Lo spirito del tatanka aleggiava sulla pianura. Dal grande cerchio del villaggio l’anziano Sakem cominciò a ripetere "I-ni-la"… non era necessario dire altro, gli uomini sapevano di dover preparare senza un fiato le loro armi, le madri avrebbero evitato di far piangere i neonati, i cavalli non avrebbero nitrito e i cani avrebbero smesso di abbaiare. Magicamente. Per tutta la notte.
Luther Orso in Piedi (1868-1939) figlio del Capo Lakota Brulè George Orso in Piedi, nacque e visse fino all’età di 11 anni in una riserva Sioux del South Dakota, venendone poi sradicato per essere mandato presso la scuola indiana di Carlisle in Pennsylvania con lo scopo di assimilare gli usi ed i costumi della società bianca. Da adulto, divenuto a sua volta insegnante ma anche filosofo e scrittore, nel ricordare quel periodo di ricondizionamento forzato disse "Anche mentre imparavo tutto quello che potevo sulla cultura dell'uomo bianco, non ho mai dimenticato la mia gente, i suoi usi e costumi". Agli inizi del 20° secolo, Orso in Piedi si distinse nella lotta per i diritti dei Lakota e per la conservazione del loro patrimonio culturale, lasciando con i suoi numerosi scritti una preziosa testimonianza delle tradizioni orali proprie della cultura degli indiani d’America; ancora oggi le sue memorie vengono spesso richiamate in testi universitari di antropologia, letteratura, storia e filosofia, quale importante eredità della saggezza dei nativi americani. Tra gli aspetti che egli amò spesso porre in evidenza, c’era l’importanza del bufalo americano nella vita del popolo delle pianure prima dell’arrivo dell’uomo bianco. La dipendenza dell’uomo dall’animale era pressoché totale, le tribù vivevano e si spostavano seguendo la pista del bisonte. Ogni sua parte veniva utilizzata per l’alimentazione ma non solo: i pezzi preferiti erano la lingua, le cotolette ed il fegato mangiato caldo, ma si mangiava anche il grasso sotto il muso, la gobba, il cuore, il midollo delle ossa; con l’intestino si facevano degli insaccati. Il resto della carne che veniva trattato per la conservazione si chiamava pemmican: si tagliava la carne a strisce, la si lasciava asciugare al sole per qualche giorno, poi la si riduceva in polvere con l’aggiunta di grasso. Conservato in sacchetti di cuoio, il pemmican poteva essere consumato mesi più tardi. Con le ossa dell’animale l’indiano fabbricava coltelli, punte di frecce, utensili. Con il crine le donne intrecciavano corde per i cavalli, i tendini servivano come filo per cucire, con le corna si fabbricavano cucchiai e piccoli recipienti. Infine le donne trattavano la pelle bagnandola con acqua calda unita al grasso, essiccandola poi al sole per qualche giorno e quindi liberandola dei peli con la cenere; divenuta morbida e leggera, era utilizzata per confezionare capi di vestiario, mocassini, sacche ornate di disegni geometrici in rosso e a ricoprire i tepee. Per questi motivi la caccia al bisonte rappresentava uno dei riti primari nelle popolazioni delle Grandi Pianure Nord-americane. Essa assumeva connotazioni quasi religiose.
Il racconto che segue è stato liberamente tratto dalla descrizione fornita da Orso in Piedi sulla sua prima ed unica caccia al bisonte, da lui vissuta attorno al 1875 nei Territori del Nebraska Occidentale, quando aveva appena 7 anni, inserita poi nel libro “My people the Sioux”, pubblicato nel 1928:
“Finalmente arrivò il giorno in cui mio padre Orso in Piedi mi permise di unirmi a lui per la caccia al bisonte. Ero solo un bambino ed ero molto fiero della grande fiducia, anche perché già dai primi anni di vita, durante le fredde serate accanto al fuoco, egli mi aveva insegnato tutto ciò che avrei dovuto sapere per diventare un buon cacciatore: come costruire un arco e stringarlo, come bilanciare le frecce, sapevo ormai come cavalcare il mio bellissimo pony nero, non importava quanto avrebbe corso veloce, sentivo di essere coraggioso e non temevo il pericolo perché avrei cavalcato fianco a fianco con i migliori cacciatori della tribù. Con loro avrei sentito il terribile rumore delle grandi mandrie in corsa. Gli esploratori avevano spinto una grossa mandria a poche miglia dal villaggio e così la sera precedente c’era nell’aria qualcosa di magico, dai tepee che pur erano in frenetica attività nessun rumore trapelava all’esterno. Lo spirito del tatanka aleggiava sulla pianura. Dal grande cerchio del villaggio l’anziano Sakem cominciò a ripetere "I-ni-la", che nella mia lingua significa state tranquilli, restate in silenzio. Non era necessario dire altro, gli uomini sapevano di dover preparare senza un fiato le loro armi, le madri avrebbero evitato di far piangere i neonati, i cavalli non avrebbero nitrito e i cani avrebbero smesso di abbaiare. Magicamente. Per tutta la notte. Ci sono parole tra il mio popolo che sono comprese anche dagli animali: anche sul terreno di caccia, se un guerriero dice "Aa-ah" piuttosto rapidamente e bruscamente ogni uomo, cavallo e cane si ferma e ascolta. Finché i cacciatori ascoltano, gli animali ascoltano. Anche il vento trattiene per sé i rumori. Il giorno della caccia iniziò all’alba, preparai con orgoglio la mia piccola giumenta nera e, veloce come un daino, mi portai al fianco di mio padre, volevo dimostrargli subito che sapevo cosa fare, che sarebbe stato fiero di me. Raggiungemmo un centinaio circa di cacciatori, i migliori della tribù, davanti a noi cavalcavano due uomini montati su bei cavalli pezzati e muniti di bastoni di frassino: il loro scopo era mantenere l’ordine del gruppo in modo che nessuno avesse la possibilità di portarsi in testa e spaventare i bisonti prima del tempo. Dalla cima di una collina le vedette avvistarono la mandria e studiarono il modo migliore per avvicinarla. Bisognava calcolare le distanze, il terreno, gli odori, era necessario accostarsi al bisonte il più possibile prima di dare inizio alla caccia perché se l’animale si accorge troppo presto del pericolo, corre più del necessario prima di essere abbattuto e la carne diventa coriacea. Sapevo tutte queste cose, mi guardavo attorno eccitato notando che, nell’attesa, qualcuno si legava le trecce dietro la nuca, altri si appendevano le faretre al fianco invece di tenerle sulla schiena per acquisire maggiore libertà di movimento. Nessuno aveva l’acconciatura di penne o portava picche o lance, ogni possibile impedimento doveva essere escluso. Ad un tratto le due guide si voltarono ed urlarono “Ho-ka-he!" che significa: "Pronti, andiamo!", era il segnale che tutti aspettavano.
I cavalieri diedero improvvisamente briglia al cavallo, io spronai felice il mio pony e, subito dopo, mi accorsi che, nel trambusto, avevo già perso di vista mio padre: non era importante perché quello era il mio giorno, gettai via la coperta e mi spinsi velocemente nella mischia. Ho sempre amato cavalcare, ma quella fresca mattina d’autunno era meravigliosa perché l’avevo sognata da tempo: correvo libero nell’erba della grande pianura e non sentivo alcun grido, nessun rumore, solo l’incedere ritmico degli zoccoli dei cavalli ed il fruscio delle loro criniere al vento, per la prima volta nella mia vita vivevo la caccia la bisonte. Ben presto però tutto cambiò: mi trovai all’improvviso nel mezzo di un’immensa nuvola di polvere, dove non vedevo ad un palmo dal mio naso, tutto quello che potevo udire erano i muggiti e il calpestio degli zoccoli dei bisonti, intuivo le loro ombre che mi correvano al fianco con un fragore di tuono. La mia cavalla si imbizzarrì, cominciò a sbandare di qua e di là e io improvvisamente mi accorsi che l’eccitazione iniziale si stava ora trasformando in paura, la sentivo salire dallo stomaco, sempre più su: tornai di colpo ad essere un bambino di 7 anni, non sapevo più cosa fare e mi aggrappai alla criniera chiudendo gli occhi. Fu allora che nella mia mente si fecero prepotentemente strada le parole di mio padre “tieni gli occhi fin da subito bene aperti, ci sarà una grande quantità di polvere, ma una volta che avrai superato quella zona ti ritroverai nell’aria limpida, sarai in grado di vedere tutto chiaramente e allora saprai cosa fare”. Aprii gli occhi e pensai a chi ero, perché mi trovavo lì e cosa dovevo dimostrare, la polvere stava scomparendo e il mio pony sembrava apprezzarlo poiché non cercava più di sgropparmi, rividi finalmente il cielo azzurro mentre mi accorsi che tutto attorno a me l’erba era scomparsa: al suo posto la grande mandria scura mi stava correndo accanto, il rombo degli zoccoli era spaventoso ma io ormai avevo superato il momento di sgomento, le parole di mio padre mi avevano reso di nuovo invincibile. Provai a concentrarmi di nuovo: “… figlio mio ricorda, non perdere mai d’occhio il bisonte che decidi di inseguire, se vedi che continua a correre senza voltarsi indietro, puoi avvicinarlo e avrai molte probabilità di colpirlo al cuore. Ma se invece ti guarda con la coda dell’occhio, stai attento! Sono animali velocissimi e fortissimi, capaci di infilzare le corna nella pancia del cavallo e farlo volare per aria, per te potrebbe essere la fine …” I bisonti si accorsero della mia presenza e iniziarono a correre in due diverse direzioni, era il momento di decidere, scelsi uno dei due branchi e mi lanciai all’inseguimento. Mentre cavalcavo estrassi una freccia e mirai nel fitto dei dorsi. Nulla di fatto. Non sapevo neppure dove fosse finito il dardo e stavo quasi per demotivarmi di nuovo e abbandonare l’impresa, quando mi accorsi che una giovane giovenca correva più piano degli altri: quella vista mi ridiede coraggio perciò spronai di nuovo la cavalla e mi buttai dietro alla bestia. Quando gli arrivai addosso si fermò, si voltò per un attimo verso di me e mi guardò, come se mi stesse aspettando. Poi partì correndo in un’altra direzione, stava però perdendo velocità, non era grossa come gli altri e questo mi rinfrancava: era lei il mio tatanka.
“ … se lo colpisci nel punto giusto può bastarti anche una sola freccia, in caso contrario dovrai usarne altre; controlla la corsa, se il tuo cavallo riesce a stargli vicino mira dietro le ultime costole, potresti arrivare al cuore. Se stai correndo in discesa o sull’argine di un fiume tira invece alla giuntura dell’anca, il tuo bisonte dovrà accosciarsi e tu potrai prendere la sua vita …”, le parole di mio padre erano sempre con me. Ora. Tenendomi saldamente solo sulle gambe incoccai la seconda freccia e scagliai con tutte le mie forze, ero convinto di avere mirato benissimo ma invece il dardo finì nel collo, il bisonte si limitò a scuotere la testa continuando a correre. Spronai ancora e riprovai con un’altra freccia che questa volta trafisse l’animale vicino al cuore. Benché non l’avessi tirata con forza sufficiente per ucciderla sul colpo, vidi che la bufala era indebolita e correva molto più lentamente di prima. Allora estrassi la quarta freccia e tirai. Stavolta la colpii al cuore, me ne accorsi perché prese subito a perdere sangue dal naso. Alla quinta freccia la bestia barcollò e si abbatté sul fianco. Avevo ucciso il mio primo tatanka. Il mio cuore tornò progressivamente a battere in maniera regolare, mi accorsi che ero lontano da tutti gli altri, non avevo amici attorno a me, nessuno che potesse vedermi. Scesi ad esaminare l’animale morto e realizzai che in tutto avevo usato cinque frecce: davvero troppe! Mi ricordai di quando mio padre aveva ucciso due bufali con una sola freccia: colpito il primo al punto giusto si era portato al fianco dell’animale in corsa prima che questi cadesse per affondarla ancora di più e poi estrarla dalla ferita, scartare abilmente la bestia morente e usarla nuovamente per uccidere il secondo bufalo. Stavo dunque lì pensieroso, vergognandomi della mia scarsa abilità di tiratore, quando ad un tratto mi venne l’idea di estrarre tutte le frecce e buttarle via, tranne una. Nessuno se ne sarebbe accorto, sarei stato ammirato e lodato come un grande cacciatore. E già stavo per farlo, quando mi tornò alla mente un rimprovero fattomi una volta da mio padre: “figlio mio, ricordati sempre che un uomo che dice bugie non va a genio a nessuno”. Così, invece di imbrogliare la gente, decisi di dire la verità e mi sentii subito molto meglio. Tolsi le frecce, estrassi il coltello e presi a scuoiare la bufala. Tutto andò a gonfie vele finché tentai di rivoltare l’animale. Sarà pesato almeno duemila libbre (un quintale). Impossibile! Mi ricordai con un sospiro che avevo solo sette anni. Di nuovo non sapevo che fare. Chiusi gli occhi e fu allora che sentii la voce di mio padre in lontananza, mi stava cercando preoccupato per non avermi più visto accanto a lui. Saltai sul pony e mi avvicinai alla collina fin quando fui certo che mi avesse visto, poi girai il cavallo e corsi di nuovo verso la mia preda. Mio padre capì che era successo qualcosa e spronò a sua volta il proprio mustang. Quando egli arrivò gli additai la bufala morta, che giaceva scuoiata a metà. Ricordo come fosse oggi, mio padre era un grande capo guerriero ed un grande cacciatore, alto, forte e coraggioso: la sua espressione preoccupata mutò immediatamente in un ampio sorriso, sembrava compiaciuto. Allora mi feci coraggio e gli raccontai tutto in un solo fiato, gesticolando e mimando tutta l’azione: seppe della mia prima freccia sprecata alla cieca in mezzo al branco, delle altre quattro tirate un po’ approssimativamente. Lui rise, ma sembrava orgoglioso di me. Capii che lo era non solo perché avevo ucciso il mio primo bufalo, ma soprattutto perché avevo detto la verità e non avevo tentato di imbrogliarlo e di mentire, benché fossi ancora un ragazzino.
Poi mio padre si occupò della bufala, con grande perizia la scuoiò completamente e la fece a pezzi, alcuni dei quali li sistemò sulle cavalcature, avvolgendo il resto nella pelle per recuperarlo in un secondo tempo con il “travois” (traino costituito da due pertiche legate ai fianchi del cavallo e unite tra loro con pelli e rami). Prima di partire alla volta del villaggio ci fermammo a ringraziare “il Grande Tatanka”, il maestro dell’invisibile che presiede alla condotta degli uomini, lo pregammo di fare tornare le mandrie in primavera, gli chiedemmo perdono per la sorella uccisa. Non è consuetudine per il mio popolo vantarsi in pubblico, ma appena giunti all’accampamento mio padre chiamò l’anziano della tribù che ricopriva la carica di araldo, perché annunciasse che “Ota Kte” (“uccide molto” diventò il mio nome da ragazzo) aveva abbattuto il suo primo tatanka, e che “Orso in Piedi” suo padre, gli regalava un cavallo. Il vecchio cantò la mia storia a tutta la gente del villaggio, era un canto di lode. Ricordo ancora con emozione quei momenti. E mi sento più orgoglioso di me stesso per aver detto la verità quel giorno a mio padre, più di quanto non lo sia per aver ucciso quella giovane bufala. Questa fu la mia prima e ultima caccia al bisonte, che vive ormai solo nella mia memoria, unitamente ai ricordi della mia gente e a come essa viveva un tempo, prima che finissero i giorni del bisonte.”
A quell’epoca il giovane “Ota Kte” Orso in Piedi non poteva sapere che l’uomo bianco stava pianificando la più grande carneficina di animali della storia dell’umanità: dei circa 60 milioni di bisonti presenti sulle grandi pianure nordamericane agli inizi dell’800, sarebbero sopravvissuti nel 1890 appena 750 esemplari. Un ecocidio.
“Questi uomini (I cacciatori di bisonti) hanno fatto più di quanto sia riuscito a fare l’Esercito negli ultimi trent’anni. Stanno distruggendo i viveri degli indiani … dunque se ambite ad una pace duratura lasciate che uccidano, scuoino e vendano finché il bisonte sarà sterminato. Solo allora le vostre praterie potranno essere popolate di vacche e di esultanti cowboys, che seguiranno i cacciatori come seconda avanguardia di una civiltà più avanzata” (Generale Philip Henry Sheridan in un discorso al Parlamento Texano nel 1875).
Sergio Amendolia
Bibliografia:
Charles Hamilton – Sul sentiero di guerra – scritti e testimonianze degli Indiani d’America – Feltrinelli;
Philippe Jacquin – Storia degli Indiani d’America – Mondadori;
Luther Standing Bear – My people the Sioux – New Edition;
Jeremy Rifkin – Ecocidio – Mondadori.
Sitografia: www. spa.walsingham.org