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John Clarence Woods, il boia dei nazisti

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Dal 20 novembre 1945 al 01 ottobre 1946 la città tedesca di Norimberga fu teatro dei processi contro i nazisti catturati dagli alleati.
Si tentò di fare giustizia e di punire i colpevoli di quello che agli occhi del mondo fu il massacro di un numero, per qui giorni, ancora imprecisato di persone.
Un uomo a Norimberga fu sotto gli occhi dei riflettori, nonostante non fosse in cerca di notorietà. Il suo nome era John Clarence Woods.
Ai più questo nome può non dire nulla. Per molti nel 1946 lui fu il boia di Norimberga.
Nato a Wichita il 5 giugno 1911, il sergente maggiore Woods fu scelto per eseguire materialmente le condanne alla pena capitale di 11 dei 16 gerarchi nazisti che il tribunale militare internazionale aveva condannato a morte per impiccagione.
Woods non era come gli altri soldati. Era sciatto, trasandato, obbediva malvolentieri alle regole dei superiori, non si curava. Chi lo conobbe di persona, come il soldato Obermayer, un americano di origini ebree, lo descriveva come un “robusto trentacinquenne del Kansas”, con le scarpe sporche, la barba incolta e la divisa trasandata. Incontrandolo durante il giorno, ci si chiedeva se avesse dormito vestito tanto era trascurato il suo aspetto. Perfino le sue mostrine erano cucite male, con un solo punto di filo giallo agli angoli. Il suo aspetto fisico lo rendeva “idoneo” per vestire i panni del boia: denti gialli e storti, sporco, fiato pesante da ex alcolista. Insomma, nel complesso, la persona più adatta per accompagnare i condannati nei loro ultimi istanti di vita.
Woods si sentiva onorato di quel ruolo, fortunato per quell’opportunità. Odiava profondamente e sinceramente quegli uomini che si erano macchiati di crimi orrendi contro l’umanità.
Il suo ghigno sinistro li avrebbe traghettati all’inferno.
A Norimberga non arrivò da boia inesperto. A lui fu affidato, durante la guerra, il compito di giustiziare i soldati americani che si macchiavano di omicidio o stupro. Intervistato dopo i fatti di Norimberga, dichiarò, con fierezza, di aver giustiziato 347 persone durante 15 anni di carriera.
Il suo incarico prevedeva anche la costruzione dei patiboli necessari per l’esecuzione. La questione doveva essere chiusa velocemente, per dare all’opinione pubblica ciò che si aspettava: giustizia.
Alle prime luci dell’alba del 16 ottobre 1946 tutto era pronto.
Il sergente maggiore Woods era emozionato, la storia lo avrebbe ricordato come l’uomo che aveva giustiziato alcuni fra gli individui più spietati di quel tempo. Solo una notizia aveva guastato l’armonia di quel giorno: durante la notte il generale Herman Göering si era tolto la vita nella cella in cui era detenuto in attesa di morire, ingoiando una pillola di cianuro. Non voleva subire l’onta infamante dell’impiccagione, lui che era un soldato pluridecorato avrebbe accettato di morire solo per mano di un plotone di esecuzione. Così facendo, aveva tolto al boia il piacere di vederlo penzolare dalla forca, lui che era l’attore principale di quella chermes.
Woods entrò nella palestra in cui la sera prima alcuni suoi commilitoni avevano giocato a basket .
Davanti a lui si ergevano 3 palchi in legno tinteggiati di nero. Ne avrebbe utilizzati solo due alternativamente, assistito dal soldato di origine italo americana Josef Malta, tenendo il terzo di scorta. Ciascun palco aveva 13 scalini, come da tradizione americana, che conducevano ad una botola sopra la quale penzolava un cappio appeso alle travi del soffitto. La parte sotto della botola era chiusa su tre lati da assi di legno e sul quarto da una tenda nera, per ostacolare la visione degli ultimi istanti di vita dell’impiccato.
Dall’Inghilterra erano arrivato un pacco speciale, contenente 40 corde in canapa italiana, ognuna di 3 metri e 10 centimetri di lunghezza. Erano state fatte a mano, a partire dal mese di maggio, da un artigiano che riforniva da oltre 30 anni il boia d’Inghilterra. Il cappio era ricoperto di pelle di vitello, per rendere il nodo più scorrevole e per evitare abrasioni al collo del condannato. Ciascuna corda richiedeva circa 6 giorni di lavorazione.
Ore 1 e 11 minuti. Il primo a entrare non fu Göering come avrebbe voluto il sergente maggiore. Il primo a salire al patibolo fu Joachim von Ribbentrop, ministro degli esteri del Reich. Dopo poche parole d’amore verso la sua patria, Woods gli coprì il capo con un cappuccio nero e, senza troppi convenevoli, tirò la leva della botola. In pochi istanti tutto finì. Nessuna emozione traspariva dal volto del boia.
Dopo di lui entrò il feldmaresciallo Wilhelm Keitel, che andò incontro alla morte con la fierezza tipica del soldato, senza esitare e senza manifestare pentimento. Tutto si svolse nel silenzio. Non disse una parola.
Pausa. Per fumare, per stemperare la tensione e permettere ai medici di constatare il decesso dei due uomini. Woods poté tagliare i cappi e far portare via i cadaveri.
Tutti seduti, pronti a ricominciare.
Fu la volta di Ernst Kaltenbrunner, prima capo delle SS in Austria, poi numero 1 dell’ufficio centrale dell’RSHA, agenzia che controllava lo sterminio di massa, i campi di concentramento e tutti gli organi di persecuzione nazista. In sintesi colui che dava ordini al super ricercato Adolf Eichmann, sfuggito alla cattura, e a Rudolf Höss, che, arrestato dagli inglesi, stava raccogliendo le proprie memorie da “nazista inconsapevole di ciò che aveva fatto”, davanti ad un’altra commissione d’inchiesta. Ancora una volta il sergente maggiore coprì il capo al condannato e tirò la leva.
Il corpo di Kaltenbrunner ancora penzolava dal cappio quando entrò in palestra Alfred Rosenberg, uno fra i primi membri del partito nazista. Non disse una parola, ma si fece accompagnare da un cappellano protestante, nonostante si professasse ateo. Forse aveva paura di morire.
Pausa. Wood faceva il suo lavoro mal celando un pizzico di soddisfazione. Disprezzava quegli uomini, ciò che avevano fatto, ciò che rappresentavano. Il mondo sarebbe stato un posto migliore senza di loro, anche se quelle esecuzioni non avrebbero cancellato anni di leggi razziali che avevano distrutto milioni di vite.
La Germania stessa sarebbe stata migliore, nonostante se il processo di denazificazione fosse ben lontano dal compiersi.
Spente le sigarette, tutti presero posto.
Nella palestra entrò Hans Frank, governatore della Polonia occupata. Fece il suo ingresso sorridendo, non perché si prendeva gioco di chi lo aveva condannato, ma perché si sentiva sollevato all’idea di morire. Era pentito. Pochi minuti dopo accanto a lui penzolò Wilhelm Frick, ministro degli interni del Führer, che morì dicendo «…lunga vita eterna Germania!».
Ore 2 e 12 minuti. Entrò Julius Streicher, direttore del settimanale illustrato nazista Der Stùrmer. Il primo numero fu pubblicato il 20 aprile 1923. Arrivò in breve tempo ad una tiratura di quasi 500.000 copie, diffondendo con violenza e volgarità idee antisemite.
Qualcosa in quel momento cambiò. L’espressione di Woods cambiò, ma pochi se ne resero conto.
Streicher era conosciuto come un uomo violento, energico. Arrivato a metà della scaletta in legno ebbe un tentennamento, le gambe cedettero di fronte alla visione del boia. Gridò «Heil Hitler!», un urlo che raggelò la sala. Woods fu contento di aspettarlo alla fine di quei 13 gradini, era li che lo voleva vedere. Le sue ultime parole, prima di essere incappucciato, furono per la moglie Adele, che amava profondamente.
Il boia le udì. Tirò la leva con forza e lo guardò sorridendo mentre cadeva nel vuoto. Precipitando l’uomo cominciò a scalciare, probabilmente perché era stato legato male. La corda si tese e lui prese ad oscillare, emettendo gemiti di dolore e un gorgoglio sinistro. Istanti, sembravano infiniti. Streicher non moriva. Il sergente maggiore sapeva cosa fare, scese le scale, entrò dietro la tenda nera e i gemiti cessarono. Un testimone dichiarò in una intervista successiva che con piacere il soldato aveva posto fine alle sofferenze del condannato, infatti, uscendo dalla tenda sorrideva.
Ma cosa era andato storto? Fu un incidente? Una distrazione?
Interpellato durante un’inchiesta successiva sullo svolgimento delle impiccagioni, il tenente Stanley Tilles, presente in palestra come coordinatore, dichiarò che secondo lui Woods aveva allentato di proposito il cappio destinato a Streicher, in modo che non gli spezzasse il collo e che patisse una lunga e lenta agonia.
Da quel momento si verificarono una serie di piccoli incidenti, frutto della fretta, oppure del caso che si accaniva contro i condannati, oppure opera della mano sapiente di boia dispettoso che si voleva accanire contro alcuni fra gli uomini più spietati che il ‘900 conobbe.
La giornata si chiuse con le ultime tre esecuzioni.
Fritz Sauckel, generale plenipotenziario del lavoro, responsabile dell’organizzazione delle attività produttive nei campi di concentramento, salì al patibolo urlando «… muoio da uomo innocente, che Dio protegga la Germania!» In un istante la botola si aprì e l’uomo cominciò a gemere rumorosamente mentre penzolava appeso al cappio.
Il penultimo a morire fu Alfred Jodl. Nonostante le sue divergenze con Hitler, che lo avevano relegato ad una posizione marginale, Jodl rimase fedele al Reich. Morì con fierezza, senza rimpiangere nulla. Woods accanto a lui lo guardò con disprezzo esalare l’ultimo respiro. La sua agonia, secondo alcuni, durò 18 minuti.
L’ultima impiccagione fu quella di Arthur Seyss-Inquart, commissario del Reich nei Paesi Bassi. Davanti al boia si professò uomo innocente, vittima degli eventi che lo avevano travolto.
Alle 2 e 45 minuti del 16 ottobre 1946, 10 degli 11 condannati a morte del primo processo di Norimberga erano morti. Woods era visibilmente soddisfatto. Serenamente dichiarò, ad un giornalista presente «10 in 103 minuti… un lavoro perfetto…».
L’undicesimo condannato, Herman Göering, entrò in palestra steso su una barella, indossando un pigiama in seta nero, scalzo, il volto ancora contratto dagli spasmi causati dal veleno. Il boia lo guardò sfilare sotto i suoi occhi, gli era sfuggito.
In una intervista rilasciata ala rivista Stars and Strips, Woods dichiarò che tutto il lavoro era stato fatto con precisione e senza intoppi. Il suo unico rammarico fu il suicidio di Göering.
L’opinione dei presenti non era del tutto concorde. Qualcosa era andato storto in alcune esecuzioni.
Si ipotizzò che le cadute fossero state mal calcolate, che i condannati non fossero stati legati in modo corretto e che perfino le dimensioni della botola fossero insufficienti a tal punto che alcuni, cadendo, sbatterono violentemente la testa, provocandosi vistose ferite sanguinanti. Le foto dell’epoca mostrano alcuni volti insanguinati.
Non tutto filò liscio, questo è certo. Woods svolse il suo dovere a Norimberga in modo atipico rispetto al ruolo ufficiale di cui era stato investito, creando molti imbarazzi all’opinione pubblica, che mise in dubbio l’opportunità di quelle esecuzioni. Dare giustizia dopo la Shoah era un obbligo morale. Ma questo sentimento lasciò ben presto spazio all’opportunità economica, alle ragioni di stato e al desiderio di chiudere un capito molto doloroso della storia contemporanea mondiale.
Il mondo era ben lontano dall’avere la pace e la serenità che anelava; all’orizzonte si profilava una nuova minaccia, proveniente dall’est, che spaventava molto di più dei criminali nazisti disseminati per tutto il mondo e protetti da una fitta rete di prestigiosi e ricchi appoggi.
E lo scomodo sergente maggiore John Clarence Woods? Morì il 21 luglio 1950 in un incidente a Enewetak, folgorato dal contatto con una linea elettrica ad alto voltaggio che stava manutenendo, rimanendo nella memoria come colui che giustiziò 10 fra i più spietati assassini del Reich, uno lo mancò per un soffio.

Rosella Reali

Bibliografia
Nagorsri Andrew, Sulle tracce dei criminali nazisti, Newton Compton Editori, 2016

Tusa Anna e John, De Nuremberg trial, Atheneum, 1984

Denhart Jeffrey, Filles Stanley, By the neck until dead: the gallows of Nuremberg, Jona Books, 1999

ROSELLA REALI
Sono nata nel marzo del 1971 a Domodossola, attualmente provincia del VCO. Mi piace viaggiare, adoro la natura e gli animali. L'Ossola è il solo posto che posso chiamare casa. Mi piace cucinare e leggere gialli. Solo solare, sorrido sempre e guardo il mondo con gli occhi curiosi tipici dei bambini. Adoro i vecchi film anni '50 e la bicicletta è parte di me, non me ne separo mai. Da grande aprirò un agriturismo dove coltiverò l'orto e alleverò animali. 
Chi mi aiuterà? Ovviamente gli altri viaggiatori.
Questa avventura con i viaggiatori ignoranti? Un viaggio che spero non finisca mai...

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