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L'Olocausto sulle figurine. La storia di Anna Frank

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In questi giorni TG e giornali hanno parlato diffusamente di me e dell’uso improprio che alcuni tifosi ultras di una squadra di calcio di serie A hanno fatto della mia foto. Non capisco come si possa associare la mia diafana immagine di adolescente  a quella di qualche nerboruto e urlante tifoso moderno.
Sono morta 72 anni fa nel campo di sterminio di Bergen-Belsen a soli 16 anni, dopo 5 mesi di internamento, uccisa da una epidemia di tifo esantematico. Il mio nome è Annalies Marie Frank, ma tutti mi conoscete come Anna.
Sono una delle tante vittime della folle politica antisemita attuata dal partito nazista tedesco.
In seguito alla promulgazione delle leggi di Norimberga del 15 settembre 1935, la situazione per la comunità ebraica in Germania, ed in seguito in tutta Europa, è diventata molto complessa. Sono leggi fatte apposta per salvaguardare la purezza della razza ariana e discriminare tutti coloro che non possono essere considerati tedeschi di almeno quarta generazione. I più colpiti sono rom, omosessuali, portatori di handicap ed ebrei.
Ero piccola quando mi sono resa conto che al mia famiglia avrebbe avuto difficoltà nel vivere libera e in pace in quel clima di odio crescente. Ma ero troppo piccola, guardavo il mondo con positività, avevo fiducia negli esseri umani.
La mia famiglia è una come tante. Papà si chiama Otto Heinrich Frank e mamma Edith Holländer. Prima di me è nata mia sorella, di 3 anni più grande, Margot Elisabeth. È bella la mia famiglia, è unita e io sono felice con loro, come dovrebbe esserlo una bambina della mia età. Cresco in un quartiere misto a Francoforte; gioco con bambini cattolici e protestanti. Li chiamo amici. Nel 1933 purtroppo la mia famiglia si divide. Mamma, Margot ed io ci trasferiamo ad Aquisgrana. Papà teme per la nostra vita, dato che le manifestazioni di intolleranza verso gli ebrei sono sempre più frequenti, quasi all’ordine del giorno. Lui rimane  a Francoforte per curare gli affari di famiglia. In seguito si trasferisce nei Paesi Bassi per aprire una società con una persona di fiducia e preparare tutto per il nostro ricongiungimento. Finalmente nel 1934 torniamo a vivere tutti insieme. Ci trasferiamo in un palazzo in Merwedeplein al 37, nel quartiere Rivierenburt, che accoglie in quei giorni molti ebrei di origine tedesca, tutti arrivati con la stessa motivazione: cercare un luogo sicuro in cui vivere. Studio alla scuola pubblica. Adoro leggere e scrivere. Sono felice. Ho molte nuove amiche. Sono una bambina come le altre, ma di origine ebrea.
Nel 1938 papà apre una seconda ditta, con un socio anche lui ebreo. Commercializzano sale da conservazione, erbe e spezie. Tutto sembra andare bene, ma dopo poco tempo arriva una notizia che sconvolge la nostra serenità. Ad Aquisgrana i nazisti confiscano tutti i beni del nonno. La situazione sta peggiorando. Nonna ci raggiunge un anno dopo, viene a vivere con noi ad Amsterdam. Qui starà bene.
In Germania, Austria e Cecoslovacchia, nel frattempo, la situazione per gli ebrei si fa più complicata.
Sento i miei genitori parlare alla sera di ciò che accade in Europa, mentre io e Margot siamo a letto. Mamma spesso dice: «Otto, temo per le nostre vite.» Non capisco cosa sta succedendo, da dove arrivi tutto questo odio verso la comunità ebraica. Abbiamo sempre vissuto in pace, ora è pericoloso camminare per strada.  Mamma e papà dicono che in alcune città gruppi di persone appartenenti al partito nazista hanno incendiato le sinagoghe, profanato i nostri cimiteri, distrutto case e negozi. Parlano di molti morti, oltre 1300, fra omicidi, suicidi, vittime di atti di terrorismo e maltrattamenti, e di deportazioni in campi di concentramento. Parlano, si stringono e piangono. Con me e Margot dicono che è solo un momento, che tutta questa follia si sistemerà presto e torneremo alla nostra vita normale, senza timore di camminare per strada. Io gli credo, so che papà non mi mentirebbe mai.
Arriviamo a settembre del 1939. Scoppia la II guerra mondiale. Tutto sembra ancora lontano, io continuo ad andare a scuola, a giocare con le mie amiche. Papà dice che saremo al sicuro fino a che i Paesi Bassi resteranno neutrali. Nel maggio 1940 l’Olanda è attaccata e occupata dall’esercito tedesco. Il nostro destino è segnato, ma ancora non ce ne rendiamo conto. Nuove leggi restringono ulteriormente la nostra libertà di agire: non posso frequentare nessuno che non sia ebreo, non posso andare al cinema, non posso andare alla scuola pubblica dove sono andata fino a ieri e vedere i miei compagni di sempre. Sono costretta ad andare in una scuola per sole ragazze ebree. Ci costringono ad iscriverci ad un registro anagrafico, con foto e impronte digitali, come se fossimo dei criminali. Sui nostri abiti mamma e nonna devono cucire una grossa stella gialla, che ci distingue dagli altri cittadini, che urla a tutti “ecco, sono ebrea”. Ma non capisco, cosa c’è di male ad esserlo? Papà per proteggere le sue aziende e il nostro futuro, è costretto a cederne la direzione a suoi collaboratori ariani, che sono amici fidati e faranno i nostri interessi. Per lui è un duro colpo, anche se a noi a casa cerca di trasmette serenità. 
Gli anni passano. A gennaio del 1942 nonna muore. Un duro colpo per noi. Era lei che ci accoglieva ogni giorno al rientro da scuola, che ci raccontava le vecchie storie di famiglia, che ci spiegava che essere ebrei non era una cosa di cui vergognarsi, come ci volevano far credere. Sono giorni davvero difficili. Anche il suo funerale è un problema a causa delle leggi razziali.
Il 12 giugno è il giorno del mio tredicesimo compleanno. Tra i regali che ricevo c’è una cosa speciale: un quaderno a quadretti bianco e rosso. Fin da subito so che diventerà il mio diario. Sulle sue pagine  bianche scriverò gli ultimi anni della mia vita, i miei pensieri, le mie paure.
La guerra intanto sconvolge tutta Europa. Le voci sulle leggi raziali diventano sempre più preoccupanti ogni giorno che passa. C’è diffidenza verso tutti, abbiamo paura a girare per strada. Mamma e papà temono che da un momento all’altro la  Gestapo ci  possa arrestare. Non capisco per quale motivo, non facciamo nulla di male, siamo ebrei non mostri.
Papà a nostra insaputa, per non allarmarci, prepara un nascondiglio per tutta la famiglia nel retro di una delle sue ditte. È un edificio anonimo in Prinsengracht 263, che potrà consentirci, se servirà, di rimanere nascosti. Ha seguito il consiglio di un amico, preoccupato dell’inasprirsi delle leggi raziali. Quella sarebbe diventata la nostra nuova casa: 50 m², un bagno, due camere e un sottotetto. Tutto nascosto da una libreria che fa da porta alla nostra “tana”. Nonostante le difficoltà quotidiane, ci sentiamo molto fortunati. Possiamo contare sull’aiuto di alcuni collaboratori di papà, che si stringono attorno a noi per proteggerci, rischiando la propria vita. È quasi tutto pronto, quando il 5 luglio Margot riceve una lettera che getta tutti nel panico: l’Ufficio Centrale per l’emigrazione ebraica ad Amsterdam la invita a recarsi alla loro sede ai fini della “deportazione in un campo di lavoro”. In casa cala il gelo. Se Margot non si presenterà entro pochi giorni, tutta la famiglia verrà arrestata e deportata. Papà guarda mamma negli occhi pieni di lacrime e dice: « Prendi lo stretto necessario. Prepariamoci per andare via domani.»
Il 6 luglio siamo spariti, per tutti, con tutti, senza dire nulla, senza salutare nessuno. Non è un addio, è un arrivederci, quando sarà finito tutto torneremo a casa, alla routine di tutti i giorni. Oggi però è il nostro primo giorno di clandestinità. Pochi giorni da soli e ci raggiunge un’altra famiglia, i van Pels, che condividerà il nascondiglio con noi.  Qualche mese dopo arriva il signor Fritz Pfeffer, dentista amico di famiglia. Divideremo la stanza. Ora siamo al completo. Papà dice che rimarremo qui segregati poche settimane, al massimo qualche mese. Non immagina che quelle mura saranno il nostro rifugio per più di 2 anni, che saranno l’ultima casa per la nostra famiglia.  Io sono quella più contenta fra gli abitanti del rifugio. Posso annotare sul mio diario tutto  ciò che accade, i miei pensieri, i discorsi, le speranze di ciascuno di noi.
La vita qui dentro non è facile, dobbiamo ogni giorno stare attenti a non fare rumore, per non essere scoperti; se qualcuno che non deve sapere della nostra esistenza  si accorgesse che siamo nascosti, potrebbe denunciarci e sarebbe la fine per noi. Sembriamo topolini in gabbia, non è facile mantenere l’armonia fra di noi, gli spazi da condividere sono limitati, a volte mi sembra di soffocare. Mamma ed io litighiamo spesso.
Non sopporto la sua malinconia, la sua negatività. Io ho fiducia nel fatto che tutto si sistemerà. Quando tornerò a casa potrò raccontare la mia avventure  agli amici di scuola. Sarà divertente vedere la loro reazione.
Ogni giorno possiamo contare sui nostri aiutanti che ci portano viveri e tutto ciò che ci può servire. All’ora di pranzo ci aggiornano sugli eventi della guerra. È  Miep Gies a farlo, la segretaria di papà.  È tanto gentile e porta sempre un grazioso cappellino quando viene da noi, cammina con passo veloce, ci abbraccia. Ci sono giorni in cui sorride apertamente, altri in cui il suo sorriso non va d’accordo con la tristezza dei suoi occhi. Io me ne accorgo, ma è inutile dirlo agli adulti. Siamo già abbastanza in tensione.
La sera quando tutti i lavoratori vanno a casa, usciamo nel cortile interno dell’edificio principale e ascoltiamo la radio che passa le novità della guerra, sempre più preoccupanti. Il 17 luglio arriva la notizia che il primo treno carico di ebrei è partito per Auschwitz. Non sapevamo che ce ne sarebbero stati molti altri.
Il tempo passa lento. Leggo molto, osservo i miei compagni si avventura, do a ciascuno di loro un soprannome, annoto sul diario tutto ciò che mi passa per la testa. Siamo chiusi qui dentro da oltre un anno. Papà si è sbagliato circa la nostra permanenza qui, è molto più lunga del previsto. In tutta Europa gli ebrei vengono rastrellati, arrestati e portati nei campi di lavoro. Voci sempre più insistenti parlano di una ricompensa per chi denuncia la presenza di ebrei nascosti o sotto falsa identità. Una taglia vera e propria. Sento mamma e papà  che ne parlano spesso, temono i delatori. Viviamo come fantasmi, paralizzati dalla paura di essere scoperti.
È il 4 agosto 1944, un giorno che pensavo come tanti quando mi sono alzata. Verso le 10 del mattino sento delle urla  provenire dal cortile interno dell’edificio, voci concitate e passi pesanti che fanno tremare le pareti del nostro rifugio. Papà  ci fa segno di stare zitti. Trattengo il fiato. Margot piange in silenzio. Siamo tutti in una stanza, stretti, immersi nel terrore.
Qualcuno sposta la libreria. È la fine. Uomini in divisa, con i mitra in mano, fanno irruzione nella stanza. È la Gestapo. Ci arrestano tutti, compresi due dei nostri aiutanti, Kugler e Kleiman, che non riescono a fuggire. Gli altri sono tutti in  salvo, anche Miep. Sarà lei a trovare il mio diario, a consegnarlo a papà insieme ad altre carte trovate nell’alloggio segreto. Ho tanta paura, mi stringo forte al braccio di papà, che mi guarda e mi rincuora. Ma so che le sue sono solo parole. Povero papà, ha fatto di tutto per proteggerci, per tenerci uniti. Ora l’odio di qualcuno ci sta distruggendo. Ci portano al quartier generale della SD per interrogarci e poi alla prigione di Weteringschans, dove rimaniamo per 3 giorni. L’8 agosto ci portano ad un campo di smistamento e da li, 2 giorni dopo al campo di Westerbork, dove ci dividono da papà. Non lo rivedrò mai più.
In quel posto facciamo lavori molto duri, ci considerano come criminali perché abbiamo vissuto nascosti. Corpo e spirito sono fiaccati. Mi sento persa senza papà. Qualche tempo dopo ci separano anche da mamma. L’ultimo ricordo che ho di lei è il suo sguardo vitreo, i suoi occhi inespressivi e la bocca a forma di o, paralizzata in un silenzioso urlo che solo io e mia sorella possiamo sentire. Mamma si è lasciata morire a gennaio del 1945, consumata come una candela, annientata dal dolore per aver perso il suo bene più prezioso: le sue figlie. Per fortuna Margot ed io restiamo insieme. Ci sosteniamo a vicenda.
Ci trasferiscono a Bergen-Belsen. Da lì non usciremo mai. L’inverno rigido e impietoso ci ha indebolito molto. Le notti, stese sulle tavole di legno che chiamiamo letti, sono lunghe e dolorose. Quando mi addormento sogno papà, mi manca molto, sogno casa nostra, mamma in cucina, nonna fuori in giardino a sistemare le sue rose. Mi sembra di sentirne il profumo, Margot è accanto a me, dorme e si lascia andare, cerca di fuggire anche lei da questa baracca gelata, dall’odore di morte, dai lamenti delle donne senza nome accanto a noi. Margot si è addormentata anche quella notte, l’ultima insieme. Il tifo se l’è portata via. Mi sembra di sentire il suo respiro sempre più lento, mi sembra di vederla volare via, sopra la miseria e l’inumanità di queste mura. Forse immagino tutto, ho la febbre alta. Tre giorni dopo tocca a me volare via. Ora sono libera. Niente più soffitta, niente più stella gialla sui vestiti. Posso camminare per strada senza paura, mangiare il gelato, vedere le mie amiche.
Papà ce l’ha fatta. È tornato a casa, solo. Noi siamo rimaste prigioniere della morte e del delirio di un popolo che voleva affermare con la violenza la sua superiorità sul mondo. Resta il quadernino bianco e rosso a cui ho affidato la mia giovinezza. Oggi mi strumentalizzano, come un vessillo di scherno, non capendo o non sapendo il significato della mia morte, della sofferenza di un popolo condannato alla cancellazione dalla follia di qualcuno. Chi mi esibisce allo stadio, chi chiede scusa mettendo in scena una pagliacciata per salvare la faccia, chi urla frasi di odio, dovrebbe solo ricordare che io, Anna Frank, ero una ragazzina come tante, con sogni, incertezze, desideri e paure. Ero solo una ragazzina ebrea di nascita.

Rosella Reali

ROSELLA REALI
Sono nata nel marzo del 1971 a Domodossola, attualmente provincia del VCO.  Mi piace viaggiare, adoro la natura e gli animali. L'Ossola è il solo posto che posso chiamare casa. Mi piace cucinare e leggere gialli. Solo solare, sorrido sempre e guardo il mondo con gli occhi curiosi tipici dei bambini. Adoro i vecchi film anni '50 e la bicicletta è parte di me, non me ne separo mai.  Da grande aprirò un agriturismo dove coltiverò l'orto e alleverò animali. 
Chi mi aiuterà?Ovviamente gli altri viaggiatori.
Questa avventura con i viaggiatori ignoranti? Un viaggio che spero non finisca mai...


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