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Piero Zuccheretti, il ragazzo dimenticato di via Rasella

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Il 23 marzo del 1944, 17 partigiani dei gruppi di azione patriottica, comunemente conosciuti come GAP, guidati da Rosario Bentivegna, fecero esplodere una bomba in Via Rasella a Roma durante il passaggio di una colonna di militari tedeschi. La bomba, collocata in un carretto da spazzini, esplose uccidendo sul colpo 33 soldati dell’Undicesima Compagnia del Reggimento di Polizia Bozen. L’unità militare squartata dall’ordigno era composta per la maggior parte da militari di lingua tedesca provenienti dal Sud Tirolo.  
Il bilancio finale dell’attentato fu di 42 militari deceduti, stando alle parole di Herbert Kappler durante il processo a suo carico, e di 6 morti tra i civili presenti al momento dell’esplosione. Le vittime civili in seguito alla detonazione furono due, mentre quattro le persone uccise da colpi di arma da fuoco esplosi dai militari del reggimento Bozen. La vendetta non poteva attendere. La stessa sera del 23 marzo il colonnello Herbert Kappler ed il comandante della Wehrmacht, Kurt Malzer, proposero un’azione di rappresaglia consistente nella fucilazione di 10 italiani ogni militare ucciso nell’esplosione. Il suggerimento dei due ufficiali consisteva nell’eliminazione dei detenuti in attesa della condanna a morte presso le carceri gestite dai Servizi Segreti. Il coinvolgimento di Hitler nella vicenda è ancora oggi di complessa analisi: da una parte si racconta che appresa la notizia volesse ordinare la distruzione totale di Roma, dall’altra che perse presto interesse per la vicenda romana delegando ai suoi comandanti la decisione sulla rivalsa nei confronti degli autori dell’attentato. Qualunque fosse la decisione di Hitler, il Maresciallo Kesselring la interpretò come un appoggio incondizionato alla proposta di rappresaglia.
Il 24 marzo 1944 i militari della Polizia di Sicurezza agli ordini del capitano delle SS Erich Priebke e del maggiore Karl Hass, radunarono 335 civili italiani nei pressi di una serie di grotte alla periferia di Roma, sulla Via Ardeatina.
Le fosse Ardeatine furono scelte per eseguire, in segreto, la rappresaglia e per occultare i cadaveri delle vittime.
I condannati giunsero intorno alle 15 del 24 marzo e furono condotti a gruppi di cinque nelle grotte, dove furono trucidati con colpi alla nuca. Alla fine del massacro l’entrata della cava fu fatta esplodere.
Priebke racconta: «Sì, alle Fosse Ardeatine ho ucciso. Ho sparato, era un ordine. Una, due tre volte. Insomma, non ricordo, che importanza ha? Ero un ufficiale, mica un contabile. Non c’interessava nemmeno tanto la vendetta, a Via Rasella i militari morti erano del Tirolo, più italiani che tedeschi. Ma Kappler fu inflessibile, costrinse anche il cuciniere a sparare. Fucilammo cinque uomini in più. Uno sbaglio, ma tanto erano tutti terroristi, non era un gran danno.»
Priebke e Hass dopo aver ricevuto l’ordine di selezionare personalmente le vittime tra i prigionieri condannati a morte, si accorsero che il numero non arrivava ai 330 necessari per rispettare le direttive della rappresaglia. Decisero d'includere prigionieri arrestati per motivi politici, persone che avevano preso parte ad azioni della Resistenza, 57 prigionieri ebrei e civili che passavano per caso nelle vie di Roma. Le persone selezionate furono condotte all’interno della cava con le mani legate dietro alla schiena: gli ufficiali obbligarono i prigionieri a disporsi in file da cinque ed inginocchiarsi, uccidendoli uno ad uno con un colpo alla nuca. Priebke e Hass si accorsero che le persone selezionate erano 335 e non 330, ma per non compromettere la segretezza della strage li uccisero tutti. Alla fine dell’eccidio i comandanti ordinarono ai militari di chiudere l’entrata delle fosse Ardeatine per farla saltare con l’esplosivo.
Alla fine della guerra le autorità alleate processarono i responsabili, quelli che riuscirono a trovare, dell’eccidio delle Fosse Ardeatine.
Nel 1945, un tribunale inglese processò i generali Von Mackensen e Malzer condannandoli a morte. Il ricorso in appello si concluse con la riduzione della pena. Nel 1952 Von Mackensen fu liberato mentre Malzer morì in prigione.
Nel 1947, un tribunale inglese condannò a morte il maresciallo Kesselring. Nel 1952 lo stesso gerarca nazista ottenne la grazia.
1948, un tribunale italiano condannò Kappler all’ergastolo per il ruolo svolto nell’eccidio. Nel 1977, grazie all’aiuto della moglie, il gerarca nazista fuggì in Germania. Le autorità dello stato tedesco si rifiutarono di concedere l’estradizione per le condizioni di salute: l’anno seguente morì a causa di un cancro.
Dall’elenco manca Erich Priebke.
Nel caso in cui la vostra indignazione fosse un torrente, ora potrebbe straripare.
Come riuscì ad eludere la giustizia alleata?
Quali persone lo aiutarono a trovare riparo nei paesi che si erano resi disponibili ad accogliere i gerarchi nazisti dopo la fine della guerra?
I sacerdoti della chiesa cattolica.
Ripercorriamo con attenzione i fatti: il 13 maggio del 1945 Priebke fu catturato e reso prigioniero a Bolzano insieme con altri ufficiali della compagnia guidata da Karl Wolff, comandante delle SS in Italia. Fu trasferito nel carcere di massima sicurezza di Ancona, luogo dove erano detenuti gli ufficiali indiziati di crimini di guerra. Nei mesi successivi conobbe dapprima il carcere di Afragola poi quello di Rimini. Il 31 dicembre del 1946 fuggì dal campo di Rimini, sfruttando le festività di fine anno, per riparare nel vescovado di Rimini. Data la situazione Priebke decise di fuggire a Vipiteno, in Alto Adige, dove l’attendeva la moglie con i due figli. In questo luogo grazie all’assistenza di due preti cattolici, Joahnn Corradini e Franz Pobitzer, e al vicario generale della diocesi di Bressanone, Alois Pompanin, riuscì a ricevere il battesimo per divenire cattolico, requisito indispensabile per l’aiuto offerto dai preti, e loro superiori, alla fuga in Argentina.Alois Pompanin, vicario generale della Diocesi di Bressanone, riuscì ad aiutare diversi gerarchi nazisti grazie alle conoscenze nel personale del comune di Termeno e nella Croce Rossa Internazionale. Tra i gerarchi aiutati a fuggire in Sud America anche Adolf Eichmann. Erich Priebke, grazie a documenti falsi ricevuti in seguito alla collaborazione tra appartenenti al clero ed al comune di Termeno, divenne un direttore d’albergo lettone di nome Otto Pape. Il 13 settembre del 1948 fu ribattezzato dal parroco Johann Corradini su disposizione del vescovo di Bressanone Geisler, condizione necessaria per ricevere l’appoggio del Vaticano alla fuga nei paesi del Sud America che si erano resi disponibili ad accogliere i gerarchi nazisti. Stabilitosi in Argentina, prima a Rio de La Plata ed in seguito a San Carlos de Bariloche, modificò nuovamente il nome in Erico Priebke.
Il resto è storia recente.
Tutto questo è, o meglio dovrebbe essere, conosciuto, anche se nutro forti dubbi sulla divulgazione della complicità della chiesa cattolica nella fuga dei gerarchi nazisti.
Dall'attentato in Via Rasella a Roma all'eccidio delle Fosse Ardeatine qualcosa è sfuggito alla maggior parte del popolo italiano?
Assolutamente si.
Torniamo a quel 23 marzo del 1944.
L'azione dei GAP fu ordinata da Giorgio Amendola e compiuta da una dozzina di gappisti, tra i quali Rosario Bentivegna e Franco Calamandrei. L'agguato consistette nella detonazione di un ordigno esplosivo e nel successivo lancio di 4 bombe a mano sui superstiti. Quest'operazione causò la morte di due civili italiani: Antonio Chiaretti di anni 48, partigiano di Bandiera Rossa, e Piero Zuccheretti di anni 12.
Antonio Chiaretti è stato più volte indicato come caduto in combattimento.
Come e perché morì un ragazzo di 12 anni?
La meccanica delle circostanze della sua morte non è chiara. Il ragazzo si recava al lavoro presso una ditta di ottica che si trovava in via degli Avignonesi, parallela di Via Rasella.
Secondo il fratello della vittima, Piero scendeva per via Rasella proveniente da via delle Quattro Fontane attratto dai canti della compagnia Bozen. Secondo questa ricostruzione il ragazzo giungeva in direzione esattamente opposta a quella nella quale si allontanava l'attentatore dopo aver innescato la miccia.
Durante il processo a Kappler, fu chiamato a deporre come testimone Giorgio Amendola, comandate dei GAP romani e ideatore dell'attentato. Alla domanda del presidente del tribunale circa l'eventualità di colpire civili, rispose che“per questo motivo usavamo in genere degli esplosivi di limitata capacità e provvedevamo ad avvertire i civili della zona dove l'attentato veniva eseguito. A via Rasella non un civile morì per lo scoppio della bomba: se qualcuno fu colpito lo si deve alla feroce quanto inutile reazione dei tedeschi che non spararono sui gappisti che li avevano attaccati, ma su inermi borghesi”.
Nelle prime edizioni dei volumi di Katz, Morte a Roma, e nelle memorie di Rosario Bentivegna, la morte di Piero non è nominata. L'ex gappista inizialmente sarebbe stato convinto che non vi fossero vittime civili nell'attentato. Il libro di Alessandro Portelli, L'ordine è già stato eseguito del 1999, contiene un'intervista al fratello di Piero, Giovanni, il quale accusa Bentivegna d'aver visto il piccolo stare accanto al carrettino che conteneva la bomba proprio nel momento in cui lo stesso ne causava l'esplosione.
I testimoni oculari raccontano una storia diversa da quella dell'uomo che ideò l'esplosione. Umberto Ferrante, tipografo rastrellato dai tedeschi subito dopo l'esplosione, ricorda: "Appena usciti dalla tipografia con le mani alzate ci trovammo davanti a una scena che non dimenticherò mai. Il tronco di quel bambino era stato scaraventato a metà della salita, venti-trenta metri più in su di Palazzo Tittoni".
Nel 1950 alcuni familiari delle vittime dell'attentato di Via Rasella e della rappresaglia delle Fosse Ardeatine citarono in giudizio gli esecutori materiali del GAP e i membri della giunta militare del CLN di Roma, tra cui il futuro presidente della Repubblica Sandro Pertini. Il 26 maggio dello stesso anno il Tribunale Civile di Roma respingeva la richiesta di risarcimento. Il percorso processuale si concluse l'11 maggio del 1957 quando la Corte di Cassazione, sentenza numero 3053 del 19 luglio 1957, dichiarò inammissibile il ricorso contro la sentenza d'appello e concluse dichiarando l'attentato di via Rasella un “legittimo atto di guerra”.
Esiste la possibilità di risalire alla verità per attribuire a Piero Zuccheretti il giusto posto nella storia?
Il 24 aprile del 1996, il quotidiano Il Tempo pubblicò una fotografia che mostrava un tronco e una testa umana, attribuendola a Piero Zuccheretti. Nei giorni successivi il quotidiano Il Giornale riprese la fotografia accusando i gappisti d'aver proceduto con l'esecuzione dell'attentato nonostante avessero visto il ragazzo nei pressi della zona della futura esplosione. Nel 1999 Rosario Bentivegna querelò il direttore del Giornale, Vittorio Feltri, e la Società Europea di edizioni per diffamazione. Bentivegna fu costretta al pagamento delle spese processuali. Nella sentenza si legge che “le condizioni del cadavere del bambino quali risultano dalle foto sembrano giustificare la tesi della sua estrema prossimità al carretto contenente l'esplosivo”.
Nell'estate dello stesso anno Bentivegna ottenne 31 fotogrammi scattati da un fotografo tedesco nei minuti successivi all'attentato. Le fotografie insieme alla testimonianza del ricercatore italiano Carlo Gentile, che concludeva affermando che era del tutto improbabile che la fotografia fosse stata scattata in via Rasella poiché all'epoca dell'attentato non esisteva alcun marciapiede in quella via, indussero la Corte d'Appello, 14 maggio del 2003, a condannare la direzione del Giornale per diffamazione. Sentenza confermata dalla Corte di Cassazione il 23 maggio del 2007.
Nel marzo del 2009 un'inchiesta pubblicata dal mensile Storia in Rete, e ripresa dal quotidiano Il Tempo, sostenne che il punto dove sarebbe stata scattata la fotografia si trovava all'incrocio tra via Rasella e via delle Quattro Fontane. Inoltre si affermava che il particolare indicato da Carlo Gentile come cordolo di un marciapiede, sarebbe la modanatura del palazzo di Via Rasella all'incrocio con via delle Quattro Fontane. Il palazzo è situato a diverse decine di metri dal luogo dell'esplosione e compatibile con le testimonianze che descrivevano i resti a venti o trenta metri più in su.
Cosa rimane a noi di questa vicenda?
Da un lato la certezza che la verità storica è sempre difficile da ottenere e dall'altro che Piero Zuccheretti, e non Pietro Zuccarini come citato da Rosario Bentivegna e Cesare De Simone nel libro Operazione Via Rasella, non sarà mai indicato come caduto in combattimento.

Fabio Casalini













Bibliografia

Emanuela Audisio - articolo per la Repubblica del 12 ottobre 2013 - Priebke muore a 100 anni e lascia un testamento shock

Emanuela Audisio - articolo per la Repubblica del 10 maggio del 1994 - Il Vaticano mi aiutò a fuggire in Argentina

Robert Katz - Dossier Priebke: anatomia di un processo - Milano, Rizzoli, 1996

Gerald Steinacher - La Via Segreta dei Nazisti. Come l'Italia e il Vaticano salvarono i criminali di guerra - Milano, Rizzoli, 2010.

Deposizione dell'onorevole Amendola – La Stampa del 19 giugno 1948

Alessandro Tortato - articolo per il Corriere del Veneto del 11 giugno 2010 - Il prete cortinese che fece fuggire Eichmann e Priebke

Alessandro Portelli – L'ordine è già stato eseguito. Roma, le Fosse Ardeatine, la memoria – Feltrinelli, 2012

Silvio Bertoldi – articolo per il Corriere della Sera del 29 giugno 1997 – Ore 15 del 23 marzo 1944: un carrettino da spazzini carico di morte

Pierangelo Maurizio – articolo per il Tempo del 24 marzo 2009 – Via Rasella e il giallo del bimbo falciato

Pierangelo Maurizio – Via Rasella cinquant'anni di menzogne – Maurizio Edizioni, 1996


Rosario Bentivegna e Cesare De Simone – Operazione Via Rasella. Verità e menzogne – Editori Riuniti, 1996


Le immagini sono tratte dalle pagine di Wikipedia

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