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Agaro, il paese scomparso ma non dimenticato

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Agaro era il comune più alto e isolato dell’Ossola.
Il luogo della sua edificazione fu scelto molti secoli fa dalle genti Walser provenienti dal vicino Canton Vallese, e più precisamente dalla soleggiata e lussureggiante Valle di Goms, intorno all’VIII secolo. Ma una data precisa per quello che concerne Agaro non l’abbiamo. 
A 1561 metri, stretto fra le montagne, questo piccolo paese era costruito in una conca alluvionale formata dalla confluenza del Rio Topera, del Rio Bionca e del Rio Pojala. Per sette secoli, poco più di 20 famiglie, hanno deciso di condurre la loro vita qui e di chiamare casa questa bellissima vallata, ricca ancora oggi di boschi e vegetazione.
Una vita fatta di tenacia, amore per la terra, lotta contro la natura avversa, sacrifici e isolamento per molti mesi ogni anno.
Pensando agli Agaresi mi viene in mente una sola parola: volontà.
Oggi al posto del comune di Agaro, chi arriva in questa bella vallata trova un lago artificiale dal colore del cielo quando è sereno, un invaso della capacità di 20.000.000 di m³d’acqua, costruito fra il 1936 e il 1940 dalla ditta Umberto Girola, specializzata in grandi opere, l’attuale Salini – Impregilo.
Il progetto, voluto da Edison, fu curato dagli Ingegneri Claudio Marcello e Pietro Marinoni, gli stessi che progettarono e realizzarono la diga di Morasco nel medesimo periodo storico, quello relativo allo sfruttamento idroelettrico dell’Ossola.
Fino all’ultimo giorno gli Agaresi non hanno abbandonato le loro case in pietra e larice, continuando la vita di tutti giorni fra quelle montagne che fino a quel giorno hanno rappresentato una protezione ma anche un ostacolo verso il mondo esterno.
Le prime notizie di Agaro risalgono al 1298.
In un documento del 1515, redatto davanti al governatore della Valle Antigorio, rappresentante della Lega Svizzera, si fa riferimento ad un documento antecedente, risalente appunto al 1298, in cui si dirimeva una questione di confini fra gli uomini di Agaro e Costa da una parte, Baceno e Croveo dall’altra.
Fin da subito si comprende che la terra e i suoi confini per gli Agaresi avevano importanza fondamentale.
Il 10 luglio 1513, a sottolineare l’importanza della proprietà terriera e a regolare altre questioni di vita, Agaro ottenne il suo statuto, in cui il console Pietro Pezio, in accordo con gli uomini tutti di Agaro, chiedeva di poter conservare “i boschi, le biade, il fieno e tutti i possedimenti fino ad allora riconosciuti”.
Lo statuto regolamentava al meglio, per il bene comune, lo sfruttamento di ciascuna proprietà.
Ad esempio per i boschi di Topera, lungo la montagna che sovrastava l’abitato, era stabilito il divieto assoluto di tagliare le piante, “far legna”, perché costituivano una naturale protezione per le case contro le valanghe.
Sempre a salvaguardia della comunità intera, era sancito il divieto di vendere o cedere terreni a persone che non fossero di Agaro. In caso di matrimonio con un “forense”, le donne erano private delle loro terre e dei pascoli, che restavano in famiglia.
Una parte di ciò che veniva coltivato o prodotto era utilizzato per pagare i dazi ai signori locali, che oltre al denaro ricevevano pesce, pernici e formaggio d’alpe, ritenuto fra i più pregiati e saporiti.
Risalendo il vecchio sentiero che partiva da Beola e si inerpicava sulla montagna, si raggiungevano le case di Pioda Calva a 1249 mt e, dall’altra parte del Rio Agaro, quelle di Costa a 1250 mt, due piccoli abitati composti da poche case in sasso e legno, utilizzati dagli Agaresi nei periodi invernali, quando la loro piana veniva sommersa da diversi metri di neve.
Più in alto, a 1427 mt, ma dall’altra parte della montagna, quella che guarda la Valle del Devero, Ausone, situato su una terrazza naturale soleggiata e ricca di pascoli.
La sua origine è fatta risalire più o meno allo stesso periodo di Agaro. Era utilizzato durante l’inverno dagli Agaresi più agiati, anche in questo caso per sfuggire all’isolamento. Con l’andare degli anni Ausone, essendo abitata stabilmente, ottenne un suo statuto.
Risalendo da Costa e Pioda Calva verso la cima della montagna, oggi incontriamo la diga di Agaro. Un tempo si arrivava al piccolo centro di Margone, dove oggi sorge lo sbarramento. Anche da quel punto Agaro era invisibile agli occhi di chi arrivava.
Montagne scoscese, fitte e rigogliose foreste, dietro ad una piccola curva naturale, sorgeva Agaro dopo la sua ultima riedificazione, nel punto in cui il Rio Topera rallentava la sua discesa per iniziare a scorrere nella piana.
Poco più in là il Rio Bionca e il Rio Pojala. Nascosti agli occhi di chi cercava un segno di vita o di attività, vi erano gli alpeggi estivi dove le genti di Agaro si recavano con il bestiame per usufruire dei pascoli d’alta quota: l’Alpe Pojala, l’Alpe Nava, l’Alpe Corteverde, l’Alpe Bionca e l’Alpe Topera.
Tutto attorno le montagne stringevano in un eterno abbraccio questi pascoli ricchi di erbe aromatiche e di fiori dai mille colori, formando una barriera naturale verso l’evolversi del tempo.
La conformazione del territorio non protesse Agaro dalle valanghe e dalle frane, che nell’arco dei secoli costituirono un flagello per questo piccolo centro.
Alcune furono davvero devastanti. Immense quantità di neve si staccarono dal Pizzo Nava e dai fianchi del Rio Topera, per congiungersi e terminare la loro corsa fra le case.
La tradizione racconta che per ben 5 volte l’abitato sia stato distrutto e riedificato. La più imponente di queste valanghe fu nel 1650, quando neve e materiale roccioso rasero al suolo il paese intero.
Gli Agaresi lasciarono la piana? Niente affatto, costruirono le loro case più a sud, in un punto più riparato.
Fortunatamente non ci furono vittime e per gratitudine, essendo molto devoti, decisero ogni anno di celebrare, come festivo, il giorno di San Silvestro, in ricordo di quei tragici momenti. Durante quella notte gli Agaresi si mascheravano con poveri vestiti e, dopo aver simulato una danza, spazzavano via con le scope il vecchio anno. Il giorno dopo, vistiti con gli abiti migliori, accoglievano con una danza festosa il nuovo che arrivava.
L’ultima valanga, tristemente ricordata, risale al febbraio 1888.
Alle 15.00 una imponente slavina distrusse alcune case, una parte dell’oratorio e alcune stalle, uccidendo 3 persone, 16 mucche e altri capi di bestiame.
Molti furono tratti in salvo sotto la neve grazie all’intervento tempestivo di chi rimase illeso.
80.000 lire di danni, una cifra considerevole per l’epoca.
Impossibilitati a trovare questa somma o a ricostruire da soli gli edifici danneggiati, gli Agaresi chiesero aiuto alle autorità civili ed ecclesiastiche, scrivendo direttamente al papa Leone XIII.
Agaro non fu mai parrocchia autonoma. Matrimoni, funerali e battesimi erano celebrati alla chiesa di San Gaudenzio di Baceno.
I defunti, dopo un lungo viaggio fra i sentieri di montagna, erano composti in una parte dedicata del cimitero adiacente alla chiesa, in quella più bassa. Un trasporto lungo e difficile, che comportava ore di cammino per percorrere oltre 700 mt di dislivello, portando a spalle la salma.
Due sono gli oratori presenti nel territorio di Agaro: quello di San Giovanni Battista e quello di Santa Elisabetta, ad Ausone. Entrambi erano utilizzati dagli Agaresi, che poco badavano alla ricchezza dei paramenti e delle suppellettili, pensando di più alla salvezza della loro anima. Anche la poca disponibilità economica contribuiva a rendere essenziali i due luoghi di culto, che per un certo periodo di tempo, si dice, non avessero neppure i vetri. La data precisa della loro edificazione non è tutt’ora nota, ma quello che è certo è che furono abbondantemente utilizzati soprattutto durante il periodo invernale.
I vari parroci che si susseguirono negli anni, mandarono spesso a chiamare gli Agaresi perché frequentassero la messa a Baceno. La risposta fu sempre negativa.
Alcune visite pastorali misero in evidenza, secondo l’autorità ecclesiastica, l’inadeguatezza dei paramenti e dei luoghi di culto utilizzati. Ma le rimostranze vescovili caddero nel nulla; la primitività del sistema di vita e i pochi soldi a disposizione contribuirono a lasciare la situazione immutata.
Gli Agaresi si sentivano abbandonati dalla Chiesa. Da Baceno, il Parroco si faceva vivo solo per il pagamento dei tributi. In caso di necessità, per battesimi ed estreme unzioni, pretendeva il versamento di un extra per la lunga e perigliosa salita. Il malumore crebbe fino al 1616, anno in cui il feudatario Giovanni Marino scrisse una lettera al vescovo di Novara, Ferdinando Taverna, facendosi portavoce di una serie di richieste degli uomini di Agaro. Fra queste una su tutte spiccava: volevano un cappellano che vivesse stabilmente ad Agaro, che celebrasse i sacramenti nel paese e ad Ausone, che insegnasse la dottrina cristiana ai bambini e che parlasse la lingua Walser. Per invogliare un uomo di Dio ad accettare l’incarico, istituirono una dote in denaro successivamente aumentata.
Le avverse condizioni di vita si frapposero nuovamente tra la Chiesa e gli Agaresi.
L’indipendenza di cui godevano si rafforzò maggiormente.
L’isolamento contribuiva.
La loro grande devozione culminava ogni anno con una processione da Agaro ad Antillone, in valle Formazza, attraverso il passo del Muretto a 2350 metri sul livello del mare. Sei ore di cammino all’andata e altrettante al ritorno. Giunti a destinazione, gli uomini scendevano al lago a raccogliere le ninfee, fiore benedetto dalla Madonna, per poi conservarlo fino all’anno successivo appeso sopra la stufa. La processione fu vietata nel 1822 dal cardinale Giuseppe Morozzo. 
Nonostante questo divieto si hanno tracce della suddetta pratica sino al 1930 circa.

Rosella Reali





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