocca Ubaldinesca Enigma di Architettura – Leardini, 2017 

AA.VV – Ottaviano Ubaldini – Edizioni L’Alfiere, 1998 

L. MICHELINI TOCCI – Storia di un mago e di cento castelli – Cassa di Risparmio di Pesaro, 1986


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