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Cavallo Pazzo, l'ultimo Sioux

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Giugno 2016. Ero un turista con la reflex a tracolla, in vacanza sulle Black Hills nel South Dakota, quando salii sul vecchio pullman che, di lì a poco, mi avrebbe portato fin sotto la montagna dove si sta creando quella che sarà la più grande scultura nella roccia mai costruita, larga 195 metri ed alta 172: il Crazy Horse Memorial.
Mentre i passeggeri scattavano fotografie dai finestrini, l’anziano autista, certamente un volontario in pensione, guidando lentamente il mezzo sul tracciato in ciottoli raccontava al microfono la storia di quel Monumento, fortemente voluto nel 1946 dal Capo Henry Orso in Piedi della Riserva Lakota di Pine Ridge, quale risposta alla profanazione delle Sacre Colline Nere (Paha Sapa in lingua Lakota, il Centro del mondo), perpetrata 20 anni prima con l’incisione dei volti dei quattro Presidenti sul Monte Rushmore, a poche miglia di distanza. Mentre ascoltavo le informazioni cercando di capire quell’inglese masticato, la mia attenzione cadde su una coppia seduta sui sedili davanti, immagino fossero padre e figlio con tratti somatici senz’altro riconducibili ai nativi americani. Il giovane parlava al vecchio sottovoce, probabilmente traducendo in lingua indiana le notizie, mentre quest’ultimo teneva lo sguardo fisso in avanti, quasi ripercorresse tutto mentalmente. 

Il viaggio durò pochi minuti, la montagna era già lì davanti a me, sempre più vicina, l’enorme volto di granito, lo sguardo duro, di sfida, era proteso verso le nuvole minacciose.

Ma chi era stato in vita quell’uomo per meritare un monumento così imponente? Quale fu la sua storia?
Cavallo Pazzo (Tashunka Witco) nacque attorno al 1840 nei pressi di Bear Butte sul Fourche River Belle nel Sud Dakota, suo padre era un uomo di medicina degli Oglala, sua madre – che gli impose quale primo nome Cha-o-Ha “nato tra gli alberi” - una Brulé, due delle sette tribù della grande Nazione dei Teton Lakota meridionali, che in quell’epoca rappresentavano la componente più grande del popolo Sioux ed erano al culmine della loro potenza, dominando una fascia enorme di terra che dal fiume Missouri arrivava a Ovest fino alle Big Horn Mountains. 
Il loro contatto con i bianchi fino ad allora era stato minimo, ma già dai primi anni di vita il bimbo che sarebbe stato chiamato Cavallo Pazzo vedeva attorno a sé i primi cambiamenti negativi: gli stanziamenti dei bianchi aumentavano in maniera esponenziale ed i coloni si spingevano sempre più ad ovest alla ricerca dell’oro e di una nuova vita, entrando spesso in concorrenza con gli indiani nell’approvvigionamento di cibo e generando con essi continue tensioni. 
Era poco più di un bambino nel 1854, non molto alto ma dal fisico flessuoso, di pelle chiara e capelli castani e ricci (il suo nome all’epoca era appunto Ricciuto o Ragazzo dai capelli Chiari), con un aspetto notevolmente diverso dagli altri ragazzini della sua età e, forse per questo, di personalità introversa e solitaria. Fu proprio in quell’anno che scoppiò il primo vero incidente con i bianchi, la scintilla che scatenò le guerre indiane sulle grandi pianure, insanguinandole per quasi mezzo secolo. 
Era il 19 agosto quando un drappello del 6° Reggimento Fanteria, alla guida del giovane ed inesperto Sottotenente John Lawrence Grattan, proveniente dal vicino Fort Laramie irruppe nel villaggio Sioux Brulè, a poche miglia dal Forte, per arrestare un indiano colpevole di aver ucciso la mucca di un migrante mormone, al quale era sfuggita due sere prima. La tensione e l’indignazione crebbero in pochi minuti e nonostante il tentativo del Capo Orso che Conquista, disposto anche a risarcire il bianco con altre mucche, la situazione degenerò in violento litigio tanto che un soldato, probabilmente spaventato, sparò uccidendo il Capo Indiano. La ritorsione fu immediata e spietata: l’Ufficiale, i 29 soldati e l’interprete civile furono letteralmente massacrati. Era solo l’inizio ma bastò perché il giovane Ricciuto, incredulo sulle assurde motivazioni di quell’incredibile carneficina, si convinse che una pacifica convivenza tra il suo popolo e gli invasori bianchi sarebbe divenuta presto impossibile. 
Negli anni che seguirono, il ragazzo dai capelli chiari cresceva divenendo un valoroso guerriero, così come crescevano gli scontri con le carovane dei bianchi lungo il Santa Fe Trail e l’Oregon Trail, tra gli attuali territori del Nebraska, Colorado e Wyoming. Gli episodi tragici si susseguivano ed alcuni più di altri rimasero nel cuore del giovane guerriero Lakota, come il “massacro dell’acqua azzurra” avvenuto nel 1855 lungo il fiume Platte, dove le truppe di Fort Laramie fecero letteralmente a pezzi oltre 150 fra uomini, donne e bambini e dove lui, fortuitamente sopravvissuto solo perché a caccia di un cerbiatto, perse numerosi parenti ed amici. L’odio per i bianchi montava sempre più, unito all’ossessione di dover trovare assolutamente un modo per sconfiggerli. Era ormai un guerriero quando, acquisito il nome del padre, il giovane Cavallo Pazzo sentiva i Capi Teton discutere nel Grande Consiglio di guerra tenuto presso la collina dell’orso (Bear Butte) su come arginare e contrastare la crescente minaccia, sentiva alcuni giovani valorosi fremere per combattere, altri più saggi cercare una via di pace, patteggiando con la firma di trattati che assegnavano loro le terre su cui vivere e prosperare, i medesimi trattati che, alla prima occasione, venivano disconosciuti dai bianchi e le stesse terre che puntualmente erano invase da nuove carovane di immigrati in cerca di fortuna. 
Nel 1866 avvenne la svolta: il Governo degli Stati Uniti inviò a Fort Laramie l’eroe della guerra civile il Gen. William Tecumseh Sherman a parlamentare con lo scopo di strappare ai Sioux il permesso di attraversamento dei territori indiani, sui quali progettava la costruzione di una linea ferroviaria che collegasse il fiume Platte alle miniere d’oro del Montana e tre Forti militari nella zona del fiume Powder, a protezione di coloni e minatori (Fort Reno, Fort Phil Kearney e Fort C. Smith). In realtà i lavori per l’invasione erano già iniziati per cui il rappresentante delle tribù, il Capo Oglala Nuvola Rossa, rifiutò sdegnato ogni trattativa, dando il via ad una serie di sanguinosi attacchi che durarono oltre due anni e che presero il nome di “guerra del Bozeman Trail” o “guerra di Nuvola Rossa”. 
Fu proprio in questo periodo che Cavallo Pazzo si distinse per valore, intelligenza e capacità strategiche nelle varie sortite contro le postazioni civili e militari, il suo nome generava odio e terrore tra le comunità di coloni riscuotendo, per contro, profondo rispetto ed ammirazione tra la sua gente. In particolare il guerriero si mise in luce guidando l’attacco a Fort Phil Kearney in Wyoming dove, organizzando una finta fuga di pochi indiani lanciati come esca, riuscì ad attirare 80 soldati fuori dal Forte i quali, al Comando del borioso Capitano Fetterman, furono intrappolati e massacrati a poche centinaia di metri dal Presidio. Cavallo Pazzo aveva dimostrato a Nuvola Rossa e ai grandi Capi che le battaglie condotte in maniera individuale e non organizzata, combattute fino ad allora dal suo popolo secondo regole ataviche, con archi e frecce, contando i colpi inferti e raccogliendo gli scalpi dei nemici, erano sorpassate e dovevano essere necessariamente sostituite da attacchi preordinati, degni di una efficace tecnica di guerriglia, usando per quanto possibile i moderni fucili dei bianchi. 
Così facendo, i Sioux tennero in scacco per svariati mesi l’Esercito infliggendogli numerose perdite in termini di uomini e materiali, tanto da costringere, nell’aprile del 1868, il Gen. Sherman ad accettare le condizioni di pace di Nuvola Rossa che prevedevano la chiusura del Bozeman Trail e l’abbandono dei tre Forti militari, dati immediatamente alle fiamme dai guerrieri delle pianure. La terra dei padri era salva, ma non per molto.
Solamente sei anni dopo, infatti, nel 1874, oltre 15.000 coloni muniti di pale e setacci si riversarono illegalmente nelle sacre Paha Sapa, le Black Hills, chiaramente comprese nella Grande Riserva Sioux, seguendo il miraggio dell’oro. Il Governo tentò come sempre di salvare capra e cavoli, proponendo agli indiani di acquistare le Sacre Colline Nere, ed allo scontato rifiuto del più influente Capo Tribù del momento, Toro Seduto, emanò un decreto secondo il quale tutti i nativi nei territori non ceduti dovevano recarsi nelle agenzie della Riserva entro la fine del gennaio 1876, pena essere considerati ostili. Buona parte delle tribù Sioux, Arapaho e Cheyenne, non potendo accettare di accalcarsi e morire di stenti in pieno inverno presso l’Agenzia, iniziarono a vagare ad Ovest verso il fiume Powder, in cerca di Toro Seduto e del suo Accampamento che nel frattempo si era stanziato lungo il torrente Little Big Horn: era tempo di un nuovo Consiglio di Guerra. 
Per Cavallo Pazzo si avvicinavano le ultime grandi gesta, quelle che sarebbero state raccontate a lungo nei tepee attorno al fuoco. 
Fu così che al termine dell’inverno tre colonne di soldati partirono rispettivamente da Fort Ellis in Montana, da Fort Abraham in North Dakota e da Fort Fetterman in Wyoming, dirette verso la zona a nord-est delle Big Horn Mountains a sud del fiume Yellowstone, credendo, sulla base delle informazioni in possesso, di dover fronteggiare tra i 500 e gli 800 indiani ribelli per i quali gli ordini erano cattura e deportazione. 
Gli esploratori Cheyenne avvistarono la colonna Wyoming agli ordini del Gen. George Crook, a Sud del grande accampamento nei pressi del fiume Rosebud. Cavallo Pazzo era il guerriero più rappresentativo e, pertanto, fu incaricato di impegnare battaglia con un migliaio di Oglala e Cheyenne. Gli Squadroni di Crook, dopo i violenti scontri che ne seguirono, non riuscirono più a procedere, scompaginati, decimati e costretti a continui assedi decisero quindi di ritirarsi ed abbandonare l’idea iniziale di convergere verso nord e congiungersi con le altre colonne. 
Cavallo Pazzo, tornato vittorioso con i suoi guerrieri, giunse al grande villaggio nella serata del 24 giugno, spossato ma ancora una volta soddisfatto perché i suoi uomini avevano agito in gruppi compatti ed efficaci. Restava una sola incognita, la visione avuta pochi giorni prima da Toro seduto: “molti soldati sarebbero piombati sull’accampamento”. 
Il giorno dopo, 25 giugno 1876, il Col. George A. Custer con il 7° Cavalleria arrivò per primo sul fiume Little Big Horn impegnando la battaglia contro i guerrieri di Toro Seduto. Nel tentativo, più volte riuscito in passato, di accerchiare il villaggio per impedire agli indiani di disperdersi e fuggire, divise le forze a disposizione per operare una manovra a tenaglia, non potendo sapere che contro di lui si stava riversando un numero impressionante di avversari (il villaggio Sioux fu stimato in circa 12.000 indiani). In poche ore le Compagnie di Custer furono annientate: Cavallo Pazzo con i suoi guerrieri si distinse nella lotta, guidando gli attacchi ed unendosi agli altri nell’ordalia di sangue, polvere e morte. In tutto i caduti furono 268 per il 7° Cavalleria contro le perdite indiane stimate approssimativamente dai 30 ai 300 guerrieri.
La bruciante sconfitta e la morte di Custer motivarono l’Esercito ad intensificare la campagna contro i Lakota, le bande di indiani al di fuori della Riserva furono inseguite implacabilmente e costrette ad arrendersi entro l’ottobre successivo, tutte ad eccezione dei guerrieri di Toro seduto (rifugiatosi in Canada) e di Cavallo Pazzo. Quest’ultimo, divenuto ormai il simbolo di una nazione che voleva restare libera, l’eroe dei Lakota che non si arrendevano, continuò a combattere per mesi sulle Big Horn Mountains, braccato senza tregua dalle truppe federali. 
Ma egli non si illudeva, conosceva i bianchi e sapeva benissimo che la battaglia del Little Big Horn non sarebbe mai finita, che le giacche azzurre non si sarebbero mai dimenticate di quell’affronto. Mentre era sui monti gli giunse notizia che la patria dei Lakota, dalle Black Hills alle Bighorn Mountains, era stata nel frattempo venduta agli invasori dai Capi della Riserva di Pine Ridge, inoltre l’inverno alla macchia era stato devastante, il freddo insopportabile, il cibo quasi inesistente, gli uomini stanchi di fuggire e di impegnare battaglia. 
Così Cavallo Pazzo il 6 maggio del 1877 si consegnò con la sua banda alla guarnigione di Fort Robinson in Nebraska dopo avere accettato l’invito dei soldati a parlamentare e discutere sul futuro degli Oglala, ben consapevole, in realtà, che per lui i giorni stavano ormai per finire. Pochi mesi dopo, il 5 settembre, l’ex-guerrigliero fu accoltellato a morte alla schiena, ufficialmente dalla baionetta di un soldato durante una rissa, nata perché lui era stato accusato di tramare una rivolta, ma probabilmente tradito e pugnalato dalla sua stessa gente, per mano del poliziotto indiano Piccolo Grande Uomo mandato forse dagli stessi Capi della Riserva, fin da subito invidiosi dell’incondizionato ascendente che la sua figura continuava a riscuotere presso il popolo in cattività.
All’interno della squallida baracca allestita dal medico della guarnigione, Cavallo Pazzo l’eroe di Little Big Horn morì nell’ora in cui si muore, quando non è più notte e non è ancora mattina, dopo che in un soffio giunse a dire al padre che lo vegliava: “devi dire al popolo che non potrà più contare su di me ora …”.
“Eravamo già tutti seduti sui nostri sedili all’interno del pullman, in attesa di concludere il tour, il vento era sempre più forte e la tempesta stava arrivando, alcuni turisti chiacchieravano altri controllavano le fotografie scattate. Solamente il vecchio indiano era ancora là fuori, in silenzio, sorretto da un bastone guardava ancora il profilo della montagna. L’autista era rimasto qualche passo indietro insieme al giovane accompagnatore, attendevano rispettosi. Infine l’anziano Lakota si girò e tornò lentamente sul pullman; non saprò mai chi fosse quel vecchio e cosa passò per la sua mente in quei momenti, ma mi piace pensare che, in fondo, i popoli delle Pianure ancora oggi siano convinti che Cavallo Pazzo non è mai morto e che, prima o poi, tornerà da loro”.



Sergio Amendolia


Bibliografia

Seppellite il mio cuore a Wounded Knee – Dee Brown; 

Cavallo Pazzo – Mari Sandoz; 

Wild West Magazine (The last Stand of Crazy Horse) 


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