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Acoma Pueblo, la città del cielo

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Gennaio 1998, in una notte senza luna mentre la comunità ispanica di Alcalde nel New Mexico celebra il 400° anniversario del primo insediamento spagnolo nell'ovest americano, un gruppo di indiani Pueblo - Acoma si avvicina furtivamente alla statua di bronzo del primo conquistador, Don Juan de Onate, segandogli il piede destro, stivale staffa e sperone compresi. Al gesto vandalico segue una pubblica dichiarazione dei responsabili ai notiziari locali, perché tutti finalmente conoscano quale infamia gli antichi abitanti della “città del cielo” subirono dal governatore spagnolo nel 1598. Gesti analoghi proseguono negli anni, l’ultimo dei quali l’8 settembre 2017 sulla medesima statua, il cui piede è stato cosparso di vernice rossa indelebile. Perché? 

Juan de Oñatey Salazar nacque nel 1550 a Zacatecas, frontiera settentrionale del Messico spagnolo. Figlio di un ricco encomendero proprietario di diverse miniere d’argento, si distinse in gioventù nelle campagne militari contro le popolazioni Chichimec del nord, incoraggiato dal padre a reclutare schiavi indigeni per le numerose miniere di prezioso metallo che il deserto nordamericano offriva, nonché spronato a cercare gloria e potere dalla splendida sposa Isabel de Tolosa Cortés de Moctezuma, nipote del potente conquistador Hernan Cortes e diretta discendente dell’imperatore azteco Montezuma II. L’occasione arrivò il 21 settembre 1595, allorquando Filippo II d’Asburgo, re di Spagna Portogallo e Algarve, di Sicilia e di Sardegna, gli ordinò d’insediarsi come governatore e capitano generale nei selvaggi territori a nord dell’alta valle del Rio Grande, dopo aver ricevuto notizie dai frati francescani circa il loro crescente lavoro missionario nella zona. A quell’epoca infatti la politica di spietata colonizzazione che la Spagna sosteneva nel Nuovo Mondo mostrava il duplice aspetto della “spada” e della “croce”. Il potere temporale del Vicerè cavalcava dai domini messicani verso nord attraversando il “camino real”, deciso – secondo uno schema ormai collaudato da cento anni di invasione – a piegare senza pietà le popolazioni native al giogo europeo, per poi organizzare, amministrare e difendere le nuove colonie con l’aiuto (e spesso l’ingerenza) del potere religioso, incarnato dal commissario apostolico di Santa Romana Chiesa il quale, attraverso le comunità di frati che accompagnavano e talvolta precedevano le truppe,mirava a convertire, battezzare e cacciare il maligno dalle anime perdute dei miti e stanziali indiani Pueblo, estendendo se possibile la buona novella anche ai bellicosi nomadi di confine: Querècho dell’est, Apache Jicarilla del nord e Navajo dell’ovest.Per Don Juan de Onate il compito si presentava tutt’altro che scontato, fino a quel momento infatti la “tierra nueva” del nord risultava di difficile conquista, ogni metro di terreno insediato costava immani sacrifici, inesorabili e ripetute delusioni per i conquistatori con l’armatura e con il saio: avventurieri in armi annientati, tentativi di evangelizzazione e di colonizzazione abortiti, sogni di ricchezza svaniti. Un bilancio triste e desolante per la superbia spagnola che, dopo essersi appropriata di altri eldoradi, ora si trovava prostrata. Da parte indiana il quadro era ancora più tetro: torturati dal fuoco, dalla spada e dall’archibugio, storpiati ed amputati dagli aguzzini, centinaia di morti, schiavi di ogni età e sesso, villaggi incendiati, un’economia di sussistenza devastata, un intero sviluppo culturale bloccato e una popolazione esasperata.
Don Juan, nel maggio 1598, alla testa di 130 soldati barbuti ed armati, seguiti da preti, famiglie e servi che facevano salire il numero a 400 persone, raggiunse il Rio Grande incontrando i primi villaggi Pueblo. La popolazione nativa doveva essere spaventatissima, non solo per le barbe e per le armature dei cavalieri, ma anche e soprattutto per gli oltre 150 cavalli (animale fino ad allora sconosciuto) uniti ai 62 carri che si muovevano pesantemente tirati da buoi, con al seguito greggi di 7.000 animali domestici tra cui 3.000 pecore da lana, 1.000 montoni e 1.000 capre. La colonia che stava per nascere come provincia della “Nueva Espana de Santa Fe de Nuevo México” stabilì la propria sede nel luglio dello stesso anno fondando il suo primo avamposto, la Villa de San Gabriel (25 miglia a nord del sito dove a breve sarebbe sorta anche la città di Santa Fe) estendendo così il “camino real” di oltre 600 miglia in terre sconosciute. In attesa del lento arrivo della carovana dei coloni, Oñate esplorò l'area circostante e solidificò la sua posizione. Alcuni esploratori si mossero a est, spostandosi oltre il pueblo di Pecos verso l'attuale confine con il Texas; probabilmente raggiunsero le sorgenti del Canadian River, 25 miglia a nordovest dell'attuale città di Amarillo. Un altro gruppo di spagnoli arrivò persino alle montagne San Francisco, in Arizona, dove trovarono miniere d'argento che rivendicarono immediatamente come proprietà del regno di Spagna. Anche i francescani, guidati dal frate commissario Alonso Martínez, si diedero da fare iniziando a reclutare le anime indigene per costruire due missioni a San Francisco (Arizona) e San Juan. Oñate invece, nel percorrere con alcune guide le aride terre ad ovest si imbatté inizialmente in alcuni villaggi Hopi e Zuni, fino a scoprire il magnifico pueblo Acoma: “la città del cielo”. Il pueblo degli indiani Acoma (il cui nome nell’idioma nativo significa popolo della roccia bianca) costruito tra il 1.100 ed il 1.250 d.c. in posizione strategica sulla cima di una mesa di pietra arenaria per difendersi dai predoni nomadi Apache e Navajo, era accessibile solamente tramite una ripida e stretta scalinata scolpita nella roccia. A don Juan de Onate doveva essere subito sembrato il luogo perfetto, inaccessibile e nello stesso tempo in grado di dominare la fertile valle sottostante, coltivata e sapientemente irrigata dagli indigeni. Per secoli il popolo Acoma vi aveva svolto anche commerci, non solo con i pueblos vicini, ma addirittura con le lontane popolazioni Azteche e Maya. In realtà la città del cielo era già stata avvistata dal conquistador Francisco Vasquez de Coronado 60 anni prima, ma questi all’epoca aveva solamente compiti esplorativi a quelle latitudini e, pertanto, preferì mantenere pacifici contatti con i locali per il tempo strettamente necessario alla propria permanenza.
Questa volta invece la situazione era ben diversa, don Juan era stato autorizzato dalla corona a colonizzare quella sconfinata terra, ad accettare la sottomissione degli indiani e a fare in modo che, per il bene delle loro anime, essi rendessero omaggio al re di Spagna ed al Dio cristiano. La maggior parte dei pueblo capitolò quasi subito ai nuovi venuti ma i circa 6.000 indiani Acoma, i fieri abitanti della città del cielo, invece, non lo fecero. Il loro capo Zutacapan infatti si sentiva in posizione vantaggiosa, sospettava che gli spagnoli non si sarebbero accontentati di propagandare le loro verità,temendo che il vero intento fosse piuttosto quello di conquistare la roccaforte per farne un’importante base strategica. Tuttavia il capo indiano evitò di irrigidire troppo le proprie posizioni, accettando di negoziare una soluzione pacifica che avrebbe accontentato entrambe le parti. Il 4 dicembre 1598, il neo-governatore coloniale de Onate, più deciso a saggiare le capacità difensive degli indigeni piuttosto che a trattarne i buoni rapporti di vicinato, inviò alla città del cielo il nipote capitano Juan de Zaldivar, alla testa di un drappello di 11 soldati, con l’ordine di trattare i contatti tra i due gruppi. I conquistadores vennero accolti inizialmente in modo amichevole ed ospitale, rifocillati con acqua, mais e tacchini, tanto che Zaldivar mandò un esploratore a controllare un vicino lago salato descritto dagli indiani Zuni, nonché alcuni giacimenti d’argento che erano stati segnalati in zona da alcuni pastori Hopi. Non è chiaro cosa sia successo ad un certo punto: alcune fonti indiane sostengono che il capitano spagnolo decise di requisire buona parte del grano depositato nei magazzini, necessario alla guarnigione spagnola appena giunta ma indispensabile anche per la sopravvivenza della tribù durante l'inverno; altre riferiscono che, nel corso dei prolungati colloqui tra Zaldivar e Zutacapan, un soldato si sia spinto addirittura a violentare una giovane indiana. Fatto sta che le due fazioni divennero improvvisamente ostili generando una furiosa e incontrollata reazione dei padroni di casa: gli Acoma quel giorno attaccarono i soldati uccidendoli tutti, compreso il nipote del governatore. La risposta di Onate non si fece attendere: il 21 gennaio 1599 il fratello del capitano trucidato, Vicente de Zaldivar, al comando di 70 cavalieri bene armati ed equipaggiati, raggiunse i piedi della mesa ove sorgeva la roccaforte, bloccandone ogni via di fuga.
Gli Acoma resistettero all’assedio per tre giorni, ma nulla poterono pietre, frecce e lance quando l’ufficiale spagnolo ordinò di sparare sul villaggio con un cannone posizionato su uno spuntone roccioso adiacente la mesa. Il massacro era iniziatoe sarebbe continuato per ore. I conquistadores, dopo aver incendiato e distrutto il pueblo a cannonate, fecero irruzione e passarono a fil di spada, tra le pietre diroccate della “città del cielo”, oltre 500 guerrieri e circa 300 tra donne e bambini. Il governatore era deciso a dare un esempio della potenza spagnola a tutte le popolazioni circostanti, per cui oltre 500 sopravvissuti furono deportati in catene fino al pueblo di Santo Domingo (ora noto come il pueblo di Kewa) per essere processati pubblicamente e costituire così un chiaro monito per chiunque avesse covato sentimenti di ribellione. A seguito di un preciso decreto di condanna ogni prigioniero Acoma maschio di età superiore ai 25 anni doveva subire l’amputazione del piede destro ed essere ridotto in schiavitù per un periodo di almeno 20 anni, i maschi e le femmine tra i 12 e i 25 anni dovevano essere resi schiavi anch’essi per 20 anni, mentre tutti i bambini sotto i 12 anni sarebbero stati strappati ai genitori e affidati ai missionari spagnoli per essere cresciuti nella vera fede. In realtà,nella considerazione che uno schiavo zoppo valeva meno di uno schiavo sano, pare che la condanna dell’amputazione venne applicata solo a 24 indiani, mentre la maggior parte dei prigionieri di ogni età e sesso, nei mesi successivi, fu venduta ai commercianti di schiavi oppure dispersa tra le varie dimore di funzionari governativi e nelle missioni dei francescani. Circa 60 giovani ragazze Acoma, dichiarate non colpevoli dei reati di resistenza armata, furono trasferite a Città del Messico per essere trattenute nei vari conventi cattolici. A due indiani Hopi catturati durante la battaglia furono dapprima tagliate le mani e poi, liberati, fu ordinato di recarsi in ogni villaggio della zona per testimoniare ciò che era capitato al popolo Acoma per essersi ribellato alla corona spagnola. Ma l’azione di forza non ebbe i risultati sperati, anzi, nonostante i rinforzi armati inviati dal Messico verso la fine dell’anno 1600, le difficoltà nella gestione della colonia si accentuarono perché, a fronte della temporanea sottomissione di alcune tribù stanziali di Pueblo, Zuni e Hopi, restavano incessanti e sanguinose le scorrerie degli indiani nomadi, in prevalenza Apache e Navajo, bellicosi e non propensi in alcun modo a sottomettersi. Tali precarie condizioni di vita, unite alle difficoltà nel mantenere un adeguato raccolto a causa dell’aridità della terra, spinsero le famiglie coloniche ad abbandonare in massa gli avamposti per tornare a sud. Anche i soldati disertavano numerosi diffondendo notizie sul fallimento della colonia del Nuevo Mexico, tanto che il governo avviò presto un'indagine su ciò che stava accadendo, compreso il trattamento riservato da Onate agli indiani Acoma. Nel 1606 il nuovo re di Spagna Filippo III convocò Oñate a Città del Messico, sollevandolo in via preliminare dall’incarico di governatore coloniale. Nel 1613 don Juan Onate fu processato e accusato di varie violazioni tra cui l'uso eccessivo della forza durante la ribellione Acoma, l'impiccagione di due indiani, l'esecuzione di ammutinati e disertori e infine fu anche ritenuto colpevole del reato di adulterio. Multato e bandito a vita dalle colonie, Oñate tornò in Spagna ove morì nel 1626.
Nel frattempo gli spagnoli, come “gesto di pace” finalizzato a normalizzare e cristianizzare gli indiani Acoma, ricostruirono la “città del cielo” (anzi la fecero ricostruire agli stessi nativi) insediandovi la missione di San Estéban del Rey, che comprendeva una chiesa, un convento e un cimitero. Sotto la guida di frate Juan Ramirez il pueblo fu completato nel 1640 con l’intento di costituirne il centro della riconciliazione tra popoli indigeni ed europei. In verità i continui abusi di potere da parte di autorità religiose e politiche portarono dopo diversi anni alla grande rivolta dei pueblo (1680) allorquando circa 17.000 mila indiani, inclusi 6.000 guerrieri, superando le ataviche inimicizie con i vicini Navajo si coalizzarono insorgendo contro i circa 3.000 coloni, attaccarono le fattorie massacrando in poco tempo intere famiglie di spagnoli. La città del cielo fu temporaneamente riconquistata dai rivoltosi e 22 dei 33 frati presenti furono bruciati vivi sul posto. La chiesa fu però risparmiata e ancora oggi rappresenta una delle poche missioni spagnole seicentesche rimaste intatte negli Stati Uniti. L’odio e la violenza nell’area però erano tutt’altro che terminati, la riconquista degli avamposti spagnoli era solo rimandata e gli scontri sarebbero proseguiti per molto tempo con le scorrerie dei temibili Navajo, i continui contrasti e divisioni tra Stato spagnolo e Chiesa cattolica, spesso antagonisti tra loro nell’accaparrarsi le “anime” dei nativi e gestirne i destini terreni. Gli scontri crebbero in misura ancora maggiore nel XIX secolo, con la fuga degli spagnoli ed il contestuale arrivo dei coloni anglosassoni, fino allo scontro finale con la nascente Nazione Americana. Il villaggio di Acoma resta oggi, insieme alla città Hopi di Oraibi, il più antico insediamento abitato degli Stati Uniti e la tribù indiana degli Acoma Pueblo, riconosciuta a livello federale, possiede un territorio che copre 431.664 acri e ospita 4.800 membri tribali. Meno di 50 famiglie occupano ancora le antiche rovine della “città del cielo”. Alcune di loro praticano l’antica religione. Alcune di loro non hanno dimenticato.
"Infine, se la causa della guerra è la pace universale, o la pace nel suo regno, egli [il principe cristiano] può giustamente dichiarare guerra e distruggere ogni ostacolo sulla via della pace fino a quando essa non viene effettivamente raggiunta".(dichiarazione difensiva di padre Alonso Martinez circa il massacro degli Acoma Pueblo). 

Sergio Amendolia

Approfondimenti




Bibliografia
BeatrizBraniff C. – La civiltà del deserto americano – Jaca Book; 

H.Teiwes / W.Lindig – Il mondo dei Navajo – Jaca Book; 

J.L.Rielipeyrout – Storia dei Navajo (1540-1996) – CDE; 

R.M.Underhill – I Navajo, popolo della terra – Mursia. 

Sitografia






SERGIO AMENDOLIA
Nato 55 anni fa a Genova, sposato con 2 figli, 2 gatti e un cane, ho sempre guardato con stupore l'orizzonte e tutto ciò che quella linea rappresenta e contiene, convinto che dove il cielo finisce si celano sempre spazi e tempi lontani, spesso inesplorati o conosciuti poco e male. Forse per questo mi attira l'impostazione di questo blog ed i veli della Storia che gli articolisti provano spesso a sollevare, perché conoscere è importante e aiuta a capire ciò che siamo e come lo siamo diventati. Oltre alla nostra bella Italia ed alla sua impareggiabile ricchezza di arte e storia, mi affascinano molto gli scenari mozzafiato dell'Ovest Americano. In questi ultimi anni ne ho percorsi alcuni, ancora una volta cercando di varcare orizzonti i cui contorni sfuggono in continuazione, dimensioni che ho provato a malapena ad intuire nei volti dei nativi che ancora oggi si incontrano nelle riserve: a volte duri, scolpiti e aridi come i monoliti di arenaria rossa, probabilmente gli unici in grado di metabolizzare la sensazione di infinito che pervade quelle terre lontane. Per questo mi piace, quando il tempo libero me lo permette, collaborare con riviste e pagine web, tentando di approfondire le vicende che hanno caratterizzato la storia di quei popoli d'oltreoceano, in particolare l'epopea del West, con un occhio particolare agli uomini e alle donne che la vissero davvero, fuori dai luoghi comuni e dai grandi miti costruiti da Hollywood.

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