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Il vampiro della bergamasca che morì due volte

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Il silenzio aiuta i carnefici, e mai le vittime. La neutralità dei giudizi favorisce sempre l'aggressore e mai colui che ha subito violenza. Ogni vittima merita un posto nella storia. Raccontare dei criminali è, anche, ricordare coloro che hanno subito l'oppressione della violenza, fisica e psicologica. Quando s'approccia un omicida seriale, le vittime scivolano sempre a mero dato statistico. 
Uno dei primi assassini seriali dell'Italia unificata fu soprannominato il Vampiro della bergamasca e definito da Cesare Lombroso, controverso medico e iniziatore di particolari studi di criminologia, come un sadico sessuale, vampiro e divoratore di carne umana.
Siamo sicuri di conoscere il significato di questi termini?
Il sadismo deriva dal nome del Marchese de Sade, filosofo e scrittore di molti libri a sfondo erotico imperniati sulla violenza. Il sadismo sessuale è definito come quell'insieme di azioni ove il soggetto che le pratica riceve eccitazione sessuale dalla sofferenza, fisica o psicologica, della vittima.
Il vampirismo, eliminando leggende e miti secondo cui il vampiro sia un essere mitologico che si nutre del sangue delle proprie vittime, è una perversione sessuale riconducibile nell'ambito della necrofilia, secondo la quale la vittima una volta uccisa è violata dal suo aggressore.
Anche se non appare nella definizione del vampiro della bergamasca, introduco il concetto di piquerismo, ossia la particolare pulsione erotica consistente nel ricercare piacere pungendo o tagliando il corpo della vittima con oggetto affilati o appuntiti.
Con questo bagagli di informazioni addentriamoci nel bosco, alla ricerca del lupo e degli agnelli.
8 dicembre del 1870, freddo e neve ovunque.
Era una di quelle giornate in cui si scaldano le mani con un alito di vita.
Giovanna Motta, di 14 anni, camminava in direzione del borgo di Suisio per recarsi da parenti in vista delle imminenti festività natalizie.
Giovanna scomparì nelle foschie tra l'Adda e il Brembo.
Chi era Giovanna Motta?
Era una ragazza che prestava servizio a Bottanuco, presso i coniugi Giovanni Ravasio ed Elisabetta Sacchi.
Nell'immediatezza degli eventi nessuno si accorse di nulla, o quasi. Il giorno stesso una donna che tornava dalla messa, Emilia Biffi, trovò un fazzoletto adagiato a terra. In seguito si saprà che apparteneva alla ragazza. Nel tardo pomeriggio di quell'otto dicembre un contadino, Antonio Sala, rinvenne un'immagine di Pio IX sul bordo della strada. Durante lo svolgimento delle indagini si capirà che anche la raffigurazione del Papa apparteneva a Giovanna. Il giorno seguente un altro contadino, Battista Marra, trovò delle interiora nelle vicinanze di un albero di gelso. Non se ne curò pensando si trattasse di qualche animale. Due giorni dopo, il 10 dicembre, i datori di lavoro non vedendola tornare decisero di cercarla nella pianura tra Bottanuco e Suisio. Purtroppo la trovarono massacrata. Il corpo orribilmente mutilato. Il collo mostrava segni di morsi, le interiora e gli organi genitali asportati. La carne di un polpaccio strappata. Nei pressi del cadavere furono rinvenuti alcuni spilloni.
Chi, o cosa, dilaniò in quel modo il corpo della ragazza?
Il tempo passa, le paure si placarono.
I ritmi della pianura tornarono padroni.
La primavera prese il posto dell'inverno.
L'estate, caldissima, s'appropriò nuovamente delle paure contadine.
26 agosto 1871.
Sabato, festa di Sant'Alessandro martire.
Verso mezzogiorno una giovane ragazza di 18 anni, che lavorava presso una filanda, si incamminò sul sentiero che conduce da Bottanuco a Suisio. Il suo nome era Maria Previtali. All'improvviso s'accorse d'essere inseguita da un uomo. Pochi istanti dopo si tranquillizzò poiché quell'essere ansimante era un suo cugino. L'uomo non la riconobbe, o fece finta di non riconoscerla, e la trascinò in un vicolo sterrato. La ragazza urlò con tutto il fiato che aveva nei polmoni, ma non servì. Il cugino in preda a forte eccitazione le tappò la bocca e le sollevò la gonna per infierire sessualmente. Improvvisamente s'alzò per controllare che nessuno stesse vedendo la violenza. Maria, in preda alla paura, non riuscì a fuggire. L'uomo tornò verso di lei, le prese le mani e la lasciò libera di vivere.
Il mostro non poteva fermarsi.
Il giorno seguente, 27 agosto 1871, quell'uomo si gettò addosso ad una donna di 28 anni, madre di tre figli. Il suo nome era Elisabetta Pagnoncelli. La ragazza cadde per terra svenuta. L'uomo fece scempio del corpo con un falcetto e poi fuggì. Il marito di Elisabetta non vedendola tornare si allarmò ed uscì di casa per cercarla. La trovò nuda e cadavere con ampie ferite sul braccio. Le interiora fuoriuscite. Sul dorso erano presenti tre spilloni a formare un triangolo. Altri spilli si trovarono nei pressi del corpo all'interno di un campo di frumento.
Pagnoncelli Elisabetta, fu Carlo e Teodora, di anni 28, morì il 27 agosto del 1871.
Le persone che dovettero occuparsi delle indagini compresero che gli omicidi di Giovanna e di Elisabetta erano riconducibili ad una stessa mano.
Nei giorni seguenti fu arrestato un tale Luigi Comerio, che aveva approcciato più volte Elisabetta malgrado fosse madre di 3 figli. Poco tempo dopo fu rilasciato.
I sospetti caddero su Vincenzo Verzeni, il cugino di Maria Previtali, grazie alle testimonianze di coloro che lo videro insieme ad Elisabetta nelle vicinanze di un campo di frumento. Le stesse persone inizialmente non capirono le reali intenzioni dell'uomo, e per questo motivo non s'allarmarono.
Vincenzo Verzeni nacque a Bottanuco il giorno 11 aprile del 1849.
Come spesso si accenna in queste situazioni, vide la luce all'interno di una famiglia di umili origini.
L'infanzia fu segnata dalle pessime condizioni economiche della famiglia e aggravate dall'epilessia della madre e dall'alcolismo del padre.
L'aggressività di Vincenzo Verzeni si manifestò in giovane età.
A 18 anni aggredì una cugina nel sonno, cercando di morderle il collo.
Il ragazzo scappò allarmato dalle urla della donna.
Nel 1869 aggredì due donne, Margherita Esposito e Angela Previtali, senza che risultino provvedimenti penali a sua carico.
Vincenzo Verzeni fu arrestato nel 1872.
Cesare Lombroso fu chiamato a stendere la perizia psichiatrica. Il medico a partire dalla conformazione del cranio e da alcune caratteristiche del volto diagnosticò gravi forme di cretinismo e necrofilia.
Vincenzo Verzeni fu accusato del tentato strozzamento di sua zia Marianna, della signora Arsuffi e della signora Gala. Fu incriminato per gli omicidi di Giovanna Motta, di Maria Previtali e della signora Frigeni, trovata nelle stesse condizioni delle altre ragazze il giorno precedente il rinvenimento del cadavere di Maria Previtali.
Durante il processo descrisse i propri omicidi: “io ho veramente ucciso quelle donne e ho tentato di strangolare quelle altre, perché provavo in quell'atto un immenso piacere. Le graffiature che si trovarono sulle cosce non erano prodotte colle unghie ma coi i denti, perché io, dopo strozzata la morsi e ne succhiai il sangue che era colato, con cui godei moltissimo”.
Lombroso espose la sua tesi: “Verzeni ha ventidue anni, cranio superiore alla media asimmetrico; il frontale destro è più stretto e basso del sinistro, la bozza frontale destra è meno sviluppata. L'orecchio destro è più piccolo del sinistro. Collo taurino, sviluppo enorme degli zigomi e della mandibola. Pene molto grande”.
Vincenzo Verzeni fu giudicato colpevole di duplice omicidio.
Non fu condannato a morte grazie al voto di un giurato.
Fu condannato all'ergastolo da scontare nel manicomio criminale della Pia Casa della Senavra di Milano.
Dopo la lettura della sentenza, Vincenzo Verzeni confessò che “il soffocare le donne mi dava una voluttà incredibile, con vere e proprie erezioni e autentico sfogo. Anche nell'annusare gli abiti provavo piacere. Godevo maggiormente a strozzare le donne che a masturbarmi. Bevendo il sangue della Motta provai una voluttà smisurata. Non sono pazzo, ma in quegli istanti non vedevo più nulla”.
Verzeni era giunto ai suoi atti perversi unicamente da solo, dopo aver osservato in una certa occasione, a soli dodici anni, che lo sgozzare delle galline gli procurava uno strano piacere. Per questo motivo aveva commesso delle stragi nei pollai, asserendo che la colpa doveva ricadere sulle donnole.
Le vicende legate al vampiro della bergamasca potrebbero concludersi in questo momento se non fosse che morì due volte.
La data di morte di Verzeni è controversa.
Secondo gli infermieri del manicomio criminale di Milano fu trovato morto il 13 aprile del 1874, impiccato nella sua cella.
Se Verzeni fosse morto nel 1874 perché l'Eco di Bergamo in data 3 dicembre 1902 scrisse che “la popolazione di Bottanuco è terrorizzata al pensiero che Vincenzo Verzeni, lo squartatore di donne, ha quasi ormai finito l'espiazione della pena, che dall'ergastolo fu convertita in 30 anni di reclusione. Il lugubre ricordo delle gesta sanguinose del Verzeni è ancora vivo in Bottanuco e nei paesi circostanti”.
L'atto di morte numero 87 del comune di Bottanuco certifica che Verzeni è morto nel suo paese il 31 dicembre del 1918, per cause naturali.
Possiamo affermare che Vincenzo Verzeni è l'uomo che morì due volte.

Fabio Casalini


Bibliografia

Richard von Krafft-Ebing – Biografie sessuali. I casi clinici della Psychopathia sexualis – Neri Pozzi editore, 2006

Pasquale Penta – I pervertimenti sessuali nell'uomo e Vincenzo Verzeni strangolatore di donne – Pierro, Napoli 1893

Massimo Centini – Il vampiro della Padania – Ananke, 2010


Bruno Previtali – Il serial killer vampiro – Editrice GDS  

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