Nel corso del XV e del XVI secolo, in alcune grandi famiglie della Germania e delle Fiandre, s’instaura il concetto di mantenere la memoria dei bambini nati morti. Nasce l’usanza di offrire pale d’altare alle chiese, rappresentando i piccoli morti all'interno della scena.
Nella maggioranza dei casi al centro della raffigurazione vi è una scena sacra, la natività o la resurrezione, ed ai lati la famiglia. Sulla sinistra sono riportati il padre con i figli maschi, sulla destra la moglie con le figlie femmine e nella parte anteriore del dipinto il piccolo morto.Una dei primi dipinti attestati è l’Allegoria della Redenzione, in cui Lucas Cranach il giovane, nel 1557, ritrae una sconosciuta famiglia luterana. Negli anni immediatamente seguenti, 1559, un ignoto pittore ritrae la famiglia di Leonhard Badehorn, giurista e borgomastro di Lipsia, dove l’importante esponente della Riforma è ritratto insieme ai figli morti e vivi.
Un secondo dipinto, sempre attribuito a Lucas Cranach, è un memoriale di Michael Meyenburg, umanista e borgomastro di Nordhauesen, che morì nel 1556. Nella raffigurazione si nota in primo piano il defunto con le due mogli ed i figli nati da entrambi i matrimoni, sia quelli vivi sia quelli morti.
Lucas Cranach il giovane erede dell’opera del padre. Cranach il vecchio è uno dei rarissimi artisti ad aver raffigurato il limbo in un suo dipinto. Il quadro si trova oggi al museo Hallwyl di Stoccolma.La rappresentazione del committente all’interno di una scena sacra non è nuova; l’innovazione è data dalla presenza dei bimbi morti, anche quelli scomparsi precocemente. I dipinti più umili, giunti sino a noi, sono gli ex voto: raffigurazioni popolari, ed ingenue, offerte come ringraziamento al santuario.[1]
All’interno della scena possono comparire le famiglie al completo. I bimbi morti sono i protagonisti della scena, poiché sono presenti nella parte anteriore.
Gli ex voto sono un importante documento storico, in quanto testimoniano una situazione in un dato momento. Sono una fonte molto importante di comprensione del passato e del pensiero delle persone che lo hanno vissuto. Non sfugge al lettore la discutibilità della nostra capacità di comprensione. Dovremmo partire dal concetto che l’ex voto è un fenomeno del comportamento umano nei rapporti con il divino. Rappresentano il concetto di un popolo, in un determinato momento storico, nell’avvicinarsi alla religione. Questi silenziosi testimoni del nostro passato sono sempre esistiti, in tutte le religioni. Presso le popolazioni greche e romane i voti erano pubblici e, spesso, riguardavano l’intera collettività. I voti privati erano principalmente rivolti alle malattie. Per quanto concerne il Cristianesimo si hanno notizie di ex voto, presenti nella zona del Golgota, a partire dal VI secolo. Nei decenni successivi appariranno anche presso la grotta di Betlemme. Nel Medioevo appare sotto forma di candela o cero. E’ solo nel periodo della Controriforma che assume la connotazione discussa in questo testo. In breve tempo, le tavolette votive, scendono di valore, passando dalla raffigurazione delle classi agiate e quelle umili. Il ringraziamento votivo si trasferisce dalle città alle campagne ed assume il connotato d’arte povera, come oggi si conosce. Le testimonianze giunte sino a noi, a riguardo del rito del Répit, si basano sul concetto semplice di ritorno alla vita. Nel nostro peregrinare per santuari, siamo dovuti giungere in un museo per trovarne in serie.
All'interno della collezione di tavolette votive, del Museo del Paesaggio della città di Verbania, sono visibili gli ex voto prelevati dai santuari della Madonna del Boden e della Madonna della Guardia, entrambi situati nel paese di Ornavasso, provincia del Verbano – Cusio – Ossola.
Interessante la scritta riportata su uno di questi dipinti: 1757 a 7 maggio. Un fanciullo morto figlio di Pietro Antonio Tambornino del Forno per intercessione della S.S.U. dato segni di nuova vita sino a ricevere l’acqua del S. Battesimo.
Un altro ex voto riporta la data del 1752. Su entrambi troviamo la scritta G R, per grazia ricevuta. Il miracolo è avvenuto, poiché l’officiante battezza il piccolo nato morto. Per indicare i segni del ritorno alla vita, è stato utilizzato lo stratagemma dello sgorgare del sangue dal corpo del bambino.
Torniamo alla ricerca d’immagini nel corso della storia.
Nel 1638 un anonimo pittore olandese raffigurò una famiglia di Enkhuizen: il padre e la madre sono seduti dietro ai loro undici figli. Gli unici sopravvissuti sono in piedi ai lati dei genitori. Nella parte anteriore sono presenti tre culle di vimini, ognuna carica di bambini morti. Ogni culla riporta tre bambini. Tra i nove bimbi morti solo tre hanno gli occhi aperti. Gli altri sei, che presentano occhi chiusi, sono nati morti.
E’ una scena d’estremo realismo che trasmette la convinzione, da parte dei genitori, di voler ricordare tutti i propri figli. Una seconda motivazione d’interesse è data dalla tranquillità della scena. I genitori sono a conoscenza che troveranno i piccoli dopo la morte.
Con il passare del tempo s’instaura l’idea che i piccoli morti siano angeli, così, nel 1652, il pittore Jan Mijtens ritrae la famiglia Van de Kerckhoven con i propri figli: i dieci vivi sono sorridenti ai lati dei genitori, i cinque bimbi morti diventano angeli che volano nel cielo sulle teste dei propri familiari.
Il dipinto è oggi al The Hague Historical Museum de L’Aja.
Nei paesi del Nord, Belgio e Paesi Bassi, non è raro trovare dipinti con i soli bimbi morti. Nei musei di queste nazioni è possibile trovare un grande numero di tali opere, comprese tra i secoli XVI e XVII.
Nel 1633, ad Amsterdam, il pittore Gerard ter Borch ritrae la sua piccola bimba, Cathrina morta a soli due mesi, che giace all’interno della bara.
L’artista olandese, specializzato in scene di genere e ritratti, avrà 13 figli da tre matrimoni diversi. Una delle figlie, Gesina, diventerà un’importante artista dell’acquarello e del disegno ad inchiostro.
Nei paesi mediterranei i ritratti dei bambini nati morti sembra meno comune, tranne che nella penisola iberica.
Nel 1603 il pittore di corte, Pantoja de la Cruz, ritrae la piccola Infanta Maria, secondogenita del Re Filippo III, morta all’età di un mese. La piccola è rappresentata ad occhi chiusi, che giace in una bara di velluto, circondata da una ghirlanda di fiori.
Nei secoli successivi questa pratica diminuisce drasticamente.
Uno degli ultimi dipinti si può ritrovare in Spagna. Il 12 luglio 1850 il primogenito della regina Isabella II, Fernando, muore dopo aver vissuto un’ora. Il bimbo è rappresentato non più in una bara ma sopra un letto cerimoniale.
Dal 1840 la tecnologia trasforma la rappresentazione del mondo.
L’avvento della fotografia, in alcune situazioni, permette il mantenimento del ricordo per l’eternità.
La memoria non è lasciata al pennello di qualche artista, ma alla cruda rappresentazione della realtà.
La memoria del defunto, sul letto di morte, assume un nuovo aspetto.
Contemporaneamente nasce una nuova professione, quella del fotografo di defunti.
Nelle città e nei villaggi, fotografi esperti e non, sono chiamati al capezzale della persona per rappresentarlo nell’ultimo momento..
I soggetti maggiormente raffigurati?
I bimbi nati morti o morti poco dopo il parto.
Ritengo sia semplice comprenderne il motivo: quell’immagine sarà la sola che la famiglia potrà avere del piccolo.
Potrebbe essere un rito anche in merito a questi accadimenti: nella maggior parte dei casi il bimbo era lavato e vestito in morbide vesti, spesso era lo stesso abito del battesimo a rappresentarlo per l’eternità.
I bimbi, nella maggioranza dei casi, hanno gli occhi chiusi.
Non mancano struggenti rappresentazioni ad occhi aperti tra le braccia dei genitori.
La domanda che mi sono posto è relativa al fatto che si differenziasse tra nati morti e morti dopo la nascita.
In queste fotografie, presumo, che gli occhi aperti volessero trasmettere l’illusione della vita.
La pratica di fotografare i bimbi morti è durata sino al 1950.
Oggi appare macabra.
Un inutile dolore.
Una sofferenza infinita.
Fissare la fotografia del proprio bimbo, morto appena nato, poteva elaborare il lutto?
La risposta risiede nel cuore d’ogni genitore che ha dovuto affrontare quest’immensa sofferenza.
Viviamo in una società fortunata, poiché la mortalità infantile è diminuita drasticamente con il passare dei secoli.
Il declino delle morti infantili si attesta dal XIX secolo, anche se dal 1750 si nota una diminuzione del tasso dei nati morti.
Tra i motivi, che hanno permesso tale miglioramento delle attese di vita, vi è il vaccino contro il vaiolo.
Facile la comprensione del perché il rito del Rèpit sia diminuito con riferimento al miglioramento delle condizioni igienico sanitarie.
Nel corso degli ultimi secoli abbiamo assistito ad un cambiamento generale della società. Alcuni studiosi si sono spinti ad affermare che questa situazione equivalga ad una rivoluzione silenziosa.[2]
Oggi la morte di un bambino è ritenuta scandalosa ed inaccettabile.
Difficile riuscire a comprendere il perché di quest’accadimento.
La storia dei riti dimenticati, che sfuggono alla nostra comprensione, possono in qualche modo alleviare il dolore dei genitori che oggi affrontano tale problematica?
Il ritorno alla vita dei bimbi nati morti è considerato, da sempre, un sistema per elaborare il lutto.
Possiamo pensare che conoscere, studiare o semplicemente leggere di questo rito possa permettere ai genitori di migliorare la comprensione della loro perdita?
Fabio Casalini
Bibliografia: interamente tratto dal libro Mai Vivi, Mai Morti - edito da Giuliano Ladolfi Editore nel 2015 - a firma di Fabio Casalini e Francesco Teruggi.
Fotografie:
1- Allegoria della Redenzione - Lucas Cranach il giovane - 1557
2- Ex Voto - Museo del Paesaggio - Verbania
3- Ex Voto - Museo del Paesaggio - Verbania
4- Ritratto della famiglia Van de Kerckhoven - Jan Mijtens - 1652
[1]Letteralmente tradotto come « a seguito di un voto ». Tra le diverse tipologie prevalgono quelli anatomici, che rappresentano l’organo malato, oggetti riferibili alla malattia, strumenti medici, attrezzi ortopedici. Nelle tavolette dipinte veniva raffigurato l’evento a cui si riferiva il miracolo.
[2] Marie-France Morel.